4. Questione bianca
Qui di seguito, alcuni dati di fatto. Il teschio umano contiene da 1,2 a 1,4 kg di tessuto carnoso, dunque il nostro cervello è grosso. Ma non il più grosso del regno animale, dal momento che il cervello è in diretta proporzione alle dimensioni fisiche e, in confronto a quello di una balenottera azzurra, il nostro è come una nocciolina. Rispetto al nostro corpo, abbiamo un cervello grosso, ma il rapporto è superiore nelle formiche e nei toporagni. La nostra corteccia cerebrale è un concentrato di cellule specializzate, ed è qui che risiede la maggior parte delle nostre funzioni superiori, ma i neuroni dei corvi sono quasi altrettanto numerosi. E tuttavia gli esseri umani sono speciali, e la coscienza, i pensieri, l’immaginazione e l’esperienza dell’universo risiedono in quel grumo di materia gelatinosa che sta tra le nostre orecchie. La biologia fondamentale dei nostri cervelli, però, non è diversa da quella degli altri animali. Il cervello fa parte del corpo, e il corpo si è evoluto sotto la spinta della selezione naturale. Sappiamo bene che alcune caratteristiche fisiche degli esseri umani si sono modificate per adattarsi ai diversi ambienti in cui sono vissuti i nostri antenati: pigmentazione, tipo di alimentazione, esposizione alle malattie, altitudine rispetto al livello del mare sono tutte cose che hanno modellato i nostri corpi affinché potessimo sopravvivere. Ma se il cervello fa parte del corpo, non potrebbe anche darsi che le diverse abilità cognitive, di cui danno prova i diversi esseri umani, siano anch’esse il risultato dell’influenza di un ambiente e un’ascendenza specifici?
Per quanto riguarda uno dei criteri per misurare le differenze cognitive fra le cosiddette razze, i numeri parlano chiaro: i premi Nobel per la scienza vinti da ebrei sono, al momento, 144; quelli vinti da neri, zero. Come negli sport, tuttavia, anche in questo caso le prestazioni ai due estremi della classifica non sono necessariamente indicative della popolazione d’origine dei vincitori. È per questo che di solito, nella misurazione delle capacità cognitive, si prendono in esame le prestazioni medie di un gruppo, ma, anche così, le cifre non sono da meno: nei test sul quoziente intellettivo, le popolazioni nere del mondo riportano risultati inferiori, con uno scarto che secondo alcuni calcoli oscilla tra i dieci e i quindici punti di media. L’ereditarietà dell’intelligenza è probabilmente il tema più controverso della scienza, che quando si combina allo studio delle differenze fra le popolazioni, dell’evoluzione e della razza può diventare esplosivo. Se ci si serve della scienza per giustificare un’opinione razzista, le diverse performance osservabili nelle attività cognitive rappresentano la fine del discorso. Per chi è interessato alla scienza in quanto strumento di ricerca della verità, non sono che l’inizio.
Spesso si afferma che questo è un argomento tabù e che discutere apertamente di razza, intelligenza e genetica è appannaggio esclusivo di valorosi crociati che si rifiutano di piegarsi alla censura intellettuale di chi nega la realtà. Stando a un cliché ripetuto di frequente, gli scienziati «sacrificano la verità sull’altare del politicamente corretto». Non è un’immagine a me familiare, e sembra che il più delle volte venga evocata proprio da chi si presenta sotto questa luce autocelebrativa ed eretica, dipingendosi come indagatore della verità in contrapposizione ai corruttori della purezza scientifica. La stampa mainstream e le nicchie online fomentano tale polarizzazione, non di rado confondendo le acque tramite commenti superficiali (come «virtue signalling» o «fiocco di neve») e slogan privi di significato («i fatti non si curano dei sentimenti»), che hanno lo scopo di alimentare il conflitto e di trasmettere l’idea di una guerra culturale tra due schieramenti: uno votato soltanto a svelare le verità nascoste e un altro che vuole sopprimerle. Tuttavia basta una superficiale ricerca di articoli sulla razza e l’intelligenza per ottenere una valanga di risultati. Altro che argomento tabù che viola i principi della libertà di espressione: siamo inondati di discussioni sulla razza e l’intelligenza, ed è stato così anche per buona parte del XX secolo. L’entità del fenomeno non fa certo pensare a una presunta conoscenza proibita. Al contrario, è un discorso portato avanti a livello popolare e talvolta anche accademico, ma offuscato da tortuosità, elementi di confusione e – per riprendere un’elegante espressione darwiniana – dalla sicurezza generata dall’ignoranza. Come nei primi giorni del razzismo scientifico, durante l’Illuminismo, un’area di ricerca seria, complessa e tutt’ora in evoluzione viene cooptata e schierata in una guerra politica.
Oltre a essere teatro di battaglie ideologiche, il campo presenta un terreno accidentato dal punto di vista scientifico (e per il momento siamo soltanto ai contrafforti). Il cervello è forse l’oggetto più complesso dell’universo conosciuto, e il genoma è il dataset più ricco scoperto finora. Dunque non avremo mai risposte semplici a portata di mano. Vi sono diversi problemi inerenti alla questione. Il primo è che la genetica è un ambito delicato e complesso, e stiamo appena cominciando a capire come funziona. Il secondo è che misurare l’intelligenza è complicato e difficile e, nonostante i vari parametri a disposizione, altrettante sono le controversie scientifiche riguardo ai dati da analizzare. Inoltre bisogna tenere conto del fatto che, come abbiamo detto più volte, i nostri genomi non rispecchiano puntualmente la razza quale in genere la intendiamo. Collegare i tre concetti, pertanto, è un’operazione tutt’altro che semplice: la razza e la genetica, la razza e l’intelligenza e l’intelligenza e la genetica non procedono in coppia. Sull’argomento si scrivono centinaia di libri e migliaia di articoli da oltre un secolo.
È in particolare la questione razza e intelligenza ad alimentare le controversie, che spesso vengono scatenate dai commenti razzisti di figure pubbliche. James Watson, scopritore, insieme a Francis Crick, della struttura a doppia elica del DNA e promotore del Progetto Genoma Umano, ha manifestato posizioni razziste per molti anni, in pubblico e in privato. In un’intervista del 2007 confessò di essere «necessariamente pessimista sul futuro dell’Africa», perché «tutte le nostre politiche sociali si fondano sull’idea che la loro intelligenza sia pari alla nostra, mentre tutti i test mostrano che non è proprio così». In risposta a una domanda sull’uguaglianza delle razze, dichiarò che «chiunque abbia a che fare con impiegati neri si rende conto che non esiste». In una delle tre occasioni in cui l’ho incontrato, mi disse che me la sarei cavata con la genetica, perché «gli indiani sono grandi lavoratori, anche se mancano di immaginazione». Ero uno scienziato già da diciannove anni.
In un documentario del 2018, Watson, ormai anziano e invalido, diede a intendere di non aver cambiato idea, malgrado le sue scuse pubbliche nel 2007 a proposito di quegli stessi commenti.
