Le due parti si scontrarono, la videocamera venne distrutta, gli ecologisti malmenati. E si trattava di persone anziane, ricordatelo…
“Noi non vogliamo la guerra. Ma non abbiamo altra scelta” mi spiega Nikolaj Abramov. “Il parco era l’unico posto rimasto per andare a passeggiare. Era frequentato da persone anziane e mamme con le carrozzine. Al suo interno ci sono un asilo e una scuola con trecento bambini.
Tutto il resto, ormai, è destinato a ville per i nuovi ricchi”.
Quegli ecologisti d’età veneranda capiscono di avere come controparte gente piena di soldi, una quantità di soldi che loro nemmeno riescono a immaginarsi. Ne hanno sentito parlare da Aleksandr Zacharov, capo dell’amministrazione locale. Che lo ha detto apertamente, a un’assemblea: ci sono troppi soldi in ballo perch‚ facciano marcia indietro. Così ha scritto Igor’
Kulikov, portavoce del Movimento ecologista della regione di Mosca, al procuratore Michail Avdjukov: “Il portavoce dell’amministrazione locale ha dichiarato pubblicamente ai membri del gruppo ecologista riuniti in assemblea di aver trasmesso i loro nomi e indirizzi alla mafia, che saprà cosa farne se le proteste non cesseranno”.
Aleksandr Zacharov è senza dubbio un personaggio chiave in questa brutta storia. Se avesse voluto, nessuno avrebbe potuto tirare su villette nel parco Berg. Ma in calce ai documenti che autorizzano l’abbattimento degli alberi di Pervomajskoe - contro la legge e contro le decisioni dell’assemblea locale - c’è la sua firma.
Il meccanismo è arcinoto. Il primo passo è presentare a Mosca la richiesta di “passaggio di categoria” del bosco, affinch‚ da foresta di categoria uno diventi zona non boschiva. Dopo qualche tempo l’ordinanza viene sottoposta al primo ministro che la firma. L’effettivo abbattimento degli alberi viene poi autorizzato - in adempimento all’ordinanza ministeriale - dai rappresentanti del Corpo forestale e dalle autorità locali. Da Zacharov, dunque.
Non sono le leggi russe che non vanno. Quel che non va è la gente: non vuole rispettarle.
Il parco Berg ha smesso di esistere dopo quasi un secolo di vita. Il piccolo gruppo di ecologisti locali non ha ottenuto nulla. L’unica cosa che resta loro sono i girotondi attorno ai ceppi recisi.
“NORD-OST”. STORIA DI UN MASSACRO.
8 febbraio 2003. Mosca. Via Dubrovskaja 1, quella che ormai tutto il mondo conosce come “la Dubrovka”. Nel teatro che tre mesi fa è stato su tutti i giornali e le televisioni del mondo c’è aria di festa. Smoking, abiti da sera, il “beau monde” politico è stato chiamato a raccolta, e ministri, deputati, leader delle diverse fazioni e dei diversi partiti del Parlamento si scambiano baci, abbracci, gemiti e sospiri. C’è anche un sontuoso buffet…
Si festeggia la vittoria sul “terrorismo internazionale”. Perch‚ la rinascita del musical “Nord-Ost”
dalle ceneri del terrorismo non è altro che questo, come ci garantiscono i politici pro-Putin.
Quella dell‘8 febbraio è la prima rappresentazione da che, il 23 ottobre del 2002, durante lo spettacolo, l’edificio, privo della pur minima sorveglianza, era stato occupato per cinquantasette ore, con attori e pubblico ostaggio di qualche decina di terroristi giunti dalla Cecenia per indurre il presidente Putin a fermare la guerra e a ritirare le truppe.
Non è servito. Niente ritiri. La guerra è continuata e continua a tutt’oggi, senza pause per riflettere sulla legittimità dei metodi prescelti. Una cosa sola è cambiata: il 26 ottobre, di buon’ora, venne sferrato un attacco con i gas contro tutti coloro che si trovavano all’interno dell’edificio, terroristi e ostaggi. Ottocento persone circa hanno respirato un gas segreto di produzione militare, scelto - è ormai cosa nota - dal presidente in persona. E’ poi seguita un’irruzione dei reparti speciali, durante la quale i terroristi sono stati tutti trucidati, insieme a quasi duecento ostaggi, molti dei quali morti senza assistenza medica, in quanto neppure ai medici è stato dato di conoscere il tipo di gas impiegato. Quella sera, impassibile, il presidente ha annunciato alla nazione che si era trattato di una vittoria sulle “forze del terrorismo internazionale”…
Al galà dell‘8 febbraio, però, le innumerevoli vittime di quel ‘salvataggio’-massacro non vennero quasi ricordate, tipico indice del rilassamento dei costumi instaurato dall’attuale presidente. Era un party moscovita di VIP come ce ne sono tanti, di quelli in cui ci si dimentica perch‚ si sta brindando. Dove le danze, i canti, lo champagne, i molti ubriachi e le molte sciocchezze dette parevano tanto più ciniche a voler considerare che tutto accadeva sul luogo di un massacro, pur se ristrutturato a tempo di record. I familiari degli ostaggi deceduti nella tragedia si erano rifiutati di partecipare, giudicando la festa un sacrilegio. Per cause di forza maggiore non intervenne neanche il presidente, che però mandò un messaggio di felicitazioni. Nessuno ci potrà mai spezzare, diceva. Parole che grondano retorica sovietica e logica stalinista: ci dispiace per chi è morto, ma gli interessi della società vengono prima di ogni altra cosa… I produttori ringraziarono di cuore il presidente per aver compreso le loro ragioni economiche e commerciali e aggiunsero che il pubblico non avrebbe avuto di che pentirsi di un’eventuale visita al teatro, in quanto lo spettacolo aveva guadagnato “in pathos artistico”…
Ma veniamo al rovescio della medaglia. Alle vite che il presidente ha usato per consolidare il proprio ruolo nella coalizione mondiale antiterrorismo. Proviamo a vedere come vivono coloro ai quali la tragedia di “Nord-Ost” non ha fatto guadagnare “in pathos”, ma che, anzi, ne sono usciti a pezzi. Proviamo a guardare il loro prima e il loro dopo. Le esistenze, uniche e irripetibili, che sono state spezzate. Le vittime che la macchina dello Stato sta cercando di dimenticare, inducendo noialtri a fare lo stesso. Le pulizie etniche che sono seguite al massacro. La nuova ideologia di Stato, letale per l’individuo. Putin l’ha illustrata più volte. E suona all’incirca così:
“Non aspettatevi che le perdite ci frenino. Non lo faranno. Nemmeno se dovessero essere altissime”.
STORIA PRIMA.
IL QUINTO.
Jaroslav Fadeev, ragazzino moscovita, è il primo della lista che riporta i nomi delle vittime dell’irruzione. Com’è noto, la versione ufficiale dei fatti è la seguente: i quattro ostaggi morti per ferite d’arma da fuoco sono stati uccisi dai terroristi, in quanto le forze speciali dell’F.S.B. - i colleghi di Putin - che hanno preso d’assalto il teatro non possono essersi sbagliate e non possono aver ucciso dei civili.
Ma i fatti sono fatti. Jaroslav ha una pallottola in testa però non rientra nei “quattro uccisi dai terroristi”. Jaroslav è il quinto.
Al punto “Causa del decesso” del certificato ufficiale consegnato alla madre Irina c’è una riga vuota. Nulla, dunque.
Il 18 novembre del 2002 Jaroslav, allievo di un istituto superiore di Mosca, avrebbe compiuto sedici anni. Ci sarebbe stata una grande festa in famiglia, con molti regali, com’è ovvio che sia.
E invece oggi, sulla tomba di quell’ormai eterno quindicenne, il nonno, un medico, mormora:
“Alla fine non ce la siamo mai fatta la barba assieme, io e te…”.
Erano andati in quattro, a vedere “Nord-Ost”: due sorelle - Irina Vladimirovna Fadeeva e Viktorija Vladimirovna Kruglikova - e i loro ragazzi: Jaroslav e Anastasija, figlia diciannovenne di Viktorija. Irina, Viktorija e Anastasija ce l’hanno fatta, Jaroslav invece - unico figlio di Irina, unico nipote di Viktorija e unico cugino di Anastasija - no. E’ morto in circostanze che la legge non ha mai chiarito.
Dopo l’irruzione delle forze speciali e l’uso dei gas, Irina, Viktorija e Anastasija vengono tirate fuori dal teatro prive di sensi e portate in ospedale. Jaroslav, invece, scompare. E’ come svanito.
Non figura in nessuna delle liste. Niente notizie ufficiali, la tanto sbandierata hot line non funziona e i parenti degli ostaggi corrono da una parte all’altra di Mosca. Con loro ci sono anche gli amici della famiglia di Jaroslav, che passano al setaccio obitori e ospedali spartendosi i quartieri.
Alla fine lo trovano alla morgue di vicolo Chol’zunov, il corpo n. 5714. Risponde alla descrizione di Jaroslav, ma non possono riconoscerlo ufficialmente anche se ha in tasca i documenti della madre, Irina Vladimirovna Fadeeva. Alla pagina “Figli”, però, si legge: maschio, Fadeev Jaroslav Olegovic, nato il 18.11.1988. Jaroslav, invece, era nato nel 1986…
“Quando eravamo là dentro,” mi ha poi spiegato Irina “ho infilato la mia carta d’identità nella tasca dei pantaloni di mio figlio. Lui non aveva documenti con s‚. Era molto alto, pareva più grande dei suoi anni, e avevo paura che se i ceceni avessero deciso di far uscire bambini e ragazzi, Jaroslav sarebbe rimasto dentro… Allora, zitta zitta, mi sono nascosta sotto una poltrona, ho cambiato la data di nascita e gli ho tolto altri due anni…”.
Il 27 ottobre Sergej, un amico di Irina, va a trovarla in ospedale e le dice che hanno trovato un cadavere, il n. 5714, che somiglia a Jaroslav. Le parla anche dei documenti che gli hanno trovato in tasca. Nonostante il freddo, Irina scappa dall’ospedale così com’è, facendo un buco nella recinzione. Scappa, sì, perch‚ gli ostaggi sopravvissuti e trasportati nei diversi ospedali sono tornati a essere degli ostaggi. La polizia segreta, infatti, ha dato ordine di impedire loro di tornare a casa, di telefonare e di comunicare con i parenti. Sergej è riuscito a infilarsi nell’ospedale corrompendo tutti quanti: infermiere, guardie, portantini, poliziotti. Da noi i soldi aprono anche porte chiuse a più mandate.
Irina, dunque, fugge, e dall’ospedale va subito all’obitorio. Dove le mostrano una foto sul computer. E’ Jaroslav. Chiede di vedere il corpo, lo sfiora delicatamente e gli trova due fori d’arma da fuoco in testa. Uno d’entrata e uno d’uscita. Entrambi tappati con la cera. Ma una madre sa riconoscere la differenza tra la cera e la carne del proprio figlio. Sergej, che le sta accanto, è sorpreso di vederla tanto calma, senza un singhiozzo, senza isterismi, logica e razionale.
“Ero felice di averlo trovato, dico davvero” racconta Irina. “In ospedale avevo passato in rassegna tutto quello che era successo e avevo pensato a tutto. Anche a come mi sarei comportata se mio figlio fosse morto. All’obitorio, quando ho capito che era proprio il mio Jaroslav e che la mia vita era finita, ho fatto solo quello che avevo deciso di fare. Ho chiesto di essere lasciata sola nella stanza con il corpo che mi avevano portato. Ho detto a tutti che volevo restare sola con lui. Ci avevo pensato prima, alla motivazione. Perch‚ gli avevo fatto una promessa, in teatro… Mentre eravamo là, l’ultima notte, qualche ora prima del gas, Jaroslav mi aveva detto: ‘Mamma, ho paura di non farcela… Se dovesse succedere qualcosa, come sarà, dall’altra parte?’. Gli avevo risposto di non temere. Eravamo stati sempre insieme di qua e saremmo stati insieme anche di là. ‘E come farò a riconoscerti?’ mi aveva chiesto lui. ‘Se ti tengo sempre per mano, finiremo per mano anche di là. Non ci potremo perdere. Tu non mi lasciare mai, dammi sempre la mano…’. E invece cos’è successo? L’ho ingannato! Non ci eravamo mai separati, noi. Mai. Per questo ero serena: eravamo insieme da vivi e saremmo stati insieme da morti. Quando restammo soli, nell’obitorio, gli dissi di non preoccuparsi, che l’avevo trovato e che l’avrei raggiunto presto. Non ci era mai capitato di stare lontani, e io gli avevo mentito… Eravamo sempre insieme. Per questo ero così tranquilla… Per non incontrare gli amici chiesi agli inservienti di farmi uscire dal retro. Una volta per strada fermai una macchina, mi feci lasciare sul primo ponte sulla Moscova e mi buttai di sotto. Ma non sono affogata. C’erano delle lastre di ghiaccio, sul fiume, e sono finita lì in mezzo. Io non so nuotare, ma l’acqua mi ha riportata a galla. Poi ho sperato che mi venissero i crampi alle gambe.
Nemmeno. Dopo di che, neanche a farlo apposta, delle persone mi hanno tirato fuori. ‘Da dove vieni? Che cosa ci facevi, in acqua?’ mi hanno chiesto. ‘Vengo dall’obitorio. Ma non voglio che mi riportiate da nessuna parte’. Ho dato loro il telefono di Sergej, che è venuto a prendermi…
Cerco di farmi forza, ma sono morta. Non so come possa farcela, Jaroslav, senza di me…”.
Quando aveva ripreso i sensi in ospedale, il 26 ottobre, Irina si era resa conto di essere completamente nuda, sotto la coperta. Accanto a lei gli altri erano tutti vestiti. Lei no. Aveva solo un’immagine sacra stretta in mano. Quando riuscì a parlare, chiese alle infermiere che le rendessero i suoi abiti, ma quelle le spiegarono che i vestiti con cui era arrivata dal teatro erano stati distrutti per ordine della polizia in quanto zuppi di sangue.
Perch‚? Di chi era quel sangue? Da dove era venuto, se ufficialmente erano stati impiegati solo i gas? Aveva forse perso i sensi stretta al figlio? Allora quel sangue doveva essere di Jaroslav!…
“L’ultima notte al teatro era stata agitata” ricorda Irina. “I terroristi erano nervosi. Poi il capo, Movsar Baraev, che noi chiamavamo ‘Mozart’, aveva annunciato che potevamo star tranquilli fino alle 11 del giorno dopo, che c’era uno spiraglio. Ci avevano lanciato dei succhi di frutta. Non ci permettevano di alzarci. Se avevamo bisogno di qualcosa dovevamo alzare la mano. E allora qualcuno ti tirava un succo di frutta o dell’acqua. Quando è cominciata l’irruzione e abbiamo visto i terroristi correre sul palco, ho detto a mia sorella di coprire Anastasija con la sua giacca, e io mi sono stretta forte a Jaroslav. Non mi ero resa conto che stavano usando i gas. Avevo solo visto che i terroristi stavano diventando nervosi. Jaroslav era più alto di me, e dunque, alla fine, era lui che mi faceva da scudo, non viceversa… Poi sono svenuta… Già all’obitorio mi ero resa conto che il foro d’ingresso della pallottola era sul lato opposto a me. Jaroslav mi aveva protetto. La pallottola aveva trapassato lui, risparmiando me. Mi aveva salvato… Dopo che per cinquantasette ore io non avevo fatto altro che pensare a come salvare lui”.
Chi l’aveva sparata, quella pallottola? I terroristi? O gli altri, i “nostri”? Era stata fatta una perizia balistica? E qual era stato l’esito? E il sangue sugli abiti era stato analizzato per capirne la provenienza?
Nessuno dei familiari conosce le risposte a queste domande. Tutte le informazioni al riguardo sono segretate. Nemmeno Irina è autorizzata a prenderne visione. Sul registro dell’obitorio la causa della morte - “ferita d’arma da fuoco” - è stata scritta a matita. Dopo di che anche il registro è stato segretato, e nessuno sa se quell’annotazione sia rimasta o meno. “L’avranno cancellata, figurarsi…” sostiene la famiglia di Jaroslav.
“In un primo momento ho pensato che fosse stata una cecena. Mentre eravamo là dentro”
racconta Irina “ce n’era una che stava sempre accanto a noi. Si era accorta che al minimo rumore, al minimo urlo, alla minima sensazione di pericolo mi attaccavo a mio figlio e non lo lasciavo più. E’ colpa mia, ho attirato io la sua attenzione, e lei non ci staccava più gli occhi di dosso. Ci osservava sempre. Una volta mi venne vicino e con gli occhi fissi su Jaroslav mi disse:
‘Il mio è rimasto laggiù’. In Cecenia, voleva dire. Non ci ha mai fatto niente di male, ma ero convinta che ci tenesse sempre d’occhio. Magari è stata lei a sparare a Jaroslav… Ormai non dormo più: vedo gli occhi di quella donna, la striscia stretta del suo viso…”.
Gli amici le hanno poi spiegato che non poteva essere lei, la responsabile. A giudicare dal foro d’ingresso, quello sul corpo di Jaroslav non è stato prodotto da una pistola. E le cecene avevano solo pistole.
Dunque la domanda resta: chi ha sparato quel colpo?
“Devono essere stati i ‘nostri’“ dice Irina. “Certo, noi eravamo in una posizione a rischio…
Proprio vicino alla porta. Siamo stati sfortunati. Chiunque entrava aveva davanti la fila 11.
Quando sono arrivati i terroristi, hanno visto noi per primi. Ma anche quando sono arrivati i
‘nostri’ è successa la stessa cosa”.
Irina può fare tutte le congetture che vuole. Le sue teorie non preoccupano affatto le alte sfere.
La versione ufficiale è che i morti per colpi d’arma da fuoco sono stati quattro, punto e basta.
Jaroslav, il quinto, non ne fa parte. Dunque nel certificato di morte, là dove dovrebbe essere indicata la causa, c’è un vile spazio vuoto. Jaroslav non figura nemmeno tra le vittime dell’istruttoria 229133, il numero di matricola assegnato al “caso “Nord-Ost”“, in merito alla quale indaga una squadra della procura di Mosca. Come se non fosse stato uno degli ostaggi…
“Il tormento maggiore è che Jaroslav esisteva, era vivo, mentre ora le autorità fanno finta che non sia mai stato su questa terra” dice Irina.
Ma c’è di più. Quando Irina ha confidato le sue intuizioni, i suoi dubbi e le sue perplessità ad alcuni giornalisti, è stata subito convocata in procura. Il giudice inquirente era molto risentito:
“Perch‚ vuol sollevare un polverone?” le ha detto senza mezzi termini. “Lo sa o non lo sa che
“non può” avercela, una pallottola in corpo?”. Dopo di che ha fatto del suo meglio per spaventare la povera Irina, già prostrata di suo: “O scrive subito una dichiarazione in cui smentisce di aver detto alcunch‚ ai giornalisti, così che possiamo denunciarli per calunnie ai danni dei nostri reparti speciali, oppure riapriamo la tomba di suo figlio senza la sua autorizzazione e facciamo una bella perizia postuma!” (10).
Irina non cedette a quel ricatto abietto e non scrisse alcuna smentita. Dopo quattro ore di terzo grado in procura prese congedo e andò dritta dritta al cimitero. A fare la guardia. Era novembre inoltrato. Già pieno inverno, a Mosca. Irina restò sdraiata diverse ore sulla tomba del figlio per proteggerlo, convinta che gli scagnozzi della procura sarebbero arrivati a disturbare il riposo di Jaroslav… A salvarla dalla morte furono ancora una volta gli amici, che quando videro che non era rientrata la cercarono per tutta la città. E pensarono che potesse essere sulla tomba del figlio…
Irina è convinta che l’essenziale, ora, sia che Jaroslav senta e capisca quanto la sua famiglia lo ami. Se anche la sua vita è stata spezzata da una morte tremenda, deve capire che tutti sanno quanto sia stato coraggioso nelle sue ultime ore di vita, come si sia dimostrato adulto, nonostante i suoi sedici anni non ancora compiuti. Jaroslav era un ragazzo tranquillo e studioso, che invece di bere birra e dire parolacce si era diplomato a una scuola di musica. In un certo senso ne soffriva, perch‚ anche lui voleva essere “un duro”, deciso, coraggioso, forte…
Jaroslav aveva un quaderno speciale, un diario, come alla sua età l’abbiamo avuto tutti, e su quelle pagine rispondeva alle domande che riteneva più importanti. Irina lo ha letto dopo i fatti di “Nord-Ost”. Alla domanda su quali aspetti del suo carattere gli piacessero e quali no, Jaroslav risponde: “Odio essere un vigliacco, un pauroso e un indeciso”. Ma la morte lo avrebbe cambiato. Che cosa vorresti migliorare, in te? La risposta era stata: “Vorrei essere un duro”. A scuola aveva degli amici. Che però non erano dei “duri” nemmeno loro, non erano di quelli a cui le ragazzine fanno il filo. A casa riusciva a essere brillante, ironico, deciso, coraggioso. Ma fuori… Fuori cominciavano i problemi.
