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«La Terra è morta. Hanno distrutto la Terra!»

Carl Donnan non parlò subito. Rimase diritto davanti all'oblò, dando le spalle agli altri. Sentì appena la voce di Goldspring diventare urlo, spez-zarsi, spegnersi nei singhiozzi profondi di un uomo non solito alle lacrime.

Sentì Goldspring trascinarsi sul ponte e allora chiese in tono stanco:

«Chi l'ha distrutta?»

Ma ormai i passi si erano allontanati. Li riudì una, due volte, dal passaggio sottostante: Goldspring aveva urtato contro una paratia e aveva ripreso a camminare, barcollando. Sarebbe arrivato fino a poppa? E poi? Dove sarebbe andato?

Non un rumore a bordo. Soltanto il sussurro e il respiro della nave: con-dizionatori, termostati, generatori di corrente e il palpitare degli strumenti, che ne erano i sensi, e del convertitore nucleare che ne era il cuore. Un pulsare poco più percettibile del battito del polso di Donnan. E ormai senza significato. L'universo è silenzio.

Invece sulla Terra quale rumore! Il rombo della superficie che si spacca-va, dei monti che si fendevano, dei nuovi vulcani che lanciavano fuoco verso il cielo. Il frastuono degli oceani in ebollizione, il fragore dei venti che flagellavano nuovi continenti di granito nero, fino a poco prima ancora masse in fusione, e le ceneri e il fumo e la pioggia corrosiva che scrosciava dalle nubi solforose. E lo schianto dei fulmini che guizzavano vividi nelle tenebre profilando contro l'orizzonte i monti di recente formazione. Non c'era più nessuno a sentire le città sepolte, le navi sprofondate: la razza umana si era dissolta nella lava.

E anche gli alberi, pensava Donnan, fissando la Luna grigia e nera contro le stelle, e l'erba d'estate e i ciuffi di vischio fra la neve e i cervi nelle lande della sua infanzia e la balena, che una volta aveva visto nei mari del Sud, all'alba, e il canto degli uccelli, e maggio e giugno. Si voltò verso gli altri.

Bowman, il secondo, s'era accasciato sul ponte coprendosi la faccia. L'a-stronomo Kunz e il planetografo Easterling erano ancora curvi sui loro strumenti, come se sperassero di scoprire qualche guasto che smentisse quello che vedevano benissimo a occhio nudo. Il capitano Strathey, immobile, non aveva ancora staccato gli occhi dalle rovine della Terra.

«Capitano!» chiamò Donnan. «Capitano...» Attese. Silenzio. Strathey non si mosse.

«All'inferno!» esplose Donnan. «Vi si sono incollati gli occhi a quella cosa laggiù?» Avanzò di tre passi sul ponte, posò la mano sulla spalla di Strathey, gli fece fare mezzo giro. «Piantatela!»

Gli occhi di Strathey tornarono a fissare l'oblò. Donnan gli mollò uno schiaffo: un colpo secco che fece sussultare Kunz.

«Ragioniamo!» disse Donnan tra i denti. «Gli uomini dei satelliti osservatori, delle basi sulla Luna, nello spazio libero, non sono stati toccati.

Dobbiamo raggiungerli, scoprire cosa è successo e ricominciare tutto da capo, maledizione!» Gli tremò la voce e si diede dell'idiota. «Bowman! La radio» ordinò.

Strathey si mosse. Le sue labbra si irrigidirono e il capitano disse con la voce di un tempo: «Sono ancora il comandante di questa astronave, Donnan.»

«Bene. Pensavo che foste fuori combattimento.» Donnan cercava di to-gliere di tasca pipa e tabacco, ma gli tremavano troppo le mani.

«Io...» Strathey chiuse gli occhi e si premette i pugni contro le tempie.

«Un segnale radio può attirare l'attenzione di... dei responsabili.» L'alta figura in azzurro si raddrizzò: «Correremo questo rischio più tardi, per ora manteniamo l'assoluto silenzio radio. Kunz, controllate con il telescopio i satelliti artificiali e anche la Luna. Bowman... Bowman... Bowman! Prepa-ratevi a rimettere in moto l'astronave. Meglio non rimanere in un'orbita troppo facilmente intercettabile finché non sappiamo che cosa ci aspetta.»

Sbatté gli occhi: «Donnan, voi non dovreste essere qui.»

«Ero venuto a cercare del materiale» spiegò il direttore di macchina. «Vi ho sentito mentre controllavate i dati.» Tacque, poi aggiunse: «Temo che ormai lo sappiano tutti. Meglio ordinare agli uomini di mettersi ai posti di emergenza. Se mi autorizzate a prendere le misure necessarie per ristabilire l'ordine, provvederò io stesso.»