È un peccato che una vita costellata di conquiste scientifiche davvero grandi debba terminare all’ombra di un ostracismo e un oblio autoimposti: nel 2019, il laboratorio di Watson a Cold Spring Harbour ha rimosso i suoi titoli e il suo ritratto, imitato da altri laboratori in tutto il mondo. Il podio che Watson si era conquistato grazie alle sue ricerche di impatto epocale è stato eroso dalle costanti esternazioni di ignoranza scientifica e inequivocabile razzismo. I genetisti alla fine ne hanno avuto abbastanza. Tuttavia il loro gesto ha scatenato le ire di alcune persone, ossessionate dalle questioni della razza e dell’intelligenza, che hanno fatto di Watson il campione degli innocenti perseguitati: un uomo scomunicato dallo stesso campo scientifico che aveva contribuito a creare, soltanto per aver detto la verità. Peccato che non fosse affatto la verità, bensì la ripetuta espressione di un razzismo piuttosto banale, che chiunque avesse incontrato Watson conosceva fin troppo bene: i neri sono pigri, gli indiani diligenti ma privi di originalità, gli ebrei intellettualmente superiori, tutte opinioni assai diffuse nel XVIII e XIX secolo, quando vennero consolidate le fondamenta del razzismo scientifico.
La mia posizione era e rimane questa: dovremmo essere in grado di riconoscere e celebrare le grandi conquiste scientifiche, e al contempo condannare l’intolleranza, anche se si manifestano nello stesso individuo. Come Francis Galton, anche Watson era un brillante scienziato, e anche un razzista. Spetta ad altri discutere le conseguenze politiche dei suoi commenti, ma su uno in particolare il dibattito resta aperto, perché viene ripetuto spesso: «C’è una differenza tra i risultati medi dei test sul quoziente intellettivo dei neri e dei bianchi. E direi che è una differenza genetica».
Aveva ragione? Per poter esaminare le statistiche nude e crude sulle capacità cognitive e la razza, dobbiamo cercare di capire com’è stata valutata l’intelligenza dal punto di vista scientifico nel corso dell’ultimo secolo e che cosa significa davvero questo termine. Dobbiamo anche analizzare come viene concepito, attualmente, il rapporto tra intelligenza e genetica.
Queste sono acque infide. Non è facile definire l’intelligenza. Con l’espressione «capacità cognitive» ci si riferisce a un’intera gamma di comportamenti, ma in genere si intende l’attitudine al ragionamento, al problem solving e al pensiero astratto, il potenziale di apprendimento, la comprensione dei concetti, e così via. Parliamo di intelligenza umana, quindi stiamo andando oltre l’idea di intelligenza intesa in senso ampio come «la capacità di fare la cosa giusta al momento giusto», che potrebbe essere applicata ad altri animali. Ogni comportamento delle api e delle formiche denota capacità di problem solving e adattamento, che si tratti della danza di orientamento o della sepoltura delle compagne morte, o della coltivazione di funghi nutritivi su foglie tagliuzzate con cura. Le api sono oggettivamente migliori di noi nella produzione del miele, ma sono un disastro nei test sul quoziente intellettivo.
Un po’ come qualunque altro tratto, le capacità cognitive non sono distribuite in maniera uniforme fra gli esseri umani: a prescindere dai metodi di valutazione, alcune persone sono più intelligenti di altre. Il criterio più citato e meglio conosciuto è quello del quoziente intellettivo (QI). Il test e la misurazione del QI vengono utilizzati da oltre un secolo e, benché siano ormai diversi dall’originale del 1912, ne esistono numerose versioni standardizzate, che valutano il ragionamento, le conoscenze, la rapidità dei processi mentali e la percezione degli oggetti nello spazio. Di solito una parte del test è occupata da griglie composte da una serie di forme in fila per nove; in ogni fila, una parte delle forme in sequenza cambia e il nono elemento va scelto fra varie opzioni. Vi sono anche altri test di ragionamento, nei quali si richiede, per esempio, di risolvere un quesito di logica tipo:
Alice ha sedici anni ed è quattro volte più grande di Ben; quanti anni avrà Alice quando Ben avrà metà dei suoi anni?1
Ci sono poi test di analisi spaziale, dove bisogna immaginare un oggetto tridimensionale in rotazione e scegliere il risultato corretto, ancora una volta con una scelta multipla.2
In quanto figlio di uno psicologo, ho fatto questi test più volte di quanto mi piaccia ricordare. Nel corso degli anni sono infine giunto con fatica a una certezza: sono test davvero noiosi. La mia non sarà un’analisi molto sofisticata, ma il QI ha molti detrattori autorevoli, le cui critiche hanno forme e livelli di fondatezza diversi. Fra le contestazioni più frequenti c’è l’idea che il test sia culturalmente condizionato o che non tenga conto dell’intelligenza pratica o della creatività. Altri lo liquidano come un semplice punteggio che misura soltanto la bravura nei test del QI. Il che in senso stretto è vero, ma non è un’osservazione granché intelligente. La gara dei 100 metri stabilisce soltanto quanto qualcuno sia bravo a percorrere quella distanza il più velocemente possibile. L’esame di guida determina soltanto se siamo in grado di guidare abbastanza bene da poter essere legalmente autorizzati a farlo; non specifica come ce la caviamo in bicicletta o se abbiamo il potenziale per diventare piloti di Formula 1. È più facile misurare qualcosa che capire cosa si stia misurando. Questo, però, non inficia la misurazione stessa, se viene eseguita in maniera corretta.
Le critiche sono in parte giuste, ma non si tratta di grandi rivelazioni: gli psicologi sono ben coscienti di questi limiti e, pur non essendo perfetti, i test moderni vengono ideati tenendone conto. I test del QI riflettono la nostra cultura, ma ciò non significa che i dati che se ne ricavano non siano validi.
Un altro motivo di contestazione, spesso ripetuto, è che una sola misurazione non basta per valutare un insieme di comportamenti immensamente complessi e determinati da diversi fattori. Ma lo stesso vale anche per le gare dei 100 metri. Il risultato è soltanto un numero, che non specifica l’intensità dell’allenamento, i geni con cui si è nati, da quanto si pratica quello sport e una miriade di altri elementi relativi alle abilità fisiche e psicologiche. Tuttavia, quel numero avrà un buon livello di correlazione con i suddetti fattori e con molti altri, perché la velocità di una persona permette di fare previsioni di vario tipo. Un tempo inferiore ai dieci secondi sarà collegato con ogni probabilità a un atleta professionista che si allena da molto tempo, predisposto a possedere geni associati agli scatti di energia e con una bassa frequenza cardiaca. In questo momento, un simile risultato indica anche un discendente degli schiavi africani, dal momento che la maggior parte delle centotrenta persone circa che hanno percorso quella distanza con quei tempi era afroamericana (come abbiamo visto nel capitolo precedente, anche se ovviamente le cose potrebbero cambiare in futuro). Ne deduciamo inoltre che l’individuo in questione ha due gambe, due braccia e non fuma, perché nessun finalista ai 100 metri olimpici è mai stato un fumatore o aveva meno di quattro arti, almeno al momento della gara.
Il test del QI, a prescindere da quello che misura davvero, rivela molte più cose di un tempo di corsa, soprattutto perché viene valutato ed esaminato in migliaia di studi da un secolo a questa parte. Ciò è sufficiente a farne una misurazione utile. Come spesso accade in ambito scientifico, il test ha un grande valore per lo studio delle popolazioni, meno quando è applicato ai singoli individui. Nel 2004 qualcuno chiese a Stephen Hawking, che non era certo uno zuccone lento di comprendonio, quale fosse il suo QI. Hawking rispose: «Chi si vanta del suo QI è un perdente». Il presidente Trump d’altra parte parla spesso del suo alto punteggio, che sarebbe superiore a quello dei suoi due predecessori in quella augusta sede di potere. Il QI poi è uno dei criteri di ammissione in organizzazioni apparentemente prestigiose come il Mensa, ma, a essere onesti, non riesco a immaginare un gruppo di persone meno interessante da frequentare. Nel corso della storia, comunque, questo valido strumento scientifico è stato utilizzato per scopi ben più pericolosi dell’ingresso in un’associazione megalomane, il che spiega in qualche modo la diffusa ostilità nei suoi confronti. Nella prima metà del XX secolo, per esempio, i test sul QI erano uno dei metodi impiegati da alcuni Stati per l’applicazione di politiche eugenetiche, che ebbero come conseguenza la sterilizzazione forzata di oltre sessantamila persone.
