2. I tuoi antenati sono i miei antenati
La famiglia e gli antenati sono il nostro legame con il passato. I parenti più prossimi rappresentano il contesto del nostro vissuto: nascita, matrimonio, morte o qualunque altra versione di questo percorso. Si condivide metà del DNA con ogni genitore e una metà diversa con ogni fratello o sorella (a meno che non si parli di gemelli omozigoti, nel qual caso il DNA è identico quasi al 100%). Queste proporzioni spiegano bene perché si assomigli di più alla propria famiglia che a un estraneo qualunque e ci si comporti anche in maniera affine (l’ambiente comune fa il resto).
L’albero genealogico di ciascun individuo costituisce un nodo impercettibilmente piccolo dell’albero genealogico globale, per quanto possa essere contorto e dissimile da un vero albero. L’evoluzione è anche paragonabile a un tronco fatto di genitori e figli, differenziati nelle immense distese del tempo. Tra i due livelli di scala sta la genealogia.
L’appartenenza ancestrale e la genealogia affascinano tutti, ma soprattutto i razzisti: la genealogia è forse il secondo passatempo più popolare nel Regno Unito (dopo il giardinaggio) e il primo negli Stati Uniti. Molte argomentazioni razziste si fondano sull’appartenenza a un segmento di popolazione specifico, sull’esasperazione delle differenze fra i gruppi e sul trasferimento dei popoli. Anche molti individui non razzisti si preoccupano dell’immigrazione dell’era moderna, ma pochi parlano di sostituzione dei popoli o di culture in qualche modo indebolite. Non è mai chiaro quale sia la minaccia quando, per esempio, i suprematisti bianchi esprimono i loro timori sul crollo della cultura occidentale. Personalmente non so che cosa sia la cultura occidentale, perché mi pare chiarissimo che la mia cultura non sia la stessa di quella di altre persone che vivono nella mia via, nel mio quartiere, nella mia città, nel mio paese o nel mio continente.
Comunque sia, la fine immaginaria di questa «cultura occidentale», così debolmente definita a livello concettuale, è perenne fonte di ansia per i suprematisti bianchi. Costoro si figurano una persecuzione della loro gente che terminerà soltanto con l’estinzione, o un’erosione dei loro diritti a vantaggio di individui di origini diverse. Del resto, quando non si è conosciuto altro che il privilegio, l’uguaglianza sembra oppressione. I nazionalisti bianchi che nel 2017 marciavano a Charlottesville, in West Virginia, si sono sentiti in dovere di fare la loro dimostrazione reggendo in mano torce di bambù (una tecnologia polinesiana) e ripetendo: «Gli ebrei non ci sostituiranno!». Il giorno dopo, durante i disordini civili e gli atti di violenza tra varie fazioni di razzisti e antirazzisti, la trentaduenne Heather Heyer è stata uccisa da un suprematista bianco. Il suo assassino oggi sta scontando una pena di quattrocento anni di reclusione.
Le argomentazioni sul diritto di un popolo a risiedere in una certa regione geografica sono spesso prive di logica o, quanto meno, di fondamenti storici, perché nessun popolo rimane fermo per lunghi periodi, e non esiste potenza, cultura o nazione che si sia mai anche soltanto avvicinata a uno stato di permanenza stanziale. Tuttavia, il nostro senso della famiglia e delle origini è forte, benché penosamente limitato. Per la maggior parte della gente al di fuori delle famiglie reali, infatti, l’albero genealogico si esaurisce dopo qualche generazione. Il passato è offuscato dalla scarsità di documentazione, dai miti e dalle leggende.
Più di qualunque altra cosa, però, la consapevolezza delle origini è limitata dall’incapacità di riconoscere un semplice fatto della biologia: tutti abbiamo avuto due genitori. Risalendo lungo la propria genealogia, è possibile identificare al massimo un paio di linee di discendenza. E in ogni albero genealogico si sceglie il ramo dal quale pende un frutto, altrimenti ci si ferma. Ci concentriamo, comprensibilmente, sui personaggi illustri, famosi o famigerati del nostro pedigree, perché la maggior parte delle persone attraversa la storia come un’ombra, senza quasi lasciare traccia del proprio passaggio, senza alcuna notorietà o fama che valga la pena di ricordare. Ma così facendo ignoriamo la stragrande maggioranza dei nostri antenati, le cui vite sono svanite dalla storia.
Per quanto riguarda il mio albero genealogico, delle mie origini indiane non abbiamo testimonianze, perché dopo che i miei antenati furono mandati in Guyana tutti i documenti andarono perduti. Dalla parte di mio padre siamo riusciti a risalire fino a una bis-bis-bis-bis-bisnonna di nome Mary Huntley. Secondo il suo certificato di matrimonio, nel 1818 sposò un certo Benjamin Handy a Covent Garden, a Londra. Handy era l’unico proprietario dell’Handy’s Travelling Circus e si definiva «il miglior cavallerizzo della Terra». Il certificato descrive Mary come una «selvaggia». Era figlia di Neil Huntley, membro della tribù dei catawba, che aveva lasciato il Nord America per unirsi al circo in virtù delle sue capacità equestri. È senza dubbio una storia fantastica, e scoprire un uomo di spettacolo nativo americano nella mia famiglia è stata una bella sorpresa. Tuttavia, Mary non era che una delle sessantaquattro donne in quel livello del mio albero genealogico con le quali sono ugualmente imparentato. Le storie di vita delle altre sessantatré sono andate perdute.
Nello studio della genetica si prevedono venticinque-trent’anni per generazione, e a ogni generazione il numero di antenati raddoppia. Questo significa che in un periodo di cinquecento anni si hanno 1048576 antenati, e in mille anni se ne hanno 1099511627776, dunque più di mille miliardi, un numero dieci volte superiore al totale di persone mai vissute al mondo.1 Questo apparente paradosso ci rivela quanto sia sbagliato il modo in cui pensiamo alle nostre origini. A mano a mano che risaliamo nel passato, i nostri antenati aumentano, ma il numero di esseri umani vivi oggi è più alto che in qualunque altro momento storico.
Entrambe le affermazioni devono essere vere, anche se sembrano contraddittorie. La risposta all’enigma, in realtà, è ovvia: i nostri alberi genealogici collassano e si ripiegano su sé stessi via via che si procede all’indietro. Ognuno ha certamente mille miliardi di posizioni sul proprio albero genealogico, ma più si risale, più tali posizioni saranno occupate dagli stessi individui più volte. È abbastanza possibile che, nel mio albero genealogico, pur essendoci sessantaquattro posizioni ancestrali allo stesso livello di Mary Huntley, esse siano state occupate da meno di sessantaquattro donne. Gli alberi genealogici collassano con velocità impressionante. Gli ultimi antenati comuni a tutti gli individui con origini europee di lunga data vissero soltanto seicento anni fa; dunque, se potessimo disegnare un albero genealogico perfettamente completo per tutti gli europei, almeno un ramo di ciascuno di questi alberi passerebbe per un’unica persona vissuta intorno al 1400 e.v. E questa persona comparirebbe su tutti i nostri alberi, così come tutti i suoi antenati. Il fatto che le stesse persone occupino più posizioni rivela, come già si diceva, che quella dell’albero non è la metafora più accurata per descrivere la genealogia: gli alberi si diramano soltanto, mentre gli alberi genealogici possono avvolgersi su se stessi. La nostra genealogia si dirama da noi come un albero, ma prima o poi due rami convergeranno verso una sola persona, dalla quale si avrà una doppia discendenza. Queste persone siedono su veri e propri anelli, o loop genealogici.
Si dà grande importanza alla scoperta di personaggi celebri o, meglio ancora, di stirpe reale, nella propria aggrovigliata selva genealogica. Nel 2016, partecipando al famoso programma della BBC Who Do You Think You Are?, l’attore britannico Danny Dyer ha scoperto di essere il ventiduesimo discendente diretto di re Edoardo III, vissuto nel XIV secolo. Pochi di noi possono dimostrarlo con documenti come certificati di nascita, di morte e di matrimonio, ma, secondo i miei calcoli,2 esiste in effetti il 100% delle probabilità che chiunque abbia origini britanniche di lunga data sia anch’egli un discendente di Edoardo III. Vale per Danny Dyer come per la maggior parte dei britannici.
