La democrazia di Pericle
di Luciano Canfora
Incomincerò con un sogno. Quando Agariste, la madre di Pericle – donna di alto rango nell’Atene dell’alto V secolo –, stava per partorirlo «ebbe una visione nel sonno, e le parve di dare alla luce un leone»; pochi giorni dopo nacque Pericle, racconta Erodoto nel libro VI (131) delle Storie. La menzione di questo animale, il leone, è gravida di significati che vedremo in seguito, ma dirò subito che è l’animale di riferimento della tirannide.
La fonte che ne parla, Erodoto, non potrebbe essere più favorevole a Pericle; tuttavia segnala, quasi come un segno della storia successiva di questo straordinario, gigantesco personaggio, quella scena archetipica. E dirò anche subito – quasi per chiudere in un arco la vita, l’opera, la traiettoria di quest’uomo – della sua tragica fine. Egli scomparve nel pieno del contagio pestilenziale in Atene, nel 429 a.C. Era già molto avanti negli anni (nacque probabilmente poco dopo l’anno 500 a.C.), quindi la sua vita occupa il V secolo, uno dei secoli decisivi della storia antica, quasi per intero: si apre sotto il segno di quel leone e si chiude in una scena di tragedia, quella della città che egli ha portato alla guerra e che quasi alle sue fasi iniziali lo vede uscire di scena.
Il contagio pestilenziale fu talmente sconvolgente per la città che lo storico – ammiratore di Pericle – che ha raccontato quelle vicende, Tucidide, ha ritenuto di dedicare pagine e pagine alla descrizione della pestilenza e dei sintomi del contagio, «perché, se un domani ritornerà, si sappia come si presenta questo malanno» (II, 48, 3); e descrive la città in preda alla devastazione morale e materiale: cumuli di cadaveri bruciati per le strade, degrado morale, crollo dei freni che regolano, per così dire, e guidano l’esistenza.
In questa scena tremenda, Pericle scompare. Ha portato la città alla guerra, e la guerra ha potenziato il contagio, perché la tattica da lui suggerita era di chiudersi dentro le mura: gli Spartani devastino pure le campagne – egli diceva –, poi se ne andranno: Atene domina il mare e quindi è una potenza invincibile (I, 142-143). In ciò consiste l’architrave della sua strategia, impopolare soprattutto presso i contadini che vedono i loro beni in così grave pericolo. Pericle esce di scena in una situazione di tragedia per la città.
Su di lui, appena scomparso, lo storico che ha dedicato alla sua vicenda e soprattutto alla guerra da lui voluta un libro che ancora oggi leggiamo con enorme interesse, Tucidide ateniese, alquanto più giovane di lui, formula un giudizio dal quale prenderò le mosse per ricostruire il ruolo di questo personaggio.
Per tutto il tempo che fu a capo della città in periodo di pace, governò sempre con moderazione, garantì la sicurezza della città, la quale sotto di lui raggiunse il massimo splendore. Dopo lo scoppio della guerra visse ancora per due anni e sei mesi, e solo dopo la sua morte le previsioni da lui formulate circa la guerra vennero comprese appieno. Giacché agli Ateniesi aveva sempre detto che se fossero rimasti con i nervi saldi, se avessero provveduto alla flotta e non avessero tentato di accrescere l’impero con la guerra, non avrebbero corso rischi. Ma quelli, dopo la sua morte, fecero tutto il contrario. Nel governo della città presero per ambizioni personali altre iniziative che apparivano del tutto estranee alla guerra ed ebbero un esito negativo per se stessi e per gli alleati (II, 65, 5-7).
E poi sèguita spiegando perché Pericle riusciva a guidare la città mentre gli altri, quelli venuti dopo di lui, non ne furono capaci.
La ragione era che egli era personaggio potente, per prestigio e lucida capacità di giudizio, assolutamente trasparente e incorruttibile, reggeva saldamente il popolo senza però violare la libertà e non si faceva guidare da esso più di quanto non lo guidasse lui, poiché non cercava di conseguire il potere con mezzi impropri e perciò non era costretto a parlare per compiacere l’uditorio. Il suo potere si fondava sulla considerazione di cui godeva. Quando si accorgeva che quelli – l’Assemblea – si abbandonavano a sconsiderata baldanza, li colpiva con le sue parole, portandoli allo sgomento, per ricondurli poi ad uno stato d’animo di rinnovato coraggio, se li vedeva in preda ad una paura irrazionale. Di nome, a parole – dice Tucidide – era una democrazia, di fatto il potere del primo cittadino (II, 65, 8-9).
Dice: archè tu pròtu andròs, «del primo». E anche altrove, quando parla di lui, dice: all’epoca Pericle «era il primo».
Queste parole hanno fatto riflettere a lungo. In primo luogo un grande filosofo, uno dei creatori della scienza politica, Thomas Hobbes, il quale a lungo non scrisse, e quando cominciò a scrivere tradusse Tucidide in inglese, premettendovi una mirabile introduzione. Hobbes, dunque, scrive che Tucidide ebbe una visione politica profondamente monarchica; infatti i due personaggi positivi della sua storia sono Pisistrato – il cosiddetto tiranno – e Pericle, Pericle monarca. Questa immagine della democrazia solo a parole, ma di fatto governo del principe – del princeps, il pròtos anèr, il primo cittadino –, ha avuto una vitalità lunghissima. Si potrebbe dire – e questo lo ricordo soltanto tra parentesi, perché non voglio allontanarmi dal nostro filo principale – che l’idea stessa di princeps nella realtà politica tardorepubblicana prende le mosse da Pericle. Il nome che è giusto fare è quello di Cicerone, il quale – teorico della politica, critico della decadenza della repubblica romana, quattro secoli dopo Pericle – sogna il princeps: ha l’idea che dalla difficoltà strutturale della repubblica si uscirà attraverso un princeps, e lo delinea nel De re publica, a giudicare dai frammenti che abbiamo, esattamente con le parole con cui Tucidide descrive il potere di Pericle.