I risultati dei test vengono elaborati fissando la media di una popolazione a cento punti, dopo di che l’oscillazione dei QI di una determinata popolazione ricade nella cosiddetta «distribuzione normale», cioè una curva a campana. Questo significa che vi è un numero pari di persone che si posizionano sopra e sotto il cento, e che circa due terzi si trovano a meno di quindici punti di distanza dalla media in entrambe le direzioni. Circa un individuo su quaranta supera i centotrenta o rimane sotto i settanta. Tuttavia il QI non rimane fisso per tutta la vita: i risultati tendono a stabilizzarsi con l’invecchiamento, mentre durante l’adolescenza oscillano di molto. È anche possibile migliorare leggermente il proprio punteggio tramite l’esercizio, soprattutto quando le scuole adottano strategie di insegnamento diverse che ottengono buoni risultati nei test standard sul QI. Questo non sorprende, dato che il test valuta le capacità del momento, e non una facoltà intellettiva innata e immutabile.
Neanche il QI delle popolazioni rimane fisso nel tempo. Esiste infatti un fenomeno noto come «effetto Flynn». Lo psicologo James Flynn osservò che i punteggi medi totalizzati nei test di gruppo erano aumentati di circa tre punti ogni dieci anni dagli anni trenta in avanti. Sono diversi i fattori che possono spiegare il fenomeno, per esempio il miglioramento delle condizioni di salute, dell’alimentazione, del tenore di vita e dell’istruzione, mentre sono stati esclusi i mutamenti genetici. Poiché tale effetto è riscontrabile in più punti del globo ed è stato osservato soltanto considerando periodi limitati, non si ritiene possibile che siano avvenute mutazioni significative nel corso di una o più generazioni.
Si riscontrano altre versioni dell’effetto Flynn anche in altre imprese e attività umane. Gli atleti oggi sono più in forma di quanto non fossero in passato, sotto ogni punto di vista. La grande squadra di cricket australiana nella quale hanno giocato leggende come Don Bradman verrebbe stracciata dall’attuale squadra inglese di serie B, se dovessero affrontarsi nelle rispettive forme migliori. E sono piuttosto sicuro che la squadra inglese che vinse la Coppa del mondo nel 1966 si troverebbe in difficoltà se dovesse giocare contro la prima squadra della mia amata Ipswich Town, che mentre scrivo sta languendo al terzo livello delle leghe calcistiche inglesi. Le squadre sportive oggi hanno geni migliori? Non in misura significativa, ma lo sport si è evoluto ed è diventato una pratica più seria e redditizia, dunque gli standard previsti per i programmi di allenamento, le attrezzature, le diete, la forma e la professionalità sono saliti a livelli stellari.
Il QI ha un valore scientifico innegabile e una buona, benché non perfetta, correlazione con altre misurazioni di abilità cognitive, spesso usate negli studi scientifici: per esempio il rendimento e la durata della carriera accademica (i risultati degli esami e gli anni dedicati all’istruzione). Inoltre chi ha un buon punteggio di QI tende in media a vivere più a lungo, a ottenere voti migliori a scuola, ad avere maggiore successo nel lavoro e a guadagnare di più.
Se si osservano i punteggi relativi al QI dei diversi popoli del mondo, il quadro è tutt’altro che chiaro, ma emergono comunque differenze innegabili. Stando alle meta-analisi più aggiornate e affidabili, i paesi dell’Africa subsahariana tendono a totalizzare fra gli ottanta e i novanta punti3 rispetto allo standard britannico. Si tratta, ovviamente, di un risultato assai inferiore, che non è per nulla facile da interpretare. Anche se non è possibile escludere del tutto i fattori genetici, sembra comunque difficile che siano determinanti, vista l’immensa diversità genetica ormai assodata per tutto il continente.
I fattori ambientali spiegano molto meglio tale discrepanza. I paesi in via di sviluppo presentano condizioni di vita inferiori rispetto ai paesi sviluppati, in aggiunta a sistemi di istruzione, programmi sanitari e assistenza medica meno avanzati. Non è semplice quantificare queste cose, e i dati a disposizione sono scarsi, oltre che calcolati in maniera insoddisfacente sulla media dei vari paesi africani, tutti diversi fra loro. Tuttavia alcuni ricercatori che si occupano del quoziente intellettivo hanno avanzato un’ipotesi credibile, e cioè che lo status socioeconomico di molti paesi subsahariani sia simile a quello delle nazioni europee nella prima metà del XX secolo. In effetti, gli autori della più ampia meta-analisi del QI europeo fanno notare che, se non fosse stato per l’effetto Flynn, il QI nazionale dei Paesi Bassi (per esempio) oggi sarebbe agli stessi livelli in cui era negli anni cinquanta, dunque intorno agli ottanta punti (rispetto ai cento della media attuale). Allo stesso modo, negli anni settanta, la media nazionale in Irlanda si aggirava intorno agli ottantacinque punti, mentre oggi ha raggiunto i cento del Regno Unito. Anche in questo caso il cambiamento è avvenuto nel corso di una generazione, dunque i geni non possono aver giocato un ruolo decisivo. Bisogna invece guardare ai profondi mutamenti verificatisi in quel breve periodo: il miglioramento della sanità e dell’istruzione, i pesanti investimenti in questi settori e il rapido passaggio da un’esistenza rurale, incentrata sull’agricoltura, a una cultura urbana e industriale più ricca e complessa, caratterizzata dalla comunicazione di massa. Si potrebbe quindi sostenere, a ragione, che buona parte della discrepanza osservata tra alcuni paesi africani e quelli europei possa essere ricondotta a una manifestazione non universale del fattore Flynn, e soprattutto alla sua assenza in alcuni paesi africani. Se tra i fattori che hanno provocato un aumento della media del QI di alcuni popoli vi è il miglioramento dell’alimentazione, dell’assistenza medica e dell’istruzione, è verosimile che tali elementi non siano ancora migliorati abbastanza da colmare appieno il divario. E poiché il QI ci permette di formulare ipotesi tanto valide sulle questioni relative alla qualità della vita, è importante comprendere la scienza sulla quale si fondano tutte queste cose.
Impariamo dalle nostre famiglie ed ereditiamo i geni dai nostri genitori. Di solito, inoltre, ci sono buone probabilità che chi ci vive accanto sia un parente o un conoscente intimo, più che un estraneo qualunque. E le politiche sociali operano a livello nazionale. Combinati insieme, tutti questi fattori limitano l’influenza della geografia sul modo in cui viene trasmessa qualunque caratteristica umana nel corso del tempo.
