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L'infuocato F6, cioè il sole di Kandemir, si trovava a 175 anni-luce da Vorlak, verso nordest. Il suo terzo pianeta era un po' più grosso della Terra, ma la sua intensa radiazione aveva rarefatto l'atmosfera. Comunque, un uomo che si proteggesse dai raggi ultravioletti poteva vivere su Kandemir e nutrirsi con i prodotti di lassù.
La storia di Kandemir aveva assunto un corso insolito. Le grandi e fertili pianure del pianeta avevano favorito lo sviluppo di tribù nomadi, abilissi-me nel conquistare le popolazioni sedentarie. La cosa però non si svolse come sulla Terra, dove i barbari avevano spazzato via una civiltà. Su Kandemir i popoli nomadi erano i più civili, conoscevano la scrittura, la tecnologia, avevano un governo unitario supertribale e nelle città lavoravano u-nicamente gli schiavi addetti a mansioni particolari. Quando i nomadi im-pararono ad attraversare i piccoli e profondi oceani di Kandemir, imposero le loro abitudini a tutto il pianeta. Le guerre e la concorrenza economica tra le varie orde prepararono l'avvento della rivoluzione industriale. Ma la polvere da sparo, la macchina a vapore e la produzione di massa ruppero l'equilibrio di forze sul pianeta, dato che la società nomade non era in grado di assimilare in pieno le nuove nozioni.
Cento anni prima a Kandemir regnava il caos, come sulla Terra nei suoi ultimi anni. A questo punto sbarcarono gli esploratori di T'sjuda, che crea-rono nuove comunicazioni.
Molti Kandemiriani emigrarono allora nello spazio in qualità di studiosi, di operai, di soldati mercenari, perché T'sjuda al pari di Xo e di altre potenze dominava sui pianeti più arretrati. I Kandemiriani portarono in patria nuove idee che infusero nuova linfa alla loro civiltà. Sotto Ashchiza il Grande, l'Orda Erzhuat unificò Kandemir e promosse un febbrile programma di modernizzazione che, naturalmente, teneva conto del nomadi-smo. La cibernetica abolì la schiavitù, le navi spaziali i carri; i vari clan divennero gli equipaggi di tante flotte distinte. In breve, mercanti e avventu-rieri kandemiriani si sparsero nello spazio, pur rimanendo legati con il vin-colo della tradizione al pianeta madre, cui facevano ritorno occasionalmente per le cerimonie stagionali dei clan, che rappresentavano i loro riti religiosi. In tal modo il Gran Signore si assicurava la fedeltà dei sudditi.
Col passare del tempo, le loro consuetudini, che per molti erano sinoni-mo di crudeltà, arroganza e cupidigia, li misero sempre più spesso in contrasto con le razze primitive, cioè con le prede più facili. Ma contemporaneamente si ebbero gravi screzi con i mondi più progrediti, per esempio con T'sjuda, che, dopo varie proteste, giunse a un conflitto aperto con Kandemir per la questione delle frontiere spaziali. Battuto in un primo tempo, Kandemir si riprese così bene da costringere il nemico a una tre-gua. Le condizioni di pace furono dure per i vinti e quelli che un tempo erano stati i maestri di Kandemir ne diventarono i vassalli.
L'impero cominciò a estendersi rapidamente sotto Ferzhakan, nipote di Ashchiza. Decentralizzata e agile, la signoria dei nomadi era perfettamente adattata alle necessità di un governo interplanetario e l'impero si resse be-ne: Ferzhakan sognava l'egemonia su tutta quella parte dello spazio.
La sua politica espansionista determinò in breve il sorgere di una coalizione di opposizione, dominata dai Dragar Vorlakka, che erano, del resto, i maggiori interessati. La flotta nomade fu bloccata nella battaglia di Gresh.
Tuttavia lo scontro non fu decisivo e trasformò la guerra tra i due pianeti in una serie di avanzate, di ritirate, di stasi e di attacchi di sorpresa. In qualità di osservatrici, Monwaing e le consorelle si mantenevano ufficialmente in posizione di neutralità armata, ma in pratica appoggiavano e sostenevano Vorlak. Le altre popolazioni spaziali indipendenti del nucleo erano troppo deboli per esercitare una certa influenza.