Auctoritate et eloquentia et consilio, princeps civitatis suae, Pericles ille: per auctoritas, per la capacità di parlare e farsi ascoltare e per il consilium, cioè per la gnòme, per l’intelligenza politica. Insomma, Tucidide ha fondato, descrivendo Pericle e il suo sistema politico, la nozione di principato, smascherando, per così dire, il contesto democratico nel quale Pericle si colloca; donde quella brutale espressione («a parole era una democrazia») che in greco è molto forte: quando in greco si dice di qualche cosa che lògo(«a parole») si chiama in un modo, ma èrgo, di fatto, è altro, si vuole smascherare ciò che sta dietro le parole.
Non è l’unica immagine di Pericle che abbiamo. Potremmo agevolmente accostare (e contrapporre) a questa, forse la più celebre raffigurazione di lui, che si incontra nel Gorgia di Platone. Stiamo, come dire, attraversando il V secolo: Pericle è nato – come ho detto – sotto l’anno 500 a.C., il suo ammiratore e storico Tucidide è nato nel 454 circa a.C. (era più giovane di lui di 40 anni), Platone è nato altri 30 anni dopo. Ma le generazioni si intrecciano: Platone discende da una famiglia il cui perno era nientemeno che il tiranno Crizia e, risalendo per i rami dell’albero genealogico, si arriva fino a Crizia Maggiore, il quale addirittura era imparentato con Solone. Solone è colui che ha contrastato, nei limiti del possibile, Pisistrato. Il tiranno Pisistrato è stato allontanato dagli Alcmeonidi, di cui Pericle è un discendente; queste grandi famiglie si intrecciano e si combattono e si incontrano.
Platone, nel Gorgia, è molto schematico. Questa volta fa parlare Socrate in prima persona: non chiede, è lui che descrive i grandi corruttori della politica che, a suo giudizio, nella storia ateniese sono quattro: Milziade, Temistocle, Pericle e Cimone. Platone è spietato, come sempre, nella sua critica radicale del sistema politico ateniese: quelle sono coppie di rivali, eppure li condanna tutti in quanto corruttori del popolo. E perché corruttori? Perché fanno quello che Tucidide nega che Pericle abbia fatto: parlare pros hedonèn, «per far piacere» al popolo. Rimprovera proprio a Pericle l’oratoria demagogica, l’assecondare l’assemblea, e per questo, dice Platone (facendolo dire a Socrate), ha reso gli Ateniesi peggiori di quello che erano. E come lo argomenta? Perché «peggiori di quello che erano»? Non soltanto lo condanna per questa oratoria demagogica, per questo assecondare il popolo, ma anche perché per primo introdusse un salario per chi si dedicasse ai pubblici uffici (Gorgia 515E). Il famoso salario per ricoprire una carica, che è l’architrave del meccanismo democratico ateniese.
Perché dico l’architrave? Il meccanismo ateniese è molto semplice: come ogni democrazia assembleare ha nell’assemblea di tutti il fondamento. Ma esiste l’assemblea di tutti? Quando Erodoto raccontò (lui leggeva le sue Storie, parti delle sue Storie, al pubblico) che alla morte di Cambise qualcuno aveva prospettato l’idea di instaurare la democrazia in Persia, gli Ateniesi non gli credettero. «Non mi hanno creduto – dice Erodoto (III, 80, 1) – e invece è così». Perché non gli hanno creduto? Perché, ad Atene, dire che nell’impero persiano, immensa realtà geografica, qualcheduno volesse instaurare la democrazia significava far immaginare una assemblea di tutti in un grande Stato territoriale, quindi una cosa impossibile. Ma anche ad Atene è un’illusione, e un’idea-forza. Quando, molti anni dopo, i cosiddetti oligarchi, cioè coloro che non accettano il sistema politico ateniese, tramano per abbatterlo, e riescono a farlo per breve tempo abrogando il salario per i pubblici uffici, dichiareranno – per invogliare gli incerti ad accettare la nuova realtà – che in fondo, anche in regime assembleare, al massimo cinquemila andavano all’assemblea. Atene ha trentamila cittadini maschi adulti in età militare. Se ne ricava che la realtà concreta della democrazia assembleare è una realtà mobile, dove l’incitamento a partecipare alla politica deve venire dall’alto. Non solo, ma cambia il corpo sociale attivo. È molto ingenuo il modo in cui di solito si parla di questa realtà antica quando si dice «l’assemblea di tutti». L’assemblea di tutti non esiste.
Faccio un esempio concreto che ci porta ad un momento cruciale della vita politica di Pericle. Siamo nel 462 a.C. Lui era stato a lungo incerto, dice Plutarco – suo biografo, tardivo ma molto informato –, su come schierarsi. Apparteneva ad una famiglia importante, ricchissima, era un grande proprietario terriero. Oltretutto i vecchi, quando lo vedevano, lui giovane, trovavano che rassomigliava fisicamente a Pisistrato; e questo era un handicap, perché il tiranno era pur sempre l’incubo della democrazia. Pericle fu dunque incerto su come schierarsi, e alla fine scelse il popolo, dice Plutarco. In sostanza, tra le due opzioni possibili – quella di accettare il sistema politico democratico assembleare, assecondandolo e guidandolo, ovvero quella di rifiutarlo –, la prima gli era parsa, per qualche momento, quella preferibile.