Se si risale di qualche altro secolo, si raggiunge un livello di certezza matematica chiamato isopunto genetico (genetic isopoint), cioè il momento nella storia in cui l’intera popolazione è antenata di tutti gli esseri umani odierni. Per gli europei, quel punto corrisponde al X secolo. In altre parole, un individuo vissuto nel X secolo in Europa, i cui discendenti europei siano vivi oggi, è l’antenato di tutti gli europei vivi oggi (si calcola che fino all’80% della popolazione europea del X secolo abbia discendenti vivi). Si può considerare la questione anche in un altro modo: due rami dell’albero genealogico di due cugini di primo grado si incrociano in un nonno o una nonna comune; un ramo di tutti gli alberi genealogici europei passa per un individuo vissuto nel 1400; nell’isopunto, tutti i rami di tutti gli alberi passano per tutti i componenti della popolazione europea.
Mi rendo conto, avendolo ripetuto agli studenti e al pubblico centinaia di volte, che si tratta di un concetto sconvolgente, perché è lontano anni luce da quello che di solito presupponiamo riguardo alle nostre origini, agli alberi genealogici e all’identità. Di certo non sembra corretto, e a complicarlo ulteriormente intervengono i calcoli sull’isopunto globale, cioè l’anno in cui l’intera popolazione terrestre era antenata di tutti gli esseri umani attualmente vivi. Pare incredibile, ma il periodo in questione corrisponde a circa 3400 anni fa. Chiunque sia vivo in questo momento discende dall’intera popolazione globale del XIV secolo a.e.v.
A prescindere da quanto possa sembrare plausibile, o contrario alle nostre esperienze con la famiglia e gli alberi genealogici, tutto ciò è vero: l’isopunto è una certezza matematica e genetica. È probabile che gli antenati di una persona all’isopunto non saranno distribuiti in percentuali uguali in tutto il mondo: una donna o un uomo cinesi avranno un numero di antenati sudafricani molto inferiore a quello dei loro antenati orientali, e viceversa. Ma ne avranno qualcuno, e ognuno di quegli antenati avrà lo stesso rapporto con i propri discendenti vivi, indipendentemente dal luogo in cui è vissuto e morto.
Quando pensiamo all’isolamento fisico o culturale di determinate aree, terre o popolazioni, certi limiti ci paiono insormontabili. Ma la storia e la genetica dicono il contrario. Nessuna nazione è statica e nessun popolo è puro. Se non fosse stato per l’espansione degli europei, l’isopunto globale avrebbe potuto coincidere con un periodo molto più antico. I primi popoli delle Americhe rimasero isolati nel continente circa 20000 anni fa, quando attraversarono l’oceano dalla Siberia passando su un tratto di terra asciutta dopo che, durante l’era glaciale, l’acqua nei ghiacciai si era congelata e il livello del mare si era abbassato. All’arrivo del disgelo, i popoli che si erano spostati nell’odierna Alaska si ritrovarono isolati dal mondo per oltre 15000 anni.
Altre migrazioni partirono dall’Asia negli ultimi 4500 anni, e tra queste quella degli antenati degli odierni inuit. E mille anni fa i vichinghi, guidati dall’islandese Leif Ericson, fecero una breve sosta di tre anni nel continente americano, stanziandosi nelle zone oggi chiamate Labrador, Terranova e Isola di Baffin, in Canada. Tuttavia, non lasciarono né un retaggio permanente né tracce genetiche: in seguito a una disputa su un toro, quegli impetuosi guerrieri furono scacciati dalle popolazioni indigene che loro chiamavano «skraeling». Ma con l’invasione dei Caraibi da parte di Colombo e dei suoi uomini, nel 1492, ebbero immediatamente inizio le violenze contro le donne della popolazione dei taíno, che introdussero il patrimonio genetico europeo nei popoli delle Americhe. Nel giro di qualche generazione la commistione si infiltrò ovunque, e oggi quei tratti genetici compaiono negli americani del nord e del sud, indipendentemente dall’isolamento che possiamo attribuire a quelle antiche tribù.
L’effettivo funzionamento dell’ereditarietà e degli alberi genealogici rivela l’assurdità del concetto di purezza razziale. Ogni tanto qualcuno mi scrive affermando di poter risalire alle proprie origini attraverso i secoli e di aver individuato una precisa area geografica di provenienza. Questo è spesso considerato motivo di vanto: un’ascendenza secolare regala all’individuo in questione un senso di identità personale o tribale. Un amico mi ha raccontato che, stando ai racconti di famiglia, discenderebbero da Niall Noigíallach, o Niall dei Nove Ostaggi, un re irlandese antenato delle dinastie medievali degli Uí Neíll. Niall, posto che sia davvero esistito, era un sovrano del V secolo; dunque, se è corretta, l’affermazione del mio amico vale anche per qualsiasi altro europeo. Un irlandese orgoglioso e testardo una volta mi disse che tutti i suoi antenati provenivano da una piccola zona dell’Irlanda, alla quale si poteva risalire fino a mille anni prima, rifiutandosi di accettare il fatto che molti di essi dovevano per forza essere arrivati lì da qualche altra parte. Non era un razzista, ma, se avesse avuto ragione, sarebbe stato il frutto di una pericolosa forma di endogamia. Alcuni insistono sulla purezza razziale per motivi simili ai suoi. È vero che, nel caso di molte persone, una buona fetta di antenati sarà originaria di un unico territorio, nel quale saranno rimasti per vari decenni o forse anche per un paio di secoli. A dispetto dell’isopunto, non ci accoppiamo a caso in rotazione globale. Nella famiglia della mia matrigna siamo riusciti a risalire indietro di otto generazioni, tutte presenti in un solo cimitero della contea dell’Essex. Significa forse che i 256 antenati di quel livello genealogico venivano tutti da Toppesfield o dai villaggi vicini? Certo che no. Basta il minimo spostamento ad alterare i nostri alberi genealogici, a inserirvi nuovi individui e nuove linee di discendenza, cosicché questi alberi sono molto diversi da quelli veri, molto più intricati. Soltanto una delle mie linee ancestrali è nativo-americana, ed è una bella storia da raccontare, ma significa forse che sono un nativo americano? Niente affatto.
Nel corso della storia, gli esseri umani si sono spostati in giro per il mondo, accoppiandosi in ogni luogo e momento possibile. Talvolta compivano grandi spostamenti in brevi periodi. Di solito, però, rimanevano in gran parte fermi per qualche generazione, un fatto che può dare una sensazione di ancoraggio geografico e culturale. Nondimeno, tutti i nazisti hanno antenati ebrei. Tutti i suprematisti bianchi hanno antenati mediorientali. E tutti i razzisti hanno antenati africani, indiani, cinesi, nativi americani e aborigeni australiani, proprio come chiunque altro, non soltanto a livello preistorico, quando l’umanità era una specie africana, ma anche, almeno in minima parte, a partire dall’epoca classica e forse perfino da tempi molto più recenti. La purezza razziale è fantasia pura. Non esistono purosangue nel genere umano, ma soltanto meticci, arricchiti dal sangue delle moltitudini.
Oggi siamo in grado di districare alcuni fili dalla matassa delle nostre antiche origini grazie al DNA, che ci aiuta a ricostruire buona parte dei processi di migrazione umana e, in misura minore ma altrettanto interessante, i movimenti più piccoli e limitati degli individui nella storia. Tali pattern sono osservabili nei patrimoni genetici delle persone attualmente in vita, ma se è vero che la storia dei primi europei si sta stabilizzando in un solido insieme di narrazioni, per una grossa porzione di mondo rimane ancora molto da scoprire.
