1. La pelle in gioco

Di tutti gli indicatori razziali impiegati dagli esseri umani, la pelle è il più evidente: cominciamo dunque con il colore. Siamo una specie molto visiva e la pigmentazione è il primo e principale segno al quale ci affidiamo per categorizzare gli altri. Tolto l’effetto marginale dei raggi solari, il colore della pelle è determinato dai geni.

I geni codificano le proteine; queste mettono in moto la nostra biologia, vale a dire che tutta la vita è costituita di o da proteine. I capelli sono fatti di cheratina, che è una proteina, così come lo è la melanina, da cui dipende il colore della pelle. E anche se condividiamo tutti lo stesso set di geni, essi sono uguali e al contempo diversi. Differenze minori nella sequenza di un gene di due persone corrisponderanno a proteine leggermente diverse, ed è questo che determina le differenze biologiche fra gli esseri umani: modi diversi di scrivere i circa 20000 geni che tutti condividiamo.

Siamo certi di aver compreso le fondamenta della genetica, ma correlare il codice genetico di base alla forma e alla funzione di una proteina è complicato. Con il progressivo aumento delle scoperte nella nostra epoca genomica, non è mai semplice, anzi, è quasi impossibile prevedere la manifestazione fisica del gene nel quale è codificata, cioè individuare il fenotipo dal genotipo. Nel XIX secolo lo scienziato Gregor Mendel incrociò migliaia di piante di pisello e ne dedusse che i tratti vengono trasmessi di generazione in generazione secondo modelli discreti che seguono regole rigide. In seguito alla riscoperta del suo lavoro, all’inizio del XX secolo il concetto di «gene» venne definito come l’unità dell’ereditarietà; una porzione discreta di informazione ereditabile. In effetti, benché in ambito scientifico sia stata fissata soltanto nel XX secolo, tale nozione risale a molti anni prima. La più antica descrizione di una malattia genetica si trova nel Talmud, in un decreto rabbinico che esenta alcuni bambini dalla circoncisione nei primi giorni di vita nel caso in cui altri uomini della famiglia siano morti dissanguati nel corso della procedura, cioè abbiano sofferto di quella che oggi conosciamo come emofilia. Questo modello di ereditarietà, proprio come la forma o il colore delle piante di pisello di Mendel duemila anni dopo, si basa su principi innegabilmente corretti che chiamiamo «leggi di Mendel».

Il quadro dell’ereditarietà genetica si è però rivelato ben più complesso negli umani che nei piselli. Negli ultimi vent’anni, i vecchi schemi semplicistici che descrivevano il legame tra un gene specifico e una particolare caratteristica sono venuti meno. La cosa non stupisce se pensiamo a tratti umani complessi, come l’intelligenza, o malattie come la schizofrenia, nel cui sviluppo, si è scoperto, decine e a volte centinaia di geni ricoprono un ruolo minore ma cumulativo. Questo lo sappiamo da alcuni anni. I genomi sono ecosistemi complessi e dinamici, all’interno dei quali i geni hanno vari compiti nel corpo, a seconda di dove e quando sono coinvolti. Un gene coinvolto nella crescita di un embrione subito dopo il concepimento potrebbe svolgere un ruolo molto diverso in seguito, o anche non svolgerne più. Un gene può anche avere ruoli multipli, un fenomeno noto come pleiotropia. Un altro fenomeno, l’epistasi, fa sì che l’impatto di un gene dipenda dagli altri; i suoi effetti possono essere positivi o negativi, e verificarsi a livello reticolare tra geni del tutto diversi, o anche tra le due copie dei geni presenti in ognuno di noi, ciascuna ereditata da un genitore. I geni fanno molte cose in molti modi e, anche studiandoli per una vita intera, si continueranno a scoprire nuovi funzionamenti del genoma umano. Il codice genetico è rimasto fermo per miliardi di anni, ma l’evoluzione ci traffica da sempre per creare la vita.

Gli esempi da manuale che utilizziamo per illustrare i principi essenziali dell’ereditarietà biologica spesso sono incentrati sulla pigmentazione, per esempio il colore degli occhi, ma in verità non sono affatto semplici come li insegniamo. A scuola si impara che gli occhi blu e quelli marroni sono codificati da diverse versioni dello stesso gene (definite alleli; l’allele marrone è dominante rispetto al blu, dunque per avere gli occhi blu si deve ereditare un allele blu da entrambi i genitori, mentre la presenza di uno o due alleli marroni si tradurrà in occhi marroni). Questo è più o meno vero, ma la cosa è complicata dal fatto che esiste un gene legato alla pigmentazione verde, ed è stato dimostrato che almeno una dozzina di altri geni contribuisce alla colorazione dell’iride. Il risultato di questa rete è che, al contrario di quanto apprendiamo a scuola, un bambino può avere occhi di qualunque colore, a prescindere dalla combinazione del colore di occhi dei suoi genitori.

Un altro esempio centrale a sostegno del modello semplice di Mendel sull’ereditarietà era l’MC1R, un gene coinvolto in tutta la pigmentazione, ma in particolare in un tratto molto visibile, cioè il colore dei capelli. L’MC1R ha numerose varianti, ma all’incirca diciassette di esse modificano il comportamento della proteina che vi è codificata, la quale produce così un tipo specifico e non comune del pigmento melanina. Chi ha due copie di una di queste varianti ha i capelli rossi. In tal senso, la colorazione rossa è un classico tratto recessivo: ce l’avrà soltanto chi possiede due alleli rossi di MC1R.

Questo dicevano i manuali fino al dicembre 2018, quando uno studio genetico ad ampio raggio ha rivelato che le varianti rosse nell’MC1R sono responsabili del 70% circa degli individui con capelli rossi e che, nella maggioranza dei casi, chi presenta due varianti teoricamente rosse ha in realtà i capelli castani o biondi. Sembra che quasi duecento geni influenzino in qualche modo il colore dei capelli, pari all’1% circa del numero totale di geni presenti nel genoma umano. Un simile risultato si poteva ottenere soltanto disponendo degli immensi dataset attuali: gli autori dello studio hanno esaminato 350000 persone per scoprire che il modello dei capelli rossi, un tempo elementare, è in realtà fin troppo complesso.

Nel corso della breve storia della genetica ci siamo aggrappati a modelli semplici che spiegavano tratti altrettanto semplici all’apparenza, come il colore degli occhi e dei capelli. Ma anche considerando soltanto gli occhi, vi si ritrova un’intera gamma cromatica, che va dall’azzurro più chiaro a un colore quasi nero, per non parlare della mescolanza di colori in una sola iride, delle macchioline di sfumature diverse e dell’eterocromia vera e propria, quando negli occhi sono presenti settori ben definiti di colori diversi, o, in alcuni casi, un colore diverso per occhio.1 Non è facile categorizzare gli esseri umani secondo tratti che sono semplici soltanto all’apparenza e dipendono da una genetica davvero complicata.

Lo stesso vale per il colore della pelle. Una proteina chiamata melanina è il pigmento principale della pelle e ha una funzione protettiva. Oltre un milione di anni fa, spostandosi dalla giungla agli spazi aperti della savana, i nostri antenati in Africa cominciarono a perdere il pelo. Una fitta coltre di peluria tiene caldo, e l’evoluzione fornì loro nuove strategie per mantenersi freschi, come una sudorazione migliore e la perdita della maggior parte dei peli corporei. L’esposizione improvvisa della pelle, però, accresce il rischio sviluppare una carenza di acido folico, una delle vitamine fondamentali per l’organismo, che viene distrutta dai raggi ultravioletti. Da questa mancanza deriva una serie di gravi disturbi, come l’anemia e problemi alla spina dorsale durante lo sviluppo del feto. Si tratta di pressioni evolutive non da poco, e la pelle ha reagito, adattandosi.