Per qualche secondo Strathey lo fissò in silenzio. «Benissimo» assentì poi, con un rapido cenno. «Pensateci voi.»

Donnan lasciò il ponte di comando. Qualcosa da fare, qualcuno da trattar male, tanto da superare la scossa. Calma, disse a se stesso. La partita non è del tutto perduta.

Ma vale la pena di continuare il gioco?

Certo, per la miseria! Ne vale sempre la pena finché un uomo è vivo e pronto a reagire. Percorse il corridoio col passo ondeggiante, ricordo degli anni trascorsi in mare. Carl Donnan: un tipo massiccio, tarchiato, di statura media, sui trentacinque anni, capelli rossicci, occhi grigi, la faccia larga e abbronzata. Indossava la tuta azzurra, pratica e comoda, degli uomini della Franklin, ma aveva calcato sulla fronte un vecchio berretto della RAF.

Altri uomini percorrevano il passaggio.

Adesso lui ne sentiva il brusio, come di un alveare sconvolto, lungo tutta la nave. Trecento uomini, tre anni di lontananza. Uomini che erano tornati per trovare la Terra annientata.

Scomparse le loro case, le loro città. Scomparsi gli Stati Uniti. Scomparsa la Terra. Donnan si sforzò di non pensarci.

C'era troppo da fare. Entrò in cabina, caricò la rivoltella e la mise nella fondina. Il calcio dell'arma si adattava perfettamente. Quante volte gli era stata utile, la sua Mauser. Oggi, naturalmente, era soltanto un simbolo: non poteva sparare contro uno dei trecento superstiti della specie umana!

Aprì un cassetto, ne esaminò attentamente il contenuto e prese un cilindro d'acciaio: così il suo pugno sarebbe stato più potente, ma senza esage-razione. Si fece scivolare in tasca l'oggetto metallico. In passato, quando lavorava per diversi ristoranti dove potevano succedere guai, invece del cilindro usava un rotolo di monete.

Uscì. Vide arrivare un passeggero, uno degli scienziati, un civile. Avan-zava a bocca spalancata. Donnan gli si fermò davanti.

«La Terra» urlò Wright. «La Terra è distrutta. L'ho vista sullo schermo.

Tutta nera e fumante. Morta come la Luna!»

«Il che non vi autorizza affatto a venire in questa parte dell'astronave.

Tornate immediatamente al vostro posto. Ne riparleremo più tardi.»

«Ma non capite? Avevo mia moglie e tre bambini laggiù! Toglietevi di mezzo, carogna!»

Donnan lo stese con un pugno, poi lo aiutò a rialzarsi e a ripulirsi.

«Cercate di rendervi utile ai pochi superstiti della razza umana, Wright.

In fondo era anche la razza della vostra famiglia!»

Lo scienziato si allontanò, stavolta nella direzione giusta. Un uomo dell'equipaggio s'era fermato a osservare la scena. Sputò a terra. «Razza umana?» commentò sarcastico. «Trecento maschi?»

Di nuovo il fischio della sirena.

«Non possiamo ancora saperlo» rispose Donnan. «Forse ci sono delle donne nello spazio. E adesso fila al tuo posto, tu.»

Continuò così, discutendo e consolando, e un paio di volte anche pic-chiando. Strathey gli comunicò, servendosi del citofono, che gli altri ponti erano sotto controllo. Non c'era stato disordine, in fondo. Quasi tutti erano tornati ai loro posti, e soltanto pochi si muovevano ancora di malavoglia. Il comportamento di alcuni poteva stupire: il grosso Yule, per esempio, che aveva salvato la vita a tre uomini quando l'uragano si era abbattuto su Ubal, o come diavolo si chiamava quel pianeta, ora piangeva come un bambino. Ma Donnan aveva visto troppe cose, per stupirsi del comportamento degli uomini.

Quando sentì lo scafo della Benjamin Franklin fremere, in procinto di partire, Donnan esitò un istante. Il suo posto era davanti agli strumenti, al n. 4. Però...

Una sensazione di movimento paragravitazionale manteneva all'interno una pressione costante, anche quando la nave si muoveva in caduta libera e sotto un'accelerazione di dieci g, o solcava lo spazio a velocità ultraluce.

Tutto calmo. Anzi, troppo calmo. Di colpo Donnan girò sui tacchi e im-boccò il più vicino passaggio.

Ramri di Monwaing occupava una cabina nel quadrato ufficiali, in buona parte ingombra dei viveri speciali che gli occorrevano e che lui preferi-va preparare da solo.