“E invece… Invece avete visto cosa ha fatto… E’ stato bravissimo” mi dice Irina.
Dentro di noi abbiamo tutto quello che serve. Spesso, però, non sappiamo come tirarlo fuori.
Bisogna trovare il punto giusto, il momento giusto… Anche Jaroslav sapeva di avere dentro di s‚
quel che gli serviva… Adesso lo ha capito anche Irina, che però è tormentata dalle cose che non è riuscita a dire al figlio, dal fatto di non avergli fatto capire quanto lo ammirasse.
“La gente mi considera una persona forte” mi racconta Viktorija, zia di Jaroslav e anche lei tra gli ostaggi. “Invece là dentro ero completamente persa. Noi tre, noi donne, ci siamo strette attorno a lui, che era il più giovane, e che ci ha dato forza come un adulto. A mia figlia erano saltati i nervi, non faceva che ripetere ‘Non voglio morire, mamma… voglio vivere…’. Lui, invece, era calmo, coraggioso, si sforzava di tranquillizzare Anastasija, ci rincuorava, cercava di farsi carico di tutte le preoccupazioni come un uomo adulto… Vuole un esempio? Una delle donne cecene si era accorta che avevamo messo i ragazzi al centro e che cercavamo di far loro da scudo. In caso di irruzione, pensavamo io e Irina, li avremmo protetti con i nostri corpi.
Allora quella cecena si era piazzata tra di noi con una granata in mano all’altezza di Anastasija.
Io le avevo chiesto di spostarsi, ma lei aveva guardato Anastasija e aveva detto: ‘Non avere paura. Se sto vicino a voi, morirete subito, senza soffrire, mentre chi sta più distante soffrirà eccome…’. Quando poi se n’era andata Anastasija mi aveva detto: ‘Falla restare qua, mamma…
Ha detto che non soffriremo, no?…’. Era a pezzi. Io mi rendevo conto che se quella donna restava accanto a noi non avremmo avuto alcuna possibilità di sopravvivere, mentre con lei lontana, potevamo ancora sperare. E lo rifarei, se mi ci ritrovassi di nuovo. Jaroslav ha sempre mantenuto lucidità e sangue freddo. Ne ero stupita, perch‚ in famiglia lo credevamo ancora un bambino… Un altro esempio. Per spaventarci, i terroristi ci dicevano che se nessuno avesse accettato di trattare con loro, avrebbero iniziato a sparare, cominciando dai poliziotti e dai militari. Molti, allora, avevano buttato via i tesserini. I terroristi, però, li avevano raccolti e avevano cominciato a urlare i nomi dal palcoscenico. Compreso il mio: “Viktorija Vladimirovna, nata nel 1960…”. Il cognome, però, era diverso. Una situazione tremenda. Nessuno rispose. I terroristi si misero a cercare tra le file e trovarono me. “Andiamo su insieme” mi disse Irina.
Eravamo tutti convinti che cercassero chi lavorava per i servizi di sicurezza con l’intenzione di ucciderli. Risposi a Irina che una delle due doveva restare, altrimenti i nostri genitori sarebbero rimasti completamente soli. Poi i terroristi trovarono la Viktorija Vladimirovna che stavano cercando, ma quando ancora la situazione era confusa, Jaroslav mi si sedette accanto e disse:
‘Zia Vika, non avere paura, ci vengo io con te. Basta che mi perdoni… Mi perdoni?…’. ‘Ma di che cosa?… Non preoccuparti, andrà tutto bene’ gli risposi io. Lui mi fece scudo col suo corpo e disse: ‘Non avere paura, zia Vika, starò con te fino alla fine’. Si comportò da uomo. Davvero non so da dove avesse preso tutto quel coraggio. Noi lo credevamo un bambino…”.
Per buona parte delle sue ore da ostaggio Jaroslav non disse una parola. Pareva tranquillo, però.
“Il cuore gli batteva forte forte” ricorda Irina. “Quando passò un medico… Perch‚ c’erano dei medici, tra gli ostaggi, a cui era stato permesso di aiutarci… Quando passò gli chiesi qualcosa per la tachicardia. Gli diede una pillola, e tutto tornò a posto. Poco prima dell’irruzione gli misi sotto la lingua una pillola che avevo trovato nella borsa. C’è stato un momento in cui ho pensato che fosse stata quella a soffocarlo…”.
“Gliel’hai data tre ore prima dell’irruzione, la pillola, Irina…” la riprende dolcemente Viktorija.
Mentre Sergej sospira:
“Non avevano il senso del tempo, là dentro…”.
E’ Viktorija a parlare:
“Avevamo paura, tanta paura. Ci facevano sentire quel che dicevano alla radio… Così scoprimmo che il presidente non faceva dichiarazioni, e che secondo Zirinovskij la Duma non doveva perdere tempo in discussioni al riguardo, che era tutta una finta, e i terroristi non avevano esplosivo, ma zucchero… ‘Sentito?’ dicevano i terroristi. ‘Glielo facciamo vedere noi, lo zucchero!’. Che paura! Dopo le prime ventiquattro ore pensammo che ci saremmo rimasti anche una settimana, lì dentro, e che le autorità stessero studiando una via d’uscita diversa dall’irruzione. Era difficile mantenere la calma. Ma Jaroslav ci riuscì, si comportò da uomo”.
La vita di Irina è cambiata completamente. Ha lasciato il lavoro. Non può pensare di fare quel che faceva quando c’era Jaroslav. Perch‚ anche al lavoro tutto le ricorda il figlio. Erano una squadra affiatata, con i colleghi; festeggiavano insieme ogni bel voto di Jaroslav, ogni esame superato.
“Lo sapevano tutti che Jaroslav era la mia vita. La riempiva a tal punto che se pensavano a me, era tramite lui”. Irina piange. “E anch’io pensavo a me stessa solo tramite lui”.
Non esce nemmeno di casa, Irina. Le ha percorse tutte col figlio, quelle strade, e ogni angolo nasconde un ricordo.
“Cammino per l’Arbat e vorrei morire… Ci andavo sempre con Jaroslav… Andavamo insieme al cinema, poi ci fermavamo al bar vicino… Ho paura di uscire di casa… Ho paura di ritrovarmi in qualche posto che frequentavamo assieme. Del resto, non c’è luogo di Mosca dove non siamo stati, io e lui. Ci piaceva girare in macchina. Lo caricavo in auto dopo il lavoro, accendevamo la musica e giravamo per la città. Ogni tanto ci fermavamo, entravamo in un negozio e ci comperavamo qualcosa di buono… Il giorno del suo sedicesimo compleanno, quando lui già non c’era più, ci sono entrata, in quel negozio: volevo che sapesse che continuo a comperargli le cose che gli piacciono… Li vede, questi biglietti? Sono per il treno della notte che va a Pietroburgo. La notte di venerdì 25 ottobre, la notte in cui è morto, dovevamo andare a Pietroburgo a un torneo di tennis. Io e lui. Era un po’ che volevo fare un viaggio in treno, avevo sempre la sensazione che parlassimo troppo poco. Mentre in treno, da soli, avremmo avuto tutto il tempo… E invece…”.
“Perch‚ pensa che non parlaste abbastanza?”.
“Non lo so… E’ una strana sensazione. Parlavamo molto, ma non me lo toglievo dalla testa, quel pensiero. Non mi stancavo mai di parlare con lui. Le vacanze le passavamo sempre insieme…
Negli ultimi tempi avevo l’impressione che il mio amore fosse un peso, per lui. Non me lo aveva mai detto apertamente, ma si era confidato con la nonna. Forse era troppo, per lui. Adesso, quando per strada vedo il cartellone di quella pubblicità, con su scritto ‘Mamma, ti voglio bene’…
Se sto provando a tirare avanti è perch‚ ho dei genitori che soffrono moltissimo. L’hanno cresciuto loro, Jaroslav. Non ce la faccio… Tengo duro, ma dentro sono morta”.
Tutti cercano di aiutarla, di farle coraggio. Irina ha la fortuna di avere tanti amici, ma la fatica è tanta. Anche il sacerdote da cui era andata in cerca di conforto non è riuscito ad ascoltare tutta la sua storia: “Mi perdoni… E’ troppo doloroso”.
“Ero andata a chiedergli che cosa fare. Ce l’avevo portato io, Jaroslav, a vedere “Nord-Ost”…
Era stata una mia idea, lui non ne aveva tanta voglia” mi dice Irina, che sulle fotografie prima della tragedia è una giovane donna, bella, leggermente in carne, sicura di s‚, che sprizza felicità.
Ora è smagrita, smunta, ha la disperazione negli occhi incavati, è tutt’altro che giovane, confusa, sempre vestita di nero - cappotto, basco, scarpe e calze nere - trema come una foglia e non si toglie mai il cappotto nemmeno in casa.
“Andavamo spessissimo a teatro, Jaroslav e io. Quella sera dovevamo vedere un altro spettacolo in un altro teatro” continua Irina. “Eravamo già pronti, ma quando Viktorija e Anastasija passarono a prenderci, ci rendemmo conto che i biglietti erano scaduti: erano per la sera prima.
Jaroslav ne fu felice. Voleva restare a casa, quella sera, mentre io insistetti: ‘Andiamo a vedere
“Nord-Ost”, è qua vicino!’. Non siamo lontani dalla Dubrovka. Ci ho trascinato tutti quanti. E poi non sono stata capace di proteggerlo… E’ lui che ha protetto me… Io che andavo alla sua scuola a difendere i ragazzini dai teppisti non ho saputo difendere mio figlio, E’ terribile quando non riesci a fare qualcosa per tuo figlio, qualcosa di tanto importante. Là dentro sapevo perfettamente che se anche mi fossi alzata e avessi detto: ‘Uccidete me al posto suo’ mi avrebbero ucciso, sì, ma non sarebbe valso a salvargli la vita. Riesce a immaginare quanto sia tremendo? L’ultima cosa che mi ha detto è stata: ‘Mamma, se succede qualcosa, è così che voglio ricordarti…’. Mi ha guardato e mi ha detto addio”.
“Parlavate sempre di queste cose, là dentro?”.
“No. Ma è stata la nostra ultima conversazione. Quando c’era Jaroslav mi alzavo la mattina convinta di essere la persona più felice della terra. E mi addormentavo con la stessa idea in testa. Avevo quasi l’impressione che me lo invidiassero, quel figlio straordinario. Tutti avevano un sacco di problemi, e ne avevo anche io. Ma lui li faceva passare in secondo piano. Ora penso che non si abbia il diritto di essere tanto felici. Penso che i miei sentimenti fossero così intensi perch‚ i quindici anni della sua vita mi dovevano bastare per sempre. Con Jaroslav la mia felicità durava dalla mattina alla sera. Arrivavo a invidiare me stessa. Tornavo a casa dal lavoro e scoppiavo di felicità. Lo prendevo per mano, o anche solo per un dito, e attraversavamo la strada di corsa. Lui, però, stava crescendo, e non voleva più… Cominciava a vergognarsi un po’
di me, era l’età… Ma non mi ha mai detto o fatto nulla di male. Capisco che ogni madre possa dire altrettanto, ma io non ce l’ho più, mio figlio… Penso che non ci sia niente di peggio… Chissà come se la starà cavando, senza di me. Prima pensavo di essere una donna fortunata: avevo avuto lui e finalmente ero una persona completa. Adesso, invece, lui è morto e io sono sola.
Dovevano prenderci entrambi, oppure nessuno dei due. Senza di lui non ce la faccio… La mia vita con lui è stata talmente felice, e invece guardate che fine gli ho fatto fare. Per i suoi sedici anni gli ho regalato una tomba…”.
Irina piange.
“Non è stata colpa sua…”.
“E’ una guerra, questa… Una guerra” non fa che ripetere Irina. “Che ha coinvolto anche noi…”.
La guerra continua. Putin non ha cambiato opinione.
STORIA SECONDA.
N. 2551 - NON IDENTIFICATO.
Ma prima di raccontarvela è necessaria una premessa. E cioè come viviamo in Russia dopo la tragedia di “Nord-Ost” e in che stato versa il sistema giudiziario dell’era Putin.
I nostri tribunali non sono mai stati un esempio di autonomia, come ci si potrebbe aspettare leggendo la Costituzione. Tuttavia, la giustizia odierna si sta sottomettendo allegramente al potere esecutivo, e raggiunge l’apogeo in ciò che definiamo “pozvonochnost’”, “giustizia da telefono”, un fenomeno che vede un giudice emettere la propria sentenza a seconda della telefonata che riceve dai rappresentanti del governo e della pubblica amministrazione. Si tratta di un fenomeno consueto, in Russia, per cui quando un giudice dà prova di un’inattesa autonomia di giudizio, la nostra coscienza collettiva non può non considerarlo un gesto eroico.
Le “vittime di “Nord-Ost”“, come le chiamano oggi - cioè le famiglie che hanno perso qualcuno durante l’assalto, e gli ostaggi che il 26 ottobre hanno riportato delle menomazioni - hanno citato in giudizio per danni morali lo Stato, e il Comune di Mosca nella fattispecie. Le vittime sostengono che, per evitare dissapori con Putin e l’F.S.B., le autorità locali non avevano provveduto a organizzare un’assistenza medica adeguata e tempestiva. Le responsabilità si fanno ancora più gravi se si considera che il sindaco della capitale - nonch‚ capo del potere esecutivo cittadino - Jurij Luzkov è stato tra i pochi a far pressione sul presidente affinch‚ usasse le armi chimiche contro i suoi concittadini.
Le prime denunce vennero presentate nel novembre del 2002 al tribunale Tverskoj di Mosca (un tribunale di distretto, lo scalino più basso della gerarchia). Il 17 gennaio del 2003, quando il giudice federale Marina Gorbac‰va esaminò i primi tre casi, il numero delle denunce era salito a sessantuno e l’ammontare dei danni richiesti era l’equivalente in rubli di sessanta milioni di dollari: il prezzo della “menzogna di Stato” dichiarava la parte lesa. Quel che chiedevano, infatti, era di “conoscere le vere ragioni per cui i loro cari erano morti”, una verità che non riuscivano a strappare in quanto l’F.S.B. aveva segretato ogni informazione sul caso. Avendo essi chiamato in causa quell’F.S.B. in cui anche Putin aveva prestato servizio e che il presidente continuava a tutelare, la vigilia delle udienze si svolse in un clima incandescente di propaganda sfrenata dei mass media ai danni dei querelanti. Le autorità li accusarono pubblicamente di voler svuotare le casse dello Stato, di voler “mettere le mani sui soldi dei pensionati e degli orfani” e di voler lucrare sulla morte dei propri cari. Igor’ Trunov, l’avvocato che aveva accettato di difendere le
“vittime” (i nomi più altisonanti avevano rifiutato, temendo le ire del Cremlino), venne fatto oggetto di nefandezze di ogni sorta e accusato dei crimini peggiori.
Insomma, le autorità fecero di tutto, usarono ogni potente mezzo a loro disposizione per intimidire i querelanti.
Volevano passare per vittime. E invece erano carnefici.
La conseguenza fu che il 23 gennaio il giudice Gorbac‰va, zelante ‘giudice da telefonata’, si attaccò a un vizio di forma (la legge federale sulla “guerra al terrorismo” si presta a svariate interpretazioni e si contraddice nei diversi commi, uno dei quali può essere letto nel senso che lo Stato non è tenuto a risarcire i danni alle vittime degli attentati) e ricusò le prime tre denunce.
Fece persino di più. Come le era stato sicuramente richiesto, accompagnò la sua sentenza con vergognose angherie ai danni della parte lesa, trasformando l’udienza in una sequela di insulti e vessazioni inqualificabili contro i querelanti.
Qualche appunto preso in aula il 23 gennaio, affinch‚ il lettore comprenda che cosa è accaduto.
“Karpov, si sieda! Le ho detto di sedersi!”.
“Ma ho qualcosa da d…”.
Il giudice Gorbac‰va non gli fa nemmeno finire la frase e interrompe urlando Sergej Karpov, padre di Aleksandr Karpov, noto poeta, cantautore e traduttore moscovita morto soffocato dai gas nella tragedia di “Nord-Ost”.
“Si sieda, Karpov! O la faccio allontanare dall’aula! Poteva presentare una deposizione scritta prima dell’udienza, e non l’ha fatto!”.
“Se non l’ho fatto è perch‚ nessuno me ne ha mai notificato la possibilità!”.
“E’ lei che non ne ha approfittato! Si sieda! O la faccio allontanare dall’aula!”.
“Voglio present…”.
“Non intendo accogliere nessuna istanza!”.
Il giudice ha modi isterici, occhi privi di espressione e toni da ambulante che trapassano in un gracchiare da cornacchia. Inveisce contro Sergej Karpov e intanto si toglie lo sporco da sotto le unghie. Uno spettacolo indecente. Ma le vessazioni non finiscono qui.
“La smetta di alzare la mano, Karpov!”.
“Pretendo che mi vengano illustrati i miei diritti!”.
“Nessuno le illustrerà un bel niente!”.
L’aula del tribunale, che non vede una scopa da tempo immemorabile, è gremita di gente. Di giornalisti a cui è stato vietato di utilizzare i registratori (perch‚, poi? segreti di Stato?). Di vittime con il cuore straziato a cui non si ha nemmeno la forza di fare qualche domanda perch‚
scoppiano subito a piangere. Di loro amici e parenti, venuti a sostenerli in caso di svenimenti o attacchi di cuore. Ma la Dama Togata porta l’atmosfera a un grado di incandescente volgarità.
“Chramcova Vu-I. Chramcova I-Effe. Chramcov Ti-I!”. E’ così che li chiama, i querelanti, con le iniziali: “Vu-I, I-Effe, Ti-I”… Cos’è, analfabeta? “Qualcosa da dichiarare? Niente?”.
“Io ho qualcosa da dichiarare” esclama un giovane alto e magro.
“A lei la parola, Chramcov!”, ma lo dice come se gli stesse facendo l’elemosina: “Eccoti un soldino, buonuomo, ma poi chiudi quella ciabatta!”.
Aleksandr Chramcov ha seppellito il padre, che suonava la tromba nell’orchestra del musical.
Comincia a parlare e la sua voce si incrina subito, tra le lacrime:
“Mio padre ha girato il mondo con la sua orchestra. Ha rappresentato il nostro Paese e la nostra città. La sua morte è una perdita incolmabile. Come fate a non capirlo? Siete stati voi a far entrare i terroristi, a farli girare indisturbati… Voi, la città di Mosca! Non siete responsabili dell’irruzione, va bene, ma perch‚ all’ospedale n. 13, dove sono state portati quattrocento ostaggi, c’erano solo cinquanta persone in servizio, tra medici e infermieri? Che non sono riuscite ad aiutare tutti quanti? C’è gente che è morta per non essere stata soccorsa… E mio padre con loro…”.
Sul suo scranno la Dama Togata pare avere la mente altrove. Nulla lascia intendere che stia ascoltando. Nemmeno quanto sente sulla morte del musicista F‰dor Chramcov produce alcun effetto. Si limita a spostare pigramente le carte, ora qua, ora là, per far passare il tempo. E’
annoiata. Ogni tanto guarda fuori dalla finestra, si sistema il collarino, con la coda dell’occhio controlla sul vetro scuro che nulla sia fuori posto, si gratta un orecchio - sarà l’orecchino che le prude?…
Intanto Chramcov figlio continua. Si rivolge, è ovvio, ai tre avvocati difensori al tavolo accanto, i
“rappresentanti di Mosca”, membri degli uffici legali del Municipio. A chi altri dovrebbe rivolgersi, del resto? Certo non al giudice, che si sta facendo la manicure…
“Se i medici non bastavano, perch‚ non avete fatto entrare nell’edificio gli studenti di medicina?
O se non nell’edificio, almeno sugli autobus con cui avete trasportato gli ostaggi negli ospedali!
Li avrebbero potuti visitare lungo il tragitto… C’era gente che soffocava perch‚ l’avevano messa prona…”.
“Chramcov!” lo interrompe nervosamente la Gorbac‰va, vedendo a chi si rivolge il querelante.
“Chi sta guardando? Lei deve guardare me !”.