Cellule specializzate nello strato inferiore dell’epidermide, dette melanociti, producono la melanina e la depositano in piccoli sacchetti, i melanosomi, i quali migrano verso la luce posizionandosi al di sopra delle altre cellule della pelle. Così facendo assorbono e bloccano i raggi ultravioletti prima che riescano a esaurire i livelli di acido folico presenti nelle cellule sottostanti. Se avete la pelle chiara, avete una quantità inferiore di melanina, dunque una ridotta capacità di assorbire i raggi in questo modo; se potessi darvi solo un consiglio per il futuro, vi direi di cospargervi di crema solare.

Questi principi fondamentali sono ormai noti, ma il quadro è complicato dal fatto che esistono diversi tipi di melanina, la cui produzione varia a seconda della posizione della cellula nel corpo. La feomelanina è la variante più rosa, presente nei capelli rossi, nei capezzoli, nel pene e nella vagina. L’eumelanina è più comune e si trova nella pelle, nell’iride e nella maggior parte dei colori di capelli. Molti geni sono coinvolti nei percorsi biochimici che sfociano nella produzione di melanina, e la variabilità naturale dei geni fra le persone è la causa principale dell’ampia gamma di tonalità della pelle degli esseri umani. I melanosomi variano di dimensione e numero fra e all’interno delle persone e questo influenza anche la pigmentazione visibile. Proprio come nel caso del colore degli occhi e dei capelli e di buona parte delle altre caratteristiche umane, la genetica della pigmentazione è complessa, disorientante, molto variabile e per il momento compresa soltanto in parte.

Non sorprende per nulla che – con una popolazione di oltre 1,2 miliardi di individui distribuiti fra cinquantaquattro paesi – il colore della pelle degli abitanti del continente africano componga un arazzo composito, che si interseca con quello degli indiani e degli aborigeni australiani, dei sudamericani e di alcuni europei. Eppure ci riferiamo agli africani come ai «neri». Sulla tavola dei colori, la pigmentazione di uno scozzese rosso di capelli e dalla pelle chiara è ben lontana da quella di un tipico spagnolo, ma li consideriamo entrambi bianchi. La stessa variabilità si riscontra nel colore della pelle di più di un miliardo di orientali, ma di solito oggi non si accenna affatto al loro colore. Pur essendo stato un elemento essenziale nella descrizione degli orientali per diversi secoli, durante lo sviluppo del razzismo scientifico, l’aggettivo «giallo» non è più usato in tal senso, e in generale lo si riconosce come del tutto inaccurato e razzista. Al suo posto, gli indicatori di razza principali per questi individui sono l’epicanto della palpebra superiore – presente anche nei berberi, negli inuit, nei finlandesi, negli scandinavi, nei polacchi, nelle popolazioni indigene americane e nelle persone affette da sindrome di Down – e i capelli neri, spessi e lisci. I confini tassonomici delle categorie razziali tradizionali mancano dunque di coerenza.

Nel corso dei secoli, con lo sviluppo della scienza, il procedimento tramite il quale applichiamo principi tassonomici agli esseri umani è andato sempre più perfezionandosi. Un giorno, le origini e le diversità umane troveranno un’unica spiegazione scientifica nella genetica, ma da sempre vengono studiate insieme, almeno fin dal XVII secolo, quando si assistette al primo dei numerosi tentativi di stabilire cosa fosse una razza e quante razze esistessero. Nelle discussioni sulla storia della classificazione umana, è importante essere consapevoli della cultura che ha prodotto simili descrizioni. E anche se molte di queste oggi sono sgradevoli e poco scientifiche, possiamo limitarci a definirle razziste, invece di condannarle necessariamente in quanto tali.

Nella storia antica si trovano moltissimi riferimenti al colore della pelle, in particolare nelle testimonianze rimaste dall’antico Egitto; la vasta geografia del paese, sulle rive dell’immenso fiume Nilo, si sviluppa dal Mediterraneo a nord fino all’odierno Sudan a sud e racchiude in sé un’ampia gamma di tonalità epidermiche a seconda della vicinanza all’equatore. Non vi sono molte prove di una struttura di classe o sociale legata al colore della pelle nell’antico Egitto, ma le opere d’arte ne attestano le diverse tonalità.

Le città stato greche e il loro successivo impero si estesero, per lo più via mare, in tutte le direzioni. I greci avevano coniato molti termini in riferimento all’identità, all’etnia e alla nazionalità: ethnos, ethos, genos e così via. E nella letteratura compaiono numerosi riferimenti alle gradazioni e ai colori della pelle, anche se tradurli non è sempre facile. La civiltà greca si espanse oltre i suoi confini da est fino all’interno dell’Africa. I primi accenni all’Etiopia si trovano nell’Iliade e nell’Odissea, e lo stesso nome di questa terra deriva dall’unione di aithos e ops: «bruciato» e «volto». Nell’Iliade i capelli di Achille sono descritti con l’aggettivo xanthos, che può significare biondo, castano o perfino rossastro. Come capita con tutte le lingue, non necessariamente le parole antiche corrispondono in maniera univoca a quelle moderne. E talvolta gli stessi aggettivi vengono utilizzati per descrivere il temperamento, oltre che l’aspetto fisico: ancora oggi, per esempio, «bionda» può acquisire un senso dispregiativo e indicare una donna sciocca o sbadata; «bruno» è tradotto in alcuni dizionari con «cupo, misterioso», oltre che «scuro». Odisseo a volte è definito xanthos, ma anche «scuro di pelle», e la traduzione inglese di Emily Wilson dell’Odissea lo presenta come tanned, «abbronzato». Dopo tutto, era un uomo complicato.

Forse, per la maggior parte di noi che non ha seguito studi classici, è naturale presumere che gli antichi greci fossero bianchi per via dalle loro statue di marmo immacolato, che in verità, in origine, erano dipinte con colori accesi. Al contrario, quasi tutte le antiche raffigurazioni su ceramica sono nere, ma nessuno dà per scontato che i greci avessero la pelle scura.

Anche Roma dominava un immenso territorio intercontinentale, ai tempi della repubblica così come dell’impero. Pur riducendo in schiavitù popoli del nord come del sud, faceva in modo di integrare nella propria società stranieri liberi. È ormai assodato che nella Gran Bretagna romana vivessero individui provenienti dall’Africa o dal Medio Oriente. Non è facile stabilire quanti fossero, anche a causa della grande diversificazione all’interno dell’Impero romano e del fatto che i termini allora usati per descrivere la pigmentazione appaiono poco pregnanti e confusi. Nondimeno, vi sono testimonianze scritte e archeologiche inequivocabili. Quinto Urbico, il governatore romano della Britannia vissuto nel II secolo, era nato in Numidia, l’odierna Algeria. A South Shields, una pietra tombale risalente allo stesso periodo attesta la morte di una donna di nome Regina, vissuta nella periferia di Londra: era una liberta che aveva sposato un certo Barate, proveniente da Palmira, in Siria. Oggi, nell’era della genomica, possiamo servirci del DNA per identificare la presenza di eventuali commistioni fra i diversi gruppi del passato, ma, per il momento, sui britannici romani si è trovato ben poco. Questo per vari motivi: l’indagine sui genomi delle ossa romane è ancora limitata ed è possibilissimo che tali geni siano spariti dai genomi contemporanei. Forse i romani non intrattennero molte relazioni di natura sessuale con la gente del posto (quella che in genere chiamiamo appunto «commistione genetica»); nei britannici odierni, del resto, si riscontra una presenza altrettanta scarsa di DNA danese, malgrado i numerosi secoli di predominio nell’area definita Danelaw durante il Medioevo. Tuttavia esistono evidenti indicatori di commistione africana. Nel 2007, in un gruppo (cluster) di uomini bianchi dello Yorkshire, che non avevano alcun legame riconosciuto con l’Africa, vennero scoperti gli stessi cromosomi Y che di solito si trovano in paesi come la Guinea-Bissau: un flusso genico che potrebbe essersi verificato durante la dominazione romana in Britannia.