Donnan aprì ed entrò, richiuse a chiave, poi ringhiò:

«Maledetto pazzo!»

La creatura che sedeva su un telaio di alluminio si alzò con i suoi tipici movimenti aggraziati. Lo stupore oscurò per un istante i grandi occhi dorati. «Di che cosa ti lamenti, Carl, amico mio?» Parlava con accento inde-scrivibile e gradevolissimo.

«Qualche pazzo ha persuaso la tua gente ad attaccare e annientare la Terra!» esplose Donnan. Poi, più calmo, riempì e accese la pipa. Attraverso il fumo osservava il Monwaingi. Sì, va bene, erano più belli degli uomini, però bisognava vederli per rendersene conto. Descrivendoli a parole si poteva dire che assomigliavano alle figure dei cartoni animati: alti un metro e mezzo, avevano il corpo corto e due grosse gambe gialle.

Un calcio sferrato con quelle dita ad artiglio avrebbe fatto un bel servizio, pensava Donnan. Avevano braccia più piccole e più deboli di quelle terrestri e mani con tre dita a quattro falangi, tutte opponibili. La testa, in cima a un lungo e grosso collo, era rotonda, munita di un becco adunco mentre da una borsa situata nella gola usciva una ricca gamma di suoni, anche labiali. Ramri era dotato di una specie di grazia serena che sarebbe piaciuta agli scultori greci. Però il particolare veramente difficile da spiegare a parole era l'azzurro intenso delle penne e il bianco della cresta e della coda. Ramri portava soltanto una bisaccia appesa al collo e non aveva bisogno di indumenti.

L'extraterrestre diede una occhiata triste a Donnan, poi distolse lo sguardo. «Ho sentito» e la voce gli si spense in un sospiro. «E sono infinitamen-te rattristato.» Appoggiò il braccio contro la parete e abbandonò la fronte sul braccio, proprio come un uomo. «Che cosa posso dire? Non riesco neanche a comprendere.»

Donnan cominciò a camminare su e giù per la cabina. «Non hai un'idea di quel che può essere capitato?»

«Nessuna idea, te lo giuro.»

«Va bene, ti credo. Ma di solito, chi provoca fatti del genere?»

Ramri girò la testa a guardare stupito. «Provoca? Non capisco...»

«Come sono stati distrutti gli altri pianeti?» urlò Donnan.

«Non sono mai stati distrutti.»

«Come?» Donnan si interruppe di botto. «In tutte le guerre e tafferugli della galassia, sarà ben capitato qualche volta.»

«No, che io sappia. Forse occasionalmente: chi può sapere tutto quello che avviene? Ma tu pensi... Tu, mio amico, pensi che la mia razza, la razza di Monwaing, sia stata capace di... di distruggere un sundau thaungwa...

un mondo?» Ramri piangeva. «Distruggere una specie intelligente, un intero destino?»

Si abbandonò sulla rete e cominciò un lamento disperato, monotono che riempiva la cabina di gemiti. Anche attraverso quei suoni inconsueti, Donnan avvertì una tale angoscia che si sentì accapponare la pelle. «Basta»

disse. Ma Ramri non gli badava.

Forse i Monwaingi piangevano così. Non lo sapeva. C'erano un mucchio di cose che gli uomini ignoravano.

E le avrebbero ignorate per sempre, probabilmente.

Donnan batté un pugno contro la paratia. Adesso anche lui si rendeva conto in pieno di quello che era avvenuto. Forse finora aveva tenuto duro per l'abitudine acquisita in anni di situazioni tenibili, di pericoli mortali, dal Nuovo Messico alla Nuova Guinea, dal Marocco alla Luna e anche più in là, ma l'abitudine adesso non bastava più, e Donnan sentì che tra un attimo avrebbe potuto rivolgere verso di sé la canna della Mauser.

Ma forse lui aveva perso meno degli altri, degli uomini come Goldspring e Wright. A casa non aveva mai avuto una moglie che lo aspettasse e neanche dei marmocchi in attesa di una storia. Nessuno, neppure un cane.

Ogni tanto qualche ragazza, certo. E c'era stata Alison. Ma si erano lasciati presto. Ripensandoci si era reso conto che la colpa era stata soprattutto sua e dopo tre anni passati tra mondi sconosciuti, Donnan aveva sognato di trovare finalmente qualcuno con cui riprendere la vita. Ormai non era più possibile, mai più...