“Va bene…”. Aleksandr volge lo sguardo verso lo scranno del giudice. “Sono morti soffocati mentre li portavano in ospedale…”.
Piange. E chi non lo farebbe?
Alle sue spalle piange anche la madre, Valentina Chramcova, la vedova. E’ vestita di nero, in prima fila, dietro la tribuna dei testimoni dov’è seduto il figlio. Il giudice Gorbac‰va non può non vederla. Accanto a Valentina c’è Ol’ga Milovidova, col viso nascosto in un fazzoletto, le spalle come due gobbe appuntite che si alzano e si abbassano. Ma si sforza di trattenere i singhiozzi, non vuole fare il minimo rumore: tutti sanno che non bisogna irritare il giudice, che altrimenti potrebbe far sgombrare l’aula e costringerli ad aspettare fuori per delle ore. Ol’ga è al settimo mese di gravidanza. Nella tragedia ha perso la primogenita quattordicenne, che era tra il pubblico. Gliel’aveva comperato lei, il biglietto, e il 23 ottobre la figlia era andata a vedere quel
“maledetto spettacolo”, come lo definisce oggi Ol’ga. “Perch‚ volete umiliarci?” esplode Tat’jana Karpova, madre di Aleksandr Karpov e moglie di Sergej. “Perch‚?”.
Zoja Cernecova - madre di Danila Cernecov, ventun anni, studente universitario morto soffocato dai gas mentre guadagnava qualche soldo facendo la maschera in teatro - si alza e se ne va, ma il suo pianto disperato al di là della porta torna in aula, mescolato alle parole: “Io volevo dei nipotini… [la giovane vedova del figlio era incinta, ma ha perso il bambino nove giorni dopo il funerale di Danila]. E invece ho avuto questo processo dove vengo insultata impunemente!”.
Come il re nudo non aveva abiti addosso, il nostro Paese non ha mai avuto una tradizione giudiziaria. N‚ un autentico potere giudiziario. Il giudice Gorbac‰va ne è un esempio. I suoi datori di lavoro non siamo noi, cittadini contribuenti, ma quelli che l’hanno messa dov’è, e allora, per paura che le tolgano i privilegi e i vantaggi del suo status (che non sono pochi e rendono la vita dei giudici assai più gradevole di quella di un normale cittadino a basso reddito), non può far altro che rigettare ogni istanza sgradita. D’accordo. Ma perch‚ infierire? Perch‚ offendere e deridere? Perch‚ uccidere chi è già morto?
Ma chi è il giudice Gorbac‰va, che con tanto accanimento difende i diritti dell’erario moscovita?
La risposta parrebbe semplice: la Gorbac‰va rappresenta una branca di quel potere che si mantiene con le tasse dei contribuenti. In pratica il giudice campa sui nostri soldi, siamo noi a retribuire i suoi servigi, e non viceversa. Dunque perch‚ tanto disprezzo per chi le paga lo stipendio?
Pensate che gli organi di stampa, tutti filogovernativi e controllati dal governo, abbiamo fatto parola dell’accaduto? O che ne abbia parlato la televisione di Stato? Figurarsi. Stampa e televisione hanno informato i cittadini che il giudice Gorbac‰va godeva dell’appoggio delle autorità in difesa degli interessi dello Stato, che vengono prima di quelli dei singoli.
Questa è la nuova ideologia russa. L’ideologia di Putin. Testata sul campo in Cecenia. E’ stato allora, con l’ascesa al trono del Cremlino di Vladimir Putin e il fragore delle bombe all’inizio della seconda guerra cecena, che la Russia ha commesso il suo primo errore, tragico e immorale, da imputare alla sua patologica incapacità di riflettere. La Russia ha ignorato che cosa stava davvero accadendo in Cecenia: bombardamenti su città e villaggi e non sugli accampamenti dei terroristi, centinaia di vittime innocenti. E’ stato allora che buona parte di coloro che in Cecenia ci vivevano ha sentito (e sente tutt’oggi) di non avere la bench‚ minima speranza. “Basta piangere. Rassegnatevi: sono le ragioni della guerra al terrorismo” veniva (e viene) loro propinato dalle autorità militari e civili che gli portano via figli, padri e fratelli senza spiegazioni di sorta, e che si infuriano quando le madri disperate a cui hanno ucciso i figli pretendono di conoscere le ragioni di quelle morti.
Per tre anni l’opinione pubblica è rimasta in silenzio. O quasi. La stragrande maggioranza di noi ha assolto lo Stato per la sua condotta in Cecenia e ha ignorato cinicamente chi sosteneva che ci si sarebbe ritorta contro, in quanto un governo che già una volta si è comportato in un certo modo non si fermerà di fronte a nulla e metterà alla prova anche la pazienza di chi sta fuori dalla Cecenia…
Così è stato. Anche alle vittime di “Nord-Ost” ripetono la stessa solfa: “Basta piangere.
Rassegnatevi. Così andava fatto. Gli interessi dello Stato vengono prima di quelli del singolo”. Lo Stato si comporta con loro come da tre anni e mezzo a questa parte si comporta con la popolazione civile cecena. Anzi no, forse un po’ meglio. Un cinquanta-centomila rubli meglio, dato che nel caso di “Nord-Ost” si è fatto carico dei funerali delle vittime. E in Cecenia no.
Come ha reagito l’opinione pubblica, la gente? Nessuna compassione per le vittime. Per lo meno nessuna compassione organizzata in reazione sociale e pubblica che le autorità non potessero ignorare. Anzi. La nostra società traviata vuole quiete e agio anche a prezzo della vita altrui. E
passa oltre la tragedia di “Nord-Ost”, fidandosi del (comodo) lavaggio del cervello messo in atto dallo Stato più che della realtà dei fatti o delle parole di un vicino coinvolto in prima persona.
Un’ora dopo l’intervento di Aleksandr Chramcov il giudice Gorbac‰va snocciola la sua sentenza a favore dei governanti della capitale. Tutti lasciano l’aula. Rimangono solo i ‘vincitori’: Jurij Bulgakov, legale alle Finanze del Comune di Mosca, Andrej Rastorguev e Marat Gafurov, consiglieri dell’ufficio legale del Comune di Mosca.
“Festeggiate?” mi scappa di bocca.
“No” mi rispondono tutti e tre, rattristati. “Siamo esseri umani. Ci rendiamo conto anche noi… E’
una vergogna che lo Stato li tratti in questo modo”.
“E allora perch‚ lo fate? Perch‚ avete accettato questo compito indegno?”.
Silenzio. Mosca ci avvolge nell’abbraccio della notte. Accompagnando alcuni a un focolare colmo delle risa e dell’affetto dei propri cari. E altri in appartamenti sordi, vuoti per sempre dalla sera del 23 ottobre. L’ultimo a uscire, ingobbito, è un signore non più giovane e canuto con un’espressione vivace negli occhi. E’ rimasto lì, senza mai intervenire, per tutta l’udienza, in un angolo, dignitosamente.
“Come si chiama?” gli chiedo.
“Tukaj Valievic Chaziev”.
“Era là dentro anche lei?”.
“No. Ci ho perso un figlio…”.
“Possiamo parlare?”.
E’ riluttante, ma mi dà il suo numero di telefono… “Non so come potrebbe prenderla mia moglie… Non è una cosa di cui riesce a parlare… Va bene, mi chiami tra una settimana, intanto io cercherò di spiegarle…”.
La famiglia Chaziev ha passato l’inferno. E non sono parole. Non hanno solo seppellito Timur, orchestrale ventisettenne del musical “Nord-Ost”, figlio, nipote, padre, marito e fratello. Hanno anche subito angherie tremende da quell’ideologia che, di fatto (e non sto esagerando), ha ucciso Timur.
“Davvero Putin non poteva trovare un compromesso con i ceceni? Con i terroristi?” non fa che ripetere Tukaj. “A chi serviva tanta pervicacia? A noi no… Siamo o non siamo cittadini anche noi?”.
Nella casa sul Volgogradskij prospekt, a Mosca, Tukaj Chaziev è l’unico che riesce a parlare di certe cose senza piangere. La moglie Roza, Tanja, la vedova di Timur, e la nonna ottantasettenne non possono tenere a freno il dolore. A frullare come una trottola fra gli adulti c’è la bionda Sonja, la figlia di Timur, che si è perso la festa del suo terzo compleanno.
Apparecchiano. Sonja si arrampica su una sedia, altrimenti non riuscirebbe a prendere la tazza più grande. “Questa è per papà. E’ di papà, questa! Non usarla, tu!” scandisce senza possibilità di appello. La nonna Roza le ha spiegato che papà è andato in cielo e che non tornerà, ma Sonja è piccola e non capisce perch‚…
“Io credevo nello Stato” dice Tukaj Chaziev. “Ci ho creduto fin quasi alla fine dei tre giorni dell’occupazione. Pensavo che si sarebbero inventati qualcosa, che avrebbero trovato un accordo, che avrebbero fatto qualche promessa per alzare una cortina di fumo, e che tutto si sarebbe risolto… Non mi aspettavo certo che avrebbero seguito i consigli di Zirinovskij… Ricordo che disse che bisognava avvelenarli tutti col gas, così si sarebbero fatti una bella dormita di un paio d’ore, dopo di che si sarebbero svegliati e sarebbero usciti di lì… Non si sono svegliati. E
non sono usciti”.
La vita di Timur Chaziev era legata a doppio filo alla musica e alla Casa della Cultura di via Dubrovskaja 1, dove da bambino aveva frequentato il laboratorio musicale Lira e dove lo aspettava la morte quale membro dell’orchestra scritturata per il musical.
All’epoca Tukaj e Roza, i suoi genitori, avevano una stanza in un appartamento in coabitazione poco distante da lì, e due dei loro figli - El’dar (il maggiore) e Timur (il minore) - avevano studiato fisarmonica alla Casa della Cultura. A Timur gli insegnanti avevano consigliato di continuare gli studi. Terminata la scuola del ‘obbligo, giunse il momento di fare una scelta, e nel giro di appena un anno, aiutato solo dal proprio maestro, Timur sostenne l’esame per gli strumenti a percussione. Scelse poi di dedicarsi agli strumenti a fiato, e completò il corso in tre anni invece che quattro. Quindi passò all’Accademia Gnesin, il sogno di una vita.
Il suo insegnante diceva che era raffinato, elegante e colto, che teneva le bacchette delle percussioni in un modo tutto suo, aristocratico quasi…
Oltre a frequentare l’Accademia, Timur lavorava per le orchestre del ministero della Difesa, quella sinfonica e quella di fiati. Con loro era andato in tourn‚e in Norvegia e avrebbe dovuto suonare in Spagna, ma dopo quel 23 ottobre.
“Gli avevo preparato l’uniforme… E il frac per il concerto” dice Roza con voce ferma, per non cedere alle lacrime, mentre apre l’armadio. “Non vogliono riprenderseli, quelli del ministero…”.
Sonja ci vola accanto e afferra il berretto con la coccarda, se lo calca in testa e saltella per la stanza: “E’ di papà! E’ di papà!”. Tanja non resiste ed esce.
Finita l’Accademia, a Timur viene offerto di suonare per “Nord-Ost”. Era il terzo lavoro, ma lo accettò. Perch‚ aveva una moglie e una bambina piccola. Tanja è diplomata all’Accademia di euritmia, è attrice e regista, ma fa l’educatrice in un asilo, con i pochi soldi di stipendio che ne vengono. Tutto per Sonja.
Si può non credere ai presentimenti e alle sensazioni, però…
“Timur aveva smesso di dormire un mese prima dell’attentato” mi racconta Tanja. “Mi svegliavo all’alba e lo trovavo lì, seduto. ‘Vieni a letto,’ gli dicevo ‘cosa fai?’. ‘C’è qualcosa che mi preoccupa’ rispondeva…”.
In famiglia pensavano tutti che fosse solo molto stanco. Le sue giornate cominciavano presto.
Accompagnava Sonja e Tanja all’asilo, in macchina, poi passava a casa dei genitori per esercitarsi; gli strumenti li teneva da loro. Ultimamente stava cercando di migliorare la mano sinistra, era felice dei risultati e diceva a Tanja che nel giro di un paio d’anni sarebbe diventato un ottimo percussionista. Dopo aver fatto un po’ di pratica, saltava nuovamente in macchina e andava alle prove dell’orchestra del ministero; da lì, in un intervallo, correva a riprendere moglie e figlia all’asilo e le riportava a casa, dopo di che andava a suonare per “Nord-Ost”. Rincasava verso mezzanotte, e la mattina dopo, di buon’ora, tutto ricominciava da capo. Dava l’impressione di avere una gran fretta di vivere la vita. Perch‚? Aveva solo ventisette anni.
Nessuno ha una risposta a questa domanda. E nemmeno al perch‚ il 23 ottobre Timur fosse in teatro…
“Era un mercoledì” racconta Tanja. “E avevamo deciso che il mercoledì doveva essere la serata per la famiglia. Di solito il mercoledì suonava un altro percussionista, ma quel giorno aveva chiesto a Timur di sostituirlo perch‚ la sua ragazza voleva che stesse con lei… Ha salvato il suo uomo… E io ho perso il mio”.
“Neanche lei vorrebbe che le cose di un suo caro restassero in giro, giusto?” mi chiede Roza.
“Allora siamo andati là dentro… E non abbiamo trovato n‚ il cellulare, che Timur si era appena comperato con i primi soldi, n‚ i suoi vestiti nuovi”.
“Là dentro”, va da s‚, Roza aveva avuto una crisi isterica. Ai genitori di Timur è stata restituita una vecchia giacca con un’impronta di stivale sulla schiena e una maglietta. Nient’altro.
Negli ultimi anni siamo diventati molto più rozzi. E molto più vili. E’ una tendenza evidente, e lo diventa sempre più man mano che la guerra nel Caucaso continua, trasformando vecchi tabù in abitudini consolidate. Omicidi? Roba di tutti i giorni… Furti? Che c’è di male! Sciacallaggio? E’ la norma. I crimini non trovano una condanna non solo in un’aula di tribunale, ma nemmeno nell’opinione pubblica. Quel che prima era vietato, ora è lecito…
In quei giorni tremendi di ottobre pareva che tutto il Paese stesse pensando a come aiutare gli ostaggi, che pregasse, sperasse e aspettasse una soluzione, unito come mai…
Ma in pratica non pot‚ fare nulla. I servizi speciali non lasciavano passare nessuno. “E’ tutto sotto controllo” dicevano. Ma come possiamo sorvolare sul fatto che tra coloro che hanno avuto libero accesso all’interno ci sia stato qualcuno che ha fatto un po’ di shopping? Che si è portato via le cose più belle e più nuove? Perch‚, vista dal di fuori, è così che è andata. Le famiglie delle vittime non se lo toglieranno mai di dosso ciò che hanno provato in quei giorni. Nemmeno con un milione di dollari a testa per i danni morali. Ricorderanno tutto quanto.
A giudicare dalla sua maglietta, Timur era - sì - a terra, ma fuori, per strada. Roza non è riuscita a smacchiarla, quella mistura tutta moscovita di fango, benzina e grasso…
L’ultima volta che era uscito per andare al lavoro, Timur aveva in tasca una decina di tesserini completi di fotografia: quello di musicista dell’orchestra di “Nord-Ost”, quello dell’orchestra del ministero della Difesa, la carta d’identità, la patente… E anche una rubrica telefonica con i numeri di amici e parenti…
Ciò nonostante, il 28 ottobre, la famiglia si vide consegnare il suo corpo con attaccata a un braccio una targhetta di plastica su cui era scritto: “n. 2551. Chamiev. Non identificato”.
“Com’è potuto succedere?” mi chiede Roza. “E perch‚ ‘Chamiev’ con la ‘m’? E perch‚ ‘Non identificato’, se prima c’è scritto ‘Chamiev’? E perch‚ abbiamo dovuto cercarlo per tanto tempo?
Bastava aprire la sua rubrica telefonica, scegliere un numero a caso e chiedere: ‘Conosce Timur Chaziev?’. Gli avrebbero dato subito il nostro telefono…”.
La madre di Timur sta parlando del giorno dopo l’irruzione, di quel lunghissimo 26 ottobre che la famiglia Chaziev non potrà più dimenticare.
“Fino alle quattro del pomeriggio il suo nome non figurava da nessuna parte, in nessun elenco ufficiale degli ostaggi” mi racconta Tukaj Chaziev. “E’ spuntato di colpo dopo che avevamo fatto il giro degli obitori e degli ospedali. In una breve lista di una ventina di persone, incluso Timur; si diceva che era vivo e si trovava nell’ospedale n. 7. Ho chiamato mia moglie e le ho detto che era tutto a posto. Abbiamo pianto di gioia, gli amici ci hanno fatto le congratulazioni. Tat’jana e io siamo andati subito in ospedale”.
All’ingresso, però, trovano una guardia che non fa passare nessuno: divieto della procura, dice.
Tanja scoppia a piangere. La guardia si muove a pietà e sussurra a Tukaj che se il loro caro è lì non è una bella notizia: “E’ morto”. Tanja lo sente e lo supplica di lasciarla entrare. La guardia cede una seconda volta e apre la porta.
I corridoi sono deserti. Poi incontrano un poliziotto con un mitra ad armacollo.
“Un uomo senza cuore” mi dice Tanja. “Altro che ‘Fatevi coraggio’ o ‘Siate forti’… ‘E’ morto, Fuori di qui!’ ci ha sputato dritto in faccia. Gli ho urlato di tutto per venti minuti. Sono accorsi i medici. ‘Chi vi ha fatto passare?’ ci chiedevano…”.
Quando Tanja torna in s‚, chiede di poter vedere il corpo di Timur prima dell’autopsia. Le dicono di no. Lei insiste. “Lo chieda a Putin, il permesso” le dice il poliziotto. Arrivano tre personaggi della procura: “Quanta fretta! Come mai?” chiedono. “Avrete tutto il tempo per chiudergli la bara! Nome? Chaziev? E’ ceceno?”.
Quello era stato il guaio di Timur Chaziev! Un cognome tataro che gli uomini della sicurezza avevano scambiato per ceceno. Il resto era solo una conseguenza.
Ora la famiglia è convinta che Timur sia morto perch‚ era stato scambiato per ceceno e intenzionalmente privato delle cure. Quando gli uomini della famiglia Chaziev andarono a prendere il suo corpo all’obitorio, Timur aveva scritto sul petto “9.30”, l’ora di un decesso sopraggiunto in ospedale, dunque. E nient’altro. Niente tracce di flebo, iniezioni, ventilazione forzata… Le alte sfere avevano dato ordine di eliminare i ceceni e, in quanto “ceceno”, Timur non aveva diritto a essere rianimato. Era rimasto quattro ore e mezzo lì, agonizzante, a morire.
Ad ucciderlo era stata l’ideologia di Stato.
“Non valiamo niente, in questo Paese… Siamo rifiuti umani. Questa è la storia del mio Timur”
sono le ultime parole di Tanja.
Il 26 ottobre, mentre Tanja e Tukaj Chaziev stavano aspettando fuori dell’ospedale, una squadra di una ventina di persone - alcune in divisa, altre in borghese - aveva cercato di entrare in casa di Timur. La vicina era riuscita a stento a sventare l’irruzione. All’ospedale avevano ricevuto “una soffiata”: ci abitava un ceceno, lì, le avevano spiegato.
Che cosa devono fare, ora, i Chaziev? Smettere di piangere e rassegnarsi?
“Quando l’abbiamo detto in tribunale” ricorda Tukaj “il giudice Gorbac‰va ha fatto orecchie da mercante. Sosteneva che tutti avevano ricevuto assistenza medica”.
I Chaziev hanno ricevuto un certificato di morte, ma la “causa del decesso” è in bianco. Neanche un accenno all’attentato. Dunque, oltre all’ideologia assassina, contro Timur e i suoi agisce un sistema statale di cancellazione giuridica delle prove.
“Immagino che abbiate chiesto alla procura perch‚ la causa del decesso è rimasta in bianco”.
“Certamente. Il 28 ottobre. E ci hanno spiegato che era una semplice formalità affinch‚
potessimo celebrare il funerale al più presto, e che avrebbero scritto la vera causa della morte non appena avessero ricevuto i risultati dell’autopsia…”.
“E lo hanno fatto?”.
“Certo che no”.
Una risposta disarmante. Dal potere non ci si aspetta la verità. Nel migliore dei casi il potere è fonte di guai. Alla faccia dei sondaggi sulla popolarità del governo, che risulta sempre altissima.