Non che si voglia raffigurare il passato dell’Europa come un utopico crogiolo di uguaglianza. Tutt’altro: era un’epoca di schiavitù diffusa e di espansione coloniale, durante la quale abbondavano gli stereotipi e i pregiudizi religiosi ed etnici. Tuttavia, i criteri in base ai quali un popolo sottometteva un altro non erano gli stessi di oggi e la pigmentazione non è sempre stata un fattore decisivo nel giudizio sulla personalità o sull’ascendenza degli individui.

Nella letteratura del mondo islamico medievale vi sono pochissimi accenni a una presunta superiorità o a pregiudizi legati al colore della pelle, almeno fino ad Avicenna, filosofo dell’XI secolo, il quale credeva che gli individui esposti ai climi estremi (secondo la prospettiva mediorientale) fossero più adatti alla schiavitù, per via delle differenze di temperamento dovute al territorio in cui vivevano: i pallidi europei erano ignoranti e privi di discernimento, gli africani dalla pelle scura erano invece volubili e incoscienti. Entrambi i popoli, dunque, si prestavano alla dominazione araba, che durò per un periodo di oltre 900 anni, durante i quali vennero ridotti in schiavitù cinque milioni di persone.

L’emergere di un approccio scientifico (o meglio, pseudoscientifico) alla tassonomia umana coincise con l’instaurazione degli imperi europei. Prima dell’espansione dell’Europa nel mondo, le diverse popolazioni venivano caratterizzate in base alla religione o alla lingua, più che al colore della pelle, ma con la nascita e lo sviluppo dell’era della rivoluzione scientifica, la pigmentazione diventò un tratto essenziale dell’indole umana.

Se è vero che alcuni pionieri dell’antropologia avevano a cuore i principi scientifici, il fatto che gli abitanti delle colonie (potenziali o effettive) fossero trattati come «altri» ne permise l’assoggettamento. È molto più facile promuovere l’occupazione e la schiavizzazione di un popolo indigeno se si è convinti che sia diverso, con origini differenti e di valore inferiore ai colonizzatori. Malgrado tale processo di razzializzazione, a partire dal XVII secolo alcune persone adottarono una concezione cristiana, meno divisiva dal punto di vista razziale, che considerava tutti gli esseri umani figli di Adamo ed Eva. Questa tesi, detta «monogenismo», era condivisa da eruditi di primo piano come Robert Boyle e Immanuel Kant. Quest’ultimo elaborò la teoria secondo cui l’umanità aveva un’unica origine, ma dalle condizioni locali erano emerse differenze precise, soprattutto nel colore della pelle.

La teoria opposta, il poligenismo, sosteneva che popolazioni umane distinte si fossero sviluppate nelle rispettive aree di residenza e esibissero comportamenti biologici e culturali differenti a causa dell’evoluzione in condizioni isolate. Tra i fautori del poligenismo si annoverava anche Voltaire. Questa voce del pensiero illuminista era un poligenista convinto, che nel 1769 affermava:

I nostri saggi hanno detto che l’uomo è l’immagine di Dio; ecco una graziosa immagine dell’Essere eterno: un naso nero schiacciato, con poca o nessuna intelligenza! Verrà un tempo, senza dubbio, in cui questi animali sapranno ben coltivare la terra, abbellirla con case e giardini, e conoscere la via degli astri. Occorre tempo per tutto.2

Il naturalista svedese Carlo Linneo elaborò una classificazione tassonomica di tutti gli esseri viventi che viene usata tutt’ora: la suddivisione in generi e specie, nel nostro caso Homo sapiens. Nel 1758, nella decima edizione del suo celebre Systema Naturae, suddivise la specie Homo sapiens in cinque categorie o sottospecie: afer (cioè africano), americanus, asiaticus, europaeus e monstruosus. In questo schema il colore della pelle ricopriva un ruolo significativo, ma bisogna sottolineare che, oltre a descrivere i più evidenti tratti biologici, Linneo applicò alle cinque sottospecie ogni sorta di giudizi di valore razzisti: la categoria afer aveva femmine pigre, scaltre, senza alcun pudore e governate dall’impulso; l’americanus aveva la pelle rossa e i capelli neri e lisci, era zelante, cocciuto e governato dalle tradizioni; gli individui della categoria asiaticus erano severi, altezzosi, avidi e governati dalle opinioni personali. E la sottospecie europaeus? Era costituita da individui gentili, perspicaci, ingegnosi e governati dalle leggi. Quanto a Homo sapiens monstruosus, nella sua descrizione Linneo mescolò leggenda e scienza del tempo, includendovi esseri umani mitologici e piuttosto bizzarri: popoli ferini, ragazzi-lupo e ragazze selvagge, nani della Patagonia e ottentotti con un solo testicolo.

Non tutti dimostrarono un atteggiamento così ostile e razzista nei loro tentativi di categorizzare gli esseri umani e giustificare le gerarchie razziali. Nel XVIII secolo, l’antropologo tedesco Johann Friederich Blumenbach fu uno dei primi ad applicare i principi scientifici alla classificazione dei popoli. Inoltre, suddivise gli esseri umani in cinque gruppi tassonomici ancestrali: i caucasici (cioè gli europei bianchi, gli asiatici occidentali e i nordafricani); gli etiopi (vale a dire i popoli subsahariani); i mongoli, ossia gli asiatici orientali con l’esclusione dei popoli del Sud-est asiatico, categorizzati come malesi; e i nativi americani. Componente essenziale dello schema era la craniometria (fondata sulle misurazioni di sessanta teschi umani), che vi aveva un peso assai maggiore del colore della pelle, anche se alcuni epiteti relativi alla pigmentazione in uso ancora oggi derivano proprio da questa tassonomia: Blumenbach definì infatti le cinque categorie come bianca, nera, marrone, gialla e rossa. Creazionista biblico del tutto particolare, dichiarò poi che Adamo ed Eva erano caucasici bianchi nati in Asia e che da quella zona i loro discendenti erano migrati in tutto il mondo: una teoria poi nota come «ipotesi degenerativa», secondo la quale le razze erano il risultato delle condizioni ambientali, come nel caso della pigmentazione scura degli africani in reazione al sole.3 All’interno del suo modello, Blumenbach ribadiva comunque con chiarezza che le cinque varietà di esseri umani appartenevano tutte a un’unica specie.

È interessante notare come il pensiero dell’antropologo tedesco si avvicini alla moderna interpretazione scientifica della migrazione e dell’evoluzione umane, pur essendo errato in quasi tutti i dettagli. Oggi sappiamo che Homo sapiens in origine era una specie africana, probabilmente panafricana, proveniente senza dubbio dalla Rift Valley a est ma anche dal Nordafrica, dove sono stati rinvenuti i resti più antichi, datati a circa 300000 anni fa. Sappiamo anche che la pelle chiara è il risultato di un adattamento, a seguito di un processo di selezione naturale, all’esposizione a una luce solare meno intensa, in climi settentrionali più nuvolosi. Vale comunque la pena di notare che Blumenbach era più restio di altri a proclamare l’inferiorità degli africani rispetto agli europei bianchi, e dichiarava di non conoscere «alcun popolo cosiddetto selvaggio che si [fosse] distinto per tali esempi di perfettibilità e perfino di capacità culturale scientifica e che, per questo tramite, si [allacciasse] più da vicino ai popoli più colti della terra quanto i Negri».4

Johann Gottfried von Herder, contemporaneo di Blumenbach, in polemica con Kant, sostenne una visione scientifica che appare ancora più moderna: affermava infatti che la classificazione in quattro o cinque gruppi razziali era fallace. Scriveva che «[i] colori si perdono l’uno nell’altro [...]» e considerava la variabilità umana un continuum che «rientra [...] non tanto nella storia sistematica della natura, quanto piuttosto nella storia fisico-geografica dell’umanità».5

Il giudizio di Herder è sorprendentemente in linea con le considerazioni scientifiche odierne sul percorso globale del genere umano.6 La sua voce fu sovrastata dalle tonanti affermazioni di Kant, secondo il quale il colore della pelle era legato per natura all’indole, una conseguenza biologica innata, e dunque costituiva un criterio legittimo per categorizzare e classificare gli esseri umani. Chi aveva la pelle più chiara era superiore a chi aveva la pelle scura.