Poi, all'improvviso, Donnan si accorse di piangere su se stesso. Suo padre gli aveva insegnato che l'autocommiserazione era il sentimento più spregevole che un uomo potesse provare. Non gli aveva dato altro, pover'uomo, che questo. No, molto di più: cavalli e luce accecante, cieli azzurri e un cow-boy Navajo che gli aveva insegnato a cacciare l'antilope.

Ma ormai era tutto scomparso fra i vapori che si innalzavano nel vuoto. La pipa gli si ruppe fra i denti.

«Qualcuno deve pur essere stato, e nemmeno molto tempo fa. Ammet-tendo che siano fuse soltanto le rocce superficiali, e che gli oceani non siano entrati in ebollizione fino al fondo, ci sono voluti alcuni mesi perché si raffreddassero alla gradazione indicata dai nostri strumenti. E allora cos'è capitato in questo angolo della galassia mentre noi eravamo via? Pensaci, Ramri. Tu te ne intendi più di noi di politica infrastellare: la guerra Kandemir-Vorlak può essere arrivata fin qui?»

Il Monwaingi troncò di botto il suo pianto. «Non so» disse con voce acuta, come di bambino offeso. (Ma i bambini non se ne sono accorti, vero?

La fine dev'essere venuta troppo presto perché loro se ne rendessero conto.) «Non credo. E poi i Kandemir non sarebbero stati così... pagaung...

Che cosa ci avrebbero guadagnato? Qualche volta i pianeti sono stati bom-bardati, per poterli sottomettere, ma mai...» Balzò in piedi. «Non ne sappiamo niente, noi di Monwaing» balbettò. «Quando abbiamo scoperto la Terra, vent'anni fa, e abbiamo cominciato a comunicare con voi, e voi a imparare, e... non avremmo mai immaginato che potesse accadere questo!»

«Ma certo» disse Donnan con dolcezza. Fece un passo avanti e strinse fra le braccia l'extraterrestre. La testa fornita di becco e cresta si abbandonò sul petto dell'uomo, mentre l'essere rabbrividiva in tutto il corpo. Donnan sentì che l'orrore e il panico l'abbandonavano, a poco a poco. "Qualcuno a bordo di questa baracca dovrà tenere a freno le mani ancora per un po'" si disse Donnan. "Spero di farcela a tenerli alla larga. Comunque ten-tiamo."

«Al diavolo, Ramri» mormorò. «Gli uomini sono vissuti sotto quest'incubo fin dai tempi della prima bomba atomica. Quando precisamente?

Quarantacinque, cinquanta anni fa? Prima che io nascessi. E alla fine è capitato. Però, grazie a voi avevamo le navi spaziali. Qualcuna almeno. E ce ne devono essere altre in giro per la Galassia. Russe, cinesi... Gli europei ne avevano in cantiere due quando la Franklin è salpata. Hanno parlato di un equipaggio tutto di donne. Saremmo già estinti in una delle nostre guerre, se non foste arrivati voi. Forse ci avete dato ancora una possibilità. E

non eravate gli unici abitanti dello spazio, voi Monwaingi. Sarebbe arrivato qualcuno da Kandemir o da Vorlak, o da chissà quale altro pianeta, se non foste capitati voi. Su, asciugati gli occhi, soffiati il naso, o che altro fa-te in questi casi. Abbiamo un bel lavoro di fronte!»

Sentì il calore del Monwaingi, una temperatura superiore a quella umana, passare in lui, come se gli desse forza. Ramri era viviparo e respirava ossigeno, ma le proteine del suo corpo erano destrogire, mentre quelle di Donnan erano levogire; poteva vivere in ambiente terrestre, ma solo dopo essere stato immunizzato contro decine di agenti; arrivava da un pianeta molto progredito in campo tecnico, ma i principi della sua civiltà erano difficilmente traducibili in termini umani. "Ma non siamo poi tanto diversi" pensava Donnan.

Oppure sì?

Non ci stette a pensare su, comunque. Di nuovo il sibilo della sirena, e la voce di Strathey che risuonava a bordo. «Ai posti di combattimento! Pronti per l'attacco. Avvistati tre oggetti non meglio identificati, simili a missili nucleari. Tutti ai vostri posti...»

Ramri era già fuori dalla cabina prima che l'annuncio venisse ripetuto. I piloti spaziali umani erano abbastanza competenti, ma nessuno ancora era cresciuto con le navi spaziali come Ramri e i suoi avi. Agli uomini mancava quell'esperienza che si acquista solo con una lunga pratica. In caso di emergenza, Ramri assumeva il comando a bordo della Franklin.