L’ufficio del presidente ha da poco istituito un apposito dipartimento preposto a curare l’immagine del Paese e del suo capo all’estero. L’intenzione è di limitare la fuoriuscita di informazioni negative e di fare sì che la Russia si presenti sotto una luce migliore agli occhi degli stranieri. Non sarebbe invece preferibile che si creasse un dipartimento analogo per migliorare l’immagine del Paese e del presidente agli occhi dei russi stessi?
“Davvero Putin non poteva fare marcia indietro? E dire basta alla guerra? I nostri cari sarebbero ancora vivi” non fa che ripetere Tukaj Chaziev. “Io voglio sapere chi è il responsabile della nostra tragedia. Tutto qui”.
Di recente Tanja ha comperato Kirjusha e Frosja. Una tartaruga e un gatto. Per avere qualcuno da cui tornare. Per quanto non si renda conto di che cosa sia successo, dopo l’asilo la piccola Sonja non vuole rientrare in una casa dove non c’è il suo papà…
E ancora: qualche tempo fa i Chaziev hanno ricevuto una telefonata dal redivivo “Nord-Ost” e si sono sentiti offrire dei biglietti per il musical. Li hanno rifiutati, è ovvio, ma dall’altra parte hanno insistito: se un giorno volessero… Un’iniziativa di dubbio gusto: rappresentare la gioia sulla scena di un massacro… Come ci siamo ridotti…
STORIA TERZA.
SIRAZDI, JACHA E I LORO AMICI.
Solo un pazzo potrebbe invidiare i ceceni che vivono in Russia. La loro vita non è mai stata rose e fiori neanche in passato, ma dopo il caso “Nord-Ost” la macchina della vendetta etnica di Stato ha ingranato la velocità massima. Attacchi razzisti e purghe sotto l’egida della polizia sono diventati routine. Basta un attimo per perdere la vita, la casa, il lavoro, la terra sotto i piedi… E
la ragione è una sola: sono ceceni. Per loro la vita a Mosca e in molte altre città non solo è impossibile, con gente che pur di sbatterti qualche anno in galera ti infila della droga in tasca e delle pallottole in mano; la realtà è diventata un incubo, un vicolo cieco, un muro di gomma senza uscita per chi viene considerato apertamente un paria. Un tipo di vita a cui non sfugge nessuno, bambini e vecchi inclusi.
“Quando hanno cominciato a parlare ceceno, interrompendo il primo atto, ho capito subito che era una cosa seria e che non sarebbe finita bene. L’ho capito subito…”. Jacha Neserchaeva, quarantatr‚ anni, economista di formazione e di professione, è nata a Groznyj, è cecena, ma vive a Mosca da tempo. Il 23 ottobre era andata a vedere “Nord-Ost”. Galja, una sua vecchia amica di Uchta, città del Nord della Russia, aveva comperato due biglietti di tredicesima fila, in platea, e l’aveva trascinata fuori di casa. Jacha non ha una gran passione per i musical, ma Galja aveva insistito perch‚ le facesse compagnia.
“Gliel’ha detto, ai terroristi, che era cecena?”.
“No. Ho avuto paura. Non sapevo che cos’era meglio fare. Magari mi avrebbero sparato: una cecena che assisteva a un musical!”.
Jacha non l’ha visto, il gas, mentre molti altri ostaggi riferiscono di aver notato delle strane volute bianche. Dal suo posto Jacha ha solo sentito gridare: “Il gas! Stanno usando il gas!”. Poi è svenuta.
Ha ripreso i sensi in ospedale, anche lei al policlinico n. 13 come Irina Fadeeva, protagonista della prima storia. Aveva forti conati di vomito e non era del tutto in s‚, ma di lì a poco si trovò di fronte un giudice istruttore.
“Mi chiese nome, cognome, indirizzo e perch‚ fossi a teatro… Dopo di che si presentarono due donne che mi presero le impronte digitali e i vestiti per una perizia. Il giudice tornò la sera:
‘Brutte notizie’ mi disse. La prima cosa che mi passò per la testa fu che l’amica con cui ero andata al musical fosse morta. E invece no: ‘La dichiaro in arresto per complicità con i terroristi’.
Fu uno choc. Ma mi alzai e lo seguii, in pantofole e vestaglia. Per due giorni mi tennero all’ospedale n. 20 [un ospedale di sicurezza], dove nessuno mi chiese niente e dove nessuno mi curò. Non ne ho mai ricevute, di cure, io… Alla fine del secondo giorno il giudice istruttore tornò, mi fece delle foto e registrò la mia voce. Qualche minuto dopo mi portarono un cappotto e degli scarponi da uomo, mi misero le manette e mi dissero: ‘Deve essere curata in un altro ospedale’.
Mi caricarono su una macchina della polizia, mi tennero una decina di minuti in un ufficio della procura, dopo di che mi portarono in prigione, al carcere di isolamento femminile di Mar’ino, così com’ero. Non mi lavavo e non mi pettinavo da una settimana, ero senza calze, con degli scarponi di tre numeri più grandi e un cappotto lercio da uomo. ‘Lurido topo di fogna’ mi ripeteva la secondina…”.
“L’hanno interrogata spesso, quand’era in isolamento?”.
“Mai. Me ne stavo lì, ferma, e dicevo alla guardia che volevo vedere il giudice istruttore…”.
Jacha parla lentamente, sottovoce, senza tradire alcuna emozione. Pare quasi assente. Se non sapessi che è viva, penserei che non è più tra noi. Ha gli occhi sgranati, fissi su un punto. Il viso immobile. La fotografia sulla carta d’identità pare di un’altra persona: l’espressione è diversa, quella di una bella donna sicura di s‚.
Ogni tanto prova a sorridere, Jacha, ma nelle due settimane che ha passato in prigione i suoi muscoli hanno dimenticato come si fa… In cella aveva deciso che era finita, che nessuno sarebbe venuto a salvarla. Peggio di così non poteva andare. Lungo il tragitto i poliziotti che l’avevano trasferita in prigione dall’ospedale, gli unici che le abbiano mai rivolto la parola, l’avevano informata che “l’avrebbe pagata per tutti gli altri”: loro erano stati sterminati, lei era ancora viva…
Ma come in tutti i musical, prima che il sipario cali arriva il lieto fine.
Gli amici di Jacha si chiamarono a raccolta e trovarono subito un avvocato che riuscì miracolosamente ad aprirsi un varco in un muro che pareva impenetrabile. Dopo dieci giorni di prigione, Jacha venne rilasciata. In un’epoca di razzismo conclamato come la nostra, gli uomini della procura che si occupavano del caso n. 229133 (il “Nord-Ost”) non trovarono nulla contro di lei e si comportarono civilmente, evitando di inventarsi chissà che al pari di altri loro colleghi quando si ritrovano per le mani dei ceceni: non le cucirono addosso un’accusa “ad hoc”, evitarono abusi e vessazioni al solo scopo di vendicarsi su una cecena. Caso raro, di questi tempi.
Nel rilasciarla, anzi, le presentarono persino delle scuse e la scortarono a casa in macchina.
Siano, dunque, ufficialmente rese grazie al giudice istruttore V. Prichozich e agli uomini del ministero degli Interni, distretto Bogorodskoe, che consegnarono a Malika, la sorella maggiore di Jacha giunta in tutta fretta da Groznyj per aiutarla a rimettersi in sesto, un foglio che la autorizzava a risiedere a Mosca per prestare assistenza a un familiare in difficoltà. Senza un foglio simile, oggi, a Mosca, una cecena non può nemmeno uscire di casa, pena l’arresto immediato, e loro lo sapevano…
Aelita Shidaeva ha trentun anni. E’ cecena anche lei, e vive a Mosca, con i genitori e la figlia Chadizat, da che è iniziata la guerra. Aelita è stata arrestata sul posto di lavoro, in un bar vicino alla fermata del metrò Mar’ino. E’ calma e controllata mentre mi racconta la sua storia. Niente lacrime, niente scenate isteriche, piuttosto un sorriso cordiale. Può quasi sembrare che la sua non sia stata una brutta esperienza. Ma poi scopro che quando l’hanno rilasciata - dopo sette ore di terzo grado nel comando di polizia di Mar’inskij park - Aelita è svenuta per strada…
“E’ stato tutto molto strano… E’ cominciata con un poliziotto venuto a pranzare da noi al bar…
Ma vengono in tanti, il comando è a un centinaio di metri. Non ho mai fatto segreto di essere cecena e di essere scappata da Groznyj e dalla guerra. Quel poliziotto, insomma, ha mangiato ed è uscito. Poi sono arrivati gli altri, tutti insieme, una quindicina con in testa Vasil’ev, il poliziotto di quartiere, che mi conosce benissimo. Hanno fatto mettere tutti contro il muro, ci hanno perquisito e poi mi hanno portato via”.
“Che cosa le hanno chiesto?”.
“In che rapporti ero con i terroristi. ‘Ma mi avete visto tutti!’ gli ripetevo io. ‘Mi avete sotto gli occhi dodici ore al giorno, dalle undici della mattina alle undici di sera!’“.
“E loro?”.
“‘Con quale dei terroristi sei stata al ristorante?’. Non ci vado mai, al ristorante, io! Faccio un’altra vita! Mi hanno detto che se non confessavo di avere dei legami con i terroristi mi avrebbero nascosto in casa della droga o delle armi. Mi interrogavano a turno. E intanto c’erano degli altri militari in divisa che passavano e osservavano la scena. A un certo punto mi hanno detto che se non confessavo, mi avrebbero fatto ‘lavorare’ da quelli là, che aspettavano solo un cenno. E che con quelli ‘lo vuotavano tutti, il sacco’“.
Alla polizia le dissero anche che era stata licenziata. Erano stati loro a indurre il proprietario del bar a farlo, altrimenti gli avrebbero chiuso il locale.
Se Aelita è stata rilasciata è solo perch‚ la madre Makka, insegnante di russo, è un’attivista del movimento per i diritti civili e “ha fatto un gran casino” (testuali parole dei poliziotti). Makka chiamò la radio Eco di Mosca, mobilitò il celebre avvocato Abdula Chamzaev e altri con lui, e nonostante al comando di polizia insistessero ottusamente nel dire che sua figlia lì non c’era, alla fine riuscì a farla rilasciare.
Aelita non è più sotto choc. Comprende perfettamente la sua situazione e dice che vuole andarsene da Mosca.
“In Cecenia?”.
“No. All’estero”.
Makka è contraria. Non all’idea che Aelita porti con s‚ la figlia, che ha diritto a un’istruzione nonostante quanto perpetrato da Movsar Baraev al teatro Dubrovka e nonostante le attenzioni della polizia moscovita nei confronti delle ragazze cecene. Makka è contraria al fatto di partire con loro. Non riesce a immaginarsi di vivere altrove. Ma non riesce nemmeno a immaginare che cosa voglia la Russia da lei, da Aelita e da Chadizat, tre generazioni di donne cecene. La prima, la più anziana, ha vissuto buona parte della sua vita in URSS. La seconda, più giovane, non ha mai avuto una vita vera, sa solo fuggire da un posto all’altro, da una guerra all’altra. La terza, giovanissima, finora osserva e ascolta attentamente il mondo attorno a s‚ e non dice nulla.
Finora.
La maestra di Chadizat ha appena chiamato Aelita. E’ molto imbarazzata nel chiederle di portare un foglio che attesti il suo status di ragazza madre. Ma chi li rilascia, certi attestati? In caso contrario, vede, anche se gli altri documenti sono a posto, “non ci sarà niente da fare”…
Chadizat verrà espulsa. Lei che era stata portata a Mosca perch‚ potesse studiare e che dopo il 26 ottobre non ha più un posto nella sua scuola, la n. 931.
“Non riesco a capire se il fatto di essere una ragazza madre sia un ‘pro’ o un ‘contro’“ dice Aelita. “Di chi mi posso fidare?” (11).
Per diversi anni Abubakar Bakriev ha ricoperto modesti incarichi tecnici per una compagnia chiamata Prima Banca repubblicana. Ora, però, è libero. Liberissimo. E’ successo senza drammi, semplicemente. Un giorno è stato convocato dal viceresponsabile della sicurezza della compagnia, che gli ha detto: “Cerca di capirmi, ma quelli come te ci tireranno addosso dei guai.
Firmami una lettera di dimissioni”.
Abubakar non riusciva a credere alle sue orecchie. Poi, però, il suo capo ha aggiunto che “quelli”
volevano dimissioni retrodatate, magari al 16 ottobre, di modo che non sorgesse il sospetto che lo stessero licenziando per una reazione anticecena al caso “Nord-Ost”. In breve: i carnefici lo ammazzavano (perch‚ per un ceceno il licenziamento equivale alla morte: non ha speranza di trovare un altro lavoro) e volevano anche comprensione… E’ un approccio diffuso, ultimamente:
“Cara la mia vittima, sto per farti fuori, ma non perch‚ sono cattivo. Sono gli altri che mi costringono. Dunque non pensare che io sia un assassino…”.
Quello stesso giorno la banca ‘fece dimettere’ allo stesso modo anche un daghestano, sempre con lettera retrodatata. Aveva un ruolo modesto, ma venne ‘epurato’ a scanso di domande indesiderate sul fatto che dessero lavoro a persone di origine caucasica.
“La Prima Banca repubblicana è stata ripulita” dice Abubakar. “I servizi di sicurezza possono dormire sonni tranquilli. Ho cinquantaquattro anni. Non so dove andare. La polizia è già venuta tre volte a casa mia a vedere come campo con tre figli a carico. Ci state trasformando in nemici.
Dovete capire che non ci resta altro modo, ormai, per reclamare l’indipendenza… Perch‚ da qualche parte ci deve pur essere una terra in cui poter vivere in pace. Dateci un pezzo di terra.
Uno qualunque. E noi ci andremo a vivere…”.
Isita Cirgizova e Natasha Umatgarieva sono due donne cecene che vivono nel campo profughi provvisorio del villaggio di Serebrjaniki, nella zona di Tver’. Ci siamo conosciute al commissariato 14 della polizia di Mosca. Isita si stava pulendo le dita dopo che le avevano preso le impronte. Natasha non riusciva a smettere di piangere. Le avevano appena rilasciate. Un miracolo, al giorno d’oggi. I poliziotti avevano avuto pietà.
La mattina del 13 novembre le due donne erano state le protagoniste di una tipica storia cecena moderna. Erano arrivate a Mosca in treno, di buon’ora, per ritirare degli aiuti da una organizzazione umanitaria. Le avevano arrestate nella stazione del metrò, a pochi metri dalla porta dell’organizzazione, perch‚ Natasha zoppicava (ha un’ulcera da diabete a un piede) e i poliziotti pensavano che si trattasse di una guerrigliera ferita. Isita, invece, è al settimo mese di gravidanza e sotto la giacca ha un bel pancione. Peccato che proprio lì le kamikaze si allaccino la cintura con l’esplosivo… Non ridete. La spiegazione fornita dal maggiore Ljubeznov (che a dispetto del suo nome - “ljubeznyj” significa amabile - fu tutt’altro che gentile), di turno quel giorno e pronto a palpare personalmente il ventre di una donna incinta per la giusta causa della lotta al terrorismo, fu proprio quella. Doveva verificare che fosse ‘autentica’. Santo cielo.
La storia di Isita e Natasha ha avuto un lieto fine. I poliziotti si sono limitati a rovesciar loro addosso una valanga di accuse nefande del tipo “voi ammazzate noi e noi ammazziamo voi”, ma il maggiore Ljubeznov non ha avuto modo di infierire oltre. L’essenziale è aver provato che è stato possibile fare due cose importantissime. La prima, intercettare le due donne prima che le portassero in isolamento. La seconda, convincere il capo del comando di polizia Vladimir Mashkin (disposto a lasciarsi convincere) che se la gente va a chiedere gli aiuti umanitari lo fa perch‚ è povera e perch‚ non ha modo di trovare un lavoro e una casa…
Zara vendeva ortaggi alla stazione del metrò Rechnoj Vokzal. Un giorno il proprietario del mercato le si avvicinò e le disse: “Da domani fai a meno di venire. Sei cecena”. Zara ha una famiglia sulle spalle: tre figli e un marito tubercolotico.
Aslan Kurbanov ha passato tutta la prima guerra cecena in un campo profughi in Inguscezia. In estate ha fatto domanda di iscrizione in un istituto universitario di Saratov, dopo di che è sbarcato a Mosca, dalla zia Zura Movsarova, dottoranda presso l’Istituto Tecnico Aeronautico, si è trovato un lavoro e ha ottenuto il permesso di soggiorno nella capitale.
Il 28 ottobre in casa sua si presentarono gli uomini della polizia investigativa del comando n.
172 (quartiere Brateevo). Il giorno prima il poliziotto di quartiere aveva chiesto a Zura di farsi prendere le impronte digitali, perciò quando gli agenti dissero ad Aslan di seguirli per lo stesso motivo, nessuno ebbe il minimo sospetto che si trattasse d’altro. Aslan si infilò il cappotto e salì sulla macchina della polizia.
Tre ore più tardi non era ancora tornato e Zura aveva cominciato a preoccuparsi. Era andata alla polizia, dove le avevano comunicato che il nipote era agli arresti per possesso di droga. Come sarebbe? S’era messo il cappotto, si era infilato in tasca qualche dose ed era andato a consegnarsi alla polizia? Dalla cella Aslan era riuscito a gridare alla zia d’esser stato portato in una stanza; lì avevano tirato fuori della marijuana da un cassetto e gli avevano spiegato che era roba sua: “Perch‚ noi, ai ceceni, non gli diamo pace. Vi sbatteremo dentro tutti quanti così”.
Aslan non fuma nemmeno le sigarette. Ha festeggiato il suo ventiduesimo compleanno in galera, nella prigione di Matrosskaja Tisina.
La mattina del 25 ottobre la polizia ha fatto irruzione nell’appartamento della famiglia ceceno-moscovita dei Gelagoev. Alichan, il padrone di casa, è stato ammanettato e portato via. Marem, la moglie, si è precipitata alla polizia - comando di Rostokino - per tentare di aiutarlo. Là si è sentita dire che i poliziotti non avevano mai lasciato la centrale. Marem ha telefonato subito a Radio Liberty, che ha dato notizia dell’accaduto. Quella sera stessa Alichan è stato rilasciato.
Marem aveva trovato la via giusta…
Alichan mi ha riferito di essere stato incappucciato e percosso durante il tragitto verso la centrale. Al grido di: “Voi ci odiate, ma noi odiamo voi! Voi ci volete distruggere, e noi distruggeremo voi!”.
Arrivati in sede, alla Petrovka, avevano smesso di picchiarlo, ma per ore avevano cercato di convincerlo a firmare una confessione: doveva ammettere di essere la mente dell’attentato al teatro Dubrovka (una tecnica mutuata dai colleghi d’epoca stalinista). La confessione, tra l’altro, era già pronta. Mancava solo una firma in calce.
Alichan si rifiutò. Ma per poter essere rilasciato fu comunque costretto a firmare un verbale in cui diceva di essersi “presentato volontariamente alla centrale di polizia” e di non avere “reclami da sporgere contro le forze dell’ordine”.
E’ razzismo, questo? Sissignori. E’ l’inferno? Certamente. Ed è anche una parodia cinica della guerra al terrorismo. Per questo non credo alle cifre dell’operazione Turbine che la polizia sbandiera ai quattro venti. Dicono di aver arrestato non so quanti “complici dei terroristi”. False le cifre. Falsi i poliziotti. Falsi i verbali. Falso il loro lavoro basato sulla menzogna.
E intanto dove sono i terroristi veri? Che cosa stanno facendo? Nessuno lo sa… La polizia non ha tempo di occuparsene. E il responsabile di questo ritorno a un’impostura tutta sovietica è Putin.
“‘Non preoccuparti, ti fai tre, quattro anni dentro e poi esci…’ mi dicevano alla polizia mentre mi interrogavano. Per rassicurarmi, secondo loro” racconta Zelimchan Nasaev, trentasei anni. “‘E
magari ti danno anche la condizionale. Firma, che ti conviene’…”.
Zelimchan vive a Mosca da qualche anno. La sua famiglia è fuggita dalla seconda guerra cecena, come già aveva fatto in passato la sorella maggiore di Zelimchan, Inna, che vive anche lei nella capitale.
“L’hanno picchiata?”.
“Ovvio. Mi svegliavano alle tre di notte e dicevano: ‘Torchiatelo’. Mi picchiavano sulle reni e sul fegato con una superficie dura a fare da cuscinetto [per non lasciare tracce visibili, evidentemente]. Volevano che firmassi una confessione. Ma io non cedevo… ‘Torchiatemi pure’
gli dicevo. ‘Sparatemi, se volete, ma io non confesso niente che non ho fatto’. Non smettevano di ripetermi: ‘Perch‚ sei venuto a Mosca, ceceno? La tua Patria è la Cecenia? E allora stacci e beccati anche la guerra’. ‘La mia Patria è la Russia’ gli dicevo io. ‘E io abito nella sua capitale’. Si infuriavano. Per farmi perdere il controllo, poi, uno dei poliziotti mi diceva di essersi appena scopato mia madre…”.