Kant sosteneva inoltre con assoluta convinzione che tali caratteristiche fossero immutabili. Il colore scuro della pelle africana era definitivo e a esso si accompagnavano la stupidità e una serie di caratteristiche relative. Nella sua Classificazione scientifica del regno animale (1798), il naturalista francese Georges Cuvier, che condivideva la stessa teoria sull’immutabilità dei tratti, suddivise gli esseri umani in tre gruppi: caucasico, mongolo ed etiope. Li dispose in quest’ordine, poiché gli europei erano la categoria più bella e «superiore alle altre per genio, coraggio e attività».

Nel XIX secolo la biologia si stava ormai avvicinando a una vera e propria rivoluzione. La teoria dell’evoluzione e l’abbandono dell’idea di una creazione speciale contribuirono al processo di mutamento della cultura scientifica, finché, nel 1859, l’Origine delle specie di Charles Darwin svelò la verità sulla storia della vita terrestre e sul processo tramite il quale tutti gli esseri viventi, esseri umani compresi, avevano fatto la loro comparsa. Negli anni successivi alla scoperta della selezione naturale, la continuità della vita sulla Terra divenne la teoria dominante, ma la classificazione e la tassonomia rimasero strumenti necessari: la vita è un continuum, tuttavia fra le varie creature esistono confini reali e non negoziabili. Nel 1870 anche Thomas Huxley, amico e principale difensore di Charles Darwin, tentò di classificare la nostra specie e, pur rimanendo fermo al concetto linneano dei «quattro grandi gruppi umani» (dai quali era stato escluso il monstruosus), formulò una suddivisione assai più elaborata, individuando decine di singole popolazioni e cercando di spiegarne le differenze in base a criteri scientifici. Suddivise i diversi popoli in alcuni sottogruppi, i cui nomi per fortuna non si diffusero mai, come gli Xanthochroi (gli individui con la pelle più chiara) e i Melanochroi (gli europei con la pelle più scura e prossimi al Mediterraneo). Benché utilizzasse il gergo tecnico di uno scienziato vittoriano e si affidasse in larga parte alle misurazioni del cranio, Huxley fece affermazioni alquanto imprecise e indecifrabili: «L’altezza di un negro è in media gradevole e il corpo e gli arti sono ben fatti».7 Ma riconobbe anche che tutte queste popolazioni si erano mescolate fra loro, un fatto poi confermato dalla genetica del XXI secolo.

Le cose andarono avanti. Nel XX secolo, l’autorevole antropologo statunitense Carlton Coon descrisse cinque classi di Homo sapiens: caucasoide; mongoloide (che comprendeva tutti gli indigeni delle Americhe e dell’Asia orientale); australoide (cioè gli aborigeni australiani); e due tipi di classe negroide, la capoide e la congoide (gli abitanti dell’Africa meridionale, vicino a Capo di Buona Speranza, e quelli del Congo). La scienza odierna ha respinto simili classificazioni, che tuttavia mantengono una salda presa su alcuni individui di una certa età, i quali mi ci hanno inserito in occasione di un paio di conferenze.

La costante impossibilità di stabilire l’effettivo numero delle razze dimostra l’assurdità del tentativo. Nessuno ha mai concordato sul loro numero preciso, né su quali sarebbero le caratteristiche essenziali delle razze, a parte le solite generalizzazioni indiscriminate sul colore della pelle, sulla consistenza dei capelli e su alcuni tratti del viso. È difficile districare dalla matassa il fondamento razionale, le prove e la giustificazione della moltitudine di teorie predarwiniane sulle origini degli esseri umani.

«Il tempo toglie fascino a ciò che nell’antichità era buono», scriveva il poeta James Russell Lowell. Nei termini della scienza moderna, il linguaggio arcaico usato dagli antropologi del XVIII e XIX secolo non è sempre chiaro: «razza» e «specie» vengono talvolta usate in modo interscambiabile; in certi casi, poi, i testi sembrano avere un orientamento più scientifico, come quelli di Blumenbach, mentre in base ai nostri standard le opinioni di Kant e di Voltaire risultano senza alcun dubbio pericolosamente razziste. Tutte queste idee vanno considerate nel quadro del contesto culturale e temporale in cui furono elaborate. Sono opere di uomini europei, entrati in contatto con le popolazioni del mondo grazie all’espansione delle tratte commerciali, alla colonizzazione e alla costruzione degli imperi, e in molti casi anche alla conquista e alla schiavizzazione di quegli stessi popoli. L’invenzione della razza ebbe luogo in un’epoca di esplorazioni, sfruttamento e razzie, quando gli abitanti delle colonie venivano considerati a tal punto «altri» da finire rinchiusi in veri e propri zoo umani.

Nel 1810 Saartjie Baartman, una donna khoikhoi, venne portata a Londra da Città del Capo ed esibita su un palco a Piccadilly, talvolta al guinzaglio: «La Venere ottentotta, il più grande fenomeno dal cuore dell’Africa». Saartjie («piccola Sara») era il nome olandese che le era stato dato; di quello vero non si sa più nulla. L’appartenenza etnica aveva senza dubbio un peso nella fascinazione generale mostrata nei suoi confronti, ma la donna veniva presentata allo stesso modo di altre «curiosità viventi» del tempo: casi di estrema obesità, magrezza e altezza e altre anomalie fisiche, in quello che oggi definiremmo un freak show.

Dopo quattro anni a Londra e un tour nel Regno Unito, la Baartman fu venduta a un addestratore di animali francese, che la fece esibire al Palais Royal. In Francia visse da vera e propria schiava e venne esaminata da diversi scienziati, compreso lo stesso Georges Cuvier. Il loro interesse era rivolto in particolare a una caratteristica tipica dei popoli khoisan, la cosiddetta steatopigia, che si manifestava in grossi depositi adiposi sul didietro e sui seni della Baartman, come anche nella conformazione delle labbra genitali; queste, benché la cosa non fosse mai stata rivelata pubblicamente, erano soggette a ingrossamento, come talvolta si riscontra, per l’appunto, nelle donne khoikhoi. Sara Baartman morì nel 1815, a ventisei anni, forse di vaiolo o di sifilide. Cuvier eseguì l’autopsia, ma non per stabilire le cause della morte; voleva esaminare ancora una volta le caratteristiche anatomiche fondamentali della donna. Questa triste storia di sfruttamento e vera e propria oggettificazione è una componente essenziale del nascente razzismo scientifico di Cuvier, il quale diede per scontato che il corpo di Sara fosse un esemplare tipico e fisso della categoria etiope da lui individuata, una classe di umani separati per comportamento e storia da altre razze, superiori per natura.

Nel XIX secolo si verificò un graduale allontanamento dal poligenismo. La teoria dell’evoluzione di Darwin era basata sull’idea che l’umanità fosse antichissima e che la Terra avesse milioni di anni, invece dei seimila previsti dal pensiero creazionista. Ciononostante, nella seconda metà del XX secolo, le discussioni scientifiche sulle origini dell’uomo iniziarono a contrapporre la cosiddetta ipotesi «Out of Africa» a quella multiregionale. Homo sapiens si era evoluto in Africa per poi sparpagliarsi in tutto il mondo, oppure un antenato ancora più antico, non ancora sapiens, aveva lasciato il continente molto tempo prima? E le differenze osservabili fra le popolazioni contemporanee si erano evolute lungo linee di discendenza distinte?