L’intelligenza è altamente ereditaria. Sembra una frase semplice da dire, ma in queste cinque parole è racchiusa una delle branche scientifiche più complicate e fraintese con cui ci siamo misurati finora. In generale significa che una porzione significativa delle differenze che osserviamo fra le persone è dovuta al DNA. Per capire bene questo difficile concetto possiamo partire da un tratto più semplice, come l’altezza. Per lo più, le persone alte hanno figli alti. Grazie agli studi sui gemelli (e ad altri metodi) sappiamo che buona parte delle differenze di altezza in una popolazione deriva dai geni, più che dall’ambiente. Se prendessimo in esame un gruppo di persone nel quale la più alta misurasse due metri e la più bassa uno e mezzo, secondo gli studi più recenti, cinquantasei di quei sessanta centimetri di differenza sarebbero codificati nel DNA; il resto sarebbe il risultato di una variazione provocata dall’ambiente, per esempio la dieta e l’alimentazione. Ciò non significa che sappiamo quali siano quei geni o che cosa comportino, ma soltanto che la variazione è codificata nel DNA.
«Ereditario» è un termine tecnico orribile, perché il suo significato non è quello che sembra. Infatti non indica quanto di un determinato tratto è genetico e quanto è dovuto all’ambiente (natura e cultura, o educazione). Facciamo un altro esempio: poniamo che tutti gli esseri umani nascano con dieci dita, cinque per mano. Alla nascita, in altre parole, non esisterebbe alcuna varianza nel numero delle dita, dunque questo tratto sarebbe interamente determinato da cause genetiche innate. Molti adulti, però, non hanno dieci dita, perché possono averle perse per un incidente. La varianza nel numero delle dita in età adulta, allora, non sarebbe dovuta ai geni, ma all’ambiente, dunque l’ereditarietà del numero delle dita negli adulti sarebbe molto bassa, vicina allo 0%.4
Si tratta di un’estremizzazione, utile a spiegare questo punto, ma quasi tutti i tratti sono ereditari in qualche misura. Le capacità cognitive, a prescindere da come le si misuri, non fanno eccezione: l’intelligenza innata è altamente ereditaria. La teoria della tabula rasa, secondo la quale, alla nascita, la nostra mente è come un foglio bianco che verrà poi riempito con le nostre abilità e personalità, non è corretta. E lo sappiamo da decenni. Le stime variano a seconda degli studi, ma la percentuale di capacità cognitive attribuibile alla genetica più che ad altri fattori va dal 40 al 60%. Vale a dire che all’incirca la metà delle differenze osservate sono causate da differenze a livello del DNA. Non è una scoperta davvero nuova, né particolarmente controversa: il foglio non è bianco, ma in parte riempito, fin dal concepimento, con il DNA dei nostri antenati.
Negli studi sulle capacità cognitive ci si serve da sempre di una serie di tecniche, compreso lo strumento sperimentale più utile che la natura abbia messo a nostra disposizione: i gemelli. I gemelli omozigoti hanno (quasi) sempre un DNA del tutto identico, quindi qualsiasi differenza di comportamento tra loro andrà attribuita alla cultura, non alla natura. I gemelli omozigoti separati alla nascita rappresentano un’altra versione dello stesso strumento, poiché cresceranno in ambienti diversi. Tali metodi, però, presentano limiti e complicazioni, certo non insuperabili, ma che vale la pena tenere a mente: è probabile che i gemelli separati alla nascita vengano cresciuti in famiglie appartenenti a popolazioni simili, negli stessi paesi e, com’è ovvio, nello stesso periodo di tempo, dunque le differenze di ambiente potrebbero non essere radicali. I gemelli omozigoti condividono il doppio della percentuale di DNA dei fratelli, ma, dal momento che fratelli e gemelli crescono nello stesso ambiente, l’ereditarietà dei tratti nei gemelli omozigoti non è il doppio di quella dei fratelli. Tenendo conto di questi e altri limiti, gli studi sui gemelli rimangono comunque uno strumento valido e importante per comprendere l’ereditarietà dell’intelligenza.
Oggi siamo alla ricerca delle effettive differenze genetiche correlate a tratti complessi. Siamo in grado di scandagliare i genomi di centinaia di migliaia di persone, per individuare le minime variazioni nel codice genetico e tentare di capire se sembrano presentarsi in relazione a particolari comportamenti. La branca che se ne occupa è quella degli studi di associazione sull’intero genoma (Genome Wide Association Studies o GWAS), un pilastro della genetica fin dalla loro comparsa e dalle prime applicazioni nel 2005.
La grande rivelazione del Progetto Genoma Umano è che gli esseri umani non possiedono moltissimi geni deputati a codificare le proteine; ne abbiamo meno di una pulce d’acqua, di un ascaride o una banana. I geni umani sono più o meno ventimila (dipende da come li definiamo), e questa scoperta ha segnato la fine del modello tradizionale, condiviso da molti genetisti, che prevedeva «un solo gene per ogni tratto». Al suo posto, nel corso degli ultimi quindici anni circa, si è lavorato a un nuovo modello per spiegare come funziona la genetica negli esseri umani, e parte della nuova scoperta è il fatto che spesso, all’interno del corpo, i singoli geni fanno più cose in momenti diversi, operando in strutture reticolari, a cascata e gerarchiche. Così, nel caso dei tratti facilmente misurabili – l’altezza o il colore degli occhi o della pelle – i GWAS ci hanno permesso di scoprire che una manciata, una decina o anche centinaia di geni hanno un ruolo piccolo ma cumulativo.
Il QI è un numero, ma l’intelligenza non è un’unica cosa, e la componente genetica dell’intelligenza non è affatto riducibile a un unico gene. Gli studi più recenti hanno trovato un’elevata correlazione tra numerose varianti genetiche e un punteggio superiore nei test cognitivi. Sono differenze presenti nei geni che abbiamo tutti, e la varianza cumulativa sembra essere l’elemento correlato alle prestazioni nei test. Con l’aumentare delle nostre conoscenze sul genoma e delle dimensioni del campione esaminato, è facile che anche il numero dei geni coinvolti aumenterà. Non mi sorprenderebbe se il numero delle varianti genetiche associate alle capacità cognitive oltrepassasse il centinaio, se non il migliaio.
Grazie ai nuovi dati a disposizione, sappiamo che i geni umani spesso svolgono varie funzioni in vari tessuti; i geni coinvolti nel metabolismo, per esempio, possono essere espressi in cellule di tessuti diversi in tutto il corpo. Anche in questo caso, date le elevate necessità metaboliche degli ottanta miliardi di cellule nel nostro cervello che ci permettono di pensare, agire e mantenerci in vita, il coinvolgimento di migliaia di geni non è certo una sorpresa.
Non sappiamo che cosa faccia la maggioranza di questi geni, per lo meno non a livello di precisione molecolare. Né sappiamo quali lievi variazioni potrebbero influire sul cervello o sul comportamento, e in che modo potrebbero farlo. La «A» di GWAS sta per «associazione»; significa che gli studi condotti in quest’ambito stanno rivelando la presenza di correlazioni statistiche e che la meccanica di qualunque cosa si stia esaminando rimane ignota. Grazie ai GWAS possiamo piantare una bandierina sulla mappa del genoma umano, per segnalare che in quel punto sta accadendo qualcosa di interessante, ma non sappiamo cosa. Queste incognite non invalidano il metodo né i risultati: il bisturi è uno strumento di precisione essenziale per sezionare un cuore, ma non dice ciò che un elettrocardiogramma dovrebbe dire. È abbastanza probabile che, in molte delle differenze riscontrate nel DNA, siano codificate modifiche sottili e scarsamente esplicative dell’attività di una proteina.