Nel 462 a.C. – anno cruciale nella storia di Atene – avvengono alcuni fatti. Guida la città, o perlomeno è un leader riconosciuto, Cimone, il figlio di Milziade, il vincitore della battaglia di Maratona contro i Persiani. Cimone è un buon democratico, nel senso che accetta il sistema; anche lui appartiene a una grande famiglia: la famiglia di Milziade addirittura aveva origini regie. Cimone si impegna, su richiesta di Sparta, in una campagna nel Peloponneso contro gli schiavi, gli iloti, che si sono ribellati. Sparta è il regime degli «uguali», dove però gli schiavi, considerati di un’altra razza, bisogna «tenerli sotto». E Cimone è amico di Sparta, i suoi figli li ha chiamati in modo conforme: uno l’ha chiamato Lacedemonio (Spartano), l’altro l’ha chiamato Tessalo, per cui Pericle suo nemico diceva «ma non sono neanche ateniesi costoro che si chiamano in questa maniera». Si impegna in questa campagna e porta con sé quattromila opliti, un corpo di spedizione notevolissimo. Gli opliti sono guerrieri che si armano a proprie spese, quindi sono anche una classe sociale, si potrebbe dire, e sono la base della democrazia oplitica, sono cioè quelli che vanno all’assemblea e applaudono Cimone. Ma nel frattempo, a partire dal 478 – quindi negli ultimi sedici anni prima di questo anno cruciale –, Atene ha creato un impero marittimo, i marinai sono diventati essenziali per il funzionamento dell’impero e, come dice un nemico della democrazia ateniese, anonimo, «sono quelli che muovono le navi, e che perciò comandano». Opliti fuori, impegnati in Messenia, marinai all’assemblea. L’assemblea decide su impulso di due leader importantissimi, Efialte e Pericle – Efialte è più vecchio, Pericle è più giovane –, di togliere al consesso fino allora dominante, denominato Areopago, i poteri decisivi. Una riforma tecnicamente impeccabile. Quali sono questi poteri? Sappiamo qualcosa di ciò da una fonte importante come la Costituzione di Atene di Aristotele. Aristotele dice che Efialte tolse all’Areopago «i poteri di troppo», quelli che si erano «aggiunti» dopo le guerre persiane (li chiama gli epìteta), cioè i poteri giudiziari. Così quei poteri passano dall’Areopago ai tribunali popolari. Singolare realtà, questa ateniese: a ben vedere l’Areopago è un organo di cooptazione, come il Senato romano, in un certo senso. Coloro che hanno rivestito l’arcontato entrano di diritto nell’Areopago, consesso vitalizio. Detronizzare l’Areopago significava spezzare il dominio di un gruppo sociale alto che regola l’elemento più importante della città, i tribunali. Perché in tribunale va a finire ogni tipo di conflitto, soprattutto quelli riguardanti la ricchezza. Tribunale popolare invece vuol dire che ogni anno si sorteggiano seimila cittadini qualunque, non «laureati in diritto», dai quali si prendono cinquecento nomi che costituiscono l’elièa e altri tribunali. Questi «cittadini qualunque» – popolani, marinai, teti (nullatenenti) o anche opliti –, secondo il sorteggio, decidono nelle controversie fondamentali che sono quelle appunto quotidiane riguardanti la ricchezza. Ecco perché Aristofane, straordinario intellettuale e critico pungente, nelle Vespe rappresenta la mania del tribunale ad Atene. Noi ridiamo leggendo Le vespe, ma la commedia è seria: il tribunale è il ganglio intorno a cui si svolge la lotta di classe – usiamo ancora queste parole un po’ tradizionali, ma tutto sommato significative e chiare! Spostare i poteri dall’Areopago ai tribunali popolari significava spostare il peso decisivo su un altro ceto. Questa è la riforma del 462. Ed essa avviene perché all’assemblea c’erano altri (non dimentichiamo l’osservazione fatta prima: al massimo, all’assemblea ne vanno cinquemila!). I quattromila opliti stavano in Messenia a combattere, e Efialte e Pericle realizzano con il sostegno di un’altra massa cittadina una riforma epocale.
Vorrei fare un paragone che può sembrare un po’ singolare, ma non lo è. Si tratta di una realtà molto simile – per certi versi, naturalmente – a quella dell’Atene della democrazia diretta: la Parigi dell’anno II della Rivoluzione, la Parigi delle Sezioni. Nelle Sezioni ci sono i sectionnaires, cioè i frequentatori abituali, i sanculotti. Ammazzato Robespierre, i sanculotti se ne vanno dalle Sezioni, e arrivano i borghesi. Le Sezioni continuano a funzionare, quindi il meccanismo è lo stesso; però è come se nelle vene scorresse un sangue diverso. È la stessa cosa che succede nel 462: togli gli opliti e metti i teti, i nullatenenti. Bene, questa riforma è legata a che cosa? Al fatto che nel frattempo, fra la battaglia di Salamina, con la vittoria sui Persiani, e la guerra in Messenia, Atene è diventata una grande potenza marittima, la cui forza è nelle navi; quindi il soggetto sociale decisivo è diventato quello, e Pericle deve fare i conti con i teti.