Il XX secolo condensò in questa sintesi interessante la questione «monogenismo contro poligenismo», ma va detto che l’ipotesi multiregionale non era l’espressione di un’ideologia razzista, era soltanto errata. Negli anni novanta del secolo scorso, infatti, il ritrovamento di una vera e propria catacomba piena di antichi fossili umani nell’area della Rift Valley fece trionfare definitivamente l’ipotesi «Out of Africa». Il modello dell’espansione mondiale di Homo sapiens poteva ormai contare sulle origini africane di quest’ultimo. Oggi è un fatto universalmente accettato, ma moltissimi dettagli devono ancora venire alla luce.8 Come abbiamo detto, i membri più antichi della nostra specie (per quanto in versioni più arcaiche) vivevano nell’odierno Marocco, non nell’Africa orientale, e tutti i dati indicano chiaramente che circa 70000 anni fa ebbe inizio una dispersione dall’Africa.

L’antica preistoria della nostra specie è di fondamentale importanza per la storia della tassonomia razziale. All’inizio del XX secolo, le scienze antropologiche avevano cominciato a mescolarsi con le nuove tecniche biochimiche, imboccando una traiettoria che sarebbe poi giunta a pieno compimento con la genetica del XXI secolo. La biologia delle differenze stava per diventare una scienza molecolare, e tutto partì dal sangue.

L’idea che il sangue sia il portatore dell’eredità genetica non è certo nuova. Parliamo di linee di sangue e di sangue puro, ma «DNA» e «geni» sono ormai termini equivalenti nelle descrizioni colloquiali del patrimonio ereditario. Anche negli studi del XX secolo sulla categorizzazione umana il sangue aveva un ruolo importante. La suddivisione dei gruppi sanguigni tramite il sistema AB0 venne introdotta proprio all’inizio del Novecento. I vari gruppi corrispondono ad alleli leggermente differenti del gene AB0, e fu appunto allora che questo tipo di differenza genetica venne descritta per la prima volta. Nel 1919, Ludwik e Hanka Hirschfeld esaminarono sedici diversi gruppi di soldati per vedere se il gruppo sanguigno variasse a seconda della nazionalità (compresa quella ebraica). Scoprirono che i gruppi A e B comparivano riuniti in cluster in tutto il mondo. Da qui i due scienziati svilupparono la loro teoria dell’esistenza di due antiche razze umane in seguito mescolatesi l’una con l’altra, il che spiegava come mai si trovassero gruppi sanguigni simili in aree molto distanti. In realtà, il sistema AB0 è presente anche nei gibboni e nelle scimmie del Vecchio mondo e precede le linee di discendenza ominidi. I fratelli Hirschfeld, però, non riuscirono a nascondere i propri pregiudizi nell’elaborazione di quei test: «Bastò dire agli inglesi che avevamo obiettivi scientifici», scrisse Ludwik Hirschfeld nella sua autobiografia.

Ci prendemmo la libertà di ingannare i nostri amici francesi dicendo loro che saremmo stati in grado di scoprire con chi potevano peccare impunemente. [Quando] dicemmo ai negri che gli esami del sangue avrebbero rivelato chi meritava un congedo, ci allungarono subito davanti la mano nera, di loro spontanea volontà.

Anche il classico e spesso citato studio di Richard Lewontin sulla diversità genetica impiegava il sangue per verificare il concetto di «razza». Nell’articolo del 1972 intitolato The Apportionment of Human Diversity, Lewontin rivelò che la stragrande maggioranza (l’85%) delle differenze genetiche si trovava all’interno delle razze classiche, non fra di esse, e che a queste ultime ne andava ascritto soltanto il 6%. In seguito, il risultato è stato messo in discussione più volte, ma in generale rimane corretto. La critica principale è stata formalizzata nel 2003 da Anthony Edwards come «fallacia di Lewontin». Il matematico e biologo britannico faceva notare che, aggregando polimorfismi multipli su tutto il genoma, è possibile predire con accuratezza da quale popolazione proviene un individuo. Entrambi i risultati sono veri; tutto dipende dai livelli di dettaglio e di risoluzione considerati.

Così, a mano a mano che la lettura dei genomi progrediva e che le nuove conoscenze venivano applicate a un numero sempre maggiore di essi, fu possibile ottenere immagini a risoluzione sempre più elevata delle differenze fra i popoli. Uno dei grandi studi del XXI secolo sulla genetica della popolazione umana fu pubblicato nel 2002, agli albori della rivoluzione genomica. A quel punto, avendo a disposizione i genomi di diversi individui provenienti da tutto il mondo, fu possibile esaminarli tutti per tentare di capire quanto fossero simili. La tecnica consiste nell’identificare singole differenze nelle lettere del DNA fra individui considerati rappresentativi di una popolazione, per poi chiedere a un software di raggrupparle, creando una sorta di mappa delle somiglianze. Noah Rosenberg e il suo gruppo di ricerca hanno analizzato 1056 individui provenienti da cinquantadue aree geografiche, esaminando 377 regioni del genoma nelle quali si sa che il DNA varia tra le persone.9 Il passo successivo, come si diceva, prevede di chiedere al computer di riunire le variabili in un numero fisso di gruppi (cluster). Se si comincia con due, il computer identifica un gruppo di umani come africani ed eurasiatici e l’altro come asiatici orientali, indigeni americani e australiani. Partendo da tre, l’Africa va a costituirne uno a sé. Con cinque, anche gli indigeni australiani formano un gruppo distinto: si avranno così africani, europei (compresi gli asiatici occidentali), asiatici orientali, indigeni americani e aborigeni australiani.

Questo risultato è notevolmente simile alle classiche tassonomie razziali dell’epoca del razzismo scientifico. Significa forse che, in fin dei conti, quelle suddivisioni erano corrette? In effetti, no. Questo tipo di analisi mette in luce somiglianze generali fra le popolazioni: evidenzia la suddivisione geografica fra i continenti, che non costituiscono barriere insormontabili per la riproduzione, ma nasconde l’ibridazione; e riflette la storia evolutiva e la migrazione. I dati indicano inoltre che fra i vari cluster esistono lunghi e visibili gradienti evolutivi, dunque è impossibile stabilire in maniera esatta dove finisca un cluster e ne cominci un altro. Invece di confini netti fra le popolazioni, lo studio rivela una continuità fra gli individui. Come aveva già suggerito Johann Gottfried von Herder, la variabilità umana non si piega all’imposizione di una tassonomia artificiale, ma è piuttosto il riflesso della storia.

Spesso i razzisti si rifanno all’articolo di Rosenberg per affermare – a torto – che esistono davvero cinque razze geneticamente distinte. In realtà non è affatto così e lo si evince chiaramente dai dati: se i cluster di partenza sono fissati a due, l’Africa, l’Europa e l’Asia occidentale vengono riunite in un unico insieme, e il resto del mondo ne costituisce un altro. Non vi è poi alcun motivo di limitare a cinque i cluster definitivi di classificazione: decidere di farlo perché corrispondono a una categorizzazione precedente e già confutata significa soltanto riaffermare pregiudizi già esistenti. Aumentando il numero dei cluster a sei, il gruppo successivo che emerge è quello dei kalasha. Si tratta di una tribù del Pakistan settentrionale, composta da circa 4000 persone, che si sposano quasi esclusivamente con gli appartenenti alla loro etnia e vivono nascosti e relativamente isolati fra le montagne dell’Hindu Kush. Benché rappresentino un gruppo in qualche modo distinto dal punto di vista genetico, neppure il più accanito dei razzisti potrebbe considerarli la sesta razza umana.