Donnan lo guardò salire sul ponte, combattuto dalla tentazione. Lui era un tecnico civile e non poteva salire sul ponte. Però da quel che aveva visto poco prima si domandava se gli altri in fondo avessero quel diritto.

Non che si presentasse come un salvatore, voleva soltanto partecipare anche lui all'azione. Con un'alzata di spalle s'infilò dietro il Monwaingi.

Non lo videro neppure quando si fermò vicino alla porta. Ramri era al posto di pilotaggio, un sedile adattato alla sua statura. Vicino aveva il comandante Strathey e Goldspring, l'ufficiale di rotta, che si era ripreso dalla scossa di poco prima.

In mezzo alla cabina stava Bowman, pronto a spostarsi dove fosse necessario. Un bel gruppetto di ragazzi, pensò Donnan. Una minaccia alle lo-ro vite era la miglior cura per quel momento.

Gli occhi di Donnan si posarono sugli oblò. La Terra ormai non era più in vista, l'orrore della visione era scomparso, ma il colore verde azzurro che lui ricordava, il colore di tre anni prima, adesso era un bianco grigia-stro: la luce solare riflessa dalla coltre di nuvole. Vicina pendeva la Luna, perlacea, immutata e immutabile. Di lato il Sole ardeva con larghe vampa-te di luce zodiacale. Più avanti e intorno lo spazio, nero, immenso, punteg-giato di milioni di stelle gelide. Si rese conto con un brivido che Ragnarok non aveva cambiato nulla.

Ma, e i missili? Goldspring curvo sui suoi strumenti ne seguiva la rotta mediante il radar, l'emissione nucleare e le pulsazioni paragravitazionali dei motori. Strano, avrebbero dovuto essere più rapidi. La Franklin non poteva certo superare in velocità un ordigno che aveva per tutto carico solo una testata all'idrogeno.

«Sì, sono tre» confermò Goldspring. «Quando possiamo passare alla ultraluce?»

«Non subito» rispose Ramri. «La fascia d'interferenza più vicina deve essere a parecchie A.U.» Ramri non aveva bisogno di lunghi calcoli, gli bastava un'occhiata al Sole, una valutazione approssimativa dei periodi di fluttuazione, e il conto era fatto. «Io proporrei...»

«Non proporre» interruppe Strathey deciso. «Ordina.»

«Benissimo, amico.» La voce del Monwaingi cantò una serie di cifre, le mani con tre dita danzarono sulla tastiera e le calcolatrici emisero, lumino-se, i risultati richiesti. Ramri azionò un potente vettore per correggere la rotta della nave e al momento giusto fece partire una bordata di siluri alla velocità voluta.

Donnan non avvertì nulla tranne una minuscola scintilla luccicante che brillò e si spense subito a poppa.

«Santo cielo, uno è andato!» esclamò Goldspring.

"Potevamo anche non farcela" pensò Donnan. "I missili spaziali sono perfettamente in grado di schivare i colpi, molto meglio di così."

La nave ebbe un sussulto. «Abbiamo maggiori possibilità di colpire gli altri due se li lasciamo accostare» disse Ramri. «Sono appena a cinque gradi e l'accelerazione è bassa.»

«Come hanno fatto a scoprirci?» domandò Ramri.

«Esattamente come abbiamo fatto noi, cioè con gli strumenti» spiegò Goldspring. «Loro però sono a casa propria su queste navi.»

«Certo, certo, mi domandavo soltanto... non sono più stato sul ponte...

forse hanno messo in funzione la radio?» Bowman si asciugò la fronte che brillava di sudore sotto le fredde lampade fluorescenti.

«La radio non funziona» tagliò corto Strathey.

A Donnan venne un'idea: si schiarì la voce e fece un passo avanti. Lasciò che Strathey urlasse: «Voi che ci state a fare quassù? Vi metterò ai ferri!»

«Mi è venuta in mente una cosa, signore» disse poi. «Possiamo scoprire qualcosa e senza ulteriori rischi, dato che ci hanno già localizzato.»

La faccia del comandante si contrasse, divenne rossa, poi bianca, poi di nuovo rossa. Finalmente si calmò e allungandosi sulla poltroncina, domandò: «Di che si tratta?»

«Mandiamo un segnale radio e vediamo se rispondono.»

«Non si tratta di apparecchi con equipaggio a bordo» protestò Goldspring. «Le nostre riceventi sono sempre state in funzione, quindi le astronavi normali sarebbero entrate in contatto con noi.»

«Sì, però mi domando se per caso non sono guidati via radio.» Goldspring fissò Donnan. L'ufficiale di rotta era un tipo alto, grosso, barbuto, di solito gioviale. Ma ora aveva dei cerchi neri intorno agli occhi. Anche lui sulla Terra aveva avuto famiglia.