Consideriamo due versioni della Bibbia: quella di re Giacomo (King James Version, KJV) e la nuova versione internazionale (New International Version, NIV). Si tratta dello stesso libro, con gli stessi messaggi universali e le stesse vicende narrate, ma in molti casi l’ortografia, le parole e addirittura le frasi sono state cambiate, corrette e omesse. Alcuni cambiamenti sono minori. Nel Libro della Rivelazione, al famigerato passo 13,18 che spiega come riconoscere l’Anticristo, la KJV dice: «Calcoli il numero della bestia chi ha intelligenza, poiché è un numero di uomo. Il suo numero è seicentosessantasei». La NIV invece dice: «Chi ha intelligenza calcoli il numero della bestia: è infatti un numero di uomo, e il suo numero è 666». Altre modifiche sono più corpose e probabilmente più significative: la NIV del Vangelo di Matteo, 20,16 dice: «Così gli ultimi saranno i primi e i primi, ultimi», omettendo la seconda parte della frase riportata dalla KJV: «[...] poiché molti saranno chiamati, ma pochi gli eletti». Gli studiosi della Bibbia potranno discutere delle centinaia di differenze di traduzione fra le due versioni, chiedendosi se alterano il testo in maniera significativa, si limitano a semplificarlo o non hanno alcun impatto. In ogni caso, dovrebbe essere sufficiente leggere queste porzioni di testo per poter identificare quale versione si ha tra le mani. I GWAS fanno qualcosa di simile: partendo dai test genetici, calcolano con quale probabilità i cambiamenti coincidono con un determinato tratto umano.
Facciamo spesso analogie con i libri per comprendere la genetica: le lettere, le parole, le frasi e la coerenza di significato sono tutti elementi che biologia e letteratura condividono sul piano concettuale. Ma la verità è che, a questo livello di complessità della genetica umana, non esiste analogia capace di esprimere la ricchezza dei dati o la mole di calcoli necessari per elaborarli scientificamente.
Tuttavia, è importante comprendere la genetica di popolazioni se si vuole discutere in maniera scientifica della razza, quindi preparatevi; da parte mia, sarò breve. Nel caso di tratti umani molto complessi, sui quali migliaia di minuscole differenze sembrano avere effetti minori ma cumulativi, aggregarle ci aiuta a ricostruirne l’influenza genetica. Il risultato si chiama «punteggio di rischio poligenico» (Polygenic Risk Score, PRS), una misurazione che permette di calcolare l’intera base genetica di una determinata caratteristica: quando i GWAS danno come risultato più geni, è utile sommarne gli effetti. È un metodo molto efficace, nonché una valida aggiunta all’arsenale di ogni scienziato. I punteggi poligenici aiutano a comprendere la genetica di qualsiasi tratto umano, comprese le malattie complesse, anche se non ci restituiscono ancora un quadro abbastanza dettagliato da legittimare eventuali interventi clinici.
I GWAS e il PRS sono strumenti davvero fantastici, che hanno trasformato del tutto il campo della genetica umana. Non vuol dire che siano anche infallibili o i più appropriati. I punteggi poligenici indicano senz’ombra di dubbio che l’intelligenza è ereditaria all’interno di una popolazione. Non rappresentano però il metodo migliore per esaminare le differenze fra popolazioni. Dunque, se diverse popolazioni totalizzano punteggi di QI diversi, e benché la percentuale di ereditarietà dell’intelligenza sia elevata (oltre il 50%), l’origine di tali differenze non va necessariamente ricondotta alle diverse varianti nel DNA. Sarebbe del tutto possibile che due popolazioni con set di differenze genetiche diverse ottenessero lo stesso punteggio di QI. Prendiamo di nuovo l’altezza, un tratto più facile da misurare e da capire: le numerose differenze a livello del DNA che in qualche modo spiegano le diverse stature osservabili in una popolazione non corrispondono ai geni dell’altezza, ma soltanto a quelli associati all’altezza. Non sappiamo che cosa comportino quelle firme genetiche, se influenzino l’altezza o se siano soltanto fisicamente legate ai geni che hanno un ruolo importante nella determinazione dell’altezza, e siano finite nel calderone a causa della suddivisione del DNA nello spermatozoo o negli ovuli. Non sappiamo nemmeno se le differenze genetiche dipendano dall’ambiente locale per agire sul fenotipo e determinare un aumento dell’altezza media. Possiamo ipotizzare associazioni genetiche diverse in Europa e in Giappone per quanto riguarda l’altezza, ma, se non sappiamo che cosa fanno quei geni, non possiamo neanche sapere se sono il frutto di una casualità che poi si traduce in caratteristiche visibili, se sono significativi o se hanno un impatto significativo nei diversi ambienti, con diversi tipi di dieta o di cibo. Sono tutte domande alle quali i GWAS e il PRS non possono rispondere in maniera esaustiva. Questi studi sono importanti ed efficaci nell’individuare i geni rilevanti all’interno di una popolazione, ma non fra le diverse popolazioni.
Stiamo esaminando una scienza tecnica e un’analisi statistica molto difficili, è vero. Ma entrambe sono importanti ai fini delle continue discussioni sull’intelligenza e la razza. La distinzione rigorosa fra i gruppi di individui sta diventando sempre più precisa ed è più facile impiegare gli strumenti a nostra disposizione. Ma ciò non vuol dire che siano gli strumenti adatti a questo lavoro. Gli scienziati che studiano la variabilità umana, così come i giornalisti e i lettori dell’argomento, devono prestare attenzione a non trarre conclusioni sbagliate da risultati corretti. Fin dalla nascita dei GWAS, i risultati sono stati spesso riportati in maniera erronea, presentando correlazioni molto deboli come cause vere e proprie, di solito con la formula: «Gli scienziati scoprono il gene di questo o quello». Con lo sviluppo del punteggio poligenico si rischiano ulteriori sovrainterpretazioni o errori palesi. Quando tentiamo di comprendere le disparità a livello di intelligenza, non dobbiamo soltanto tenere a mente i limiti dei nostri strumenti, ma anche i motivi che attribuiamo alle nostre osservazioni. Nel caso specifico della performance intellettuale, la domanda è: l’evoluzione biologica dovuta alla selezione – naturale, artificiale o una combinazione delle due – è alla base delle differenze che rileviamo fra le popolazioni?
Lasciamo da parte le immense difficoltà che si incontrano tentando di descrivere le popolazioni come distinte o discrete, o come razze, di cui abbiamo detto nei capitoli precedenti. «Nero» non è un termine tassonomico utile per descrivere la variabilità genomica, fenotipica o geografica osservabile nelle persone di pelle scura, ma è vero che, basandoci sul DNA di un individuo, possiamo risalire con un grado di esattezza sempre maggiore alle origini di una parte dei suoi avi. Gli ebrei sono un diverso genere di gruppo etnico e culturale a causa di una storia inconsueta, il risultato di millenni di persecuzioni, molteplici diaspore e migrazioni forzate in tutta Europa e nel resto del mondo. Chi si identifica culturalmente come ebreo ashkenazita ha dunque una firma genetica che indica nel complesso, anche se non in maniera esclusiva, un’origine ebraica.
Nel 1898, Mark Twain scrisse un articolo sulla rivista «Harper’s» intitolato Concerning the Jews (A proposito degli ebrei), nel quale concludeva che
Il contributo [del popolo ebraico] all’elenco mondiale dei grandi nomi della letteratura, della scienza, delle arti, della musica, della finanza, della medicina e del ragionamento più ostico è assai sproporzionato rispetto alle sue esigue dimensioni. Ha combattuto meravigliosamente in questo mondo, in ogni epoca, e l’ha fatto con le mani legate dietro la schiena.