Come già si è detto nel capitolo precedente, la storia genetica delle popolazioni africane non è stata ancora ben compresa. Abbiamo visto che l’Africa racchiude una diversità genetica superiore a quella dell’intero pianeta: vale a dire che, in media, vi sono maggiori differenze fra gli abitanti del continente africano di quante ve ne siano fra tutti gli altri abitanti della Terra. Questo è dovuto al fatto che la migrazione «Out of Africa» interessò un gruppo limitato, dunque non rappresentativo della popolazione del suo luogo di provenienza. Soltanto una piccola percentuale di abitanti lasciò l’Africa e finì per costituire il pool genetico dal quale avrebbe avuto origine il resto del mondo.
Una percentuale assai più cospicua rimase nel continente. L’Africa è immensa, e per 80000 anni i suoi abitanti si sono spostati al suo interno in ogni direzione, scambiandosi i geni di continuo. Come abbiamo accennato, nelle ultime migliaia di anni si è anche verificato un flusso inverso, nel corso del quale alcuni individui hanno fatto ritorno in Africa dall’Europa e dal Medio Oriente, diffondendo parte dei propri geni nei genomi africani.
Di conseguenza, la genomica africana è un vero e proprio groviglio di complessità, e non è ancora stata studiata con lo stesso livello di precisione del DNA europeo. Abbiamo appena iniziato a ricostruire i movimenti interni all’Africa, dalle tribù alle città-stato, entro un singolo Stato o fra più Stati. Stiamo appena cominciando ad applicare le potenzialità della genetica come fonte storica alla cosiddetta «culla dell’umanità», e alcune delle vicende che emergono sono davvero illuminanti. Il regno dei kuba, per esempio, era un territorio presente nell’attuale Repubblica democratica del Congo fin dal XVI secolo, che prima della colonizzazione belga e in maniera del tutto indipendente visse un periodo di enorme crescita e prosperità. Si racconta che tale crescita venne agevolata dal governo di un sovrano carismatico di nome Shyaam, il quale riunì le tribù locali facendole confluire in una città-stato centralizzata che condivideva molte caratteristiche, fino ad allora quasi inesistenti, con le realtà politiche moderne: una capitale, una costituzione orale e un apparato legale a più livelli, con vere e proprie giurie di tribunale, un sistema di tassazione e una forza di polizia. In seguito alla colonizzazione, il regno si indebolì, ma all’interno della Repubblica democratica del Congo esiste ancora, e molti abitanti del territorio si identificano come kuba. Oggi è possibile verificare la storia di questo popolo tramite il DNA, come ha fatto un gruppo di ricerca dello University College di Londra guidato da Lucy van Dorp. Campionando il DNA di 101 persone con origini kuba e confrontandolo con quello di diverse centinaia di individui appartenenti ad altre popolazioni locali, i ricercatori hanno mostrato che i kuba posseggono una mescolanza assai maggiore di DNA provenienti da tutta la regione, confermando così che quanto si dice della fusione di gruppi diversi ed eterogenei mediante l’immigrazione e l’integrazione è vero.
Uno degli obiettivi di questo libro è quello di mettere in luce l’erroneo allineamento tra genetica e razza operato dalla prospettiva razzista dei colonizzatori europei sul resto del mondo. Il razzismo con basi pseudoscientifiche, però, non è un’esclusiva dei conquistatori europei. È importante notare che in Africa c’è moltissimo razzismo, come anche nel resto del mondo, altrettanto ingiustificabile da un punto di vista biologico.
Nel 1990, durante la guerra civile in Rwanda, la popolazione tutsi venne massacrata dai ribelli hutu. Le stime variano, ma secondo calcoli plausibili rimase ucciso fino a un milione di persone, circa il 70% dei tutsi e forse il 10% di tutta la popolazione del Rwanda: una vera e propria decimazione nel giro di cento giorni.
Fu una guerra razziale. Alla base delle ostilità e del successivo genocidio vi era soprattutto la convinzione che tutsi e hutu fossero due popoli geneticamente distinti, convinzione con dirette origini nel governo coloniale. Nel XIX secolo, durante l’occupazione tedesca, si era fatto in modo che i rapporti fra le tribù rimanessero in gran parte positivi, affinché i coloni potessero sfruttare l’operosità degli indigeni per massimizzare l’estrazione di valore dalla produzione agricola e manifatturiera. I tedeschi ritenevano i tutsi superiori agli hutu, forse a causa delle loro presunte origini camitiche: i camiti sono una razza e un gruppo linguistico caucasico inventato all’inizio del XIX secolo ed evoluto, a quanto si diceva, dai popoli mediorientali. Il nome fa riferimento alla loro discendenza da Cam, uno dei figli di Noè e, secondo un passo del Talmud, i camiti avevano ricevuto la «maledizione della pelle scura». Proprio per questo, i coloni credevano che i tutsi fossero superiori agli altri africani.
Quando, all’inizio del XX secolo, i belgi assunsero il controllo della zona, incitarono e alimentarono la discordia razziale. Adottando la pseudoscienza razzializzata derivante dal pensiero eugenetico di allora, gli ufficiali belgi ripetevano che i tutsi avevano un cervello più grande e la pelle più chiara, e che bevevano il latte molto più spesso degli hutu, concludendone quindi che i tutsi erano di origini europee e proclamandoli, come già avevano fatto i tedeschi prima di loro, superiori agli hutu e ad altri gruppi etnici locali. Vennero introdotti tesserini di riconoscimento etnico, istigando così la divisione razziale dei due gruppi, che venne adottata, fatto questo determinante, sia dai tutsi sia dagli hutu. Nel XX secolo i conflitti continuarono a susseguirsi, e alla fine degli anni cinquanta, quando i coloni belgi se ne andarono, la monarchia tutsi venne rovesciata da una violenta rivolta hutu. L’infame genocidio che ebbe inizio nel 1994, durante la guerra civile del Rwanda, venne fomentato dal governo hutu; centinaia di migliaia di persone vi rimasero uccise e lo stupro divenne un’arma impiegata su scala industriale. Quei decenni di conflitti, uccisioni e genocidio furono il risultato di pretese distinzioni e purezze razziali di stampo pseudoscientifico. I fondamenti antropologici, antropometrici e frenologici di quelle rivendicazioni erano pure fesserie, derivanti da secoli di razzismo scientifico europeo trasmesso a gruppi diventati tra loro rivali. La genetica degli abitanti del Rwanda è complessa, e lo stesso vale per gran parte dell’Africa; anche se esistono alcune differenze genetiche misurabili, segno dei diversi percorsi ancestrali delle popolazioni, vi sono comunque grosse sovrapposizioni. Le pratiche sociali e culturali potranno anche essere state diverse (i tutsi per tradizione erano soprattutto allevatori, il che spiegherebbe la maggiore persistenza della lattasi e dunque l’assunzione di latte), ma di certo non giustificavano la pulizia e il genocidio etnici. In generale, il livello di commistione fra tutsi e hutu era elevato e, come in tante altre guerre civili, la differenza biologica tra i due gruppi era trascurabile. La triste ironia di questa orribile storia è che, a causa dell’uso dello stupro come arma bellica, durante la guerra nacquero oltre 10000 bambini che portano in sé geni hutu e tutsi. Il risultato del conflitto non è stato la pulizia etnica, bensì la mescolanza.
Una versione della purezza razziale leggermente diversa, ma non meno pericolosa, è quella dell’ossessione per il trasferimento dei popoli. In Gran Bretagna, dove si guarda con inquietudine all’arrivo di migranti e rifugiati, gli esponenti dell’ultradestra esprimono da tempo la loro rabbia tramite slogan come: «L’Inghilterra agli inglesi»; altri parlano di tutela della cittadinanza dei britannici autoctoni, cosa che, a quanto ne so, non è sottoposta ad alcuna minaccia. L’anno scorso, qualcuno su Twitter mi ha scritto: «Tornatene da dove sei venuto», e così ho preso l’A12 per Ipswich e sono andato a far visita ai miei genitori durante il weekend. Nel luglio 2019, il presidente Trump ha insinuato che quattro donne membri del Congresso USA «[provenissero] in origine da paesi i cui governi [erano] un completo e totale disastro», aggiungendo che, se non erano contente degli Stati Uniti, dovevano tornarsene a casa. Tre di queste donne sono nate negli Stati Uniti e un’altra, Ilhan Omar, è una cittadina americana nata in Somalia. I bisnonni paterni di Trump erano immigrati tedeschi, sua madre è nata in Scozia, la sua prima moglie in Moravia e la terza in Slovenia. Non è mai chiaro quale sia il parametro di riferimento comune dell’«indigenità».