Efialte viene ammazzato, subito dopo la riforma. L’assassinio politico ad Atene era abbastanza praticato, si potrebbe dire, e non solo ad Atene peraltro; ma insomma, lì abbiamo episodi celebri. Non si seppe mai chi lo avesse fatto uccidere, né chi lo avesse ucciso. Abbiamo varie fonti, vari racconti, non abbiamo però una biografia di Efialte. Una delle fonti alle quali Plutarco, nella sua immensa dottrina, fa capo è Idomeneo di Lampsaco, un amico di Epicuro, il quale riteneva di sapere che proprio Pericle l’aveva fatto ammazzare. Plutarco è vissuto al tempo dell’imperatore Traiano, quindi cinque secoli dopo; però ha letto un sacco di cose di quell’epoca remota, e certe volte ne sa più di Tucidide che aveva visto e toccato Pericle in carne ed ossa. Certo, Lampsaco è una delle città dell’impero di Atene e gli intellettuali, le persone in vista delle città dell’impero, non amavano Atene e soprattutto non amavano i capi ateniesi. Potremmo fare una rassegna: Stesimbroto di Taso, Ione di Chio… Taso, Chio, Lampsaco, tutte città «suddite». Le loro opere non le abbiamo, però Plutarco le ha lette per noi; così ci rendiamo conto che tutti costoro non facevano che mettere in una luce sinistra i leader della città «tiranna», della città dominatrice che si faceva pagare tutti gli anni il phòros, il tributo di centinaia di talenti. Quindi prendiamo con le molle questa notizia della liquidazione di Efialte ad opera addirittura dello stesso Pericle. Efialte ad ogni modo era come un corpo estraneo, era un povero: questo le fonti ce lo dicono. «Povero», cosa rara nel personale politico ateniese. Perché il personale politico ateniese è fatto di persone dei ceti alti, che tuttavia accettano l’assemblea, la guidano; vengono da famiglie dove hanno imparato l’uso della parola, hanno imparato la musica, hanno imparato l’arte della guerra, hanno imparato una serie di cose: sono loro che guidano, ma accettano il sistema. Efialte no, era povero.
Aristotele, nella Costituzione di Atene, dà un’altra versione: Efialte fu ammazzato da un tale di Tanagra – Tanagra è una città della Beozia –, e dice il nome dell’assassino. Naturalmente noi non abbiamo gli elementi per fare un’inchiesta; però merita una segnalazione quanto si ricava da un’altra fonte, una fonte straordinariamente importante. L’autore che sto per evocare si chiamava Antifonte. Antifonte era un sofista, un oratore, un avvocato, un tragediografo, nonché il vero artefice, il cervello del colpo di Stato del 411, del primo colpo di Stato che intacca la democrazia dopo un secolo. Antifonte era nato nel 480, quindi aveva circa vent’anni meno di Pericle; insomma, era quasi un suo coetaneo, forse è stato anche il maestro di Tucidide (perlomeno Tucidide fa di lui un ritratto straordinario, ammirativo – VIII, 68 – quando dice, in sostanza, che solo un genio come lui poteva riuscire ad abbattere la democrazia ad Atene). Antifonte non faceva politica, tramava: aspettava il momento. Come tutti i bravi oligarchi, aspettava la sconfitta militare; e quando questa si profila in Sicilia, esce allo scoperto. Gli oligarchi approfittano di un momento in cui i marinai sono dispersi: moltissimi sono morti o prigionieri in Sicilia, altri sono sulle navi nell’Ellesponto. E loro all’assemblea fanno passare l’abrogazione del salario. Ancora una volta il problema è: chi sta all’assemblea conta.
Antifonte faceva l’avvocato, cioè scriveva discorsi per amici che andavano in tribunale per i problemi più vari, magari anche a pagamento (non disdegnava affatto il denaro). Orbene, per un cliente egli ha scritto un discorso (L’assassinio di Erode) che ci è conservato; il cliente era accusato di aver ammazzato un ateniese cleruco, cioè un ateniese che aveva terre nelle isole dominate da Atene, nella fattispecie a Mitilene, a Lesbo. Il problema era che non si trovava il cadavere della vittima, che si chiamava Erode. A un certo punto del suo discorso Antifonte dice: «voi vi ricordate d’altra parte di quando hanno ammazzato Efialte». Cosa singolare, noi non sappiamo l’anno esatto in cui lui parla, ma certamente siamo intorno agli anni 420; Efialte era stato ammazzato 40 anni prima, quindi l’oratore faceva appello alla memoria dei vecchi: «vi ricordate quando è stato ammazzato Efialte? Non si è mai saputo chi lo ha veramente ucciso». Questa testimonianza vale molto di più di quella di Aristotele, naturalmente, ed è un sintomo del fatto che quello rimase un buco nero, un episodio oscuro. Con ciò non voglio dire che vada ascritta a Pericle questa feroce soluzione del problema del primato; sta di fatto che, scomparso Efialte, Pericle protèuei, è il primo.
E conduce una politica che Tucidide ammira parlando di «incorruttibile guida del popolo». Questa è una parte della verità, ma va inquadrata dentro una politica di enorme disinvoltura, di cui vorrei descrivere brevemente i due cardini: i lavori pubblici e l’aggressività imperiale. Grande politica di lavori pubblici. Quando si dice l’Atene di Pericle, si pensa a quella grande politica edilizia: il Partenone, l’Atena Parthènos ovviamente sono segni durevoli che ancora oggi noi vediamo. È il risultato di una straordinaria politica di lavori pubblici consistente nell’impiegare masse di lavoratori prezzolati a due oboli la giornata, che non è un prezzo altissimo per una politica edilizia che ha cambiato la faccia di Atene. Una fonte che non ho nominato finora – anche perché, in ultima analisi, non la conosciamo che grazie a Plutarco, il quale ne fa un uso amplissimo – è un grande commediografo dell’epoca, Cratino, autore di una pièce intitolata I comici. Cratino, il grande maestro di Aristofane, fa dire a un suo personaggio dalla scena: «Stanno costruendo il Partenone e non la finiscono mai». Intende dire che si protraggono i lavori, ad infinitum, per continuare a suscitare consenso attraverso il salario. Una politica che è al tempo stesso di prestigio e socialmente mirata. L’uomo che guida tutta questa operazione – il cambio della faccia di Atene – attraverso appunto l’edilizia è Fidia, il grandissimo architetto. Dice Plutarco, in un passo della Vita di Pericle, che Fidia era la mente di tutti i lavori pubblici che si svolgevano ad Atene, non soltanto l’artefice controverso dell’Atena Parthènos. Ictino di Mileto, un architetto famosissimo, è quello che ha materialmente pensato il Partenone, ma la guida di tutto era Fidia. Vicinissimo a Pericle, era nella sua cerchia più ristretta: la cerchia ruotante intorno a lui e alla sua donna amatissima, Aspasia.