Circa un terzo degli ebrei è ashkenazita, il gruppo associato con maggiore frequenza ai successi in ambito intellettuale e nel quale rientra la gran parte degli ebrei americani. Oggi ne esistono circa undici milioni, ma la loro storia è tutt’altro che chiara. Gli ebrei ashkenaziti emersero nell’Europa centrale durante il Medioevo, ma date e luoghi più specifici rimangono imprecisati. Sembra comunque che le migrazioni dirette verso l’Europa centrale dal Medio Oriente abbiano svolto un ruolo decisivo nell’affermazione degli ashkenaziti come gruppo culturale distinto all’interno dell’ebraismo, soprattutto nella Germania meridionale, in Italia e in Francia, dove, in epoca medievale, furono obbligati a indossare un segno distintivo giallo per essere identificati. Le espulsioni da questi paesi e dalla Gran Bretagna contribuirono a spingere gli ashkenaziti verso est, in Polonia e in Russia, dove nacquero centri di vita ebraica piuttosto stabili; da qui proveniva la maggior parte dei sei milioni di ebrei sistematicamente uccisi durante l’Olocausto. In seguito al genocidio, gli ashkenaziti emigrarono in molti paesi, compresi gli Stati Uniti, il Canada e Israele, dove oggi rappresentano circa la metà della popolazione ebraica.
In questa storia insolita rientrano le pratiche e le restrizioni imposte agli ebrei da chi deteneva il potere; gli ebrei concentrarono così buona parte della loro tradizione lavorativa sugli affari e il commercio. Questo fatto, insieme a un numero presumibilmente elevato di matrimoni all’interno dello stesso gruppo sociale, costituisce la base di partenza dei tentativi di spiegare il successo intellettuale riscontrato fra gli ashkenaziti. Stando alla tesi più comune, l’insolita storia del popolo ebraico avrebbe contribuito alla selezione artificiale di geni associati alle capacità cognitive, selezione che spiegherebbe il successo degli ebrei in tal senso. Di conseguenza, si dice, gli ebrei avrebbero una predisposizione genetica non soltanto a raggiungere i vertici delle conquiste intellettuali – con un numero eccezionale di premi Nobel, campioni di scacchi, grandi violinisti e matematici – ma anche al successo in generale. Secondo alcuni studi, gli ebrei riportano punteggi molto più alti nei test sul QI, che riflettono i risultati medi di una popolazione più che le eccezioni straordinarie.
Benché l’antisemitismo esista da migliaia di anni e il legame fra gli ebrei e le attività intellettuali prosegua da vari secoli, buona parte dell’attuale dibattito sulle presunte abilità innate di questo gruppo è stato innescato da un unico studio del 2006. In un articolo che ha esercitato grande influenza, e che ha dato avvio a molte indagini minuziose, Gregory Cochran, Jason Hardy e Henry Harpending5 suggerivano che la storia degli ebrei ashkenaziti in Europa avesse avuto come esito un incremento dei geni associati all’intelletto.
Gli autori citavano alcuni fattori unici della storia ebraica (e, nello specifico, ashkenazita) che, secondo loro, avevano creato le condizioni favorevoli a una selezione delle capacità intellettuali. Fra questi vi erano comportamenti sociali come l’endogamia, cioè i frequenti matrimoni fra consanguinei, che avrebbero creato un pool genico adatto alla selezione naturale; ma anche «i loro mestieri, nei quali un quoziente intellettivo potenziato favoriva grandemente il successo economico, a differenza di quanto accaduto ad altri popoli, per lo più occupati in attività agricole». Un’altra ipotesi avanzata nell’articolo è quella della «scrematura operata dalle persecuzioni»: in qualche modo, gli atti di oppressione e tirannia perpetrati sugli ebrei avrebbero avuto come risultato la sopravvivenza dei più intelligenti. Gli autori dello studio mettono comunque in chiaro di non poter spiegare come funzioni tale meccanismo, dal momento che lo stesso effetto non si riscontra in altri popoli perseguitati. Viene da chiedersi perché abbiano voluto includere una congettura simile in un lavoro scientifico. Per quel che riguarda l’affermazione sulle professioni commerciali che richiederebbero grande intelletto, non mi risulta che esistano prove decisive di una correlazione tra il successo negli affari e un’intelligenza sopra la media. Cochran et al. citano le attività di credito e altre forme di affari di scambio che dovrebbero essere appannaggio degli ebrei in quanto «lavori che richiedono elevate capacità cognitive», sostenendo che «nel settore in cui lavoravano gli ashkenaziti erano particolarmente necessarie competenze contabili e gestionali». Anche queste come prove mi sembrano piuttosto lacunose. Prestare denaro nel Medioevo non era proprio come occuparsi di missilistica, né tantomeno come fare il neurochirurgo.
I tre autori segnalano anche precisi fattori biologici e alcune «conseguenze fisiologiche che potrebbero potenziare l’intelligenza». Nei lontani giorni del 2006 comprendevamo meno le neuroscienze e il modo in cui la biochimica delle cellule fosse correlata al pensiero e alle azioni, ma non poi tanto di meno. Le neuroscienze sono un campo di studi vivace, ma in verità abbiamo un’idea ancora molto vaga di come la crescita e la connettività neuronale siano legate alle capacità cognitive. Se sono riuscito a convincervi che la genetica è straordinariamente complicata, considerate allo stesso modo lo sviluppo del cervello fisico e la natura oscura del pensiero: vi troverete davanti a una delle grandi frontiere della scienza. L’ipotesi di geni patogeni con effetti specifici sulla crescita dei neuroni, tali da poter migliorare il QI, è indice di una visione assai semplicistica dello sviluppo neuronale.
La speculazione neurobiochimica era solo una delle argomentazioni a sostegno della teoria dei tre studiosi. La maggior parte di esse chiamava in causa l’ampia diffusione di determinate malattie fra gli ashkenaziti, come la malattia di Tay-Sachs, la malattia di Gaucher e la malattia di Niemann-Pick.6
Il modello di riferimento era quello dell’anemia falciforme, una gravissima malattia che provoca morte prematura ed è recessiva, vale a dire che il paziente deve aver ereditato due copie – una per genitore – del gene mutato. Quando si eredita una sola copia della mutazione si parla di «tratto falciforme», una condizione molto meno grave, caratterizzata però da alcuni sintomi a legati alla malattia. Spesso questa è ritenuta un disturbo specifico dei neri, dunque un esempio di come la biologia «riassuma» la razza, ma si tratta di un errore. Il tratto falciforme ha come effetto la protezione contro la malaria, ma il prezzo da pagare è una malattia terribile. La sua presenza non è indice di una particolare etnia, ma coincide con la distribuzione geografica della malaria, perché le due si sono evolute fianco a fianco. È vero che la patologia è comune fra gli individui di origini africane recenti, ma soltanto se quelle origini corrispondono alle zone malariche, distribuite lungo una striscia verticale attraverso il continente africano. Allo stesso modo, l’anemia e il tratto falciforme sono molto diffuse in Grecia, Turchia, Medio Oriente e India, con la stessa distribuzione della malaria.
L’ipotesi di Cochran et al. è che il costo della selezione dei geni coinvolti nella prontezza intellettuale sia un’elevata frequenza di gravi malattie cerebrali. Dal momento che i portatori di geni patogeni che subiscono pochi effetti della malattia sono piuttosto numerosi nella popolazione ashkenazita, si suggerisce che tali variazioni dimostrino l’esistenza di una base genetica dell’intelligenza particolarmente sviluppata.