A livello più immediato, il problema riguarda le persone come me, con origini straniere recenti, o i britannici neri o i figli degli immigrati postbellici provenienti dall’Asia meridionale, e sospetto che le ire dei razzisti siano in gran parte dirette contro di noi. Tuttavia, la Gran Bretagna è stata invasa regolarmente e di continuo per tutto il corso della sua storia e ospita migranti fin da quando è diventata un’isola, circa 7500 anni fa. Nel 1066 arrivarono i francesi, che presero il potere con un atto ostile, piantando una freccia nell’occhio di un re. Prima di allora c’era stata l’aggressiva invasione vichinga, a sua volta preceduta da un continuo movimento di popoli provenienti dal continente: angli, sassoni, unni, alani e decine di altre piccole tribù e clan. Prima ancora giunsero i romani, il cui dominio arrivava almeno fino al Muro di Adriano, a nord; molte delle loro reclute, però, non provenivano da Roma, ma da tutto il suo vasto impero intercontinentale e anche oltre, e fra i loro ranghi si annoveravano galli, popolazioni mediterranee e africani subsahariani.
Circa 4500 anni fa, la Gran Bretagna era abitata soprattutto da contadini, discendenti da popoli emigrati dall’Europa attraverso il Doggerland, il tratto ininterrotto di terra che oggi è il Mare del Nord e divide l’East Anglia dai Paesi Bassi, chiamato Dogger Bank nel bollettino meteorologico marittimo di Radio 4. Furono proprio questi immigrati a costruire strane strutture megalitiche, come quella di Stonehenge. Stando a quanto si evince dal loro DNA, riteniamo che potessero avere la pelle olivastra, come gli odierni abitanti del Mediterraneo meridionale, capelli scuri e occhi marroni (questa è la nostra congettura, tenendo però conto delle riserve espresse nel capitolo 1). Nell’Europa continentale, intanto, si stava sviluppando una nuova cultura, che si diffuse su larga scala in breve tempo. Oggi i suoi rappresentanti sono chiamati «popolo del vaso campaniforme» (Beaker folk), dai vasi in ceramica di forma caratteristica rinvenuti nelle loro tombe e in altri siti archeologici dell’epoca. Non sappiamo se questo tipo di cultura materiale avesse un centro originario, ma ben presto fu presente in tutta Europa. Il popolo giunse in Gran Bretagna circa 4400 anni fa e, a quanto rivela il DNA estratto dalle ossa ritrovate sul territorio, nel giro di pochi secoli aveva sostituito quasi del tutto la popolazione precedente: un ricambio di patrimonio genetico superiore al 90%. Il loro predominio non durò a lungo. Non sappiamo come né perché, ma, che fosse a causa di scontri violenti, malattie o altro, dopo soltanto pochi secoli erano spariti tutti, e i contadini iberici, con le loro tipiche ceramiche e urne cinerarie a campana, erano diventati britannici.
Prima dei costruttori di Stonehenge c’erano stati altri popoli di cacciatori e raccoglitori, che vivevano lì da qualche migliaio di anni e avevano la pelle più scura. L’Uomo di Cheddar (che abbiamo incontrato nel capitolo precedente), morto 10000 anni fa, era uno di questi. Prima di allora, in effetti, i dati sono un po’ confusi. Nel sito di Boxgrove, nel Sussex, sono state rinvenute ossa appartenenti a un’altra specie umana, probabilmente Homo heidelbergensis. Si tratta di un uomo o di una donna di circa mezzo milione di anni fa; era un esemplare alto e cacciava rinoceronti e orsi, di cui sono state rinvenute ossa nelle vicinanze. Le prime tracce di individui britannici si trovano però lungo la costa di Happisburgh (si pronuncia «Haze-bruh»), nel Norfolk, soggetta a continua erosione; qui, 900000 anni fa, rimasero impresse su lastroni di pietra tenera alcune impronte di circa 38 cm, visibili soltanto con la bassa marea.
Gli unici britannici davvero autoctoni, dunque, occuparono queste terre quasi un milione di anni fa, e non sappiamo con certezza a che specie appartenessero. Perciò, quando i razzisti dicono che la Gran Bretagna è dei britannici, o quando parlano di autoctoni, non so a chi si riferiscano o, per meglio dire, a quale epoca si riferiscano. E ho il sospetto che non lo sappiano nemmeno loro.
La storia geologica e quella umana non badano più di tanto alla transitorietà di confini e governi. Ma in Gran Bretagna rispettiamo lo stato di diritto, e il nostro passato coloniale fa sì che l’evoluzione della cittadinanza sia stata complicata dalla storia dell’impero. In ogni caso, se si è cittadini britannici, si ha diritto a un passaporto britannico, che ci rende britannici legalmente, tecnicamente e a tutti gli effetti. È un fatto inconfutabile. Le argomentazioni incentrate sull’identità dei «veri britannici» o sui «popoli autoctoni della Gran Bretagna» non sono che una cortina fumogena volta a nascondere posizioni razziste.
D’altra parte, non tutti i paesi sono uguali. Il concetto di «primo popolo» non è affatto semplice, perché qualunque luogo abitabile sulla Terra ospita popoli da quasi mille anni. L’ultima massa terrestre significativa a essere stata raggiunta dagli esseri umani è la Nuova Zelanda, e i maori, in effetti, sono a pieno diritto una popolazione indigena, perché sono stati i primi umani a mettere piede ad Aotearoa, come loro chiamano le isole neozelandesi. All’epoca del loro arrivo, nell’XI secolo, la Gran Bretagna aveva appena subito l’ultima invasione violenta. I vichinghi furono i primi umani a mettere piede in Islanda (eccezion fatta, forse, per un paio di monaci irlandesi, che però, essendo devoti e casti, non lasciarono alcun erede): erano un gruppo di uomini norvegesi e danesi che, nel loro viaggio verso ovest, avevano preso con sé donne scozzesi, irlandesi e delle Isole Faroe. I primi uomini delle Americhe vi arrivarono circa 20000 anni fa, insediandosi in una terra che non aveva ancora accolto nessuno, almeno in base alle nostre scoperte. Quegli indigeni erano dunque una razza pura all’epoca dell’invasione di Colombo? No, perché avevano continuato a spostarsi per oltre 20000 anni all’interno di un continente che si estende quasi per tutta la longitudine del pianeta.
Quando si parla di DNA entra in gioco un ulteriore elemento di confusione. La biologia fondamentale dice che ereditiamo metà del nostro genoma da nostra madre e l’altra metà da nostro padre. Questa è una verità universalmente riconosciuta, valida per tutti gli esseri umani di ogni tempo:3 durante il concepimento si crea un genoma interamente nuovo. Tuttavia, il processo di ricombinazione genetica che avviene durante la formazione di spermatozoo e ovulo fa sì che ognuna di queste due cellule sia unica e trasporti una metà unica di genoma (di conseguenza, l’altra metà andrà perduta nelle generazioni successive, posto che lo spermatozoo o l’ovulo riescano nella loro missione). Questo significa che non viene trasferita la stessa metà a ogni generazione. Di generazione in generazione, i discendenti cominciano a perdere il DNA dei loro antenati. Accumulandosi nel corso del tempo, la quantità di DNA perduta diventa enorme: ognuno di noi ha solo il DNA di metà dei propri antenati fino a undici generazioni prima. La genealogia e la genealogia genetica non coincidono alla perfezione, e a mano a mano che si risale indietro nel tempo si allontanano sempre di più. È dunque possibile non avere alcuna parentela genetica anche con antenati vissuti soltanto nella metà del XVIII secolo. Questo invalida ulteriormente il tentativo di usare la genetica per stabilire l’appartenenza a una tribù, una razza o un altro tipo di gruppo identitario.