Figura straordinaria Aspasia, donna libera, non di certo una ateniese castigata che se ne sta in casa, che non sa leggere, che non è una «persona». Aspasia era una persona, e lo era al più alto livello, un’etèra. Etèra non vuol dire prostituta, è un rango più alto. Scandalo, naturalmente. Pericle aveva una moglie, da cui si separò con garbo e fermezza, potremmo dire: la passò ad un altro marito che forse era Clinia, il padre di Alcibiade, il quale fu un piccolo Pericle, in un certo senso. Aspasia di Mileto, donna di enorme cultura e di grandi amicizie: tra i suoi amici vi era Anassagora, per esempio, il bersaglio dei comici. Ermippo, comico, le scaraventa addosso un’accusa di empietà, condita con le accuse più infamanti collaterali: allevare prostitute in casa etc. Ma intorno a Pericle ci sono anche uomini come Erodoto, Ippodamo di Mileto, Protagora... Quando Pericle crea, guardando ad Occidente – e passiamo con ciò alla politica imperiale –, la colonia di Turii, in Lucania, mette in campo una squadra formidabile: Protagora come legislatore, Ippodamo come urbanista, Erodoto non si sa bene in che veste – ma comunque andò anche lui, tant’è vero che assunse la cittadinanza di Turii, e a rigore andrebbe chiamato non Erodoto di Alicarnasso, ma Erodoto di Turii, essendo diventato cittadino di Turii. Questa cerchia è una cerchia malvista: l’ateniese medio, il protagonista degli Acarnesi di Aristofane, non gradisce una persona come Aspasia, innanzi tutto perché è una donna, poi perché pensa, poi perché è amica di grandi intellettuali. E per giunta, il ricordo che si affaccia alla mente degli Ateniesi è quello del tiranno: anche intorno a Pisistrato e ai suoi figli c’era l’intellighenzia di tutta la Grecia. La cerchia intorno al tiranno ancora una volta incombe sull’immagine di Pericle. Aspasia è chiamata in tribunale, Anassagora è accusato di ateismo e sempre Anassagora, nelle Nuvole di Aristofane, è il maestro di Socrate, maestro di ateismo.
Atene non era una città facile. Quella frase molto equilibrata di Tucidide, «li guidava piuttosto che essere guidato da loro», va letta nella sua letterale verità, cioè come la focalizzazione di un punto di equilibrio. Platone può ben sfogarsi nel dire «li ha corrotti, assecondandoli». È nel giusto probabilmente Tucidide nell’individuare un punto di equilibrio difficile fra il guidare e l’essere guidati. Ma fra guidare ed essere guidati ci sono l’alea di un processo micidiale e la volontà di colpirlo, cui Pericle riesce sempre a fare fronte, a opporre la capacità di creare consenso. Altrimenti non si spiegherebbe il fatto che sia stato rieletto per trent’anni di fila alla strateghìa, che è la massima carica elettiva. Ed è esattamente quello che farà Augusto princeps, rivestendo anno dopo anno la tribunicia potestas e il consolato. Ha scritto un grande storico tedesco, Eduard Meyer: «trovata geniale questa di riuscire a farsi rieleggere ogni anno, perché questo rendeva impossibile la richiesta del rendiconto»; allo spirare della magistratura, infatti, bisognava affrontare un processo, il rendiconto, ma egli era già magistrato per l’anno dopo, quindi questa resa dei conti non veniva mai.
Ma per ottenere questo consenso, che non era coatto, bisognava contemperare due elementi: il salario per tutti e la continua spinta ad ampliare l’impero, che significava guerra. Militarmente si potrebbe dire che Pericle non ha avuto una straordinaria capacità. La sua unica guerra vinta è quella contro l’isola di Samo, contro un alleato ribelle: guerra feroce, durata due anni e passa, con dispiegamento di forze incredibile, per schiacciare la rivolta di Samo che dopo quella tremenda repressione diventa l’alleato più fedele di Atene.
Ha tentato in più direzioni, ed è sintomatico come Tucidide – che lo idealizza, che gli fa un monumento – ne occulti le sconfitte, gli errori. Paradossale il sostanziale occultamento della più catastrofica delle imprese di Pericle, l’attacco all’Egitto. È una guerra durata sei anni, finita con la perdita di 200 navi e di migliaia di uomini. L’Egitto era stato conquistato dall’impero persiano sotto il regno del «pazzo» Cambise, come lo chiamavano i suoi avversari. Cambise, il re folle – anche Erodoto lo raffigura così – conquista l’Egitto interrompendo l’ultima delle dinastie faraoniche, quella saitica. La conquista dell’Egitto, terra ricchissima, ha dato all’impero persiano un’enorme forza. Ma l’Egitto si è ribellato varie volte: una prima volta quando è morto Dario, una seconda volta quando è morto Serse. Allora un personaggio notabile, forse uno degli ultimi della dinastia saitica, Inaro, guida la ribellione e chiede l’aiuto di Atene. Pericle storna le navi che sono impegnate nella guerra a Cipro, sempre contro l’impero persiano, e invia questo corpo di spedizione in Egitto. L’impresa si risolve in una catastrofe. Ma perché? Qual è il senso? È la stessa cosa che farà Alcibiade con la Sicilia. E lo stesso Pericle in un discorso (Tucidide II, 62, 2), l’ultimo che lui tiene prima della sua definitiva uscita di scena, dice: «noi abbiamo una flotta che può fare molto di più di quello che abitualmente facciamo»; dominiamo l’impero, ma potremmo dominare l’Etruria, Cartagine, la Sicilia (cfr. Plutarco, Pericle, 20), cioè abbiamo in pugno un’arma imbattibile per un dominio mediterraneo. Ma qual è il fine del dominio mediterraneo? Qual è il fine della spinta ad allargare l’impero? Serve ad ampliare le entrate, ad avere più risorse per alimentare il dèmo. Ecco il nesso tra consenso e politica imperialistica.