Se solo quel poliziotto avesse saputo chi stava minacciando e insultando a quel modo, chi stava picchiando e cercando di accusare di crimini non commessi solo per un avanzamento di carriera sull’onda della “guerra ai criminali ceceni nella capitale”… Ma forse è stato meglio che non lo sapesse.
Roza Magomedova Nasaeva, la madre di Zelimchan, è la nipote della leggendaria e bellissima Maria-Marjam, discendente dei Romanov e dunque parente dell’imperatore Nicola Secondo, che si era perdutamente innamorata di un ufficiale dell’esercito zarista, il ceceno Vachu. Con lui era fuggita nel Caucaso contro la volontà della famiglia, per lui si era convertita all’Islam, aveva preso il nome di Mar’jam e gli aveva partorito cinque figli, con lui era stata deportata in Kazakistan, dove l’aveva seppellito. Poi era tornata in Cecenia, dov’era morta negli anni Sessanta celebrata come una santa… Una bella storia di amore e amicizia russo-cecena che in Caucaso tutti conoscono, ma che qui c’entra poco, perch‚ nemmeno il sangue blu di una decina di imperatori avrebbe potuto aiutare Zelimchan a salvarsi dalla polizia dei nostri giorni. A Zelimchan e alle sue gocce di sangue Romanov è toccato lo stesso trattamento degli altri.
Ci sono zone di Mosca in cui non si ha nessuna voglia di andare. In realtà sono buchi: dietro le fabbriche, nelle zone industriali, sotto i fili dell’alta tensione. Bisogna cercarli lì, i ceceni che tentano di sopravvivere nella capitale. La camionabile Frezer è uno di quei posti: una striscia d’asfalto che da viale Rjazanskij porta fuori Mosca, verso la zona industriale, costeggiando vecchi edifici di mattoni che a fatica si possono definire case.
E case non sono nemmeno ufficialmente. Le mappe dicono “fabbrica Frezer”, ma il complesso non esiste più da tempo, vittima della “perestrojka”. Gli operai se ne sono andati e i proprietari vivono affittando gli opifici e altri spazi della ex fabbrica. In uno di essi - sporco e cadente - si sono sistemati nel 1997 i primi rifugiati ceceni, quelli che scappavano dall’anarchia esplosa nell’intervallo tra le due guerre. Si trattava soprattutto dei familiari di chi si opponeva ai leader del tempo, Maschadov e Basaev. La direzione della Frezer li autorizzò a sistemare i locali, a convertirli in alloggi e a pagare un tributo per l’usufrutto.
Molti ceceni - ventisei famiglie - ci vivono ancora oggi. I Nasaev sono tra loro. La polizia locale li conosce perfettamente, nessuno tenta di nascondersi n‚ desidera farlo, anche perch‚ non avrebbe dove fuggire.
Dopo i fatti di “Nord-Ost”, la prima mossa della polizia del comando Nizegorodskaja è stata di presentarsi sul posto e di spiegare che avevano avuto “ordine dall’alto” di arrestare quindici ceceni “in ogni distretto”. Gli uomini furono tutti caricati sugli autobus e portati via per essere schedati.
Zelimchan Nasaev-Romanov ebbe la sfortuna di non essere in casa, in quel momento. Era andato a consegnare una partita di penne (la famiglia le assembla in casa) e a ritirare altro materiale.
La polizia tornò a prelevare quel rampollo di stirpe imperiale in un secondo tempo. “Ci servono le tue impronte” gli dissero. E Roza non fece una piega. La famiglia cominciò a preoccuparsi qualche ora dopo, vedendo che il figlio non tornava. Allarmati, mamma e papa Nasaev andarono alla centrale, dove sentirono la solita solfa: “Vostro figlio aveva in tasca una miccia e una granata. Lo abbiamo arrestato”.
“‘Non ne avete il diritto!’ mi sono messa a strillare. ‘L’avete portato via voi! E’ uscito di casa insieme a voi! E non aveva niente in tasca! Ho molti testimoni che possono confermarlo!’“ mi racconta Roza. “Sa che cosa mi hanno risposto? ‘I ceceni non valgono come testimoni’. Mi sono sentita profondamente offesa… E chi siamo allora? Non siamo nemmeno cittadini, ormai?”.
Quella notte la madre tornò a casa con un pugno di mosche. La mattina dopo le dissero che il figlio spacciava droga. E che non sarebbe mai riuscita a tirarlo fuori di lì.
“Mi prendono e mi portano in un ufficio” racconta Zelimchan. “‘Spacci eroina, eh?’ mi sento dire.
Il più alto in grado ha in mano un pacchetto: ‘Questa è roba tua’, e me la infila in tasca. Io sono ammanettato. Protesto. ‘Ah sì? Allora ti ci metto anche una bella granata…’. E vedo che la pulisce con un fazzoletto per cancellare impronte altrui, che me la passa tra le dita e poi la mette a verbale. Io gli urlo che non ne ha il diritto e lui mi risponde: ‘Ce l’ho eccome. E se non accetti di aiutarci e di farti incolpare con le buone, dopo di te toccherà anche ai tuoi familiari.
Adesso andiamo a casa tua e ci troviamo un altro pezzo di granata. Eh? Firma la confessione!’“.
Zelimchan si rifiuta. Lo picchiano, gli dicono che continueranno a farlo tanto da renderlo impresentabile a qualsivoglia avvocato.
L’hanno rilasciato su intercessione di alcuni giornalisti e del deputato della Duma Aslambek Aslachanov. Ora è a casa, nella sua baracca, in uno stato di profonda depressione: basta il minimo rumore alla porta per farlo sobbalzare. La depressione è un male comune per i ceceni che vivono accanto a noi. Non ci sono ottimisti, tra loro: n‚ tra i giovani, n‚ tra gli anziani.
Nemmeno uno. Sono tutti apatici, si aspettano tutti il peggio. Sognano di fuggire all’estero per confondersi nella folla eterogenea e cosmopolita con il loro segreto, la loro nazionalità. Come ci siamo ridotti…
“In Russia la polizia sta celebrando l’ennesimo baccanale anticeceno” sostiene Svetlana Gannushkina, che dirige Assistenza Civile, un comitato di aiuto ai rifugiati e ai profughi. E’ a lei che si rivolgono i parenti di chi è stato arrestato, di coloro a cui sono state prese le impronte e a cui sono state infilate in tasca droga e armi, di chi è stato licenziato o minacciato di deportazione forzata (Signore onnipotente, ma dove si possono deportare dei cittadini russi dalla capitale della Russia?). Vanno da Svetlana perch‚ non sanno dove altro andare.
“Questa nuova ondata di razzismo di Stato ufficialmente noto come operazione Turbine”
continua Svetlana Alekseevna “è stata varata subito dopo l’irruzione al teatro Dubrovka. E’ una caccia al ceceno. Li stanno sbattendo fuori di casa e dal lavoro, soprattutto. Si rivalgono su un’intera popolazione per i crimini di singoli individui. Il metodo più in uso è di screditarli come popolo costruendo dei casi giudiziari fasulli, rifilando loro droga o armi. Si fanno persino beffe di loro: giocano al ‘poliziotto buono’ e lasciano scegliere il capo d’accusa alle vittime. Si salvano solo quelli che hanno una madre come Makka Shidaeva. E gli altri?”.
E noi? Che razza di popolo siamo, noi russi, invece?
Qualche esempio.
Una famiglia cecena con tre figlie femmine. Una è riuscita a entrare alla scuola di musica, le altre due no, e i genitori hanno chiesto all’insegnante della prima di dare lezioni private di pianoforte alle altre due. Da qualche giorno l’insegnante ha smesso. Gliel’ha vietato il preside (a scuola tutti sanno tutto di tutti, è ovvio), sostenendo che così gli era stato imposto dalla Pubblica Istruzione. E che se l’insegnante avesse continuato, se ne sarebbe occupata la polizia.
Ecco. Questi siamo noi. I russi condividono per buona parte la xenofobia di Stato e non le rispondono con dimostrazioni antirazzismo. Perch‚? La propaganda ufficiale è molto efficace, e la maggioranza crede con Putin che i ceceni siano responsabili come popolo dei crimini commessi da singoli loro connazionali. Idee rozze e primitive che trovano terreno fertile.
Ma, nonostante una guerra che dura da anni, gli attentati terroristici, le tragedie e le fiumane di profughi, in Russia non si è ancora capito che cosa vogliano le autorità dai ceceni. Vogliono che restino nella Federazione Russa o no?
Per concludere, una storia semplice semplice, una storia di gente normale che vive in Russia ed è rimasta vittima dell’isteria di Stato.
“A scuola ti riprendono spesso?”.
“Sì” sospira Sirazdi.
“E per un buon motivo?”.
“Sì…” sospira di nuovo.
“Quale sarebbe?”.
“Corro per il corridoio, qualcuno mi spinge e allora io gliele do per farlo smettere. Quando poi mi chiedono se l’ho colpito, io dico sempre la verità, mentre gli altri stanno zitti. E allora mi danno una nota…”.
“E se stessi zitto anche tu? Non sarebbe più semplice?”.
“Non posso” e il sospiro si fa ancora più profondo. “Non sono una femminuccia. Se ho fatto qualcosa, io lo dico”.
“Sa, quello cerca sempre di fare lo sgambetto ai nostri figli perch‚ battano la testa… E
muoiano…”.
Dio del cielo! Sono degli adulti a parlare così di Sirazdi. Che non è un agente speciale addestrato a uccidere terroristi, ma un bambino ceceno di sette anni. Le ha dette una donna adulta, quelle parole, un membro del comitato dei genitori della classe seconda B della scuola n. 155 di Mosca.
“Sa, mio figlio si lamenta sempre che Sirazdi non ha nulla e gli chiede di prestargli le sue cose…” interviene un’altra mamma del comitato.
Si lamenta? E che c’è da lamentarsi? Se chi ti sta accanto non ha qualcosa, devi imparare a prestargliela eccome, accidenti!
“Dà fastidio a tutti. Cerchi di capirci! Un giorno mio figlio mi ha detto che non si era segnato i compiti perch‚ Sirazdi faceva tanto di quel rumore che lui non riusciva a sentire… E’ ingestibile, quel bambino. Come tutti i ceceni!” mi dice un’altra mamma.
Nell’aula vuota la conversazione si accende. Gli alunni sono tornati a casa, e il comitato dei genitori sta cercando un modo per ripulire la scuola da quel piccolo ceceno, “affinch‚ i nostri figli non imparino brutte cose da un possibile futuro terrorista”.
Pensate che stia facendo dell’ironia? Nossignori. Sto citando letteralmente…
“Non ci fraintenda. E’ ceceno, è vero, ma non è discriminazione, la nostra… No! Vogliamo solo proteggere i nostri figli!”.
Ma da che cosa?
Un giorno di novembre il comitato dei genitori convoca una bella assemblea di classe per avvisare il padre e la madre di Sirazdi che se non lo metteranno in riga entro fine dicembre e se il figlio non comincerà - “per quanto ceceno” (e cito di nuovo) - a comportarsi come il comitato vuole, si rivolgeranno al preside e chiederanno che venga espulso.
“Senta, ma perch‚ vengono tutti a Mosca, quelli?”. Eccola che affiora, la vera ragione. A chiedermelo, un paio di settimane dopo, è un’altra mamma del comitato. Vorrebbe spiegarmi la loro decisione.
E perch‚ non dovrebbero venirci? Che cos’ha Mosca, di diverso? E’ forse abitata da esseri che potrebbero risentire in modo negativo del contatto con altri cittadini del loro stesso Paese?
“Perch‚ sostiene che quelli se la passano male?” mi urla quasi un’altra mamma. “C’è nessuno che ci chiede come ce la passiamo noi? Che cosa le fa credere che i nostri figli stiano meglio?”.
Che cosa? Sirazdi è nato nel 1995 in Cecenia. La madre Zulaj, incinta, è scappata sotto le bombe e le raffiche di artiglieria di una guerra che non aveva chiesto… E’ scappata perch‚ non aveva altra scelta. E ancora oggi Zulaj soffre a vedere il figlio, moscovita dal 1996, che quando sente i botti dei fuochi artificiali o i tuoni di un temporale si spaventa, corre a nascondersi, piange e non sa spiegarle perch‚…
“Hai capito!… Non si sentono ancora a casa loro, qui da noi…” è la voce irritata di un altro membro del comitato genitori. “Paese che vai, usanza che trovi, mio caro… O forse vorrebbero imporci le loro, di usanze? Nossignori!”.
Questo perch‚ il padre di Sirazdi, Al’vi, ha assistito all’assemblea, ha ascoltato ogni parola e alla fine ha osato mettere a parte gli astanti del suo dolore, cercando di spiegare che la vita a Mosca non è facile per loro, che un poliziotto l’aveva insultato di fronte ai suoi figli, che era entrato in casa sua con gli stivali addosso e che lui non aveva potuto fare niente per impedirglielo… E che i bambini le vedono, certe cose…
Aveva anche aggiunto che il motivo principale per cui, nonostante le difficoltà, la sua famiglia si trovava a Mosca, e non in Cecenia, era perch‚ volevano garantire ai figli un’istruzione lontano dalla guerra. E che era solo per i figli che la moglie Zulaj, insegnante di matematica, andava a vendere polpette di pollo al mercato pur non essendone capace, dopo che avevano entrambi passato la notte a prepararle. Vivevano a quel modo per i figli, perch‚ potessero avere una buona istruzione nella capitale.
“Ma lo sentite? Vogliono stare in centro, loro! E magari vorrebbero un bell’appartamento da cinquecento dollari…” è stato il commento a quel grido di dolore.
“E noi? Che cosa abbiamo il diritto di volere, noi?” hanno esclamato gli altri genitori del comitato.
“Non voglio che mia figlia/mio figlio stia nella stessa classe di quello lì” è stata la sentenza che hanno udito i genitori di Sirazdi. E si sono sentiti offesi, è ovvio.
“Non è forse un nostro diritto chiederlo?” esclamano i genitori del comitato.
Certamente. Ma non risentitevi se vi dicono che siete dei razzisti, degli skinhead in incognito…
Val la pena ricordare una vecchia storia del secolo scorso. Iniziata più o meno allo stesso modo, ma finita diversamente. Un Paese europeo viene occupato dai nazisti e agli ebrei viene ordinato di cucirsi una stella gialla affinch‚ possano essere identificati. Tutti quanti, allora - ebrei e non -
si cuciono sulla giacca una stella gialla. Per salvare gli ebrei. E per salvare se stessi dal diventare nazisti. Lo fa persino il re (12).
A Mosca, oggi, accade l’inverso. Quando le alte sfere hanno ordinato l’attacco contro i ceceni che ci vivono accanto, non solo non ci siamo cuciti una stella gialla sulla giacca, ma abbiamo sparato dei razzi di segnalazione per farli trovare più facilmente. E vogliamo che Sirazdi abbia ben chiaro di essere un paria.
Sirazdi mi fa vedere il suo quaderno di russo. Gliel’ho chiesto io. I suoi voti spaziano da insufficiente ad appena sufficiente. E’ anche disordinato, Sirazdi, scrive male, e la maestra Elena Dmitrievna glielo ricorda a ogni pagina, vergando la sua nota con una calligrafia perfetta, calibrata da trentacinque anni di insegnamento nelle scuole elementari.
Elena Dmitrievna non ha sostenuto la campagna del comitato-genitori per sbarazzarsi di quel ragazzino ceceno. Ma non si è neanche cucita una stella gialla. Il suo non è stato un “no”
categorico. Avrebbe potuto pronunciarlo, quel “no”, mettendo la parola fine ai tormenti inflitti alla famiglia Digaev dalla famigerata “opinione pubblica”.
Sirazdi tergiversa. Non ha troppa voglia di farmi vedere il quaderno di russo, e cerca in ogni modo di rifilarmi quello di matematica, dove se la cava decisamente meglio. Sirazdi è un ragazzino normale, non sta mai fermo e ha una gran voglia di sembrare il migliore. Del resto, chi ha detto che dovrebbe essere diverso? Un ragazzino tranquillo, mogio mogio, che cammina a testa bassa, uno che andrebbe bene al comitato dei genitori anche se “ceceno”?
Si stanca presto anche del quaderno di matematica. Se ne va di corsa - fa tutto di corsa -
dicendo che mi disegnerà “una spada e un uomo”. Di lì a poco mi porta un album con la sagoma di un omone forzuto e muscoloso tipo “Signore degli anelli”. E con una spada “di luce”. La “luce”
è qualche tratto di matita gialla. Ma chi ha detto che va disegnata diversamente?
“Volevamo solo il suo bene” mi hanno detto i genitori della seconda B quando hanno capito che la loro campagna contro un piccolo ceceno sull’onda dell’isteria collettiva post-Dubrovka aveva attirato l’attenzione dei giornalisti. “Solo il suo bene…”.
Ma Sirazdi ci crederà? Perch‚ è vero che picchia, durante l’intervallo. E che tira i colori contro il muro quando c’è disegno. E che fa lo sgambetto ai compagni. Ma più lo fa, più gli fanno capire che è un corpo estraneo, nella sua classe…
Questa è la vita in Russia dopo “Nord-Ost”. Sono passati dei mesi, ed è risultato che quella tragedia senza paragoni è stata utile. Utile, proprio così. E a molti. Per le ragioni più diverse.
A cominciare dal presidente e dal suo cinismo innato. Dalla tragedia Putin ha incassato succosi dividendi internazionali, non disdegnando di passare sul sangue altrui per un qualche ritorno d’immagine fuori e dentro il suo Paese.
Per finire con dei dissidi meschini all’interno di una scuola e con degli agenti di polizia fin troppo lieti, a fine anno, di presentare il rendiconto della loro “lotta al terrorismo”, sicuramente ricompensata da una gratifica. Lo sciovinismo anticeceno e le rappresaglie razziste dei giorni successivi ai fatti di “Nord-Ost” sono maturati in un razzismo pragmatico e tenace.
“Dobbiamo forse imbracciare le armi?” mi chiede qualche capofamiglia ceceno. E colgo lo stridor di denti della loro impotenza.
“Non ce la faccio più, basta!” gemono altri affondando la testa fra le ginocchia. Un gesto di debolezza che mal si addice al loro popolo, soprattutto sotto gli occhi dei figli.
Ma che altro possono fare? (13).
AKAKIJ AKAKIEVIC PUTIN SECONDO.
Ho riflettuto a lungo sul perch‚ ce l’ho tanto con Putin. Che cosa me lo fa detestare al punto da dedicargli un libro? Non sono un suo oppositore politico, sono solo una cittadina russa. Una moscovita quarantacinquenne che ha potuto osservare l’Unione Sovietica all’apice della sua putrefazione comunista, negli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso, e non vuole ricascarci.
Mi sono prefissa di concludere il libro oggi, 6 maggio 2004. Domani sarà tutto finito. Non ci sono stati miracoli quali la contestazione delle elezioni del 14 marzo; l’opposizione ha accolto i risultati a testa bassa. Ragion per cui domani verrà varato il Putin-bis, voluto dalla stragrande, folle maggioranza dei voti dei suoi concittadini (più del settanta per cento). Pur sfrondando la percentuale di un venti per cento di brogli, il risultato basterebbe comunque a garantirgli la presidenza.
Ancora poche ore, e il 7 maggio del 2004 Putin, tipico tenente colonnello del K.G.B. sovietico con la “forma mentis” - angusta - e l’aspetto - scialbo - di chi non è riuscito a diventare colonnello, con i modi di un ufficiale dei servizi segreti sovietici a cui la professione ha insegnato a tenere sempre d’occhio i colleghi, quell’uomo vendicativo (alla cerimonia di insediamento non è stato invitato nessun rappresentante dell’opposizione o di qualunque partito che non sia in completa sintonia con il suo), quel piccoletto che ci ricorda così da vicino l’Akakij Akakievic gogoliano in cerca del suo cappotto, tornerà a insediarsi sul trono. Sul trono di tutte le Russie.