A ulteriore sostegno della loro tesi, gli autori dello studio suggeriscono che tali presunte «malattie ebraiche» siano legate a un tipo ben preciso di anomalia biochimica chiamata «accumulo lisosomiale». Il morbo di Tay-Sachs è una malattia spaventosa e letale nei bambini dai tre anni in su, che provoca una rapida degenerazione neuronale. Fu individuata per la prima volta nelle famiglie ebree, e in effetti era una condizione assai comune, ma non esclusiva, di questo gruppo. La sua diffusione venne arginata grazie a un’azione concertata e scrupolosa di esperta consulenza genetica presso le categorie ad alto rischio; di conseguenza la percentuale dei relativi geni patogeni negli ebrei ne risultò drasticamente ridotta. La malattia di Niemann-Pick di solito è letale a partire dai diciotto mesi di vita e anch’essa è causa di una degenerazione neurologica, e una delle varie forme della malattia è assai diffusa fra gli ashkenaziti. La malattia di Gaucher è molto meno grave, può avere qualche piccolo effetto sui neuroni ed è abbastanza comune fra gli ebrei, ma non solo.
Altri studi non hanno evidenziato alcuna traccia di selezione di geni patogeni. La natura di queste mutazioni geniche farebbe pensare piuttosto al cosiddetto «effetto del fondatore», in virtù del quale alcune mutazioni diventano tratti fissi di una popolazione, anche grazie all’elevato numero di matrimoni all’interno di una stessa famiglia; una pratica comune all’interno di comunità piccole e isolate. Le argomentazioni a favore e contro i potenziali vantaggi intellettuali di queste particolari condizioni genetiche costituiscono una massa complicata e intricatissima: studi differenti sostengono o negano l’esistenza di prove che dimostrano o confutano tale selezione, oppure propendono per l’effetto del fondatore, per il cosiddetto «collo di bottiglia» genetico o per un’evoluzione neutrale, in cui i cambiamenti a livello di DNA non sono né favorevoli né sfavorevoli. Cochran et al. menzionano anche altri geni o segmenti di DNA che potrebbero essere coinvolti nella crescita di neuroni o di dendriti che si ramificano a partire da essi, collegandosi ad altre cellule cerebrali.
All’epoca del loro studio non si sapeva, ma adesso sì: i geni associati alle capacità intellettuali sono tantissimi, con effetti molto piccoli ma cumulativi, un po’ come i pixel di uno schermo gigantesco. Dei geni identificati finora (e ricordo che, pur conoscendone l’importanza, non sappiamo che cosa facciano e dunque perché siano importanti), molti sono espressi nel cervello (come altre migliaia di geni) e potrebbero quindi avere un’influenza diretta sull’intelletto. Oggi abbiamo a disposizione un database che contiene centinaia di GWAS e migliaia di geni; digitando il nome di un gene, si può chiedere al database di selezionare gli studi che indicano la sua associazione con qualunque tipo di tratto, come l’altezza, la mortalità o le ossa, compresi quelli cognitivi e neurologici. Ho cercato negli attuali database i geni patogeni che, secondo Cochran et al., potrebbero guidare la selezione dell’acume ebraico, per vedere se qualche studio li associasse all’intelligenza o alle abilità cognitive. Il risultato? Zero.
A volte la speculazione è una parte importante della scienza. Tentare di immaginare una spiegazione per qualcosa che si è osservato può essere un metodo produttivo per perfezionare un quesito scientifico in assenza di dati esplicativi. In questo caso, non si trattava che di una pia illusione. Lo studio di Cochran e collaboratori continua ad avere forte risonanza, a esercitare una certa influenza e a scatenare dibattiti. Ai tempi fu promosso in molti articoli dall’editor scientifico del «New York Times», Nicholas Wade, che poi scrisse anche un libro, considerato da quasi tutta la comunità dei genetisti una speciosa e fallace raccolta di errori, ma celebrato a gran voce dai razzisti. Ancora in un articolo uscito nel febbraio 2019 riguardo allo spropositato successo degli ebrei in ambito intellettuale, anche il celebre psicologo Jordan Peterson ha citato il lavoro di Cochran in maniera del tutto acritica.
Non pretendo di conoscere le motivazioni di chi pubblica opere controverse che non superano lo spietato scrutinio della comunità scientifica. Di certo il lavoro di Cochran et al. è uno di quelli che affermano di perseguire la verità scientifica senza curarsi del politicamente corretto. Ma, pur essendo dichiaratamente politico, non è né valido, né scientificamente corretto.
Il commento di Mark Twain sullo sproporzionato successo degli ebrei pare giusto, ma se andiamo in cerca di una base biologica per le loro conquiste in settori culturali che richiedono grande intelligenza, i conti non tornano neanche qui. Il popolo ebraico annovera un numero incredibile di artisti nel campo della musica classica: solisti, direttori e strumentisti nelle orchestre di massimo livello. Molti dei più grandi violinisti sono o erano ebrei – Yehudi Menuhin, Itzhak Perlman, Isaac Stern, Jascha Heifetz – come anche Felix Mendelsohn, Gustav Mahler, Arnold Schoenberg, Leonard Bernstein, András Schiff, Daniel Barneboim e tanti altri musicisti e compositori. Rispetto all’intelligenza, il talento musicale è molto più difficile da valutare mediante un unico criterio, e anche in questo caso ai risultati contribuiscono fattori genetici e ambientali. Tuttavia i numeri non mentono: non esistono grandi compositori neri di musica classica e sono pochi i musicisti neri nelle grandi orchestre.7
La musica classica è in mano ai bianchi e, all’interno di questa sfera, gli ebrei si distinguono in maniera particolare. Eppure, nel jazz predominano da sempre i musicisti neri. Si tratta forse di un genere intrinsecamente tanto diverso dalla musica orchestrale da rendere necessario l’intervento di una differenza biologica?
No, e le persone sensate non ragionano così. Esiste però una diffusa leggenda, secondo la quale i neri possiederebbero innate capacità musicali: il «ritmo naturale», come vuole lo stereotipo. Questa frequente attribuzione di talento congenito – cioè codificato nel DNA – è facile da smentire. Come poi l’hip-hop, il jazz nacque, almeno in parte, come sottocultura rivoluzionaria, che si ribellava e si distanziava dagli stili musicali eurocentrici degli americani bianchi prevalenti all’epoca. Entrambi i generi conobbero un enorme successo e passarono attraverso una serie di mutamenti che li portarono infine nella cultura mainstream, benché agli inizi fossero temuti e osteggiati dalle autorità, che li ritenevano pericolosi. Sarebbe fin troppo facile evidenziare una profonda correlazione tra i principali artisti hip-hop e i geni responsabili della pigmentazione: la stragrande maggioranza di questi musicisti, infatti, è nera, per quanto anche Eminem non sia male. Potremmo effettuare un GWAS sui rapper per individuare le correlazioni con i geni associati alle origini afroamericane. Dobbiamo credere che, in qualche modo, l’attitudine geneticamente codificata al talento musicale si estenda soltanto a quei generi nei quali i neri, per puro caso, eccellono, e non a quelli dai quali sono assenti? No, perché non esistono associazioni genetiche tra l’attitudine musicale e l’etnia, e le differenze di stili musicali fra le popolazioni possono essere soltanto un fenomeno culturale.