Bisogna tener presente che tutti questi studi si affidano ad analisi statistiche complesse svolte su basi di dati in continua crescita, e che si fondano sui genotipi, non sui fenotipi. Vale a dire che, anche se le differenze e le somiglianze di DNA sono utili indicatori della popolazione nella quale sono state campionate, non per forza corrispondono alle categorie di razza tradizionali così come sono definite in prima battuta dalla pigmentazione. Questo tipo di analisi è assolutamente valido e rappresenta la base di ogni studio della storia umana, della migrazione e della variabilità genetica fra le popolazioni e gli individui. Potremmo anche continuare ad aumentare il numero di gruppi per trovare somiglianze e sovrapposizioni ancora più precise. Nel 2015, con l’applicazione di una mappatura genetica a maggiore risoluzione agli abitanti della sola Gran Bretagna, è stato possibile distinguere le famiglie residenti nel Devon da diverse generazioni dagli abitanti della Cornovaglia e, quando quelle precise differenze sono state riportate su una cartina, si è scoperto che il confine corrispondeva al fiume Tamar, che in effetti è la linea di divisione fra le due contee da secoli. Nel 2019 è stata applicata la stessa tecnica alla Penisola iberica, e dai risultati sono emersi blocchi di somiglianze disposti a strisce verticali: a causa della storia del paese, le somiglianze fra gli abitanti della Spagna sono leggermente ma nettamente superiori sull’asse che si estende da nord a sud che su quello che va da est a ovest. Si tratta di differenze presenti anche a livello funzionale? Certo che no; semplicemente, siamo ormai diventati così bravi a identificare le storie genetiche delle popolazioni da riuscire a cogliere anche le più sottili e vaghe tracce di somiglianza e differenza. Alla fine potremmo persino arrivare a identificare sette miliardi di gruppi individuali, visto che ogni genoma umano è unico.

Tutti, in quanto esseri umani, soffriamo di una sindrome che Richard Dawkins ha definito «la tirannia della mente discontinua»: desideriamo categorizzare tutto e fatichiamo a riconoscere la continuità. Tentiamo di infilare le cose in caselle distinte, definendole in base a quello che sono, più che a quello che fanno. In ambito scientifico questo è un problema, ed è legato alla classificazione linneana, alla quale i biologi continuano ad aggrapparsi. Linneo aveva in mente un sistema che rifletteva le forme platoniche integre di ogni oggetto del creato (rocce comprese: proprio dalla sua tassonomia deriva la suddivisione in animale, vegetale e minerale, che, pur avendoci permesso di giocare a Venti domande nei lunghi viaggi in macchina, non è un buon modo di classificare la natura). Secondo il pensiero corrente, all’epoca dell’espansione coloniale e più tardi, durante l’Illuminismo, la creazione biblica era soprattutto la storia degli esseri umani, e la categorizzazione delle popolazioni del mondo derivava da modelli basati sull’unica origine, o la degenerazione, di quel prototipo umano creato a immagine di Dio. E anche se i monogenisti riconoscevano l’esistenza di una prima forma di adattamento regionale e il concetto di evoluzione era ormai nell’aria, soltanto il meccanismo della selezione naturale descritto da Darwin nel 1859, e poi da lui applicato agli esseri umani nell’Origine dell’uomo (1871), permise infine di spiegarne la storia naturale. Nella moderna epoca genomica, i dati a nostra disposizione continueranno a evidenziare non tanto una classificazione discreta, quanto la storia immensamente complessa della vita umana sulla Terra, avvenuta nel corso di centinaia di migliaia di anni di preistoria, seguiti da qualche migliaio di anni di storia.

Oggi sappiamo che la prospettiva storica monogenista è corretta in linea di principio, ma errata nei dettagli. Homo sapiens ebbe origine in Africa. A partire da 210000 anni fa si verificarono alcune migrazioni dall’Africa all’Eurasia, che poi cessarono; a quanto ne sappiamo, negli esseri umani attualmente viventi non resta alcuna traccia genetica di quei migranti.10 L’emigrazione principale dalla nostra africana terra natia ebbe luogo circa 70000 anni fa; quegli individui, che forse ammontavano a poche migliaia, diedero vita alla popolazione dalla quale sarebbe nato gran parte del resto del mondo. Lo si riscontra in maniera evidente nelle ossa dei nostri antenati e nei nostri genomi. Mettiamo subito in chiaro, però, che il processo seguì strade tortuose e si svolse in un ampio lasso di tempo. L’uscita dall’Africa non fu un «evento» come lo pensiamo noi, né una migrazione secondo i termini moderni. Richiese migliaia, se non decine di migliaia di anni; esistono poi dati genetici che attestano anche una contromigrazione avvenuta nelle ultime migliaia di anni. Quindi, se è vero che una popolazione si stabilì in un luogo in precedenza disabitato, ciò non significa che i cancelli alle sue spalle si chiusero per sempre. Perché non era partita per conquistare una terra promessa: stava soltanto vagando una generazione dopo l’altra (più o meno), allontanandosi dal continente africano.

Questa è l’idea di fondo: tutti gli esseri umani condividono quasi per intero il loro DNA, un fatto che rivela le nostre recenti origini africane. Le differenze genetiche, per quanto minime, spiegano buona parte delle variazioni fisiche visibili o accertabili (ma non tutte). La diaspora che partì dall’Africa 70000 anni fa e il costante processo di migrazione e rimescolamento che allora ebbe inizio, fanno sì che possiamo individuare l’esistenza di una struttura nei genomi alla base della nostra biologia fondamentale. A grandi linee, tale struttura corrisponde alle masse continentali, ma in questi gruppi esiste un’enorme variabilità, che sia all’interno sia ai margini è continua. Nessuno dei numerosi tentativi compiuti nel corso dei secoli per distinguere gli esseri umani in razze distinte ha avuto successo. La genetica si rifiuta di conformarsi a simili categorie artificiali e superficiali. Il colore della pelle, pur essendo la differenza più evidente, è un pessimo indicatore dell’insieme totale delle somiglianze o delle differenze ravvisabili fra gli individui e fra le popolazioni. Le differenze razziali sono soltanto superficiali.

L’epoca in cui ci muoviamo negli studi di oggi è quella del DNA antico: possiamo estrarre frammenti di genomi dai denti e dalle ossa di creature defunte da tempo, e perfino dalla terra sulla quale sono morte. La prima grande notizia di questo nuovo vecchio mondo è stata la resurrezione di Homo neanderthalensis (l’uomo di Neandertal) nel 2009, quando venne riassemblata una parte del genoma di un uomo morto 50000 anni fa in una grotta. Da allora sono stati ricostruiti i mosaici di decine di altri genomi umani morti o estinti, cosa che ha trasformato radicalmente la storia dell’evoluzione umana. Nuovi tipi di esseri umani sono stati identificati a partire dal DNA estratto da ossa che di per sé non consentivano alcuna classificazione. Così oggi è possibile riaggregare pezzi di storie del nostro passato che altrimenti sarebbero andate perdute.

Spesso, i genetisti che indagano sull’avvento del genere umano si concentrano sui cambiamenti cui sono andate incontro le sequenze di DNA nel corso del tempo e nello spazio, prestando minore attenzione al fenotipo che avrebbe potuto emergere da quel genotipo; un po’ come studiare una partitura senza riflettere sulla musica che ne risulta. Invece è interessante pensare all’aspetto di quegli antichi uomini e donne. Ed è questo il problema costante della genetica umana: non è affatto semplice estrapolare il fenotipo dal genotipo. Come si è detto, potremmo incontrare due copie di un gene che pensavamo determinasse i capelli rossi, ma la maggioranza delle persone con quel genotipo non avrà i capelli rossi. Abbiamo qualche certezza in più per quanto riguarda la dieta; per esempio, i geni legati alle diete molto ricche di grassi compaiono di solito con maggiore frequenza nelle persone con un’alimentazione a base di pesce o frutti di mare, come gli inuit, dunque è chiaro che questi tratti sono stati selezionati per l’adattamento locale. Così come i geni che permettono di bere il latte si riscontrano negli europei bianchi e in alcuni gruppi di allevatori dediti alla produzione casearia sparsi in giro per il mondo.