Breznev è stato pessimo. Andropov sanguinario sotto una patina di democrazia. Cernenko un idiota. Gorbac‰v non piaceva. El’cin ogni tanto ci costringeva a farci il segno della croce per timore delle conseguenze delle sue decisioni…
Questo è il risultato. Domani, 7 maggio, colui che è stato una loro guardia del corpo, assegnato allo scaglione 25 con il compito di starsene impalato nel cordone di sicurezza quando il corteo VIP sfrecciava oltre, proprio lui, Akakij Akakievic Putin, incederà sul tappeto rosso della sala del trono del Cremlino. Da padrone. Tra lo scintillio degli ori degli zar appena tirati a lucido, mentre la servitù sorriderà sottomessa e i suoi sodali - tutti ex pesci piccoli del K.G.B. assurti a ruoli di grande importanza - gonfieranno tronfi il petto.
Forse si sarà pavoneggiato a quel modo anche Lenin, quando nel 1918 mise piede nel Cremlino conquistato con la rivoluzione. La storia ufficiale (altre non ne abbiamo) ci dice che l’incedere era timido, ma potrei scommettere che la sua fosse pura insolenza: “Eccomi qui, modesto modesto. Pensavate che fossi una mezza tacca? E invece ho vinto, ho spezzato la Russia, l’ho costretta a inchinarsi a me…”.
E anche il nostro segugio del K.G.B. - una mezza tacca pure lui - incede allo stesso modo per il Cremlino. Intorno ai suoi passi aleggia un’aura di rivalsa.
Ma riavvolgiamo il nastro della storia.
Il 14 marzo del 2004 Putin è diventato presidente della Russia per la seconda volta stracciando gli altri pretendenti. In Russia come nel resto del mondo la sua rielezione era data per scontata, soprattutto dopo quanto accaduto il 7 dicembre del 2003, con la pesantissima sconfitta dell’opposizione democratica e liberale alle elezioni politiche. I risultati del 14 marzo non sono stati una sorpresa per nessuno. Abbiamo avuto anche degli osservatori internazionali, ma tutto si è svolto sottotono. Il giorno delle elezioni è stato l’ultimo “remake” in stile sovietico-burocratico-autoritario di quell’“espressione della volontà popolare” che molti di noi ricordano ancora. Funzionava così, all’epoca: arrivavi e infilavi la scheda nell’urna senza preoccuparti dei nomi che c’erano scritti, tanto l’esito era scontato.
Ma le analogie con i tempi che furono hanno scosso qualcuno dall’inerzia, il 14 marzo?
Nossignori. Ci siamo presentati tutti quanti al seggio, tutti abbiamo infilato la nostra scheda nell’urna con un’alzata di spalle - “Tanto che cosa ci possiamo fare?” -, convinti di essere tornati in Unione Sovietica e che da noi non dipendesse più nulla…
Il 14 marzo sono rimasta a lungo sulla soglia del seggio di via Dolgorukij, la ex via Kaljaev così ribattezzata da El’cin (Kaljaev era un terrorista dei tempi dello zar poi assurto al grado di rivoluzionario, mentre ai tempi di Kaljaev e prima dei bolscevichi il principe Dolgorukij aveva una tenuta in quella zona di Mosca).
Ho parlato con la gente che andava a votare e che tornava dopo aver sbrigato la procedura.
Erano apatici. Del tutto indifferenti al rito della rielezione di Putin. Vogliono che lo rieleggiamo?
Amen, mi hanno detto in molti. Qualcuno ci ha persino scherzato su: “Chissà, magari via Dolgorukij tornerà a essere via Kaljaev…”.
Del resto il revanscismo sovietico seguito all’ascesa e al consolidamento del potere di Putin è lampante.
A renderlo possibile, però - e va detto -, non sono state solo la nostra negligenza, l’apatia e la stanchezza seguite a tante - troppe - rivoluzioni. Il processo è stato accompagnato da un coro di osanna in Occidente. In primo luogo da Silvio Berlusconi, che di Putin si è invaghito e che è il suo paladino in Europa. Ma anche da Blair, Schroeder e Chirac, senza dimenticare Bush junior oltreoceano.
Il nostro ex K.G.Bista non ha trovato inciampi sul suo cammino. N‚ in Occidente, n‚ in un’opposizione seria all’interno del Paese. Per tutta la sua cosiddetta campagna elettorale - dal 7
dicembre del 2003 al 14 marzo 2004 - Putin si è fatto beffe del suo elettorato.
In primo luogo perch‚ si è rifiutato di discutere alcunch‚ con chiunque. Non ha mai ritenuto opportuno fornire spiegazioni riguardo a qualsiasi punto del suo programma per i quattro anni precedenti. Ha mostrato disprezzo non solo per i rappresentanti dell’opposizione, ma per l’opposizione in quanto tale. Non ha fatto promesse. Non ha fatto appelli. Come in era sovietica, la televisione lo mostrava quotidianamente in tutte le sue ipostasi politiche: per esempio mentre riceveva i più alti funzionari nel suo ufficio del Cremlino e forniva loro consigli preziosi su come gestire il ministero o l’ente di loro competenza.
A qualcuno scappava da ridere: pare Stalin, dicevano. Anche lui era “amico dei bambini”,
“miglior allevatore di suini”, “minatore eccelso”, “compagno dei ginnasti”, “primo cineasta” e quant’altro.
Ma le risatine sono rimaste tali, e le emozioni si sono disperse come sabbia. Il fatto che non ci siano stati dibattiti non ha portato a rimostranze degne di questo nome.
Va da s‚ che, non incontrando resistenza, Putin si è fatto ancora più insolente. Non è vero che non guardi in faccia niente e nessuno, che nulla lo turbi e che si limiti a portare avanti la sua linea per restare in sella.
Le guarda, le facce, eccome. La osserva attentamente, la nazione che ha sotto di s‚. E lo fa perch‚ è un cekista, uno sbirro della polizia segreta. Il suo è il tipico comportamento di chi ha lavorato per il K.G.B. Per dare informazioni in pasto all’opinione pubblica sceglie una ristretta cerchia di persone. Persone che nel nostro caso sono il bel mondo politico della capitale. Lo scopo è tastare il terreno e sondare le reazioni. Se non ce ne sono, o se la reazione è amorfa, gelatinosa, tutto procede per il meglio e si può continuare, si può andare avanti a diffondere le proprie idee e agire come si ritiene opportuno senza troppe remore.
Una breve parentesi. Non su Putin, ma su noi russi. I putiniani - quelli che l’hanno messo dov’è, che volevano che salisse al trono una prima volta, quelli che ora siedono nell’ufficio del presidente e di fatto guidano il Paese (non il governo, che esegue le volontà del presidente, e non il Parlamento, che ratifica le leggi che il presidente vuole) - seguono con grande attenzione le reazioni dell’opinione pubblica. Non è vero che se ne infischiano. E ciò significa una cosa importantissima: i veri responsabili di quanto sta accadendo siamo noi. Noi, e non Putin. Il fatto che la nostra reazione a lui e alle sue ciniche manipolazioni si sia limitata a sparuti borbottii da cucina gli ha garantito l’impunità nei primi quattro anni di mandato. La nostra apatia è stata senza confini e ha concesso a Putin l’indulgenza plenaria per i quattro anni a venire. Le nostre reazioni a quel che ha detto e fatto non sono state solo fiacche, ma impaurite. Abbiamo mostrato di aver paura dei cekisti, inducendoli a perseverare nel trattarci da popolo bue. Il K.G.B. rispetta solo i forti, i deboli li sbrana. E lo dovremmo sapere, ormai. Invece ci siamo scelti la parte dei deboli e siamo stati sbranati. La paura è pane per i denti di un cekista. Non c’è nulla di meglio, per lui, del sentire che la massa che vorrebbe sottomettere trema come una foglia.
Era ciò che volevano. Giornali e televisione traboccavano della nostra paura. L’opposizione non faceva che ripetere quanto grande fosse il pericolo - e dunque la sua paura - che Putin fosse rieletto… E anche lei è stata sbranata.
Ma torniamo agli ultimi giorni di febbraio del 2004. Ai giorni che hanno preceduto il 14 marzo.
Dovrei dire “alla campagna elettorale”, ma non riesco a spremermelo dalla penna… A un certo punto, grazie a un sondaggio di opinione, il Cremlino si rende conto che la gente si sta stancando dell’ostinazione di Putin nel rifiutare dibattiti e propaganda. E dell’assenza di una campagna elettorale degna di questo nome.
Dunque, per sferzare un elettorato che langue, il Cremlino annuncia delle “misure forti”. Tale viene definita la scelta di Putin di sciogliere il Consiglio dei ministri a tre settimane dalle elezioni.
In un primo momento restammo tutti di stucco: era un’idiozia, un’assurdità, dato che la nostra Costituzione vuole che dopo le elezioni il Consiglio dei ministri si dimetta e il neoletto presidente annunci il nuovo premier che, a propria volta, gli sottoporrà una lista di ministri. Quindi che senso aveva nominarne di nuovi per poi ripetere l’operazione dopo l’insediamento? Perch‚ quel valzer di poltrone che avrebbe paralizzato l’attività di un esecutivo già troppo impegnato a curare i propri, personali, interessi economici?
Invece quella mossa sortì l’effetto desiderato. Il bel mondo politico ebbe un fremito e cominciò a giocare a quell’“indovina la nomina” che inondò l’etere. I politologi ebbero di che parlare, la stampa di che riempire - finalmente - le colonne della “campagna elettorale”.
La sferzata, però, durò una settimana in tutto. Una settimana in cui gli alchimisti politici di Putin ipnotizzarono l’audience televisiva ripetendo ossessivamente che il presidente aveva fatto quella scelta per essere “onesto in tutto e per tutto”, perch‚ non voleva “delle elezioni a scatola chiusa”
(definendo a quel modo, dunque, la procedura costituzionale di rinnovo “postelettorale” del Consiglio dei ministri), perch‚ intendeva mostrare a tutti quale sarebbe stato il nuovo corso dopo il 14 marzo.
E la gente ci ha creduto. La maggioranza, almeno. O almeno un buon cinquanta per cento.
Quella metà della popolazione che ha prestato fede ad argomentazioni sciocche e menzognere osannandole persino, ha una peculiarità: ama Putin e si fida di lui senza riserve, irrazionalmente, alla follia. Dunque senza usare il cervello. Fine della storia.
A una settimana dalla nomina del nuovo premier abbiamo assistito all’ennesima dimostrazione di
“affetto” per Putin: chi credeva che le sue intenzioni fossero serie non prestò seria attenzione agli evidenti “qui pro quo” ideologici di quel cambio della guardia. Perch‚ solo se la fiducia è irrazionale, solo se sei innamorato come un ragazzino puoi sfuggire a una domanda elementare: che cosa impediva a Putin di “mostrare il nuovo corso” senza far fuori l’intero Consiglio dei ministri? Aveva mille altri modi. Per esempio partecipare a qualche dibattito pubblico, in cui avrebbe potuto difendere il proprio punto di vista in un faccia a faccia con l’opposizione. Perch‚, invece, aveva dovuto cambiare il governo?
Il perch‚ c’è. Eccome se c’è.
I due mesi precedenti il fatidico 14 marzo erano trascorsi all’insegna di uno slogan che non lasciava adito a dubbi: avrebbe vinto Putin, punto e basta. Tuttavia, nella settimana che seguì all’annuncio dello scioglimento del Consiglio dei ministri il cinismo raggiunse l’apice. Chi guardava la televisione seppe che il 14 marzo non sarebbe cambiato nulla, che tutto era già deciso e che Putin - solo lui e nient’altro che lui -, il buono, caro e premuroso Putin, sarebbe stato eletto zar. E il popolo ama lo zar, giusto? Giustissimo.
Partiti da affermazioni del tipo: “Vuole mostrarvi da subito il nuovo corso, così che non siano elezioni a scatola chiusa”, nel giro di una settimana gli alchimisti politici di Putin arrivarono a un
“Se vuole mostrarvi da subito il nuovo corso è perch‚ tanto al timone ci sarà lui”. Ma se ci sarà lui, che senso ha cambiare?
Il giorno in cui doveva essere annunciato il nome del nuovo premier pareva di ascoltare l’aria che introduce il protagonista in un’opera lirica. “Il Presidente farà l’annunciò in mattinata”…
“L’annuncio sarà fatto tra due ore”… “Tra un’ora”… “Ancora una decina di minuti”… Perch‚ il prescelto - ci dicevano alla televisione - potrebbe essere colui che gli succederà al trono nel 2008…
In Russia è molto importante non cadere nel ridicolo. Si rischia di fare una figuraccia, di venire derisi, di finire in barzelletta come Breznev. Quando Putin ha pronunciato il nome del nuovo primo ministro, hanno riso anche i suoi sostenitori più convinti. Era stata una farsa, e l’avevano finalmente capito tutti. In sostanza l’unico rimosso era il primo ministro Michail Kas’janov. Le
“misure forti” non erano altro che un meschino regolamento di conti. Condito, questo sì, da manovre di alchimia politica e da ogni sorta di fandonie e di discorsi retorici sulla “grande Russia”.
La montagna aveva partorito un topolino. Di fatto i ministri restavano al loro posto e ad andarsene fu solo Kas’janov, con il quale Putin aveva il dente avvelenato da diverso tempo.
Kas’janov era un retaggio dell’epoca di El’cin: il primo presidente della Russia, lasciando il trono al suo delfino, gli aveva chiesto di non toccarlo.
Proprio in quanto uomo di El’cin, il primo ministro Kas’janov era stato l’unico e il solo tra i protagonisti della politica russa a schierarsi categoricamente contro l’arresto di Michail Chodorkovskij e contro la graduale distruzione della Iukos, la sua compagnia petrolifera, la più trasparente nel nostro Paese corrotto, la prima ad accettare il sistema internazionale di
“auditing” e a lavorare secondo la pratica finanziaria internazionale, “in chiaro”, come si dice da noi. E che inoltre versava più del cinque per cento del suo utile annuale lordo per finanziare una grossa università, degli orfanotrofi e imponenti opere di beneficenza.
Kas’janov, però, aveva preso le parti di un uomo che Putin aveva iscritto da qualche tempo nella lista dei suoi nemici personali in virtù degli ingenti contributi finanziari versati all’opposizione democratica in generale e a Jabloko e all’Unione delle Forze di destra in particolare.
Nella concezione che Putin ha della politica si tratta di una grave offesa personale. Putin ha dimostrato più volte di non comprendere il concetto stesso di dibattito. E tanto meno quello di
“dibattito politico”: chi sta sopra non discute con chi sta sotto, e se chi sta sotto si permette di farlo diventa un nemico. Se Putin si comporta in questo modo non lo fa perch‚ è un tiranno e un despota congenito, ma perch‚ così gli è stato insegnato. Queste sono le categorie che gli ha inculcato il K.G.B. e che lui stesso ritiene ideali, come ha più volte dichiarato. Perciò, non appena qualcuno dissente, Putin si limita a chiedergli di “piantarla con gli isterismi”. Per questo rifiuta i dibattiti preelettorali: non sono il suo ambiente, non è capace di parteciparvi, non sa reggere un dialogo. La sua arte è quella del monologo, il suo schema quello militare: da basso rango ero costretto a non fiatare? Ora che sono in cima alla scala parlo, anzi monologo, e che gli altri fingano d’essere d’accordo con me. Un ‘nonnismo’ ideologico che talvolta - come nel caso di Chodorkovskij - si risolve nell’allontanamento e nell’eliminazione dell’avversario.
Ma torniamo al “cambio di governo”. Kas’janov non c’è più, i ministri sono stati mescolati e ricollocati nei dicasteri di originaria pertinenza. Quale primo ministro Putin rifila trionfalmente al Paese Michail Efimovic Fradkov. L’organigramma della burocrazia impiegatizia comprendeva anche il suo nome tra coloro che di recente si erano goduti la carica di rappresentanti della Federazione Russa nelle istituzioni europee a Bruxelles. Un tipo anonimo, mite e insignificante, con le spalle strette e i fianchi larghi. Fra l’altro, la Russia seppe di avere un ministro federale di nome Fradkov solo il giorno in cui Putin lo nominò primo ministro, il che significa - come tradizione vuole - che il suddetto è un sommesso rappresentante di quella stessa istituzione a cui Putin ha consacrato buona parte della sua vita cosciente.
Il Paese ha riso, quando ha saputo di Fradkov. Ma Putin non ha fatto una piega e, anzi, ha così spiegato quel mutamento ‘radicale’: voglio essere onesto con voi e arrivare alle elezioni dichiarandovi con chi lavorerò e con chi combatterò i mali peggiori, la corruzione e la povertà…
La gente - la metà a favore di Putin e la metà contraria - non ha smesso di ridere: la farsa continuava. Se i russi non conoscevano Fradkov, il mondo degli affari ce l’aveva ben presente. E’
un tipico burocrate sovietico che ha passato la sua vita - dall’era dei Soviet in giù - a cambiare poltrona indipendentemente dalla sua formazione e dalle sue competenze. Uno di coloro per i quali l’importante è dirigere, di qualsiasi cosa si tratti. Con lui a capo, la polizia finanziaria federale aveva fama di essere il dicastero più corrotto nella gerarchia statale. I suoi uomini chiedevano mazzette per qualunque certificato o consulenza, ragion per cui l’ufficio venne poi chiuso e - conformemente alle immarcescibili tradizioni della “nomenklatura” sovietica - Fradkov venne trasferito a Bruxelles.
Fresco di nomina, la mattina seguente Fradkov atterra a Mosca in tutta fretta da Bruxelles, offrendo ai russi un altro motivo per ridersela. Con l’investitura di Putin ormai in cassa, nella sua prima intervista all’aeroporto Fradkov dichiara di non sapere come si faccia il primo ministro, di non avere un programma, di non essersi aspettato quell’onore e di attendere istruzioni al riguardo…
La Russia è il Paese del non detto e della memoria corta. E nonostante l’assenza di istruzioni dall’alto (un’ammissione mai udita prima), l’obbediente Duma conferma a stragrande maggioranza la nomina di Fradkov, “nel rispetto della volontà degli elettori, che hanno piena fiducia nell’operato del Presidente Putin”. Convocata dopo le elezioni del 7 dicembre del 2003, la Duma attuale non annovera - o quasi - tra i suoi membri oppositori del presidente, “conditio sine qua non” per la sua formazione.
Gli “elettori” digeriscono anche il fatto che il loro primo ministro non abbia un programma e non sappia che cosa farà il giorno seguente.
Arriva il 14 marzo. Si vota. Tutto procede come pianificato al Cremlino. La vita torna a essere quella di sempre. I burocrati ricominciano a rubare a testa bassa. In Cecenia riprendono i massacri: la breve pausa durante le elezioni aveva acceso una speranza in chi aspettava la pace da cinque anni. Come vuole la tradizione asiatica, prima della seconda elezione presidenziale due alti comandanti ceceni avevano deposto le armi ai piedi del leader. I loro parenti erano stati prelevati e furono trattenuti come prigionieri fino a che i comandanti non ebbero dichiarato di stare con Putin e di aver rinunciato all’indipendenza. Dalla cella in cui si trovava, anche Chodorkovskij scrisse al presidente delle lettere contrite. Il tracollo della Iukos era lento e inesorabile. Venne Berlusconi in visita ufficiale, e la prima domanda che pose all’amico Vladimir fu come si facesse a incassare il settanta per cento dei voti. Putin non pot‚ dargli una risposta precisa, tanto più che, se anche l’avesse fatto, il caro Silvio - europeo - non avrebbe capito.
Insieme sono andati a Lipeck, in provincia, a inaugurare una fabbrica di lavatrici e a godersi uno spettacolo dell’Aeronautica militare.
In televisione Putin continua a tirare le orecchie ai suoi più alti funzionari. E’ così che ce lo fanno vedere, di solito: nel suo ufficio, al Cremlino, mentre ascolta le relazioni dei funzionari, oppure mentre dispensa uno dei suoi monologhi-ramanzina. Le riprese sono sempre ben studiate, estrema è la cura dell’immagine, nulla è lasciato alla discrezione del singolo o al caso.
Putin è stato presentato al popolo per Pasqua, a quasi un mese dalla sua rielezione. Durante la celebrazione del rito pasquale nella Chiesa del Redentore (l’antica cattedrale di Mosca ricostruita ex novo, in cemento, al posto di una piscina scoperta), al fianco del presidente, come in una parata militare, si segnavano in modo goffo e clownesco il primo ministro Fradkov e la nuova eminenza grigia del Cremlino Dmitrij Medvedev, l’ometto basso basso con la testa grossa a capo dell’ufficio del presidente. Medvedev si faceva il segno della croce portando la mano alla testa e ai genitali. Una scena ridicola. Come Putin, anche lui strinse la mano al “compagno” Patriarca, invece di baciargliela come prescrive il rituale. Il Patriarca sorvolò. Gli addetti alle pubbliche relazioni del Cremlino saranno anche solerti, ma sono ignoranti in materia religiosa e non avevano saputo istruirli adeguatamente. Accanto a Putin c’era anche il sindaco di Mosca Jurij Luzkov, che l’aveva “costruita”, quella chiesa. Luzkov è l’unico che si sia segnato come si conviene. Il Patriarca si è rivolto a Putin chiamandolo “Sua Eccellenza” e scandalizzando tutti quanti. Pertanto la Pasqua, celebrata in presenza di così numerosi esponenti del K.G.B. tra gli alti ranghi politici, è diventata la festa di precetto più importante in Russia, un analogo della parata del Primo maggio di altri tempi.