Come abbiamo visto, da qualche anno sequenziare il DNA è diventato una pratica così veloce e poco costosa che sono spuntate ovunque aziende dedite all’estrazione di geni, di solito a partire da un campione di saliva, per poter leggere specifiche porzioni di DNA e formulare previsioni o fare affermazioni su un qualunque numero di varianti personali. Alcune di queste aziende si concentrano sulla salute o sulla dieta, sulle capacità sportive o su ambiti ancora più assurdi, come le preferenze in fatto di vino o la compatibilità con un potenziale coniuge. Qualcuna ha raggiunto dimensioni industriali, facendo della genealogia genetica un vero e proprio business. Altre sono sparite in fretta, in seguito a stravaganti dichiarazioni sull’appartenenza a tribù mai esistite, a nomadi erranti o a figure romanticizzate di vasai e ceramisti. La selezione naturale delle forze di mercato ha dunque scartato e portato all’estinzione alcune di queste imprese, ma, fra le rimanenti, 23andMe e AncestryDNA sono i veri colossi. Le due aziende possiedono i genomi di circa 26 milioni di clienti, che hanno pagato per consegnare la propria saliva, e quindi il DNA, in cambio di qualche informazione sul proprio patrimonio genetico.
Questo genere di servizi ricorre a strategie di marketing persuasive e accattivanti, che di solito si appellano alla nostra vanità, alla nostra curiosità e al senso di appartenenza, utilizzando slogan come «Trova le tue radici», alludendo ad antenati esotici o sconosciuti. 23andMe ha approfittato della finale di Coppa del mondo maschile del 2018 per lanciare campagne pubblicitarie che suggerivano: «Tifa per le tue radici: un vero tifoso sostiene i paesi che riflettono il suo DNA unico».
Immagino che nel reparto marketing dell’azienda non si conoscessero molti tifosi di calcio.
Sul sito di AncestryDNA, i clienti raccontano storie di scoperte personali e identitarie: «Ho iniziato a riflettere su quanto la mia storia famigliare definisse la mia identità», dice Mark. «Da giovane ho sempre pensato di essere britannico al 100%. Mio padre è nato a Edgware e mia mamma nell’Hampshire». Secondo la pubblicità, però, Mark ha scoperto di avere nonni russi, tedeschi e greci, e il test del DNA gli ha comunicato che è «britannico soltanto al 40%, tedesco al 25% e greco al 35%».
Naturalmente qui non si tratta di sentimenti razzisti. Al contrario: queste aziende promuovono l’idea che siamo tutti un allegro miscuglio, con origini in ogni dove e di cui forse non sappiamo nulla a causa di storie familiari andate perse o sconosciute.
Ciò non significa che poggino su solide basi scientifiche. Servizi del genere confrontano il singolo DNA con i database di altri clienti (cioè altre persone viventi), individuando i territori in cui risiedono. La mappa che si riceve dopo qualche settimana rileva la somiglianza tra il cliente e le popolazioni viventi, dalla quale si dovrebbero dedurre le proprie radici ancestrali. Il procedimento di per sé non è scorretto, perché evidenzia quali popolazioni hanno dato un contributo genetico al nostro genoma, mostrando così le probabilità di una parte di ascendenza. Il sistema può essere ottimo per identificare parenti stretti, e sono stati riferiti casi di ritrovamenti di fratelli e sorelle perduti, di cugini o dei genitori sconosciuti di figli adottati. Per la maggior parte dei clienti, però, i risultati sono vaghi e generici.
Dati grossolani come quelli che indicano origini «al 40% britanniche, al 25% tedesche e al 35% greche», o qualunque altra combinazione, mi lasciano perplesso; anche perché non riportano il numero né il tipo di parentela degli antenati con origini greche più antiche. Un risultato più accurato sarebbe il seguente: «Benché il suo genoma abbia ricevuto un contributo genetico significativo da parte di individui di recente associazione geografica con i moderni stati-nazione della Germania e della Grecia, pur non potendo sapere con certezza quali fossero questi fra i suoi antenati, il suo albero genealogico si estende in tutta Europa e, in proporzione minore ma comunque significativa, anche nel mondo intero. Ciononostante, lei rimane britannico al 100%, perché è così che viene stabilita la cittadinanza legale. La genetica non cambierà questo fatto». Ma ammetto che sarebbe poco efficace sul piano del marketing, e forse un regalo di Natale meno gradito.
Servizi e risultati di questo tipo rafforzano inoltre l’antica fede in una sorta di essenzialismo derivante dalla nazionalità, una fede che grava sulla comprensione comune dell’ereditarietà e della genetica. I geni svolgono un ruolo significativo nella nostra biologia, e anche nel nostro comportamento, ma dobbiamo considerare che, pur potendo misurare tale contributo (ereditabile) nelle popolazioni viventi, non necessariamente ne cogliamo il funzionamento, e di certo possiamo dire ben poco della stabilità di questi contributi genetici applicati ai tratti personali nel corso delle generazioni. Origini «greche al 35%» hanno qualcosa a che fare con la personalità o il comportamento? Spesso, e senza pensarci bene, le persone mi rivelano che la scoperta di origini inaspettate ha permesso loro di spiegarsi in qualche modo la propria personalità, e si tratta sempre di tratti positivi o affascinanti, basati su stereotipi nazionali, come la credenza che gli spagnoli siano focosi, per esempio, i tedeschi metodici, i francesi appassionati e gli scozzesi coraggiosi. Nessuno mi ha mai detto che è a causa delle sue origini se è debole, terrorizzato dai ragni o un fifone leccapiedi. Sono sicuro che vi sia un granello di verità nell’idea che esistano caratteristiche nazionali, poiché, con il passare del tempo, le persone che vivono insieme e subiscono le stesse influenze culturali tendono a esibire comportamenti più simili fra loro che con altri. Ma che queste caratteristiche siano codificate geneticamente e possano essere all’origine del comportamento di una persona è improbabile.
C’è anche un altro fattore che mina ulteriormente la qualità informativa dei test sulle origini. I risultati dipendono da un confronto interno a un database contenente il DNA di altri clienti paganti, che, per motivi socioeconomici, sono quasi sempre europei o nordamericani di origine europea piuttosto benestanti. Per esempio, il grado di risoluzione dei dati che emergono dal test 23andMe relativi al mio genoma europeo è estremamente elevato: vi sono infatti specificate le percentuali di DNA con maggiori similitudini nelle aree della Scandinavia, della Francia e all’interno della Gran Bretagna. Metà del mio genoma proviene dalla mia parte indiana, ma, negli stessi risultati, gli 1,2 miliardi di persone con le quali è associato sono rappresentati come un unico blocco uniforme privo di qualunque struttura o dettaglio, semplicemente perché vi sono pochi indiani o poche persone di origine indiana che hanno acquistato questi kit di test genealogici e hanno consegnato il proprio DNA al database.
Negli Stati Uniti il problema è amplificato, come del resto è facile aspettarsi in una nazione con una storia così recente e particolare. Circa un ottavo della popolazione è costituito da neri, discendenti da individui ridotti in schiavitù e provenienti per la maggior parte dall’Africa occidentale.4 Non si conoscono quasi mai né l’effettivo luogo di nascita, né la cittadinanza di quegli antenati. I popoli indigeni d’America, e nello specifico i nativi americani, rappresentano circa il 2% della popolazione complessiva degli USA. Malgrado le attuali leggi che vietano le pratiche razziste, e a prescindere dai livelli di razzismo oggi registrati nella popolazione, di recente entrambi i gruppi sono stati vittime di politiche razziste di vecchio stampo con il beneplacito del governo. Del resto, le manifestazioni per i diritti civili risalgono soltanto agli anni sessanta del secolo scorso e la sterilizzazione forzata dei nativi americani è continuata fino agli anni settanta.
I due gruppi appartengono in genere a segmenti socioeconomici di basso livello, che di rado acquistano i kit di test genealogici. Detto ciò, i prodotti di alcune aziende sono diretti proprio a tali fasce della popolazione, ma i risultati sono altrettanto insignificanti. Una di queste aziende è African Ancestry; sul sito Internet si legge che, a differenza dei test della concorrenza, i loro permettono di «identificare il paese africano di origine» e di «specificare un gruppo etnico preciso».