La base kandemiriana più importante e più vicina a Vorlak si trovava a quaranta anni-luce, su una stella che i Vorlakka chiamavano Mayast.
Mentre l'astronave abbandonava l'ultima fascia d'interferenza e accelera-va in paragravità, Donnan la vide apparire sullo schermo in una luce bian-coazzurra. Simile a una sfera di fuoco, a tribordo, il maggior pianeta del sistema brillava in mezzo alle sue lune. Howard, che fungeva da ufficiale di rotta, posò le dita sulla tastiera del calcolatore. «No» disse Ramri.
«La declinazione è di undici quattro e due...» S'interruppe di colpo. «No.
Hai ragione tu» aggiunse. «Mi sono sbagliato.»
Anche in un momento come quello, a Donnan sfuggì un sorriso. Nonostante la sua esperienza, Ramri confondeva ancora i numeri, perché non si trattava soltanto di sistemi numerici diversi tra i vari pianeti, ma di mate-matiche diverse. I Monwaingi fondavano l'aritmetica sul sei, ma quella era una nave Vorlakka, e i Vorlakka avevano dieci dita e usavano un sistema decimale simile a quello terrestre.
Howard non badò all'aviano, ma Olak Faarer, l'osservatore draga a bordo, si accigliò e rifece il calcolo per conto suo. Non aveva ragione di dubi-tare della competenza dei cinquanta Terrestri imbarcati sulla Hrunna perché avevano rivelato la loro abilità durante l'istruzione di un mese, ma l'a-ristocratico Vorlakka li considerava sempre con disprezzo.
"Finora" pensava Donnan "anche gli altri ragazzi della Franklin, in orbita attorno a Vorlak, non hanno dimostrato troppa fiducia nell'impresa, che probabilmente considerano pazzesca: un caccia isolato che deve superare tutti gli sbarramenti difensivi del nemico e avvicinarsi alla base tanto da non permettergli di intercettare i missili e che, dopo tutto questo, deve al-lontanarsi indisturbato! I Vorlakka tentavano il colpo da dieci anni..."
Diede un'occhiata a Goldspring. «Niente ancora?» s'informò. "Domanda stupida" si disse subito dopo. Lo avrebbe sentito subito, quando lo strumento su cui era curvo il fisico fosse entrato in funzione. Ma al diavolo, uno poteva ben parlare quanto voleva!
«No. Non ne sono sicuro. Un momento.»
In un minuto, a un'accelerazione di quaranta g, la Hrunna aggiunse altri quattordicimila metri al secondo a una velocità già elevatissima. Goldspring annuì. «Due punti mobili in quella direzione.» Lesse le coordinate.
Donnan premette alcuni tasti: la nave ruotò sotto una spinta ortogonale alla rotta. Tre o quattro minuti dopo, nuovo cenno di Goldspring. «Fatto» annunciò. «Fuori tiro.»
Howard controllò i dati sui misuratori e fissò un nuovo gruppo di vettori sul quadro di controllo. La nave non arrestò la sua corsa verso il Sole, velocità così elevate non possono venire annullate immediatamente, ma si spostò in direzione di Mayast III, come previsto.
Olak Faarer attraversò il ponte e osservò la traccia chiarissima sullo strumento di Goldspring. «Cosa sono gli oggetti che avete avvistato?» domandò. «Navi, missili teleguidati o che altro?»
«Non so» rispose Goldspring. «Non si vedono ancora abbastanza chia-ramente. So soltanto che si tratta di emittenti di forza paragravitazionale modulata, a distanza, velocità e accelerazione date. Insomma, è qualcosa che viaggia sotto controllo» precisò seccamente. «Possiamo aggiungere che qualsiasi cosa sotto controllo nel nostro sistema rappresenta un pericolo.»
«Cioè ogni cosa in caduta libera» grugnì Olak.
«Santo cielo» brontolò Donnan «quante volte devo ripetervi... voglio di-re, il mio onorevole collega capirà sicuramente che a questa velocità, se una cosa non viaggia a velocità pari alla nostra per direzione e ampiezza non può farci molta paura.»