L’inizio della celebrazione fu ancora più comico della stretta di mano al Patriarca. La televisione di Stato trasmise a reti unificate, in diretta, la Via crucis intorno alla Chiesa del Redentore che precedeva la messa. Per quanto malato, il Patriarca volle prendervi parte. Lo speaker - credente e teologicamente edotto - spiegava ai telespettatori che fino a mezzanotte, come vuole la tradizione ortodossa, le porte della chiesa dovevano restare chiuse, a simboleggiare il masso posto davanti all’entrata della grotta in cui era stato deposto il corpo di Cristo. Dopo la mezzanotte i fedeli che avevano preso parte alla Via crucis avrebbero atteso che le porte si aprissero. Il primo a varcare la soglia della chiesa vuota dove Cristo era già risorto sarebbe stato il Patriarca…
Ebbene, il Patriarca recitò la prima preghiera di rito dopo la mezzanotte davanti alle porte della chiesa, i battenti si aprirono… E chi c’era dentro? Putin. Lui, sì. Putin, il modesto… Con Fradkov, Medvedev e Luzkov.
Non so se sia meglio ridere o piangere. Un siparietto comico nella notte di Pasqua.
Perch‚ dovremmo amarlo, un individuo simile? Uno che profana qualunque cosa tocchi?
Più o meno in quei giorni, l‘8 aprile, due gemelle cecene di nove mesi furono dichiarate “shahid”
- martiri della fede. Morte prima ancora di imparare a camminare. La storia è la solita. Dopo il 14 marzo in Cecenia erano riprese le operazioni militari. L’esercito - lo “Stato Maggiore operativo per la direzione della Guerra al terrorismo”, come lo chiamano adesso - aveva annunciato che stavano dando la caccia a Basaev e che era “in corso un’operazione su larga scala per annientare i membri delle bande armate”. Basaev non venne catturato, ma l‘8 aprile, verso le due del pomeriggio, nell’ambito di quella stessa operazione un missile cadde su una casa colonica di Rigach. Morirono tutti: una madre e i suoi cinque figli. La scena che si presentò agli occhi del padre - Imar-Ali Damaev - era di quelle che trasformerebbero qualunque persona dura di cuore in un pacifista o in un kamikaze. La moglie ventinovenne di Imar-Ali, Maidat, era già morta ma stringeva a s‚ la figlia Dzanati (quattro anni), l’altra figlia Zaradat (tre anni), il maschio Umar Chazi (due anni) e la piccolissima Zara, di nove mesi. L’abbraccio della madre non era servito a salvare nessuno di loro, furono tutti uccisi dalle schegge. Poco distante giaceva il corpicino di Zura, la gemella di Zara. Maidat non aveva avuto braccia e tempo a sufficienza per raccogliere sotto di s‚ anche la quinta figlia, e a Zura non era riuscito di gattonare fino a lei.
Imar-Ali raccolse le schegge del missile e risalì al numero di matricola: 350 F 5-90. Non fu difficile: il numero era rimasto intatto. Il “mullah” del villaggio vicino annunciò che le vittime sarebbero state tutte dichiarate martiri della fede, “shahid”. Come tali le seppellirono, quella sera stessa: senza lavare i corpi, senza sudari, con gli abiti con cui la morte se li era presi. E
Imar-Ali Damaev di Rigach è diventato padre di cinque martiri.
Perch‚ ce l’ho tanto con Putin? Perch‚ il tempo passa. Quest’estate saranno sei anni che la seconda guerra cecena è iniziata affinch‚ Putin potesse diventare presidente. E non se ne vede la fine. All’epoca i bimbi “shahid” non erano ancora nati, ma dal 1999 a oggi tutte le stragi di bambini - tra le bombe e le pulizie etniche - sono rimaste impunite: i carnefici non sono mai finiti sul banco degli imputati. Putin non l’ha mai preteso, sebbene abbia fama di “amico di tutti i bimbi”. In Cecenia i militari continuano a comportarsi com’è stato loro permesso da che la guerra è iniziata: pensano di essere in un poligono di tiro senza nessuno intorno, bambini compresi.
Questa strage di innocenti non ha scosso il Paese. Nessuna televisione ha mostrato le immagini dei cinque piccoli ceceni uccisi. Il ministro della Difesa non si è dimesso seduta stante (perch‚ è un amico di Putin e perch‚ è uno dei papabili alle presidenziali del 2008). Non ha lasciato il suo posto nemmeno il comandante dell’Aeronautica militare. E’ rimasto tutto com’era. Il comandante in capo non ha indirizzato una sola parola di conforto o di condoglianze a quel padre rimasto solo. Il mondo continua a ribollire attorno a noi. In Iraq sono stati ammazzati degli ostaggi.
Popoli e nazioni hanno chiesto a chi li governa e alle organizzazioni internazionali di ritirare le truppe per salvare la vita di quanti stanno facendo il loro dovere. Da noi niente. La morte di quei bambini assurti a martiri non solo non ci ha spinti a chiedere di ritirare le truppe, ma nemmeno a iniziare un dibattito su quanto sta accadendo in Cecenia con l’intento di aprire una strada al dialogo, alla pacificazione, alla smilitarizzazione e a tutto ciò che consegue alla fine di un conflitto.
Perch‚ ce l’ho tanto con Putin? Per tutto questo. Per una faciloneria che è peggio del ladrocinio.
Per il cinismo. Per il razzismo. Per una guerra che non ha fine. Per le bugie. Per i gas nel teatro Dubrovka. Per i cadaveri dei morti innocenti che costellano il suo primo mandato. Cadaveri che potevano non esserci. Io la penso così. Altri avranno punti di vista differenti. Nonostante la strage, la gente continua a sperare che il mandato presidenziale si prolunghi fino a dieci anni. Di solito è il Cremlino, nella persona di Vladislav Surkov, a creare l’ennesimo movimento giovanile pro-Putin. Surkov, vicecapo dell’ufficio del presidente, non è solo un gran tessitore di alleanze, ma anche il miglior P.R. del Paese - dove “pubbliche relazioni” diventa sinonimo di menzogna, inganno e parole invece che fatti. I movimenti politici nati da un decreto del Cremlino sono in gran voga a casa nostra, affinch‚ l’Occidente non sospetti che il nostro sia un sistema monopartitico, autoritario e non-pluralistico. E così spuntano gruppi che prendono nomi del tipo Marciamo insieme, Cantiamo insieme, Per la stabilità (14) e altre varianti della Gioventù comunista di un tempo. Il tratto distintivo di questi movimenti parapolitici pro-Putin è che il ministero della Giustizia - solitamente incline a creare difficoltà a chi tenta qualche passo in politica - li registra in quattro e quattr’otto, senza lungaggini burocratiche. E come primo atto pubblico il neonato movimento annuncia che si adopererà a favore dell’estensione del mandato per l’amato presidente. Putin ha ricevuto un regalo simile anche il 7 maggio, il giorno del suo insediamento. Alla fine di aprile il movimento Per la stabilità aveva, infatti, già avviato la procedura per estendere il mandato a colui che il popolo aveva eletto appena un mese prima (Putin quale garante della stabilità del Paese, dunque). I membri del minuscolo movimento pretendevano anche il riesame delle privatizzazioni (si legga: siamo contro Chodorkovskij e pro-Putin). La Commissione elettorale di Mosca è stata assai solerte nell’accogliere la richiesta di quei giovani ‘stabilizzatori’ e nel promuovere un referendum sull’estensione del mandato presidenziale.
Così abbiamo accolto il giorno dell’insediamento, il 7 maggio 2004. Putin, che - per puro caso -
si è ritrovato ad avere un potere enorme, lo ha gestito con conseguenze catastrofiche per la Russia.
E se non mi piace è anche perch‚ nemmeno noi piacciamo a lui. Non ci sopporta. Ci disprezza.
Siamo solo un mezzo, per lui. Un mezzo per raggiungere il potere personale. Per questo dispone di noi come vuole. Può giocare con noi, se ne ha voglia. Può distruggerci, se lo desidera. Noi non siamo niente. Lui, finito dov’è per puro caso, è il dio e il re che dobbiamo temere e venerare.
La Russia ha già avuto governanti di questa risma. Ed è finita in tragedia. In un bagno di sangue. In guerre civili. Io non voglio che accada di nuovo. Per questo ce l’ho con un tipico cekista sovietico che ascende al trono di Russia incedendo tronfio sul tappeto rosso del Cremlino.
POST SCRIPTUM.
Il 10 luglio è un altro brutto giorno nel calendario della Russia.
Ieri, in tarda serata, a Mosca è stato ucciso Pavel Chlebnikov, caporedattore dell’edizione russa di “Forbes magazine”. Lo hanno falciato mentre usciva dall’ufficio. Chlebnikov doveva la sua fama a quanto scritto sugli oligarchi, sul “capitalismo da gangster” russo e sulle enormi somme di denaro facile su cui alcuni nostri compatrioti hanno messo le mani.
Sempre ieri sera, a Vladivostok, è stato fatto saltare in aria con una bomba Viktor Cerepkov, deputato della Duma e paladino dei poveri e dei deboli del nostro Paese. Cerepkov correva per la carica di sindaco della nativa Vladivostok, la città più importante dell’Est russo. Era arrivato al secondo turno e aveva ottime chance di essere eletto. Lo hanno fatto saltare su una mina antiuomo attivata a distanza, mentre lasciava il suo quartier generale.
La Russia è un Paese stabile, come no. Ma di una stabilità mostruosa, nella quale nessuno chiede giustizia a tribunali di un asservimento e di una faziosità lampanti. Chiunque abbia un po’
di cervello non cerca protezione presso le istituzioni intese a far rispettare la legge e a mantenere l’ordine, perch‚ sa che sono corrotte fino al midollo. Il linciaggio è all’ordine del giorno, nelle azioni e nella coscienza della gente. Occhio per occhio, dente per dente. Putin stesso ha dato l’esempio smantellando la nostra maggiore società petrolifera, la Iukos, e mandando in galera il suo presidente, Michail Chodorkovskij. Risentito con Chodorkovskij per i finanziamenti a partiti diversi dal suo, Putin non si è rivalso solo contro di lui, ma ha anche voluto distruggere quella che era una gallina dalle uova d’oro per le casse dello Stato.
Chodorkovskij e i suoi soci gli hanno offerto di girare il proprio pacchetto azionario al governo, supplicandolo di non distruggere la compagnia. Ma il governo ha risposto di no, che voleva tutto fino all’ultimo centesimo. Il 9 luglio Putin ha imposto il fedelissimo Muhammed Tsikanov quale vicepresidente di Iukos-Mosca. Nessuno dubita che l’ex viceministro per lo sviluppo economico sia stato messo dov’è unicamente per coordinare il passaggio della Iukos nelle mani di coloro che godono dei favori di Putin. Il mercato è in subbuglio, e tutti gli uomini d’affari di pur vago successo che conosco hanno passato maggio e giugno a cercare di trasferire in Occidente i propri capitali.
Sono stati molto saggi. L‘8, il 9 e il 10 di luglio le code ai bancomat erano lunghe anche un chilometro. Le autorità avevano insinuato che alcune banche potessero chiudere, e subito le casse della banca Alpha, per esempio, una delle più stabili, sono state svuotate di duecento milioni di dollari in settantadue ore.
E’ bastata un’insinuazione. Perch‚ tutti sanno che lo Stato gioca sporco. Duecento milioni in settantadue ore ci dicono tutto quel che abbiamo bisogno di sapere sulla “stabilità” della Russia.
A prestare fede ai sondaggi di opinione condotti da società che non hanno nessuna intenzione di perdere i loro contratti con l’ufficio del presidente, il tasso di popolarità di Putin non è mai stato così alto. Il presidente ha dalla sua la stragrande maggioranza dei suoi connazionali. Tutti si fidano di lui. Tutti approvano quel che fa.
DOPO BESLAN.
Il primo settembre del 2004 a Beslan è stato commesso un atto terroristico senza precedenti, e d’ora in poi il nome di questa cittadina dell’Ossezia del Nord sarà sinonimo di un incubo che nemmeno Hollywood è stata capace di immaginare.
La mattina del primo settembre un commando internazionale di criminali ha preso in ostaggio la scuola n. 1 di Beslan, chiedendo di fermare immediatamente la seconda guerra cecena.
L’occupazione è avvenuta durante la “linejka”, la tradizionale festa di inizio anno scolastico che si celebra in tutte le scuole. E’ una festa a cui partecipa tutta la famiglia, genitori, nonni e zii, e soprattutto coloro che accompagnano il proprio figlio a scuola per la prima volta.
Così era stato anche quel giorno. Per questo i sequestratori avevano potuto prendere in ostaggio quasi millecinquecento persone tra alunni, madri, padri, fratelli, sorelle, maestre, figli delle maestre…
Quanto è successo in Russia tra il primo e il 3 settembre e anche dopo, fino a oggi, non ha nulla di casuale, anzi segue una logica ineccepibile. E’ la quintessenza, l’apoteosi del regime di Putin, che si incentra sul potere personale, mortifica il buon senso e soffoca qualsiasi iniziativa.
Il primo settembre, dicevamo. L‘“intelligence” prima e le autorità poi ci informano che nella scuola ci sono “poche persone”: 354 in tutto. “Bene, vuol dire che alla fine resterete in 354”
comunicano i terroristi ai loro ostaggi. Fuori, i parenti radunati attorno alla scuola urlano di non credere a quella cifra: sono più di mille, là dentro.
Nessuno li sente. Nessuno li ascolta. Cercano di arrivare fino alle alte sfere tramite i giornalisti giunti a Beslan, ma quelli continuano a riferire le stime ufficiali. Alcuni rappresentanti della stampa finiscono malmenati dai parenti degli ostaggi.
Il primo settembre e metà del giorno successivo trascorrono in uno stato di choc e confusione inammissibili: non sono in corso trattative da parte delle autorità, in quanto il Cremlino non le ha autorizzate. Chiunque cerchi di fare qualcosa in quella direzione finisce vittima di intimidazioni, mentre coloro che i terroristi chiedono come controparte svicolano o lasciano il Paese. Si comportano da vigliacchi quando non hanno alcun diritto di farlo. Sono i presidenti dell’Inguscezia e dell’Ossezia Settentrionale, rispettivamente Zjazikov e Dzasochov, il consigliere di Putin per la Cecenia Aslachanov e il dottor Roshal’. Più tardi tutti avrebbero trovato una scusa, ma resta il fatto che nessuno di loro è mai entrato in quell’edificio.
Su questo sfondo di viltà i parenti degli ostaggi temono soprattutto una seconda Dubrovka, un’irruzione nella scuola con la strage che ne può seguire.
Il 2 settembre nell’edificio entra Ruslan Aushev, ex presidente dell’Inguscezia e persona invisa al Cremlino per i suoi ripetuti inviti a stabilizzare la crisi in Cecenia e ad avviare trattative di pace, e perciò costretto a lasciare ‘volontariamente’ la sua carica per cederla all’eletto del Cremlino, il generale del K.G.B.-F.S.B. Murat Zjazikov.
Come racconterà poi, Aushev si trova di fronte uno scenario tremendo. Scopre che, a un giorno e mezzo dall’occupazione della scuola, nessuno nel quartier generale delle “operazioni per la liberazione degli ostaggi” ha il potere di decidere chi debba entrare a trattare: attendono istruzioni dal Cremlino e temono le ire di Putin. Perch‚ le sue ire possono equivalere alla fine di una carriera politica, e una carriera finita fa molta più paura delle sofferenze di qualche centinaio di ostaggi. Meglio perdere qualche vita umana, che tanto si può dare la colpa ai terroristi.
Perdere i favori di Putin non è solo l’anticamera dell’oblio, ma un vero e proprio suicidio.
Il nocciolo della questione è il seguente: in quei giorni, a Beslan, i rappresentanti del governo si preoccupano più di intuire che cosa voglia Putin che di contrastare quanto sta accadendo dentro la scuola. E quando Putin parla, nessuno osa contraddirlo. Aleksandr Dzasochov, per esempio, avrebbe poi riferito ad Aushev di aver ricevuto una telefonata da Putin che gli vietava categoricamente di entrare nell’edificio se non voleva finire in tribunale.
E Dzasochov era rimasto fuori. Il dottor Roshal’ aveva fatto altrettanto. Pur essendo un pediatra, decise anche lui di salvare se stesso e non quei bambini. Un funzionario (rimasto anonimo) dell‘“intelligence” - dirà poi Roshal’ - lo aveva convinto che i terroristi avevano fatto il suo nome solo per ucciderlo.
E anche Roshal’ restò fuori.
Le carriere erano salve, i bambini no. Il 3 settembre è ancora di là da venire, ma è ormai chiaro che la ‘verticale del potere’ fondata sul timor panico e una totale dipendenza da una sola persona (Putin, appunto) non è in grado di fare alcunch‚, non è in grado di salvare delle vite quando serve.
Con queste premesse, Aushev stampa da Internet una dichiarazione di Aslan Maschadov che, quale leader di quell’opposizione cecena nel cui nome i terroristi pretendono di agire, condanna senza appello il sequestro dei bambini. Con quel foglio in mano Aushev va a parlare con i terroristi. E’ l’unico, in quei giorni, a cercare di intavolare dei negoziati.
Per questo, in seguito, il Cremlino lo avrebbe coperto di fango e accusato di ogni possibile nefandezza, prima fra tutte la connivenza con i terroristi.
“Non hanno voluto che parlassimo in “vainach”“ ha poi raccontato Aushev. “Anche se c’erano dei ceceni e degli ingusci. Hanno voluto che usassimo il russo. Per negoziare volevano un ministro, uno tipo Fursenko, il ministro della Pubblica Istruzione. Ma il Cremlino era contrario, e nessuno se l’è sentita di entrare”.
Aushev è rimasto nella scuola per un’ora circa. Ha portato fuori, a braccia, tre neonati, e altri ventisei bambini sono usciti insieme a lui. La mattina del 3 settembre è iniziato l’attacco. Gli scontri sono proseguiti fino a notte fonda. Molti terroristi sono stati uccisi, ma molti altri sono riusciti a passare il blocco e a fuggire. Poi è cominciata la conta degli ostaggi caduti, che continua ancora oggi. Alla periferia di Beslan è stato arato un campo, che è diventato un enorme cimitero con centinaia di tombe. A tutt’oggi mancano all’appello un centinaio di ostaggi, classificati come dispersi. C’è chi dice che siano stati portati via dai terroristi in fuga. Altri pensano che siano stati inceneriti dalle cariche termobariche dei bazooka in dotazione alle squadre speciali.
Subito dopo i fatti di Beslan la Russia ha annunciato l’ennesimo giro di vite politico. Putin ha dichiarato che la tragedia era stata un atto di terrorismo internazionale, cancellando ogni traccia cecena e imputando l’accaduto ad al-Qaeda. Aushev è stato coperto di fango e i mass media, istruiti dal Cremlino, ne hanno fatto un complice dei terroristi, e non l’unico con un po’ di fegato, il solo eroe sullo sfondo di una marmaglia di vigliacchi. Al rango di eroe, invece - perch‚ la gente ha bisogno di eroi - è stato innalzato il dottor Roshal’.
Ma questo è il “c“t‚” morale della storia. Quello concreto, materiale, è stato che la tragedia di Beslan non è servita a indurre il Cremlino a riflettere sui propri errori. Anzi, ha dato la stura a un vero e proprio sciacallaggio politico.
Dopo Beslan lo slogan di Putin è stato “à la guerre comme à la guerre”, la verticale del potere va rafforzata. E lui l’ha resa completamente dipendente da un solo e unico uomo (se stesso), che sa meglio di chiunque altro come garantirci dagli attentati. E’ stata modificata anche la procedura per l’elezione dei governatori: Putin ha insistito affinch‚ venisse abolita l’elezione diretta, causa prima - a suo dire - della loro condotta irresponsabile.
Non una parola, non un’allusione riguardo al fatto che a Beslan gli uomini del presidente -
Zjazikov e Dzasochov - si erano comportati da codardi, che non avevano fatto altro che mentire dimostrando di essere degli emeriti buoni a nulla.