È una contraddizione che si aggroviglia su se stessa. Intanto diciamo che questa politica di espansione smentisce la teoria tucididea secondo cui la linea periclea era «non ampliare l’impero con la guerra» (Tucidide II, 65, 7); non è vero, egli ha fatto esattamente il contrario. E alla fine, alla resa dei conti, è approdato al conflitto con l’altra grande potenza, che politicamente è Sparta, ma economicamente è Corinto. Perché scoppia infatti alla fine, nel 431, la grande guerra che durerà quasi 27 anni, con varie interruzioni? Perché i commerci ateniesi collidono con le attività dell’altra grande potenza commerciale, Corinto, e la lotta è per il controllo dei mercati. Corinto ha in Megara un suo punto di forza; Pericle fa varare un decreto, all’assemblea, che chiude tutti i mercati ateniesi alle merci di Megara, cioè i Megaresi non hanno diritto a vendere sui mercati controllati da Atene. È lì che comincia il conflitto: i Corinzi spingono Sparta alla guerra e alla fine Sparta accetta, perché si rende conto che non si esce da questa impossibile coesistenza di due imperi concorrenti se non con la fine di uno dei due.
La strategia periclea, l’abbiamo detto all’inizio, è quella apparentemente lungimirante, consistente nella direttiva «ci chiudiamo nella fortezza Atene, che è protetta da mura imprendibili, e con la flotta dominiamo. Gli Spartani si sfoghino pure a devastare le nostre terre». Politica miope, in realtà. Una delle ragioni per cui Plutarco ha scelto di accostare la figura di Pericle a quella di Fabio Massimo, «il temporeggiatore», risiede esattamente nella comune strategia militare. Fabio Massimo non accetta battaglia campale contro i Cartaginesi, e quando invece quelli che vengono dopo di lui l’accettano vanno incontro alla catastrofe di Canne. Analogamente, Pericle vorrebbe evitare uno scontro diretto, frontale, per terra, campale con la grande potenza avversaria, mentre invece quelli venuti dopo di lui lo fanno, e perdono. Questa è un po’ la ragione di quell’accostamento. In realtà Pericle esce di scena in tempo, cioè muore prima che la sua strategia fallisca. Il suo erede politico, Alcibiade, non può che fare ciò che Pericle ha fatto verso l’Egitto: tentare ad Occidente, con la conquista della Sicilia.
Naturalmente, la differenza tra i due, ancora una volta, è nella capacità di suscitare consenso. È in questo il segreto del pròtos anèr, del princeps Pericle. Ma noi non parleremo di Alcibiade, continueremo invece a parlare di Pericle. Abbiamo incominciato leggendo quella pagina tucididea famosissima culminante nella frase «a parole era una democrazia, di fatto il potere del primo cittadino», e abbiamo parlato di smascheramento della finzione democratica sotto Pericle. Il paradosso, dinanzi al quale non si può che restare ammirati, del racconto tucidideo è che quando Tucidide dà la parola a Pericle per descrivere il sistema politico ateniese, crea l’illusione che egli stia inneggiando al modello democratico. Sto parlando del famoso Epitafio (Tucidide II, 37). L’epitafio è un discorso che si fa per i morti in guerra – perciò si chiama così – teoricamente ogni anno. È una cerimonia importantissima nella città, solenne, anche visivamente suggestiva: tutte quelle bare che sfilano, i parenti, la città tutta che assiste, un grande oratore che parla... ogni anno. Ogni anno, anche perché guerre ce ne sono quasi continuamente. Nel linguaggio politico greco, quando si stipula una pace si dice spondài, che vuol dire «tregua»; l’idea è che la guerra è la norma e la pace una parentesi. Erano più chiari di noi, nel senso che anche nel nostro tempo succede qualcosa del genere, però usiamo parole più dolci e più melliflue.