Ciononostante, il nostro è un pensiero molto visivo, e tutti vorremmo sapere che aspetto avevano queste persone. Le vecchie ossa possono dirci molto e con un’attenta ricostruzione è possibile dedurre alcune semplici caratteristiche, come la statura e la corporatura, ma anche tratti fisici meno evidenti, come la mano dominante, grazie all’ispessimento delle ossa dovuto al maggiore uso e ai segni su quelle stesse ossa di una muscolatura più pesante. I Neandertal erano robusti, muscolosi e con un torace ampio. Secondo alcuni ricercatori, la prestanza fisica li aiutava a correre velocemente e a tendere agguati durante la caccia; attività adatte alla vita fra i boschi, dov’era necessario saper piazzare trappole o conficcare le lance nei mammut, nei mufloni o nei cinghiali. E i dati genetici potrebbero confermare quest’immagine: alcune ricerche suggeriscono che i Neandertal possedessero varie versioni dei geni che oggi associamo agli scatti di velocità, più che alla resistenza (anche se, come vedremo nel capitolo 3, sull’importanza di questi geni per le capacità sportive si discute ancora molto). Vi sono divergenze di opinioni anche in merito al valore e all’accuratezza delle ricostruzioni facciali e alla loro effettiva somiglianza alle persone da vive; a quanto ne so, non si è mai tentato di verificarli, ricostruendo l’aspetto di una persona viva a partire da un esame del cranio.

Quanto alla pigmentazione, è un ambito ancora più insidioso. I geni responsabili del colore degli occhi sono tantissimi e, a chi volesse sapere com’erano gli occhi di un individuo morto da tempo, la genetica offrirebbe soltanto probabilità, ma nessuna risposta: dal risultato del mio test con 23andMe11 emerge che il 31% delle persone con la mia stessa versione del gene OCA2 ha gli occhi marroni, quindi il 69% non li ha, e che il 13% ha gli occhi blu o verdi. Io ho gli occhi marrone scuro, e lo so perché ho uno specchio; se fra 50000 anni degli alieni dovessero dissotterrarmi ed estrarre il mio DNA, stando a quello che sappiamo oggi, quante possibilità avrebbero di indovinare il vero colore dei miei occhi?

La pelle è un terreno ulteriormente ostico, perché la sua colorazione non è un tratto binario, anche se noi utilizziamo termini binari come «bianco» o «nero». Continuiamo a scoprire che i geni hanno molteplici funzioni, interagendo più volte con altri geni all’interno di complesse vie metaboliche. La prospettiva antropologica tradizionale attribuiva la pelle scura degli individui che vivevano in Africa prima della grande diaspora a un adattamento ai forti raggi solari del continente, mentre la pelle chiara doveva essere una risposta alle latitudini più fredde e nuvolose, come si diceva prima. Secondo la teoria genetica tradizionale, alcuni geni – forse una quindicina – determinano la maggior parte delle differenze di pigmentazione, il che suggerirebbe un’architettura genetica piuttosto semplice. Tuttavia, quest’idea è smentita da alcune osservazioni. Una particolarità dei geni che influenzano la pigmentazione è che, pur recando l’impronta della selezione naturale nell’ampia gamma di colori della pelle alle diverse latitudini, non spiegano in alcun modo le differenze di pigmentazione che osserviamo alla medesima latitudine. Non è affatto detto che tutti gli abitanti dell’equatore abbiano la stessa tonalità scura di pelle. Come non è vero che la pelle degli inuit, degli iñupiat, dei russi, dei finlandesi, degli islandesi e di tutti gli individui che vivono al 66° parallelo nord abbia lo stesso identico colore. È ovvio che oltre alla pigmentazione in risposta alla luce del sole entrano in gioco molti altri fattori.

Possiamo osservare l’effetto di particolari alleli di geni, come il SLC24A5 e l’OCA2 (e qualcun altro), nella pelle chiara dei popoli europei e asiatici, un importante esempio di adattamento che ha occupato una posizione centrale nel nostro pensiero sull’evoluzione della pigmentazione. Come in tanti altri ambiti scientifici, però, fino a pochissimo tempo fa si è ignorato quasi del tutto il continente africano, nel quale si riscontra una diversità genetica maggiore che nel resto del mondo. Questo significa che fra gli stessi africani esistono più differenze genetiche che fra gli africani e qualunque altro abitante del pianeta: a livello genetico, due individui khoisan sono più diversi fra loro che un britannico, un abitante dello Sri Lanka e un maori. Inoltre, in Africa vi sono maggiori differenze di pigmentazione che nel resto del mondo. Soltanto negli ultimi anni i ricercatori hanno cominciato a studiare la genetica della pelle africana, il che ha dell’ironia, considerando che cinque secoli di razzismo si sono basati quasi esclusivamente su questo tratto.

Il quadro che è iniziato a emergere sta davvero scombussolando le cose. Nel 2017, una squadra di ricerca guidata dalla genetista Sarah Tishkoff ha campionato il DNA di oltre 1500 abitanti del Botswana, dell’Etiopia e della Tanzania, calcolando anche i livelli di melanina presenti nella pelle dei loro avambracci. Il confronto ha permesso di associare le differenze genetiche alle tonalità della pelle. La variante più comune era quella del gene SLC24A5, associata soprattutto alla pelle chiara, ma rilevata con grande frequenza anche negli etiopi e negli abitanti della Tanzania. Ovviamente in questi popoli non ha un effetto schiarente, ma sembra che nelle ultime migliaia di anni tale variante sia rientrata in Africa dall’Eurasia, dove è ampiamente diffusa. Lo studio ha portato alla luce ulteriori varianti dei geni conosciuti e regioni del genoma altrimenti inesplorate, alcune delle quali sono associate a una pelle più chiara, altre a una più scura. Questo quadro ci restituisce l’immensa complessità della genetica della pigmentazione, ma ancora più interessante è il fatto che, a quanto pare, le varianti riscontrate sono presenti nelle nostre linee di ascendenza genetica da centinaia di migliaia di anni, vale a dire da prima dell’evoluzione di Homo sapiens. Tupac diceva «più scura la pelle, più profonde le radici», ma temo che non sia così. Oggi sappiamo, anzi, che l’idea di un’originale pigmentazione scura della pelle, precedente alla sua diversificazione nel corso degli spostamenti intorno al globo, è errata. Avevamo gradazioni di colore diverse non soltanto ben prima di uscire dall’Africa, ma anche prima di diventare la specie che siamo oggi.

Alla fine del 2018, tuttavia, è stato pubblicato un altro rapporto sulla complessità della pigmentazione e della storia del genere umano. I khoisan hanno la pelle notevolmente più chiara di tanti altri popoli dell’Africa meridionale, e sono piuttosto diversi sia dal punto di vista genetico, sia in termini di colorazione dell’epidermide, forse in seguito a migliaia di anni di relativa separazione culturale. Ma nessuna popolazione è mai del tutto isolata o statica. Al momento, il grado di risoluzione della genomica in Africa è inferiore a quello di altre parti del mondo; sappiamo però che, nelle ultime migliaia di anni, gli antenati dei khoisan furono interessati in più occasioni da un flusso genico significativo. La prima volta, duemila anni fa, con l’arrivo di allevatori provenienti forse dall’Etiopia o dalle vicine zone orientali; poi durante l’espansione della cultura di lingua bantu, nel Medioevo; e infine, in epoca moderna, tramite le postazioni dei commercianti olandesi a Capo di Buona Speranza. La genetista Brenna Henn ha lavorato a stretto contatto con i khoisan per diversi anni e ha concluso che la loro pelle chiara è associata al gene SLC24A5. La versione più comune presente nei khoisan si trova anche negli europei, e il lavoro di Henn indica che furono le migrazioni verso l’Africa a introdurvelo negli ultimi duemila anni. Il fatto che nei khoisan abbia raggiunto una tale frequenza in così poco tempo è la prova evidente di un’intensa selezione a favore della pelle più chiara; questo riflette la diversità di colorazioni della pelle nel continente africano, ma è anche un segno della commistione genetica avvenuta nelle ultime migliaia di anni con i popoli rientrati in Africa.