Con decisione improvvisa toccò i tasti della trasmittente. Le immagini sullo schermo radar, le lancette dei vari strumenti, i grafici tridimensionali, tutto si mise a ondeggiare e poi ritornò immobile. Donnan si era avvicinato per vedere meglio. Annuì.

«Proprio come pensavo» disse.

Appena partito il segnale, i missili teleguidati avevano reagito. Gli apparecchi che ne determinavano la rotta erano talmente potenti che la reazione s'era rivelata con un lievissimo spostamento di rotta, anche a quella velocità. Poi gli strumenti avevano identificato il segnale con l'oggetto inseguito e avevano ripreso la rotta.

«Sì» spiegò gravemente Ramri «quei missili sono destinati a distruggere navi e stazioni di comunicazione, in breve, qualunque cosa si trovi nelle vicinanze e non emetta un dato segnale... Pronti per il fuoco! Nove, otto, sette...» scandì coordinate e accelerazioni. Gli uomini addetti ai pezzi puntavano le armi; operazione troppo complessa per controllarla direttamente dal ponte. «Cinque, quattro, tre, due, uno, zero!»

I razzi partirono. Immediatamente Ramri si gettò sui comandi.

Un'astronave non è manovrabile come un aereo, ma Ramri fece del suo meglio, scaricando più forza possibile in un vettore ortogonale, finché sentì le strutture scricchiolare. Una grande fiammata esplose a poche centinaia di metri. Gli schermi si oscurarono un istante sotto il carico spaventoso.

Quando si riaccesero il terzo missile stava passando a pochi metri da loro.

Gli uomini ebbero appena il tempo di intravederne la forma sottile e Strathey di far scattare l'obiettivo. Poi l'ordigno sparì. Donnan fece un gran sospiro. Era passato davvero troppo vicino.

Continuò a fissare la nube di gas che si allargava nel punto in cui il raz-zo aveva annientato il secondo missile. Presto l'alone incandescente fu in-ghiottito dalle tenebre e Goldspring fece un cenno. «Tra un momento sarà di ritorno il terzo, appena avrà esaurito la spinta.»

«Strano che non sia venuto più vicino» notò Donnan. "Continuiamo pure a considerarlo un semplice problema di balistica" pensava "cerchiamo di non immaginare le conseguenze se l'ordigno ci centrasse. Inutile pensarci del resto: non avremmo modo di valutarne le conseguenze!"

«Sono sorpreso anch'io» dichiarò Ramri. «Non ero del tutto sicuro che ce l'avremmo fatta. La nave non è adatta al combattimento. Ma chi ha progettato quei missili non ha fatto un buon lavoro.»

«Sulla Terra però il buon lavoro l'hanno fatto» disse Bowman acido.

«Silenzio!» impose Strathey calmissimo.

«Attenzione!» gli ordigni di Ramri si susseguirono rapidi. Un ultimo comando; poi l'esplosione nello spazio... Così vicina che Donnan ne sentì l'onda d'urto contro la Franklin come un colpo che gli penetrò nelle ossa.

Uno schianto, un fragore che svanì a poco a poco.

Scosse la testa cercando di liberarsi dall'intontimento.

Ramri tese una mano. «Per favore vorrei vedere le fotografie che avete scattato, se non vi dispiace» domandò. Parve che Strathey non avesse sentito, e fu Donnan a porgere la pellicola autosviluppata. Era chiarissima, si distinguevano persino i particolari della testata del missile.

Ramri l'osservò lungamente.

«L'hai riconosciuto?» si decise a domandare Donnan.

«Sì» confermò Ramri in un soffio «credo di sì.» Mormorò qualcosa nella sua lingua, poi aggiunse: «Sempre loro! Non riesco a crederci.»

«Kandemir?»

«Sì. Un caccia IV kandemiriano. Ne ho esaminati alcuni caduti in mano ai Monwaingi.»

«Kandemir» mormorò Strathey. «Dio mio...»

«Un momento, comandante» disse Donnan. «Non saltiamo subito alle conclusioni.»

«Ma...»

«Sentite, quei missili avrebbero già dovuto spazzarci via, avrebbero dovuto evitare i nostri razzi e puntare comunque su di noi. La nostra non è una nave da guerra, abbiamo un armamento leggero e soltanto perché il Pentagono ha insistito dicendo che una nave lasciata in zone ignote della galassia deve essere armata. Ramri, sei stupito anche tu di essere riuscito a evitarli, vero?»