Entrambe le affermazioni sono molto discutibili dal punto di vista scientifico. I gruppi etnici in Africa hanno spesso una matrice culturale, più che genetica, e quando si campionano i genomi non si correlano in maniera particolarmente precisa con i cluster di popolazioni. In alcune analisi scientifiche condotte sui genomi africani, gli autori evitano di focalizzarsi su un paese preciso, ma riescono a identificare, per esempio, un tratto genetico distintivo associato a «origini africane occidentali di lingua bantu»; tuttavia, i bantu sono un gruppo assai diversificato che si estende per tutto il continente e comprende centinaia di milioni di persone, organizzate in maniera approssimativa in centinaia di tribù. Inoltre, dagli studi più recenti condotti all’interno dell’Africa subsahariana emerge una storia genetica profondamente complessa, ed è anche possibile ricostruire il flusso di quei geni verso l’America.
Abbiamo già parlato della complicata struttura genetica degli abitanti del continente africano. Tenendo conto di questo, il movimento degli individui dall’Africa all’America durante l’epoca della tratta atlantica degli schiavi complica ulteriormente le cose. Le stime variano, ma in genere gli storici calcolano che, tra il XVI e il XIX secolo, circa 12 milioni di persone furono prelevate da zone costiere come il Senegal, la Sierra Leone, l’Angola e il Congo, e portate verso l’America del Nord e del Sud. Il mio non è un libro sulla storia della schiavitù, ma vi sono alcuni dati importanti da ricordare quando si tenta di conoscere le proprie origini tramite i test genetici. I primi africani reclutati con il sistema della servitù debitoria arrivarono in quella che una volta era la colonia inglese di Jamestown quattrocento anni fa, anche se i Caraibi e l’America del Nord ospitavano una presenza africana già da un secolo. La schiavitù fu infatti istituita in maniera discontinua dalla legge coloniale a partire dal XVII secolo, ricorrendo in particolare al principio del partus sequitur ventrem: vale a dire che un bambino nato nelle colonie inglesi avrebbe ereditato lo status giuridico della madre, e il figlio di una schiava sarebbe nato schiavo a sua volta. L’istituzione di questa legge si dovette in parte a un episodio cruciale avvenuto nel 1656. Elizabeth Key era figlia di una donna africana e di un inglese, e nei registri giudiziari è definita molleto (la variante più nota è «mulatto», cioè «di razza mista»). La donna si era rivolta con successo al tribunale per richiedere la sua libertà e quella del figlio John, dal momento che lei era stata battezzata (non era permesso che i cristiani rimanessero schiavi per sempre) e che all’epoca lo status di un figlio era determinato dal padre, in questo caso suo marito, l’avvocato inglese William Grinstead. Dopo la morte di quest’ultimo, Elizabeth si risposò e John era ormai un uomo libero. Data la rilevanza storica della sua vicenda, la vita dei discendenti di Elizabeth e John è ben documentata: molti si chiamano Grinstead, Grimstead o Greenstead, e fra loro c’è anche l’attore Johnny Depp.
La cosiddetta legge del partus venne introdotta nel 1662 dall’Assemblea Generale della Virginia, per esonerare dalle loro responsabilità i padri dei figli concepiti con le schiave; si fondava su un concetto chiamato ipodiscendenza, in base al quale lo status sociale dei figli di origini miste veniva assegnato al gruppo subordinato dal gruppo dominante. Accadeva spesso che i coloni avessero figli da schiave; il caso più eclatante dell’epoca successiva alla rivoluzione americana è quello del presidente Thomas Jefferson, che si dice avesse avuto sei figli da Sally Hemmings, a sua volta figlia di un’afroamericana e di un inglese. Secondo la legge della Virginia, i figli di Jefferson erano legalmente bianchi data la percentuale di origini inglesi nel loro albero genealogico, ma erano nati schiavi per via del partus. Anche molti dei loro discendenti sono oggi noti.
Benché nel 1808 l’importazione degli schiavi di proprietà negli USA fosse stata ufficialmente bandita, il loro commercio continuò all’interno del territorio americano finché, cinquantacinque anni dopo, il presidente Lincoln non firmò l’ordine esecutivo passato alla storia come Proclama di emancipazione, che rese liberi 3,5 milioni di schiavi americani.
Questa descrizione molto superficiale di quattro secoli di vita americana contiene alcune profonde implicazioni per la comprensione dell’ascendenza negli Stati Uniti oggi. Al termine della tratta atlantica degli schiavi, la popolazione del paese contava sette milioni di persone; quando fu posta fine alla schiavitù, ammontava a ventitré milioni. Nel secolo successivo l’immigrazione aumentò, e la popolazione crebbe fino a raggiungere gli attuali 325 milioni di americani, alcuni dei quali provenienti dall’Africa, ma la maggior parte dall’Europa. Al momento, gli afroamericani negli Stati Uniti sono circa 42 milioni. Teniamo presente che fra gli schiavi si verificavano incroci continui, ma erano molte anche le unioni tra schiavi e padroni; quindi, applicando le regole generali sulla durata di una generazione, è praticamente impensabile che un test genetico possa stabilire quale sia il paese africano di origine di un discendente di schiavi. Come qualunque altra persona sulla Terra, un afroamericano oggi può contare oltre mille antenati nel XVIII secolo, che di certo non venivano tutti dalla stessa tribù o dallo stesso paese.
Milioni di africani furono trasportati verso le Americhe e milioni morirono durante il viaggio, di malattia o scegliendo di buttarsi giù dalle navi, perché sapevano che la morte sarebbe stata preferibile alla schiavitù. I sopravvissuti non venivano divisi secondo il paese d’origine, e del resto sarebbe stato impossibile farlo, dal momento che venivano venduti come bestiame nelle piantagioni di tutto il continente. Forse, l’espansione dei database e un livello di analisi sempre più accurato ci permetterà di identificare tramite il DNA le aree di provenienza di alcuni antenati, o addirittura le loro tribù di origine al loro stato attuale. Tuttavia, come accade ovunque nel mondo e a dispetto di questa grottesca pagina della storia, tutti abbiamo due genitori, quattro nonni, otto bisnonni e così via, e dati gli elevati livelli di commistione in Africa, la purezza degli indicatori genetici che potrebbero rivelare qualcosa di preciso come il paese di origine sarà comunque scarsa. La confusione che accompagna i movimenti dell’umanità e il desiderio di riprodursi, con il consenso dell’altro o tramite azioni crudeli e malvagie, privano di qualunque senso l’idea di un’origine geografica specifica.
Il desiderio di sapere qualcosa dei propri avi è potente, e nel caso degli afroamericani merita empatia. Con la tratta atlantica degli schiavi, l’uomo toccò un punto pericolosamente alto della sua capacità di tormentare i propri simili. Dimore ancestrali vennero distrutte, intere tribù annientate e i paesi decimati. Sulle navi alle quali gli schiavi furono incatenati morirono milioni di persone. Per un popolo – più popoli, in effetti – a tal punto sradicato dal proprio passato e trasformato in una tabula rasa, qualunque informazione potrebbe avere valore, offrire conforto o un senso di legittimazione. Nondimeno, i test genetici in commercio restano un prodotto poco convincente dal punto di vista scientifico.
La storia dei nativi americani è diversa, ma i risultati sono simili. L’oppressione e la persecuzione dei vari popoli indigeni delle Americhe ebbero inizio nel 1492 e continuarono per molti secoli. In questo lasso di tempo, intere tribù vennero forzatamente trapiantate e le loro donne stuprate e uccise. La migrazione forzata meglio conosciuta nella storia degli Stati Uniti è forse il cosiddetto «Sentiero delle lacrime». Nel 1830, il presidente Andrew Jackson approvò l’Indian Removal Act («Atto di rimozione degli indiani»): la nuova legge, benché in apparenza si limitasse ad accordare al governo federale il semplice diritto di avviare negoziati con le tribù cherokee a proposito di un loro ricollocamento volontario, in realtà intendeva facilitare il trasferimento obbligato di oltre 16000 indigeni americani, in seguito alla scoperta dell’oro nei loro territori.