«Sì, sì» disse Olak ostinato «me l'avete spiegato varie volte. Un detector paragravitazionale con sensibilità mai raggiunta. Un bell'apparecchio, devo ammetterlo.»
«Il primo di una lunga serie» precisò Goldspring. «E di tutto un gruppo di armi. Io e i miei collaboratori abbiamo appena cominciato a studiare le possibilità offerte dalla nuova teoria sulla relazione spazio-tempo-energia.
Forse quelli della Franklin avranno già una sorpresa per noi, al nostro ritorno.»
«Forse» disse Olak con impazienza. «Non ho mai detto niente, per non essere considerato un codardo, ma ormai che siamo imbarcati senza possibilità di ritorno, devo dichiararvi francamente che affidare le nostre vite a un prototipo unico e fatto a mano, di un'invenzione così recente, mi sembra una vera pazzia.»
Donnan sospirò. «Ne ho discusso un migliaio di volte almeno, e con un centinaio di Dragar» disse. «Credevo che tu ascoltassi. Bene, tornerò a spiegartelo. L'apparecchio creato da Arn non registra semplicemente le onde di gravità come un normale detector, ma genera a sua volta delle mi-croonde in modo da poter sfruttare i principi interferometrici. Con questo sistema si possono individuare le altre navi a distanza due o anche tre volte maggiore che non con gli strumenti convenzionali.
«Dunque, se riusciamo a scoprire il nemico molto prima che lui avvisti noi, potremo evitarlo e tenerci fuori portata. Le vostre precedenti spedizioni sono sempre fallite perché avevate bisogno di ricognitori e di missili or-bitali e le vostre squadre erano respinte prima ancora di avvicinarsi al pianeta. Invece noi possiamo accostarci senza essere avvistati e a velocità tale da sfidare ogni intercettazione, il che ci permetterà di lanciare i nostri siluri. Fileremo dritto attraverso le difese interne, spazzeremo via le fortifica-zioni e raggiungeremo la fascia d'interferenza opposta prima ancora che lo-ro abbiano tempo di rendersene conto.»
Olak ascoltava, con il pelo irto per l'indignazione, l'insultante riassunto di un fatto che tutti sapevano. I denti del Draga balenarono: «Non sono del tutto stupido, collega» grugnì. «Questo l'ho già ascoltato tante volte.»
«Posso allora pregare il mio onorevole collega di agire come se effetti-vamente ne avesse sentito parlare?» mormorò Donnan.
Olak portò la mano alla spada. Donnan lo fissò dritto negli occhi. Dopo qualche secondo il Draga distolse i suoi. Si diresse verso lo schermo e osservò le stelle.
Donnan si rilassò un momento. Un bel rischio. Quei samurai con la faccia da lontra avevano dei temperamenti al fulminato di mercurio. Bisognava dominarli moralmente. Dovevano diventare i suoi alleati, se voleva che la storia degli ultimi superstiti della Terra si risapesse per tutta la galassia.
E il modo migliore per dominarli, anche se rischioso, era di ferirli nell'orgoglio.
«Attenzione!» Goldspring snocciolò una serie di numeri. Donnan e Howard tornarono a modificare la rotta.
«Quello in alto a destra?» domandò Donnan.
«Sì» Goldspring si tirava la barba. «Forse ci cercavano.»
«Mi è parso di aver visto qualcosa pochi minuti fa» disse Wells al radar.
«Non ho detto niente perché l'eco è subito scomparsa. Forse era una stazione automatica di avvistamento che ha inquadrato la nave.»
Donnan annuì. Contro le stazioni in orbita non c'era niente da fare. Di-pinte in nero, funzionanti a energia solare, con massa trascurabile, sfuggi-vano inevitabilmente alla Hrunna. Appena una nave passava nei pressi la stazione l'avvistava e immediatamente partiva un messaggio per la pattu-glia più vicina. In tal caso intervenivano le navi spaziali per intercettare l'intruso. Donnan però confidava di scoprire le stazioni di avvistamento in tempo utile per eluderne gli strumenti. Certo avrebbe preferito che non fossero entrate così presto in gioco, ma forse i Kandemiriani avevano un sistema difensivo più poderoso di quello rivelato dal servizio segreto Vorlakka.