Sullo sfondo della riforma suddetta è stata inoltre portata avanti una massiccia campagna di lavaggio del cervello: si è continuato a ripetere che durante la tragedia di Beslan le autorità avevano tenuto una condotta ineccepibile e nulla di più efficace poteva essere fatto. Per creare una cortina fumogena è stata anche costituita un’apposita commissione parlamentare d’inchiesta, il cui presidente - il signor Torshin - è stato ricevuto al Cremlino per ascoltare da Putin i consigli del caso. La commissione, va da s‚, non è mai uscita dal seminato.
A Beslan, intanto, si erano resi conto che nessuno si stava più occupando di loro. La televisione si concentrava solo sugli aspetti positivi: il sostegno agli ostaggi, i dolci e i giocattoli per i bambini… Ma i dispersi?
Passarono i quaranta giorni del lutto. Vennero celebrati i funerali ufficiali. La televisione non trasmise un solo fotogramma dei genitori straziati.
Poi arrivò il 26 ottobre. Il secondo anniversario di “Nord-Ost”.
Dopo la tragedia del teatro Dubrovka le autorità non hanno fatto altro che assolversi, lodarsi, coccolarsi. E invece la seconda guerra cecena non solo non è finita, ma ha stretto ancora di più la sua morsa. E’ degenerata nell’annientamento e nella neutralizzazione di chiunque lavori per la pace e cerchi di impedire che la crisi cecena sfoci in nuovi atti di terrorismo quale unica risposta lecita al terrorismo di Stato in Cecenia e Inguscezia. E’ una tautologia: il “terrorismo antiterrorismo” russo è diventato il tratto distintivo della nostra vita da “Nord-Ost” a Beslan.
Terrorismo e antiterrorismo, macine di uno stesso mulino che ci riduce in farina. Il numero degli attentati è cresciuto in progressione geometrica. La strada che da “Nord-Ost” porta a Beslan è sotto i nostri occhi.
Il 26 ottobre del 2004, alle undici del mattino, sui gradini del teatro Dubrovka si sono radunati tutti coloro la cui vita e il cui destino sono stati segnati da quel terribile evento: ostaggi, parenti e amici delle vittime, che in precedenza, di buon’ora - come si usa in Russia -, erano andati a rendere omaggio alle tombe dei loro cari. La cerimonia di commemorazione era stata fissata alle undici proprio per consentire quella visita. L’associazione “Nord-Ost”, che riunisce le vittime, aveva dato notizia della celebrazione alle agenzie di stampa e alle radio, e aveva spedito degli inviti al Municipio e all’ufficio del presidente. “Ci saremo” era stata la risposta.
Le undici. Le undici e venti. Le undici e trenta. Le undici e cinquanta. Il prete è arrivato da un pezzo. E’ tempo di cominciare. “Ma come si fa… Non presentarsi nemmeno…” si sussurra tra la folla.
Arriva mezzogiorno. La folla è nervosa, molti hanno con s‚ dei bambini, gli orfani delle vittime.
“Era con “loro” che volevamo parlare”, “Siamo venuti per fare delle domande precise”… Qualche grido disperato: “Abbiamo bisogno d’aiuto, e adesso!”, “Ci ignorano!”, “Negli ospedali hanno smesso di prestare assistenza gratuita ai bambini!”.
Ancora nessuno. Non ha senso aspettare oltre, è evidente. Forse non hanno avuto il coraggio di guardare in faccia le vittime. Perch‚ l’inchiesta su “Nord-Ost” non ha portato a nulla: la verità sull’attentato e sui gas usati resterà un segreto di Stato. O forse la ragione è un’altra?
Attorno alla piazza del teatro c’è un cordone di polizia: i soliti ragazzotti mandati a sedare possibili scalmane. Hanno il volto scuro, sentono quel che dice la gente. E spiegano ai presenti che “loro” sono già venuti… “Loro”, le autorità, avevano organizzato intenzionalmente una commemorazione a parte, quando i parenti delle vittime si stavano recando al cimitero. I rappresentanti del Comune di Mosca e dell’ufficio del presidente si erano materializzati in teatro alle dieci del mattino. Senza troppa gente intorno. Per non incontrare coloro che avevano trasformato in vittime. Per una commemorazione ufficiale di fronte alle telecamere e ai flash dei giornalisti, una commemorazione completa di corone di fiori, picchetti schierati, discorsi vergati e autorizzati in altissimo loco. Una cerimonia dignitosa, senza lacrime e senza troppo dolore.
Uno spettacolino che tutte le televisioni hanno trasmesso e ritrasmesso più volte, la sera del 26
ottobre. Perch‚ il Paese sapesse che le autorità mostravano grande rispetto per le tragedie della storia recente e stavano facendo tutto il possibile. I rituali della celebrazione ufficial-privata avevano richiesto pochi minuti in tutto. Certo, nessuno ha impedito a un migliaio di ex ostaggi, parenti e amici delle vittime, oltre che a un gran numero di giornalisti stranieri, di ricordare i caduti. Sui gradini dove erano stati trascinati i corpi agonizzanti di chi aveva respirato il gas e dove molti erano morti senza ricevere cure mediche sono state accese delle candele. I loro tenui riflessi rischiaravano centotrenta fotografie. Pioveva, come anche due anni prima. Il cielo piangeva con noi. Come con noi aveva pianto allora…
Ma la pioggia non è bastata a dissipare il retrogusto amaro che il cinismo di Stato lascia in bocca. Nella storia recente del Paese mai si era vista una simile manifestazione statale alternativa - di chiaro stampo ideologico - allo smisurato dolore di un popolo; mai si era visto un simile rituale celebrato sul sangue di vittime innocenti. Finalmente l’odio che il potere prova per il suo popolo è stato messo a nudo. Un odio che si fonda sulla paura che hanno di noi. Loro non lo tollerano, il dolore; l’abbiamo visto. “Loro” non hanno intenzione di vivere di ricordi e di cospargersi il capo con la cenere delle infinite vittime degli infiniti attentati che non sono stati in grado di gestire.
Questo sarà anche il futuro delle vittime di Beslan: la versione ufficiale della tragedia sarà diversa da quella ufficiosa. Poche lacrime. Niente verità. Nessuno che ascolti quel che ha da dire la gente. Nessuna iniziativa personale. Come ai vecchi tempi sovietici. Questa è l’ideologia del dopo Beslan: niente e nessuno deve dimostrare che le autorità sono incompetenti (e lo sono state); le lacrime sono ammesse, ma non a fiumi (non c’è ragione, tutto è sotto controllo); la tragedia va ricordata, ma senza un eccessivo dispendio di emozioni: insinuerebbe uno sconforto che non può esistere nel Paese dei Soviet, in quanto sulla Russia veglia Putin che si prende cura di noi e meglio di noi sa com’è bene comportarsi. E poi, c’è sempre una luce alla fine del tunnel, stiamo lottando contro il “terrorismo internazionale”, “siamo uniti come non mai” e bla bla bla…
Poi c’è stato il 29 ottobre. La Duma ha approvato a stragrande maggioranza l’ennesima legge varata da Putin: sarà il presidente a indicare i candidati al posto di governatore e i parlamenti locali ratificheranno le nomine senza alcuna possibile alternativa. Se poi i parlamenti suddetti fossero tanto arditi da cassare per ben due volte le proposte del presidente, verranno sciolti per decreto presidenziale con una mozione di sfiducia.
Si tratta, è palese, di un oltraggio alla Costituzione e di una dimostrazione di disprezzo per la gente, che però non ha proferito verbo. L’opposizione ha organizzato qualche sporadico incontro, ma sottotono, senza meritarsi troppa attenzione. Putin ha tirato diritto per la sua strada. Questa è la Russia sovietica del dopo Beslan.
Qual è, dunque, la situazione dopo Beslan? Un tempo si diceva che popolo e partito erano la stessa cosa. Oggi come oggi popolo e partito non sono mai stati così distanti nella vita reale e così vicini in televisione. L‘“homo sovieticus” si fa di giorno in giorno più forte e più sfrontato, e con lui incombe l’inverno della politica, una glaciazione che si annuncia perenne. Non ci sono segni di un rialzo termico. Ben ammaestrata dalle menzogne ufficiali sul teatro Dubrovka, la Russia non chiede giustizia nemmeno per Beslan. In questo senso la responsabilità di quanto accaduto è anche nostra. Dalla tragedia di “Nord-Ost” ai fatti di Beslan sono passati due anni, anni in cui abbiamo continuato a dormire pacificamente nelle nostre case o a ballare in discoteca, distraendoci da tali amene occupazioni solo per andare a votare Putin. La gente non si è data la pena di pretendere la verità su “Nord-Ost” o di curarsi del dolore delle vittime, ed è stato questo il momento cruciale: il potere ha capito di essere riuscito a piegare il proprio popolo. Su quest’onda è venuta Beslan.
Non possiamo tollerare altri decenni di glaciazione politica. Vorrei davvero essermeli lasciati alle spalle. Vorrei davvero che i nostri figli potessero essere liberi. E che i nostri nipoti ci nascessero, liberi. Per questo invoco il disgelo. Gli unici a poter cambiare, il clima, però, siamo noi. E nessun altro. Aspettarcelo dal Cremlino, com’è accaduto con Gorbac‰v, oggi è sciocco e irrealistico. N‚
ci potrà aiutare l’Occidente, che poco si cura della “politica antiterrorismo di Putin” e che invece mostra di gradire la vodka, il caviale, il gas, il petrolio, gli orsi e un certo tipo di persone…
L’esotico mercato russo è attivo e reattivo, e l’Europa e il mondo non chiedono altro alla settima parte del globo terrestre, la nostra.
Tutto quel che sentiamo da voi è “al-Qaeda”, “al-Qaeda”… Un maledetto mantra per scrollarsi di dosso la responsabilità di nuovi fatti di sangue, una rozza cantilena con cui cullare la coscienza di una società che altro non vuole se non essere cullata.
GLOSSARIO
a cura di Claudia Zonghetti.
BASAEV, SHAMIL’ (1965-?), frequenta senza laurearsi la facoltà di ingegneria a Mosca; torna in Cecenia e scala velocemente la gerarchia della Confederazione dei popoli del Caucaso (movimento politico-intellettuale che si radicalizza verso l’indipendentismo sotto la spinta della componente cecena) e mobilita un primo contingente di combattenti. Con Dudaev condivide la fede indipendentista, ma diverge quanto a metodi e strategie. E’ la mente del sequestro dell’ospedale di Bud‰nnovsk, con un bilancio finale di centoquarantadue civili morti e duecento feriti. Nel 1998 diventa capo del governo con Maschadov presidente, ma poi lascia la politica e sceglie la guerriglia. Da allora si parla di lui come della mente di gran parte degli attentati terroristici degli ultimi anni. Periodicamente si diffonde la voce che sia morto, ma a tutt’oggi non ci sono prove certe al riguardo.
DUDAEV, DZOCHAR (1944-1996), generale dell’aviazione sovietica. Nel 1991, in seguito al crollo dell’URSS, torna nel Caucaso e abbraccia la causa indipendentista e l’Islam, diventando in poco tempo leader dei ceceni. Nell’ottobre del ‘91 un referendum decreta l’indipendenza della Repubblica Cecena, e Dudaev viene eletto presidente. Ucciso nel 1996, poco lontano dal suo quartier generale, da un missile russo orientato sul segnale emesso dal suo telefono satellitare.
HATTAB, nato, si dice, intorno al 1963. Habib Abd al-Rahman (per i ceceni solo Hattab, o Katab il giordano, per un fraintendimento sulle sue origini) è stato uno dei comandanti di maggior carisma della guerriglia cecena. Si dice che sia caduto in un’imboscata nell’aprile del 2002, ma i ribelli ceceni accusano i servizi segreti russi di averlo avvelenato.
ICHYKERIJA, in ceceno indica solo la zona montagnosa del Paese, ma nel 1992 Dzochar Dudaev battezzò come tale l’intera Cecenia, attirandosi le ire di coloro che vivevano in pianura, generalmente ritenuti più “russificati” e quieti in opposizione ai montanari bellicosi e tradizionalisti.
JABLOKO (Mela), costituitosi nel 1993. Il Partito democratico russo deve il proprio nome a un acronimo dei cognomi dei tre fondatori: Grigorij Javlinskij (che ne è ancora il presidente), Jurij Boldyrev e Vladimir Lukin. E’ passato da un 7,9 per cento del 1993 (con ventisette seggi alla Duma), al 4,3 per cento del 2003, dunque sotto la soglia del 5 per cento. E’ comunque presente alla Duma con quattro deputati eletti direttamente.
KADYROV, ACHMAD (1951-2004), ex combattente indipendentista, eletto presidente della Cecenia nell’ottobre del 2003 con l‘80 per cento dei voti e il plauso di Mosca. Dapprima sostenitore della guerra santa contro la Russia, si schiera poi con il governo federale. Se Mosca lo sostenne a scapito di Maschadov fu probabilmente perch‚, odiato dai comandanti della guerriglia, Kadyrov non poteva certo favorire delle trattative di pace. Ucciso da una bomba nel maggio del 2004 allo stadio di Groznyj.
MASCHADOV, ASLAN (1951-2005), nato in Kazakistan nel 1951 da genitori ceceni che rimpatriano nel 1957. Ufficiale dell’Armata Rossa e poi presidente liberamente eletto dal popolo ceceno nel 1997. Figura controversa, spesso incapace di far valere il proprio peso politico.
Finisce alla macchia. Con l’elezione di Kadyrov, Maschadov viene definitivamente esautorato. Si dissocia dai fatti di Beslan, ma è accusato di esserne l’organizzatore e il finanziatore. Ucciso in un’azione dei servizi segreti russi il 7 marzo 2005. Secondo il viceprocuratore generale Nikolaj Shepel, che si è basato sui risultati di esami necroscopici, sarebbe morto sotto le raffiche dei suoi compagni per non cadere prigioniero dei russi.
MEMORIAL, prima organizzazione non governativa e non politica della storia russa recente, sorta alla fine degli anni Ottanta per salvaguardare la memoria delle vittime del Gulag. Il suo primo presidente fu Andrej Sacharov. Oggi conta ottantasette sedi tra Russia, Ucraina, Polonia, Lituania e Germania ed è coraggiosa custode dei diritti civili.
ZINDAN, termine ceceno che sta per “sacco di pietra”; è un pozzo di tortura utilizzato dai ribelli ceceni e mutuato poi dalle truppe della Federazione Russa.
NOTE.
Nota 1. La storia dei cinquantaquattro soldati ha avuto ampia eco, sfociando in un’inchiesta ufficiale sotto gli auspici dell’ufficio del capo della procura militare. L’inchiesta ha accertato che durante l’“addestramento” gli ufficiali avevano ecceduto in autorità e avevano perso le staffe per via della cattiva condotta dei soldati al poligono. Il caso non arrivò in giudizio e nessuno degli ufficiali fu condannato. I soldati vennero distribuiti fra le diverse unità onde evitare ulteriori problemi. La sentenza salomonica è il prodotto di un sistema giudiziario specifico per le Forze Armate. Pubblici ministeri e giudici militari sono parte di quelle Forze Armate che hanno violato il giuramento di fedeltà, e devono rispondere agli stessi superiori, su su fino al ministro della Difesa. Ne deriva che, a ogni livello, pubblici ministeri e giudici non possono essere indipendenti nei loro giudizi [“salvo diversa indicazione, le note si devono all’Autrice”].
Nota 2. L’episodio fu trattato alla stregua del caso dei cinquantaquattro soldati. L’ufficio della procura militare - i cui impiegati sono di fatto subordinati all’ufficiale comandante dell’unità militare in cui l’episodio si era verificato - svolse un’inchiesta. Anche in questa occasione la procura prosciolse gli ufficiali.
Nota 3. Il Codice di Procedura penale russo dispone che tutti abbiano diritto a un avvocato anche se non possono permetterselo. Durante la seconda guerra cecena questo sistema, tuttavia, è stato utilizzato per affibbiare agli imputati dei legali che, di norma, erano ex uomini dell’F.S.B. che ne conoscevano bene i meccanismi e le necessità in relazione ai loro clienti.
L’unica funzione di costoro era di presenziare ogni qual volta la legge lo imponesse.
Nota 4. La Corte Suprema della Repubblica dell’Ossezia-Alanija del Nord ha poi stabilito che le testimonianze di Chasuchanov ai danni di Maschadov gli erano state estorte a forza di torture e ha sottoposto gli atti dell’inchiesta ad Amnesty International, che sta lavorando al caso.
Nota 5. Va detto che la Croce Rossa è spesso impossibilitata a svolgere le funzioni previste in quanto le autorità russe le hanno revocato il diritto di visita ai detenuti.
Nota 6. Abdula Chamzaev è morto nel giugno del 2004 dopo una grave malattia. Durante il processo Budanov è stato vittima di pressioni inaudite oltre che di minacce da parte di formazioni nazionaliste e paramilitari, e di colleghi di Budanov. Ha anche avuto diversi infarti, uno dei quali pareva dovesse essergli fatale. E’ invece tornato in aula, contribuendo a che Budanov fosse condannato.
Nota 7. E’ importante capire quale sia stata la svolta nel processo. Le perizie psichiatriche sono il fulcro del caso Budanov. Quando il rischio che il colonnello fosse rilasciato diventò altissimo, Memorial e il direttore dell’Associazione di psichiatria indipendente russa, il professor Jurij Savenko, chiesero ai loro colleghi tedeschi di stilare un referto sulla base dei materiali in loro possesso. Intanto, in aula, gli avvocati sfiduciavano gli esperti del tribunale e pretendevano una consulenza straniera. Il giudice la negò, ma gli psichiatri tedeschi stilarono il loro referto e lo fecero pervenire al Bundestag. Fu poi Schroeder a tirare fuori l’argomento in una conversazione con Putin, che non si cura delle critiche interne ma è assai sensibile a quelle estere. La conseguenza è stata una svolta drastica nel processo. Notiamo, inoltre, che il tribunale decise poi di allegare agli atti la lunga perizia del dottor Stuart Turner, membro del Royal College of Psychiatrists di Londra. E’ stato dunque l’Occidente a cambiare il corso degli eventi.
Nota 8. Rushajlo è stato rimosso nel maggio del 2004.
Nota 9. La Procura di Stato aprì un’inchiesta sulla bustarella al giudice Krizskij e sulla chiusura del caso per cui aveva interceduto. L’inchiesta provò l’avvenuto “ringraziamento pecuniario”, ma non ebbe seguito. Come da tradizione russa e per evitare scandali, Krizskij venne invitato a
“dare le dimissioni”. Così fece. Di lì a poco anche Skuratov lasciò le sue mansioni, invischiato a sua volta in un grosso scandalo con la corruzione a farla da protagonista.
Nota 10. Un mero ricatto psicologico. La legislazione russa dispone che le esumazioni possano essere autorizzate solo dal tribunale. In caso di autorizzazione, poi, l’esame potrà svolgersi solo in presenza dei genitori o di parenti stretti. L’inquirente che aveva minacciato Irina venne trasferito in un altro ufficio e successivamente licenziato.
Nota 11. In seguito alla denuncia presentata da Aelita, sul caso è stata aperta un’inchiesta.
Nessuno dei poliziotti coinvolti è stato sanzionato.
Nota 12. Confer Boris Hazanov, “L’ora del re”, Sellerio, Palermo, 1992[2] [N.d.T.].
Nota 13. I fatti di “Nord-Ost” hanno ingenerato una nuova ondata di razzismo diretto non solo contro i ceceni, ma contro i caucasici in genere. Molte denunce sono state sottoposte alla sede moscovita del Gruppo di Helsinki e al Centro di aiuto e assistenza ai rifugiati. Amnesty International e l’Osservatorio per i Diritti umani hanno rivolto diversi appelli a Putin. Sono rimasti tutti lettera morta.
Nota 14. Sulla scia delle manifestazioni studentesche in Ucraina, negli ultimi tempi anche in Russia qualcosa si sta muovendo. Ci sono state le prime manifestazioni di studenti contro Putin, e in rete sono apparsi due siti che si oppongono al presidente. Si tratta di www.skaji.net (con skaji.net che sta per “shazi net” - “di’ di no”) e di un www.noputin.com che non ha bisogno di ulteriori commenti. Per tutta risposta Putin, in vista delle elezioni legislative del 2007 e delle presidenziali del 2008, favorisce la formazione di un nuovo movimento studentesco, I nostri (Nashi), che inneggia alla “potenza della Russia nel ventunesimo secolo” sostenendone la
“leadership globale” [N.d.T.].