La pigmentazione è una questione complessa. Non eccezionalmente complessa, se paragonata ad altri tratti umani, ma è visibile e importante. Non vorrei dare l’impressione che comprendiamo appieno il quadro intricato che sta emergendo riguardo al colore della pelle; intendo soltanto dire che il quadro precedente era decisamente troppo semplicistico. Ci interessa capire – ed è giusto – come, quando e perché il colore è cambiato nel corso del tempo, e gli studi pionieristici di autori come Sarah Tishkoff, Nina Jablonski e Brenna Henn ci aiutano a esplorare le profonde lacune delle nostre conoscenze, anche interagendo con i popoli africani in modi mai sperimentati prima.

Oggi, inoltre, abbiamo accesso al DNA di individui morti da tempo, come si è detto, e possiamo tentare di risolvere gli enigmi relativi a caratteristiche un tempo razzializzate. Si tratta di un’impresa decisamente più difficile con i morti che con i vivi, e per due ragioni. La prima, già menzionata, è che non è mai semplice stabilire il fenotipo a partire dal genotipo: non possiamo misurare la tonalità della pelle di una donna o di un uomo e confrontarla con il DNA, perché quest’ultimo è tutto ciò che rimane. In secondo luogo, i campioni a nostra disposizione sono pochi. La genetica è una scienza comparativa, incoraggiata dalla disponibilità dei genomi di un numero sempre maggiore di persone. Un solo genoma è stracolmo di informazioni, ma due ci dicono molto di più, e con un migliaio sappiamo di avere in mano qualcosa di buono.

Così stanno le cose. Lavoriamo con quello che abbiamo, ed è importante sollevare domande sui fenotipi più evidenti dei nostri antichi antenati, benché non siano indicativi di alcuna presunta categorizzazione o storia razziale. Nel 2016 è stato sequenziato il DNA di un antico britannico, presentato poi al mondo in forma di busto. Era un uomo dal viso gentile con la pelle molto scura, capelli pieni di ricci neri e fitti e occhi blu. L’impressionante ritratto di un britannico vissuto ben prima che i pitti, i romani, i vichinghi, gli angli o i sassoni turbassero le coste dell’Inghilterra. L’articolo scientifico sul quale si basava il modello era molto più cauto e descriveva la pigmentazione dell’uomo con la dovuta moderazione scientifica: «Deduciamo che l’uomo di Cheddar avesse pelle scura o quasi nera, occhi blu/verdi e capelli marrone scuro, forse neri». Dal DNA era emerso che gli mancavano gli alleli associati alla pelle chiara, e nella ricostruzione appare molto scuro, con una colorazione della pelle simile a quella di un uomo del Sudan o dello Sri Lanka. Quando l’immagine è stata resa pubblica, tutti i razzisti del pianeta hanno perso le staffe, abbandonandosi alla furia più cieca. Il fatto che diecimila anni fa in Europa esistessero individui con la pelle scura non è affatto in discussione, dunque poco importano le obiezioni alla semplice presenza dell’uomo di Cheddar in Gran Bretagna: le diversità di pigmentazione in Europa risalgono alla preistoria. Ma la gradazione molto scura della sua pelle è stata una scelta dell’artista che gli ha dato un volto, e qualche genetista ha avuto da ridire.

Dati i diversi geni da cui dipende la pigmentazione, pensiamo che i Neandertal avessero la pelle moderatamente chiara, come anche gli antenati comuni di Homo neanderthalensis e Homo sapiens, vissuti più o meno mezzo milione d’anni fa. Alcuni genomi dei Neandertal indicano che questi uomini e donne possedevano una versione del gene MC1R diversa da qualunque altra mai rilevata negli individui odierni. La stampa ha iniziato a ipotizzare che avessero i capelli rossi, e nei musei di tutto il mondo vedrete modelli di Neandertal rossicci. Simili varianti dell’MC1R non sono mai state osservate prima, e i tentativi biochimici di indurle a produrre un effettivo pigmento in una piastra di Petri non hanno dato risultati. La colorazione che vediamo nelle ricostruzioni televisive e museali dei Neandertal è dunque del tutto ipotetica.

In realtà, azzeccare la risposta giusta è molto difficile. Nel corso della vita la nostra pigmentazione cambia, per fattori intrinseci – i bambini non mantengono lo stesso colore quando diventano adulti – ed estrinseci, cioè l’esposizione al sole, e inoltre il cambiamento della pigmentazione durante la crescita è predisposto da particolari varianti genetiche. Il desiderio di vedere che aspetto avevano i nostri antenati è comunque comprensibile: è importante umanizzare gli uomini preistorici, soprattutto i Neandertal, i quali, ben lungi dall’essere i bruti che vuole la tradizione, erano invece sofisticati, colti, di temperamento artistico e più o meno uguali a noi in termini di modernità comportamentale. E il primo indizio è il colore della pelle.

Dobbiamo essere prudenti. Nel 2017, durante un incontro di genetisti e antropologi, Brenna Henn ha ammonito il pubblico in questo modo: «Smettete di dire che potete dedurre il colore della pelle dal DNA antico, perché non potete». Un messaggio rilevante per gli scienziati che tentano di capire quale aspetto avessero i nostri antenati ancestrali, ma ancora più significativo se si pensa alle analisi forensi condotte su campioni di DNA per individuare il colore della pelle dei criminali. La scienza più aggiornata, che raccoglie geni dai campioni più estesi e diversificati, è chiarissima al riguardo: il DNA è un indicatore straordinariamente imperscrutabile del colore della pelle.

Stiamo cominciando a capire che la nostra antica storia evolutiva è stata molto meno lineare, e ha subìto molte più deviazioni e variazioni di quanto si pensasse. Come sempre avviene nel campo della biologia, i nostri tentativi di assegnare un percorso chiaro e comprensibile alla storia umana sono stati sventati dall’effetto congiunto del disordine, della confusione e del caos inerenti alla nostra stessa evoluzione e da archi di tempo e pattern migratori quasi insondabili. Oggi sappiamo che la pigmentazione costituisce uno spettro variegato, e che così è da centinaia di migliaia di anni.

Grazie a un intero arsenale di armi scientifiche, possiamo anche affermare che, pur essendo la prima e più evidente impressione che abbiamo degli esseri umani, il colore della pelle è una via piuttosto superficiale per arrivare a comprendere la variabilità umana, nonché un pessimo modo di classificare le persone. La nostra visione della realtà, così profondamente limitata, è stata integrata in una menzogna politica intenzionale. Diciamo «nero», ma ciò significa in verità «con recenti origini in un continente che racchiude più diversità genetiche e di pigmentazione di qualunque altra area sul pianeta».

Quella che vediamo con i nostri occhi non è che la frazione infinitesimale di un essere umano. Tendiamo a pensare all’evoluzione come a un albero, con il tronco e i rami che si biforcano in rami più piccoli, unici e distinti, finché non si arriva al ramoscello che contiene l’umanità. Tuttavia, un albero è una metafora davvero limitata delle vastità del comportamento umano e della nostra traiettoria evolutiva. Paragonare l’evoluzione a un albero funziona soltanto se si intende un albero coltivato da noi: potato per stimolarne la crescita; modellato a spalliera, quindi spinto su altri cammini migratori; e intrecciato, costretto a legarsi ad altri rami. Che noi tutti siamo il prodotto non di un solo albero ma di un vero e proprio groviglio potrà non apparire ovvio. Ma è per questo che abbiamo inventato la scienza: per liberarci dai vincoli della percezione e vedere le cose – e le persone – come sono davvero.