Milioni di persone morirono durante l’esodo forzato. L’esistenza di simili politiche del genocidio denuncia l’intrinseco razzismo dei governi che si susseguirono decennio dopo decennio, ma rivela anche una storia collettiva assai anomala, che va ad aggiungersi ai 20000 anni di migrazione e ai livelli di commistione stimati per l’America precoloniale. La carenza di documenti scritti presso le popolazioni native americane e la penuria di campioni genetici fanno sì che la nostra attuale comprensione dei loro genomi sia piuttosto bassa. Sappiamo che, prima e dopo la colonizzazione, le varie tribù sono state interessate da flussi genetici reciproci. E sappiamo che, a causa della migrazione forzata, l’appartenenza a una tribù comporta una percentuale di mutazione dovuta alla riallocazione e il senso di un forte legame con la terra abitata. Lo status tribale viene assegnato in vari modi, soprattutto in base al concetto di «quantità di sangue» (un’invenzione degli americani di origine europea nel XIX secolo), che calcola quanti antenati di un individuo siano già presenti in quella tribù. Eccezion fatta per i casi di paternità contestata, il DNA non è e non può mai essere utilizzato per determinare un’appartenenza tribale.
Tutto ciò non ha frenato la comparsa di aziende di genealogia genetica, che vendono i propri prodotti affermando di poter stabilire proprio l’appartenenza a una tribù. Secondo Accu-Metrics, esistono «562 tribù riconosciute negli USA e almeno altre 50 in Canada»; la compagnia sostiene di poter «determinare se si fa parte di uno di questi gruppi» per 125 dollari. DNA Consultants vende test per stabilire l’appartenenza alla tribù cherokee a 99 dollari; con 25 dollari in più si riceve anche un certificato. A mio avviso questi prodotti non sono che pseudoscienza, o una sorta di astrologia genetica. Considerata l’esiguità degli attuali database relativi al DNA dei nativi americani, ritengo che al momento non sia possibile attribuire uno status tribale servendosi del DNA e, data la storia delle popolazioni indigene, credo che non lo sarà mai.
Oggi sappiamo con certezza che le migrazioni su lunghe distanze e lo scambio continuo di materiale genetico sono stati caratteristiche onnipresenti nella storia umana e che, di conseguenza, l’attuale struttura della popolazione non rappresenta necessariamente un buon metodo per stabilire quale fosse la collocazione geografica dei popoli antichi. Ogni nazione sulla Terra è unica e tutte sono uguali. La purezza razziale non esiste, e la genetica ha tolto ogni valore a idee del genere. Le popolazioni del mondo hanno tratti genetici distintivi, che ne rivelano la struttura attuale (e in qualche misura anche quella storica); ma questi tratti hanno ben poco a che fare con qualsivoglia concetto di razza, o anche di paese.
Finora ci siamo concentrati sui tentativi di rilevare le identità culturali mediante la genetica, il che, nella migliore delle ipotesi, è un’impresa complicata. Lo stesso, naturalmente, vale per gli individui di origine europea che proclamano la propria purezza razziale e, di conseguenza, la propria superiorità. Il razzismo come concetto ha molte definizioni, ma tutte sono di natura comparativa. Qualunque siano i criteri razziali con cui viene definito un gruppo, il messaggio di fondo è che esistono comportamenti o tratti specifici dei vari gruppi che è possibile classificare.
Il diagramma di Venn di coloro che si definiscono nazionalisti, suprematista bianchi e neonazisti è quasi un cerchio unico, benché tutti si attribuiscano lievi differenze. Proprio come agli inizi del razzismo scientifico, questi personaggi, per la maggior parte, si autodefiniscono superiori alle altre razze.5 Fin dall’avvento di Internet, che è quasi coinciso con la rivoluzione genomica, esistono siti di stampo razzista. Forse il più conosciuto è Stormfront, che descrive i propri membri come «realisti della razza» e nazionalisti bianchi, ma ve ne sono molti altri, per esempio nei seguitissimi forum di siti come 4Chan e 8Chan. Nelle prime pagine di Stormfront viene dichiarato anche uno specifico interesse per la genetica:
Il problema dell’umanità non è tanto ideologico – questa o quella religione, questa o quella dottrina politica, sociale o economica – ma di sangue. Vale a dire che una grande percentuale (forse il 99% o più) dell’intelligenza e del carattere di una persona è determinata dal suo DNA, che determina la struttura del cervello dell’individuo prima ancora della sua nascita. Ecco perché i neri, come gruppo, si comportano come si comportano.
Uno degli obiettivi espliciti di parecchi gruppi di nazionalisti bianchi è quello di instaurare una sorta di etnostato bianco e, da quando sono entrati in commercio i test genomici individuali, questi siti sono pieni di razzisti ossessionati dalla genetica dei popoli. Non è ben chiaro in che modo andrebbe stabilita la purezza razziale, ma gli stessi servizi usati dagli appassionati di genealogia per cercare di rintracciare le proprie origini riscuotono altrettanto successo fra chi se ne serve per dimostrare un qualche concetto di purezza bianca. I siti come Stormfront traboccano di utenti che sbandierano i risultati dei loro test, a patto che riportino un’ascendenza nordeuropea. Nel 2017, il noto nazionalista bianco Richard Spencer ha pubblicato su Twitter i suoi risultati del test 23andMe, che certificavano un’origine europea del 99,4% e l’assenza di origini ebraiche ashkenazite. Inoltre, poiché il sito dell’azienda lo permette, Spencer ha reso visibili i suoi risultati completi, che hanno rivelato la presenza di antenati nordafricani e mongoli ancora nel XIX secolo. Stranamente, Spencer per il momento non ha commentato.
In questi forum si nota anche un forte interesse per gli articoli tecnici e scientifici, espresso in interminabili discussioni che in un’istituzione accademica di norma non andrebbero al di là della sala del caffè. I livelli di comprensione variano in maniera considerevole, ma alcuni utenti posseggono alcune nozioni di genetica di base e si sforzano di spiegarle agli altri. Come si può immaginare, i partecipanti non riescono a cogliere le sottigliezze, oppure traggono conclusioni diverse da quelle degli articoli citati, o ancora contestano la correttezza degli studi. Un’altra attività frequente in queste discariche di Internet è quella di estrarre tabelle di dati o immagini dagli articoli accademici e modificarne il titolo, per creare memi da diffondere su altre piattaforme social come Facebook e Twitter. Qualunque genetista che abbia condiviso sui social risultati, dati o prese di posizione su questo tipo di articoli scientifici sa che la valanga di commenti razzisti può essere travolgente. Le risposte sembrano quasi coordinate e in alcuni casi ripetono più volte le stesse espressioni o gli stessi memi. La cosa può risultare sorprendente per gli scienziati che non hanno mai avuto a che fare con il fenomeno o che non pensavano che il loro lavoro venisse discusso a fondo nei forum razzisti.
Tanto per fare un esempio, i genetisti sono accusati, fra le altre cose, di negare in pubblico la validità scientifica della correlazione tra razza e determinate abilità (in particolare le capacità cognitive e l’intelligenza, argomento che approfondiremo nel capitolo 4), ma di pensare e dire cose molto diverse negli ambienti protetti delle accademie. Tali accuse sono apparse in articoli pubblicati dal «New York Times» e, nel mio caso, mi sono state rivolte di persona da figure mediatiche di un certo seguito, che hanno a disposizione grosse piattaforme social. È quasi imbarazzante doverlo dire, ma queste non sono che folli idiozie cospirazioniste, un ridicolo insulto, del tutto infondato, alle migliaia di scienziati che dedicano la propria vita a perseguire verità oggettive sugli uomini e sulla natura. L’idea che stiamo nascondendo qualche verità al pubblico per motivi politici è assurda. Proprio come nel caso di altre teorie altrettanto folli e antiscientifiche, come il creazionismo, se potessi dimostrare che Darwin si sbagliava o che la razza è una descrizione scientificamente valida e utile della variazione umana sarei il biologo più famoso della storia, e i guadagni che ne ricaverei sarebbero senza dubbio eccezionali.