«Qual è la tua idea, Carl?» Gli inquieti occhi dorati scrutavano Donnan.

Il tecnico si strinse nelle spalle. «Al diavolo se lo so. Però mi sarei aspettato che un Kandemiriano aggiustasse meglio la mira. E vorrei prevenire ogni vostra intenzione di puntare diritto su Kandemir per buttarci come kamikaze contro la loro capitale.»

«Ma non hanno una capitale» commentò Bowman.

Goldspring alzò gli occhi. «Ho avvistato altri ordigni in arrivo» annunciò. «Sono ancora al limite del campo e non riesco a identificarli. Ma non possono essere che missili.»

Donnan annuì. «Il sistema solare pullula di missili in orbita!»

«Non possiamo restare qui» disse Ramri. «Soltanto una felice concate-nazione di vettori inerziali ci ha consentito di sbaragliare i primi tre, mal diretti com'erano. Un secondo e un terzo attacco ci annienterebbero.» Diede un'occhiata al quadro strumenti. «Riusciremo senz'altro a raggiungere la fascia d'interferenza e appena passati a velocità ultraluce saremo al sicuro.»

"Da tutti tranne che da noi" pensò Donnan.

«Via, allora» gridò Strathey.

Ramri si immerse nei suoi calcoli e poi si dedicò al pilotaggio. Gli uomini accesero una sigaretta, stirarono gambe e braccia tanto per allentare la tensione. Avevano tutti un'aria sofferente, notò Donnan, domandandosi se anche lui avesse quell'aspetto cadaverico. Però erano in grado di ragionare.

«Kunz ha scoperto cos'è capitato ai satelliti artificiali della Terra?» domandò. «Agli osservatori e alle stazioni lunari?»

«Spariti» disse Strathey. «Anche le basi della Luna. Un cratere al posto di ogni base.»

«Dovevamo aspettarcelo» sospirò Donnan. McGee, l'assistente di Tycho USA, era stato un suo amico carissimo. Si ricordava di quella sera quando, ubriachi tutti e due, avevano composto la Ballata dell'intendente Ball che aveva poi fatto il giro di tutte le forze spaziali.

Ora McGee e Ball erano scomparsi e Donnan navigava a bordo del Va-scello Fantasma.

«Io e Kunz abbiamo cercato di scoprire qualche traccia di vita» spiegò Goldspring. «Non tracce umane... Non ci speravamo, ma almeno un apparecchio o una base del nemico...» Le parole gli mancarono.

«Niente, eh? C'era da aspettarselo» ripeté Donnan. «Chi ha distrutto la Terra non aveva motivo per indugiare nella zona. Ha spedito i suoi missili ad annientare tutto. Prima o poi, con suo comodo, può sempre venire a controllare i risultati.»

Ramri si girò per dire: «Chiunque sia stato non ci terrà a vedere scoperta la propria identità. Ve lo ripeto, finora non è mai stata commessa un'azione così atroce. L'intera galassia insorgerà per abbattere Kandemir.»

«Ammesso che si tratti di Kandemir» ribatté Donnan. «E comunque, la galassia non insorgerà di certo: non lo saprà neppure. Qualche pianeta del nostro sistema ne resterà impressionato, ma dubito che qualcuno entri in azione. Che cosa gliene importa, a loro, della Terra?»

«Se non altro» osservò Ramri «cercheranno di evitare la stessa sorte.»

«Come hanno fatto, secondo te?» domandò Bowman, in tono stanco.

«Bombe dirompenti multigigaton, lanciate simultaneamente.» Il tono di Ramri era pieno d'angoscia. «L'operazione richiede un certo spiegamento di forze: ogni bomba ha le dimensioni di un asteroide abbastanza rispetta-bile, tale però da poter restare invisibile finché non è troppo tardi. In un primo tempo l'energia delle bombe è stata lanciata come tante onde d'urto sulla crosta terrestre, in un secondo momento come calore. Minima radio-attività residua... No, vi chiedo scusa, non posso continuare...»

L'extraterrestre si girò verso il quadro comandi e cominciò a gemere sommessamente.

Dopo un momento il comandante Strathey disse: «Meglio dirigersi su qualche pianeta abitabile della stella più vicina, Tau Ceti II per esempio.

Forse saremo raggiunti da altre navi scampate al disastro.»

«E come faranno a sapere che siamo là?» domandò Donnan. «Ci sono centinaia di possibilità entro un raggio facilmente raggiungibile. Inoltre ci credono ancora all'estremità opposta della galassia.»