L’Epitafio dunque: l’epitafio per i morti nel primo anno della guerra con Sparta. Erano pochissimi in realtà, perché il primo anno di guerra non fu caratterizzato da chissà quali operazioni, e toccò a Pericle di parlare. È l’ultimo suo discorso d’occasione quell’Epitafio. Mi capita talvolta di dire che questa pratica è un grande corso di educazione civica, nel senso che l’oratore prescelto per pronunciare l’elogio dei morti in guerra in realtà pronuncia l’elogio della città. La città celebra se stessa e l’oratore, il quale ha il dominio della parola, la formazione necessaria per svolgere tale compito, insegna al dèmo, ai nullatenenti, ai frequentanti l’assemblea, la storia della città, i princìpi su cui essa si regge. Perciò è una lezione di educazione civica che annualmente viene inflitta agli Ateniesi, la cui formazione è affinata da quella reiterata cerimonia e dal teatro. Discorsi non veri, naturalmente, incentrati di solito sulle grandi vittorie del passato; e siccome Atene non ne aveva tantissime, a parte quelle sui Persiani, si comincia con le Amazzoni. Abbiamo sconfitto le Amazzoni (un po’ remote, per la verità, e poco credibili); abbiamo riportato nel Peloponneso i figli di Eracle, gli Eraclidi (altra vicenda su cui si potrebbe stendere un velo di dubbio); e inoltre siamo autoctoni (il vanto, profondamente razzistico, è quello di essere nati lì, una stirpe che ha origini nell’Attica: noi autoctoni). L’autoctonia, una parola terribile che ha avuto un futuro micidiale. Tucidide fa parlare Pericle in questa circostanza, ed è un discorso che ci pone innanzi tutto un problema di metodo: cosa sta raccontando? È vero? Ha inventato? Uno dei tòpoi del nostro mestiere è quello di chiedersi: i discorsi che Tucidide fa pronunciare ai suoi personaggi sono veri? Sono falsi? Se li è inventati? Lui dedica un intero capitolo a spiegare che sono veri, dicendo, «non ho registrato le parole esatte, ma mi sono tenuto vicinissimo al senso generale delle cose veramente dette». E sarà anche vero.
Nel caso dell’Epitafio pericleo sorgono notevoli dubbi. Purtroppo. Perché è il discorso forse più importante che figuri in quell’opera straordinaria, dove la parte oratoria è forse ancora più abbondante di quella narrativa. Abbiamo qualche riscontro. È famosissimo il fatto che a un certo punto, dove spiega come è organizzato il sistema ateniese, Pericle fa la distinzione fra leggi scritte e leggi non scritte; è un luogo che appassiona sempre moltissimo: tutti pensano subito ad Antigone, si commuovono – e va bene –, anche se poi la legge scritta è garanzia di uguaglianza, mentre la legge non scritta è appannaggio delle caste sacerdotali. Bisognerebbe stare un po’ attenti nell’inneggiare tanto alle leggi non scritte, con tutto il rispetto per Antigone, beninteso. E da un luogo di Lisia sappiamo che Pericle quel concetto lo espresse davvero.
Il Pericle tucidideo cancella, per così dire, la parte ovvia e trita del copione: le Amazzoni, gli Eraclidi etc. Dice: io non vi sto a ripetere quello che già sapete, non lo dirò dinanzi a persone che già lo sanno. E già questo ci mette un po’ in sospetto, perché è difficile che un oratore, il quale mira all’ascolto e al successo, faccia tabula rasa dei luoghi comuni così cari alla tradizione. Dopodiché passa a descrivere il sistema politico, e lì parla delle leggi scritte e non scritte.
Noi abbiamo, dicevo, un riscontro; ce l’abbiamo in un personaggio che in un certo senso è vicino a Pericle, e che era figlio di un suo grandissimo amico: l’oratore di origine siciliana Lisia, molto frequentato nei licei perché si considera un autore semplice (ma in realtà tanto semplice non è). Lisia era figlio di Cefalo, ricchissimo meteco siciliano in casa del quale si svolge la Repubblica di Platone. In un discorso rivolto contro Andocide (or. VI), databile al 398, Lisia dice: «mi ricordo che Pericle secondo alcuni avrebbe detto che le leggi scritte sono più importanti di quelle non scritte». Sembrerebbe una citazione dall’Epitafio, e quindi potrebbe essere un indizio del fatto che in qualche misura il discorso attribuito da Tucidide a Pericle può corrispondere all’epitafio effettivamente pronunziato da Pericle.
Poi abbiamo anche un altro testimonio, e su quello ci fermeremo un po’ di più. Platone nel Menesseno, un dialogo molto problematico, mette in scena una cosa singolarissima: lì Socrate si autoproclama allievo di Aspasia, e dice: «io ho imparato da lei la retorica, l’arte della parola. Anzi, l’altro giorno mi ha letto l’Epitafio di Pericle fatto con gli avanzi del suo discorso» (236B). Platone, spirito straordinariamente ironico, ha immaginato questa trovata: il grande Epitafio del grande Pericle, e l’anti-Epitafio o para-Epitafio di Aspasia. Fatto con che cosa? «Con gli avanzi» del discorso del grandissimo. E questo discorso ci servirà anche perché sembra scritto in contrappunto, o tenendo sul tavolino per l’appunto il discorso pericleo-tucidideo. Certo, uno può dire, Platone leggeva ormai Tucidide (ed è molto probabile).
Vediamo come i due testi si intrecciano. «Noi pratichiamo – dice il Pericle tucidideo – un sistema politico che non imita gli ordinamenti dei vicini [ricordiamo sempre il motivo dell’autoctonia: siamo diversi da tutti gli altri], semmai siamo noi modello per qualcheduno anziché imitare noi gli altri». E già questo è un po’ singolare, perché di solito si dice che Atene è capofila delle democrazie e quindi di tutti i sistemi di tipo ateniese sparsi nel mondo greco; invece qui si insiste nel dire: è peculiarissimo, è qualche cosa che non rassomiglia a niente. Quanto alla denominazione, la parola alla quale ricorriamo per definirlo, visto che esso funziona in riferimento ai più e non ai pochi, è demokratìa; ma c’è subito una limitazione: «nelle controversie private [ricordiamo quanto abbiamo detto dei tribunali] spetta a tutti uguale parte, nel rispetto della legge. Per quanto riguarda invece il peso politico [la axìosis, la dignitas direbbe Cicerone] non è tanto l’appartenenza ad una categoria o ad un gruppo sociale, quanto la capacità individuale che consente di accedere agli onori. Né la povertà, se uno ha qualcosa di buono da dire, costituisce un impedimento. È secondo libertà che noi facciamo politica» (Tucidide II, 37). Questo passo è stato vivisezionato, strattonato, è uno dei passi giustamente più studiati e tormentati.