«Un uomo non verrà mai indotto con il ragionamento a correggere un’opinione errata che non ha acquisito ragionando».
Così scriveva Jonathan Swift nel 1721. Discutere di scienza con individui razzisti dalla mentalità cospirazionista è un’impresa abbastanza infruttuosa, oltre che sfiancante. Essere così rigidi e ossessionati da una teoria tanto superficiale significa infatti trincerarsi nelle proprie posizioni. Scandagliando i forum razzisti, in particolare quelli dedicati ai test commerciali del patrimonio genetico, ci si imbatte talvolta in qualche discussione su risultati che sembrano rivelare una discendenza, in precedenza ignorata, da persone che i suprematisti bianchi disprezzano. Non intendo certo nascondere l’amara soddisfazione provata vedendo tali piccoli spiragli di luce penetrare in questi pozzi altrimenti oscuri. Nel 2017, uno studio ha esaminato proprio questo fenomeno. Cosa succede quando si abbraccia un’ideologia razzista, per poi scoprire che fra i propri antenati recenti vi sono individui appartenenti a popolazioni che si detestano?
I sociologi Aaron Panofsky e Joan Donovan hanno analizzato oltre 3000 commenti su Stormfront; il sito vanta diverse centinaia di migliaia di utenti ed è il principale forum razzista online, nonché quello di più lunga data (all’interno è diviso fra nazionalisti e suprematisti bianchi, ma questo non è particolarmente rilevante ai nostri fini). Nel commentare i risultati che confermavano la loro fiducia nella propria purezza razziale, gli utenti di norma mostravano sollievo o compiacimento, utilizzando espressioni come «sangue puro» o «100% bianco».
Nelle discussioni che invece riguardavano la scoperta di ascendenze extraeuropee o non bianche, i partecipanti impiegavano diverse strategie per mettere in dubbio o vivisezionare i risultati, alcune sofisticate, altre davvero stupide. Le risposte meno elaborate sono un ricettacolo di paranoie e teorie cospirazioniste: «le aziende sono in mano agli ebrei» o «fanno parte di un complotto per diffondere dubbi sulla purezza razziale». Questo è la norma per Stormfront, nella cui pagina introduttiva si afferma che:
Gli ebrei lavorano dietro le quinte per assumere il controllo di tutte le stazioni televisive, delle scuole, dei giornali, delle stazioni radio, dei governi, degli studi cinematografici, delle banche ecc... All’origine del problema, con gli ebrei, è ancora una volta il sangue. Come gruppo, come razza, soffrono di psicopatia, una malattia mentale che si manifesta soprattutto col saper mentire incessantemente.
Altri tentavano di smentire o sminuire i risultati dei test. Le risposte vagamente più sofisticate rispetto alle teorie sulle cospirazioni ebraiche dichiarano inattendibili i dati di questa o quell’azienda, invitando l’utente a ritentare il test da un’altra parte. Alcuni liquidano i bassi livelli di commistione extraeuropea definendoli sottigliezze irrilevanti, anche se il confine tra rilevanza e irrilevanza è arbitrario e soggetto a gigantesche oscillazioni. Altri associano alle percentuali supposizioni relative al patrimonio genetico posseduto, un po’ come le regole stabilite negli Stati Uniti all’epoca della schiavitù per decidere se un figlio era nato bianco o qualcos’altro, per esempio «mulatto» o «mezzosangue».
Panofsky e Donovan riportano anche le risposte indirizzate a chi rivela un’ascendenza extraeuropea o ebraica (Stormfront esige che gli utenti registrati non abbiano alcuna ascendenza ebraica, il che è praticamente impossibile per qualunque europeo). Queste vanno dalla comprensione («Fossi in te non me ne preoccuperei. Quando ti guardi allo specchio, vedi un ebreo? Se non lo vedi, sei a posto») all’estrema ostilità, arrivando a suggerire l’espulsione dal sito o il suicidio. Un utente ha rivelato una percentuale di DNA europeo del 61% e un altro ha risposto: «Ti ho preparato una cosa da bere. È acqua pura al 61%. Il resto è cianuro di potassio. Immagino che non avrai problemi a berlo (potresti doverlo mescolare prima, dato che basta un’occhiata per vedere che non è acqua pura). Il cianuro non è acqua, e TU non sei bianco».
La purezza bianca è l’idea alla base del pensiero suprematista bianco. Il bianco è giudicato superiore ad altri pigmenti, non da ultimo a causa di un’interpretazione della storia che colloca gli europei in posizione dominante rispetto agli altri paesi, in virtù delle loro conquiste e degli imperi, e che in qualche modo attribuisce loro caratteristiche come l’inventiva e la capacità di creare ricchezza. Sono atteggiamenti notevolmente simili a quelli manifestati da Kant, Voltaire e molti altri nel corso della storia del razzismo scientifico dal XVII al XX secolo. Tuttavia, la commistione con individui non bianchi comporta la diluzione della purezza dell’ascendenza, minando così qualunque giustificazione di un etnostato bianco.
Lo studio di Panofsky e Donovan si basa su dati raccolti da un unico sito razzista, peraltro il principale e quello attivo da più tempo. In ogni caso, l’utilità dei test genetici commerciali è ormai una massiccia e significativa componente del discorso suprematista bianco. A prescindere dalle categorie in cui lo studio ha suddiviso le varie risposte – buone notizie, cattive notizie, rifiuto delle medesime, o condanna o sottostima – nessuna ha provocato un’epifania capace di modificare la visione scientificamente analfabeta degli utenti riguardo alla razza.
Questo per lo meno conferma in maniera piuttosto evidente la massima di Swift, cioè che con il ragionamento non si può convincere qualcuno ad abbandonare una posizione alla quale non è arrivato ragionando. In casi del genere, la genetica viene impiegata, in maniera impropria, a sostegno di un’ideologia politica, e il fatto che sul piano del reale tale sostegno sia inesistente non riesce a sovvertire l’ideologia stessa. Immagino che questi episodi rappresentino comunque una consolazione, perché dimostrano che il razzismo espresso dai suprematisti bianchi non ha un fondamento scientifico. Per quanto possano essere comiche, le discussioni sulla genetica e la razza condotte in forum del genere riguardano, per la maggior parte, coloro i cui risultati attestano un DNA bianco e nordeuropeo, e si avvalgono di un’interpretazione erronea dei test, spesso promossi e semplificati al punto da suscitare dubbi riguardo alla qualità del servizio offerto.
Condannare i test genealogici in commercio perché trovano spazio presso i razzisti è scorretto. Tuttavia, è la medesima deformazione della scienza ad alimentare tanto i razzisti, quanto i tipici appassionati di genealogia. Genealogia e genetica sono legate l’una all’altra, ma non in un rapporto perfetto. Il DNA può contenere alcuni dati interessanti sulla storia famigliare e le origini di un individuo, ma la sua efficacia è profondamente limitata dalla biologia fondamentale e dal comportamento umano, cioè dal fatto che ci spostiamo e ci riproduciamo su larga scala. Anche la genealogia tradizionale ha margini complementari: nella maggior parte dei casi, i documenti a disposizione delle famiglie non permettono di risalire più in là di qualche generazione. Per molta gente, dunque, le insufficienze di queste tecniche genealogiche rappresentano muri invalicabili. I test sulle origini genetiche possono essere una pratica divertente, ma, a mio avviso, non sono quasi mai nient’altro che un ingannevole sbrilluccichio.
Né i nostri geni, né i nostri antenati fanno di noi quelli che siamo. Buona parte delle nostre origini è andata perduta e non potrà mai essere recuperata. Possiamo dichiararlo con assoluta certezza: discendiamo da moltitudini di esseri umani provenienti da ogni parte del mondo; alcuni pensiamo di conoscerli, di tanti di più non sappiamo nulla. E con molti non abbiamo alcun legame genetico significativo. Questi, per la biologia, sono i fatti.