Tirò fuori la pipa e cercò la borsa del tabacco. No, meglio di no. Tabacco non ce n'era quasi più. "Mettiti a razione, caro mio, finché non avrai trovato qualche surrogato..." Il pensiero gli corse al vino, ai cavalli, ad Alison, a tutto ciò che aveva amato e che non sarebbe esistito mai più. Masti-cò furiosamente la pipa spenta.
Il caccia puntava dritto davanti a sé. Gli uomini scambiavano poche parole, si sostituivano agli strumenti, controllavano le armi. Sul ponte, Yule, a cui Donnan aveva perdonato l'uccisione di Bowman ma di cui più nessuno si fidava, si teneva stretto al tubo di lancio come se si trattasse di sua madre. Più in là, Ramri giocava a scacchi con l'ufficiale di guardia. Lentamente il sole azzurro apparve negli schermi e sempre più spesso la nave si spostava di fianco per evitare l'avvistamento.
Finché...
«La nave che stiamo inquadrando corre parallela a noi e ci è vicinissima, con velocità e accelerazione quasi identiche» calcolò Goldspring. «Tra breve entreremo nel raggio dei suoi strumenti.»
«Impossibile sfuggirle?» domandò Donnan.
«Impossibile. Troppo numerose le forze nemiche. Se l'evitiamo finiremo diritti in bocca a un'altra formazione» e Goldspring indicò sullo schermo le astronavi lontane. «Meglio mantenere il vettore attuale e cercare di cavarcela.»
«Già. Ma se i suoi vettori sono simili ai nostri...»
«Non del tutto simili. Dovrebbe accelerare a trenta g per avvicinarsi realmente a noi. A mio parere è un incrociatore, e un incrociatore non è in grado di arrivare a trenta g. »
«Ma i suoi siluri filano a più di cento.»
«Lo so. Probabilmente farà fuoco contro di noi. Però noi dovremmo saperlo almeno dieci secondi prima, e il nostro fuoco di bordata intercetterà il suo a mille chilometri di distanza.»
«Sì» sospirò Donnan. «Prima o poi doveva capitare.»
Gli occhi di Olak si velarono e le sue narici palpitarono. «Cominciavo a temere che non avremmo visto neanche uno scontro in questa missione»
disse.
«Cosa che avrei preferito» ribatté Donnan. «Le guerre spaziali sono troppo per i miei nervi. Starsene a guardare senza far nulla, mentre una squadra di robot combatte al tuo posto...»
Sentiva i suoi ufficiali che urlavano ordini, ma non faceva attenzione.
Con le mani abbandonate sul quadro comandi, pensava alla Terra. A quella ragazza... non ad Alison, all'altra, anche se le labbra di Alison erano state dolci... Delle fiammate balenavano e si spegnevano tra gli astri. «Uno, due, tre, quattro» contava Goldspring. «Cinque, sei!»
«Nient'altro?» domandò Ramri dalla sua scacchiera.
«No, nient'altro. L'intero sbarramento è saltato. E abbiamo ancora tre siluri che possono fare centro in pieno.»
«Perfetto» approvò Ramri. Batté la mano sulla spalla dell'uomo madido di sudore che gli sedeva di fronte. «La mossa, tenente... Tenente, ti senti bene?»
Wells urlò qualcosa. Donnan si buttò in pieno in un vettore laterale. I motori rombarono. Troppo tardi! Per un attimo sullo schermo di poppa apparve l'enorme proiettile che guizzò da babordo. Il ponte tremò, si squarciò, una scheggia staccò di netto la testa al compagno di gioco di Ramri.
Il sangue sprizzò, lo schianto dell'esplosione risuonò come un pugno sul cranio di Donnan che fu scagliato contro la cinghia di protezione. Olak Faarer, che non era seduto, venne catapultato al di là di Donnan, finì contro il pannello e rimbalzò all'indietro, dimenandosi in modo grottesco. Scomparsa la paragravità, l'assenza di peso si trasformò in una caduta interminabile tra fumo, fiamme, scoppi e il sibilo dell'aria che sfuggiva dallo scafo. Le gocce di sangue danzavano in aria, incredibilmente rosse.
Gli schermi divennero muti e le luci si spensero. Il relitto turbinò in un'orbita iperbolica verso il sole azzurro.