Il seguito del discorso è quasi incredibile, se noi pensiamo che Pericle e Aspasia sono al centro di un Kreis, di una cerchia di intellettuali bersagliati perché di libero pensiero: ebbene Pericle dice, a questi Ateniesi tremendi che ha davanti, «noi filosofeggiamo senza mollezza e amiamo il bello, con semplicità»: il famoso filosofùmen filocalùmen. O è sommamente ironico l’autore, o c’è qualche cosa che non quadra, giacché l’unica cosa che poteva disturbare gli Ateniesi era proprio quel vantarsi del filosofèin. Quindi siamo su un terreno di consapevole creazione, non, almeno in questo caso, della riproduzione delle parole che Pericle disse. Direi però che la cosa più macroscopica che ci porta verso una tale diagnosi è che Pericle arriva a profferire la parola democrazia in punta di piedi: in mancanza di meglio, «la chiamiamo così, la parola alla quale si fa ricorso è quella, però...». Però che cosa? «Però, in tribunale, a tutti spetta la stessa parte». Il che non è un elogio dello schierarsi per i deboli, è semmai il contrario. Il Pericle dell’Epitafio vuol far credere che dinanzi al tribunale popolare, a quella elièa cui Efialte dette i poteri che erano prima dell’Areopago, i ricchi non sono perseguitati, laddove, come sappiamo, è lì che si svolge la guerra intorno alla ricchezza, sempre.
La migliore interprete, io credo, di questo brano celeberrimo è una grandissima grecista francese, gloriosa traduttrice di Tucidide, Jacqueline de Romilly, che ne ha fatto una magnifica traduzione commentata. Essa dice molto bene a questo proposito: «Si nota l’imbarazzo con cui viene fuori lentamente la parola ‘democrazia’ in questa presentazione, o auto-rappresentazione, del sistema politico, condizionata da una serie di limitazioni»: tutte quelle limitazioni che sommariamente ho cercato di evocarvi.
Pericle muore nel modo che ho detto in principio, lasciando una città nel disastro. Affiora dopo di lui un altro leader, Cleone, il quale è oppresso, per così dire, dall’immagine che ce ne ha dato ferocemente Aristofane. Aristofane è cimoniano fin nel midollo, quindi tutti i leader popolari sono per lui sostanzialmente dei corruttori, come la pensava Platone. Ma Cleone apparteneva alla classe dei cavalieri, cioè era uno molto in alto nella scala sociale, e fra l’altro anche per questo ottiene la strateghìa così di frequente. Cleone si muove, fa i primi passi sulla scia di Pericle. Ma è ovvio, perché il meccanismo – ormai credo sia chiaro – di questi sistemi politici è, quale che sia la forma, il dominio di élite capaci di ottenere consenso e di farsi legittimare. Questo meccanismo sarà poi codificato nel secolo seguente. Quando tutto sarà cambiato, nel IV secolo, allora questi rapporti saranno addirittura formalizzati: ci saranno retori «maggiori» e retori «minori». Demostene, ad esempio, fa una carriera per gradi, e quando diventa un retore «maggiore» ha intorno i retori minori, che i suoi nemici chiamavano i «signori dell’urlo e del tumulto»: quelli che andavano nel corso dell’assemblea a «disciplinare il traffico», mentre il grande leader parlava. Cleone ha fatto anche lui questa strada.
Il primo Cleone, il Cleone che affiora alla politica negli ultimi anni di Pericle, comincia con l’aggredire Pericle. Percepisce che quell’unico insuccesso che Pericle ha avuto nella sua carriera, la non rielezione una volta in trent’anni, è dovuto a quell’insuccesso di una politica guerresca sbagliata: alla scelta di sacrificare i contadini in maniera così penalizzante. E quindi lo attacca. Lo sappiamo dalle Moirai di Ermippo (fr. 47 Kassel-Austin) che parafrasano le parole di Cleone: «o re dei satiri [Pericle, re dei satiri!] perché non prendi la lancia, ma ci offri per la guerra soltanto parole?», basta con questa tattica di arroccamento. È così che Cleone si fa strada. È aiutato in un certo senso dalla peste, che toglie di mezzo il vecchio statista, ma l’attrito è esploso vivo ancora Pericle.
E quindi io credo – per concludere – che una riflessione di un grande pensatore moderno, Robert Michels, intorno al conflitto all’interno delle élite (lui scriveva nel 1912, un po’ dopo Pericle!) sia perfettamente pertinente al nostro quadro. Ecco le sue parole al termine del celebre saggio Sociologia del partito politico:
Le correnti democratiche nella storia sono come il battito continuo delle onde, si infrangono come contro uno scoglio, ma vengono incessantemente sostituite da altre. Lo spettacolo che esse offrono è entusiasmante e rattristante al tempo stesso. Appena la democrazia ha raggiunto una certa tappa nella sua evoluzione, viene sottoposta a una specie di processo di degenerazione. Assume lo spirito e le forme aristocratiche di vita contro cui un tempo aveva combattuto. Poi insorgono dal suo interno voci che l’accusano di oligarchia, ma dopo un periodo di lotte gloriose e di ingloriosa partecipazione al potere, coloro stessi che l’avevano accusata salgono a loro volta nella classe dominante per permettere a nuovi difensori della libertà di insorgere in nome della democrazia. Questo gioco crudele fra l’inguaribile idealismo dei giovani, e l’inguaribile sete di dominio dei vecchi, non avrà mai fine. Sempre nuove onde si infrangeranno contro lo stesso scoglio.