«Vero. Avevo pensato di scegliere una stella e di inviare in orbita una stazione trasmittente, ma questa possibilità è tramontata: anche se riusciamo a lanciare il satellite, i missili lo annienteranno.»

«D'altra parte attaccherebbero qualunque nave che rientri nella zona»

notò Goldspring. «Noi siamo riusciti un po' fortunosamente a scamparla, ma gli altri potrebbero non essere così fortunati. Non basta comunicare ai possibili superstiti la nostra posizione; dobbiamo metterli in guardia, perché non ritornino nel sistema solare.»

«Ma sarà rimasto qualcun altro?» gridò Bowman. «Può darsi che siano già ritornati qui e li abbiano spazzati via tutti. Forse noi siamo gli ultimi superstiti dell'umanità...» Serrò le mascelle, torcendosi le mani.

«Può darsi» ammise Donnan «però non dimentichiamo che quando siamo salpati erano in programma altre spedizioni. Noi e i russi possedevamo già le astronavi, ma la Cina e il Commonwealth stavano per completare le proprie e gli europei ci sarebbero arrivati nel giro di un anno. Non sappiamo dove si siano diretti. Forse hanno fatto soltanto brevi puntate e sono rientrati prima di noi, e sono scomparsi con la Terra. Però ho i miei dubbi.» Gli uomini avevano già esplorato buona parte dello spazio vicino su navi di altri pianeti. Non era una grande impresa ritornarci: meglio puntare su qualcosa di nuovo. "Come noi" pensava "che corriamo diritto verso il Sagittario e le stelle al centro della galassia. E non siamo i primi, della nostra razza. Nessuno dei nostri vicini, per quanto abbiano scoperto il volo spaziale prima di noi, è mai stato animato dalla nostra impazienza. Gli altri accettano i viaggi spaziali, li fanno se devono farli, vanno incontro ad av-venture e scoperte e hanno dovuto anche loro compiere acrobazie come noi. Ma gli uomini cercano e vogliono qualcosa di più, e non intendono arrendersi. Sì, la galassia ha perso un bel gruppo di matti, adesso che gli uomini sono scomparsi.

"Ma no, che non sono scomparsi. Lo dico io."

«Ammesso che altre navi terrestri stiano vagando qui intorno» disse Goldspring. «Ammesso che siano tornate e siano riuscite a sfuggire ai missili, abbiamo la minima idea di dove si dirigeranno?»

«Sui pianeti abitabili» rispose Strathey. «Almeno è l'ipotesi più ragionevole.»

«Uhm!» Donnan scosse il capo. «Siamo sicuri che il nemico non sia anche lassù? Non vorrà dare la caccia anche agli ultimi superstiti del genere umano?»

L'idea li colpì e gli uomini si guardarono. Donnan continuò: «Comunque, dalle informazioni forniteci dai non umani e dai risultati delle spedizioni che abbiamo compiuto sulle loro navi, sappiamo che i pianeti più vicini della Terra sono terribilmente squallidi. Nella migliore delle ipotesi finiremo nella giungla, in compagnia di selvaggi rimasti all'età della pietra.

Dovremo darci talmente da fare per sopravvivere da non aver neppure più il tempo di pensare.»

«Allora cosa proponete?» La domanda di Strathey non stupì nessuno dei presenti.

«Direi di spingerci oltre, in un centro civile, con un clima possibile. E

anche con certe comodità. Perché dobbiamo fare i Robinson Crusoe di second'ordine, se siamo tecnici di prim'ordine? Inoltre potremo più facilmente avere notizie delle altre navi.»

«Sì, perfetto. Possiamo far scalo a Tau Ceti su una o due stelle locali, e lanciare comunque dei satelliti radio. Ma ritengo che sia meglio non perdere troppo tempo lassù. In seguito... Sì, in seguito punteremo su un centro civile con numerosi pianeti che conoscano i voli spaziali.»

«E quale scegliamo?» domandò Goldspring. «Ce n'è un milione in tutta la galassia!»

«Il nostro» propose Ramri di sopra la spalla. «Il nucleo di Monwaing e le sue colonie, Vorlak, Yann, Xo...»

«E Kandemir e il suo impero...» aggiunse Strathey.

«Kandemir, no» disse Ramri. «Però potete andare su un pianeta monwaingi. E altrimenti dove? Sarete benvenuti in tutti i nostri paesi. E in particolare nella mia Tanthai su Katkinu, ma anche a Monwaing...»

«No» fece Bowman.

«Perché?» Ramri lo fissò, la borsa del collo palpitava.

«No» ripeté Bowman. «Non a Monwaing, almeno finché non saremo sicuri che non è stata Monwaing a distruggere la Terra.»