Tutti i comportamenti umani sono uno straordinario miscuglio di geni e cultura, biologia e storia. Non ne sappiamo abbastanza né di genetica, né delle capacità cognitive per poterci lanciare in affermazioni definitive sulla selezione evolutiva dei geni che favoriscono le più sofisticate ed eleganti espressioni del genere umano. Esiste forse una leggera spinta genetica in quella direzione, ma, considerati i dati attuali, è un’ipotesi improbabile e le prove a suo favore sono assai scarse. Agli occhi di chi dichiara di ricercare soltanto la verità, invece, si tratta di un concetto tanto affascinante da meritare un sostegno ininterrotto. Personalmente trovo che la dedizione a tali azzardi speculativi ci dica più cose sul conto di chi vi si attacca con tanta tenacia di quanto non dica sugli ebrei, sui neri o su qualunque altro gruppo etnico. Alcuni scienziati e ideologi ossessionati dalla razza sono razzisti a tutti gli effetti, altri sono soltanto bastian contrari o scettici convinti di aver portato alla luce una conoscenza segreta, tenuta nascosta da una maggioranza di cospiratori.
I ragionamenti sull’elevata incidenza di malattie cerebrali fra gli ebrei ashkenaziti, che ne spiegherebbero l’arricchimento genetico responsabile del potenziamento dell’intelligenza, non sono che pie illusioni, di cui possiamo sbarazzarci grazie ai dati a nostra disposizione. Anche l’idea della «scrematura dovuta alle persecuzioni» è pura e inutile speculazione, per la quale non c’è posto in un articolo scientifico che si rispetti. Sono tutte versioni impercettibilmente più sofisticate della criminale teoria evolutiva chiamata «adattazionismo»,8 secondo cui la selezione naturale sarebbe responsabile di comportamenti umani specifici; questi dunque non sarebbero casuali, né dovuti a processi che non sono né positivi né negativi, ma semplicemente si verificano. Oggi, nell’epoca della genomica, siamo in grado di vedere in quali punti del genoma ha avuto luogo una selezione, ed esistono mutazioni specifiche per alcune popolazioni che indicano la selezione positiva di determinati geni in conseguenza di un adattamento all’ambiente locale. La pigmentazione, alcuni tipi di alimentazione, la resistenza alle malattie (come la malaria) e altri tratti sono adattamenti locali dimostrabili, che hanno permesso all’uomo di colonizzare il mondo. L’adattazionismo è un errore, perché in molti casi dà luogo a congetture non verificabili ma allettanti, dal momento che a livello superficiale sembrano plausibili: i neri sono bravi velocisti per via della selezione avvenuta all’epoca dello schiavismo, gli ebrei sono dotati dal punto di vista intellettuale perché la loro storia di persecuzioni ne ha potenziato i geni associati all’intelligenza.
Le prove a favore di una selezione di questo genere sono scarse. Non è allora più prudente, dal punto di vista scientifico, limitarsi a ipotizzare che una cultura che accorda grande importanza allo studio avrà maggiori probabilità di produrre studiosi? L’attribuzione di un immenso valore intellettuale ai tradizionali studi talmudici portati avanti nelle yeshivot risale al Medioevo, continua ancora oggi e probabilmente non ha eguali. E, proprio come nel caso delle società che promuovono la corsa sulla lunga distanza quale mezzo per raggiungere il successo economico e culturale, i grandi «arrivati» vengono seguiti da una moltitudine di aspiranti tali.
Pur essendo in teoria una caratteristica positiva, la promozione del successo intellettuale e commerciale, tipica della storia evolutiva ebraica, è una componente significativa dei classici e duraturi luoghi comuni antisemiti. Ma è costellata di cliché privi di qualunque fondamento storico. Uno degli stereotipi più comuni è quello dell’ebreo usuraio, anche a causa di Shylock, il personaggio shakespeariano. In realtà il prestito di denaro in cambio di interesse rappresentò per gli ebrei europei un’attività assai limitata nello spazio e nel tempo, che venne in gran parte abbandonata alla fine del XV secolo. Tuttavia, le speculazioni scientifiche di Cochran et al. implicano che sia stato l’acume affaristico e finanziario a determinare l’evoluzione del cervello degli ebrei.
Feroci manifestazioni di antisemitismo diventano sempre più comuni a livello pubblico. Nel 2019 la stampa europea ha riportato ovunque notizie di tombe ebraiche dissacrate e di graffiti a forma di svastica. Nel 2018 i suprematisti bianchi di Charlottesville hanno marciato ripetendo: «Gli ebrei non ci sostituiranno». Oggi, in Gran Bretagna, l’antisemitismo infesta l’ambiente politico, concentrandosi in particolare nell’ala sinistra del Labour Party, uno dei due partiti principali. Nel febbraio 2019, sette membri del Parlamento si sono dimessi dal loro schieramento, soprattutto a causa dei mancati provvedimenti contro l’antisemitismo dilagante nelle sue file. Questo sembra essere il problema cruciale degli attuali laburisti. L’antisemitismo è una delle poche forme di intolleranza razziale rivolte verso l’alto, contro il potere percepito, ed è questo che in parte ne alimenta la persistenza all’interno del pensiero della sinistra. Al di là di dinamiche politiche tanto grottesche, gli stereotipi antisemiti sono imperniati su un’idea di potere, ricchezza, avidità e influenza ebraici sproporzionati, soprattutto nei media, nel commercio e nella politica. Parlare di fondamenta evolutive alla base dei traguardi intellettuali di questo gruppo non fa che alimentare l’antica e sistematica percezione degli ebrei come un insieme separato, diverso e potente. La teoria che i loro spropositati successi siano dovuti a un fattore innato, legato all’evoluzione, può essere usata per arrivare a differenziare un intero popolo facendone un nemico. E descrivere tale caratteristica come un tratto che si accompagna a una maledizione di disturbi genetici non è scienza, ma fantascienza.
Genetica, razza, intelligenza: legando fra loro questi tre concetti non si ottengono risposte soddisfacenti. Né essi si sovrappongono in maniera significativa: la variabilità genetica dei popoli non coincide con le descrizioni tradizionali delle razze; la media dei risultati dei test sul QI varia moltissimo a seconda delle popolazioni, dei paesi e dei continenti, ma è difficile dare una spiegazione genetica di queste differenze; l’intelligenza è ereditaria, ma comprendiamo ancora troppo poco la genetica alla base delle performance cognitive. Esistono differenze genetiche fra le popolazioni e siamo in grado di misurarle, ma non sappiamo che cosa comportino. Stando agli studi condotti finora, la natura di tali differenze è da ricondurre alle storie ancestrali, più che a fenotipi specifici.
Qui non si tratta di sensibilità liberali, ma di cosa rivelano i dati allo scrutinio scientifico. La scienza è sempre provvisoria e soggetta a revisione dopo ogni nuova scoperta. Forse, in futuro, gli strumenti genomici sempre più precisi che stiamo ideando porteranno alla luce nuovi pattern, ma è assai improbabile che la nostra attuale comprensione del rapporto fra razza, genetica e intelligenza possa subire una revisione radicale.
Sembrerà strano che un genetista voglia sminuire l’importanza dei geni, ma il fatto è che gli esseri umani, in quanto esseri sociali, hanno trasferito buona parte dei loro comportamenti dal piano fisico a quello culturale, e in nessun campo questo è più evidente che nell’intelligenza. Non c’è alcuna verità segreta che attende di essere svelata, nessuna grande cospirazione del silenzio da parte dei genetisti. Le persone nascono diverse, con diverse capacità e diversi potenziali innati. Il modo in cui tali capacità si aggregano all’interno delle popolazioni e fra di esse non è facilmente spiegabile mediante la biologia fondamentale e la genetica. Anzi, scavando nei dati al meglio delle nostre possibilità, scopriamo che le risposte non sono nel DNA, ma nella cultura.