E lo Stato che cosa fa, intanto? Se ne frega. Putin e i suoi hanno praticamente smesso di occuparsi degli ufficiali che hanno combattuto in guerre ormai lontane. E paiono quasi interessati a che la malavita possa disporre di killer competenti.

“Non starà pensando di fare la stessa cosa, Rinat?”.

“No, certo che no. Ma se io e Edik dovessimo finire per strada… Non posso escluderlo. E’ l’unica cosa che so fare”.

Alla fine Rinat e io riusciamo a infilarci tra il fango in una stamberga fatiscente. La chiamano “la tre piani”. E’ la caserma degli ufficiali. Saliamo all’ultimo piano, e dietro una porta scrostata trovo una stanza squallida, spartana.

Il maggiore non ha mai avuto una casa propria in vita sua. Mai. Prima c’era stato l’orfanotrofio a Niznij Tagil, sugli Urali. Poi le caserme dell’Accademia militare. Poi quelle della destinazione assegnatagli o le tende da campo degli ufficiali. Sedici anni di servizio nell’esercito, ovunque ce ne fosse bisogno. Negli ultimi undici, poi, Rinat non aveva fatto che passare da una missione all’altra. Una vita che non ti consente di mettere da parte nulla.

“Però ero felice” sostiene il maggiore “e non volevo smettere di combattere… Pensavo che non sarebbe mai successo…”.

Tutti gli averi di Rinat sono riposti in una sacca da paracadute. Il maggiore apre il suo armadietto malridotto con il numero di matricola su un lato e me la mostra.

“Borsa in spalla, e si parte”: questa, in due parole, la sua filosofia di vita e i suoi valori.

Sul divano c’è un ragazzino che ci guarda con occhi tristi. E’ Edik.

“Lei è stato sposato, no?” lo interrompo. “Quindi ce l’avrà avuta, una casa…”.

“No. Non ne abbiamo avuto il tempo”.

Mentre combatteva in Tadzikistan per aiutare l’attuale presidente Rachmonov a salire al potere, Rinat aveva sposato una kirghiza. Si erano incontrati durante la sua missione precedente, a Osh, dove lei viveva e dove Rinat era stato destinato per sedare un conflitto interetnico.

Si erano sposati su quello sfondo, per un amore appassionato e ardente scoppiato tra il dolore e il sangue. Dopo di che Rinat portò la sua sposa dal comandante, che si rassegnò alle nozze ma gli chiese di lasciare la moglie - il suo tallone d’Achille - a Osh. Rinat obbedì e ripartì per il Tadzikistan, per la banda dov’era infiltrato.

Un giorno il comandante gli fece sapere che la moglie aveva avuto un figlio maschio e l’aveva chiamato Edik. Qualche tempo dopo, nel giugno del 1995, la sua giovane moglie - che studiava al conservatorio locale - venne uccisa da qualcuno che non gradiva quel che Rinat faceva in Tadzikistan… Aveva appena compiuto ventun anni e quel giorno stava andando al conservatorio a dare gli esami del terzo anno…

In un primo momento Edik visse con la nonna, in Kirghizistan: era troppo piccolo per reggere la vita di caserma e, del resto, era raro che Rinat dormisse nelle stanze cupe e poco pulite che gli riservava lo Stato. C’erano le missioni sulle montagne, qualche ferita grave, le lunghe degenze in ospedale…

“Era quella, la vita che volevo fare, del resto” mi dice. “Ma intanto Edik cresceva”.

Venne il giorno in cui Rinat decise di prendere il figlio con s‚. Da allora Edik torna dalla nonna solo quando il padre parte per missioni di sei mesi, troppi per affidare un bambino ai vicini della porta accanto.

Siamo nella loro stanza. Fa freddo. E’ tutt’altro che confortevole. Edik è un ragazzino taciturno con luminosi occhi da adulto che vedono e capiscono ogni cosa. Parla solo quando Rinat esce dalla stanza e quando gli fanno una domanda: degno figlio di suo padre. Capisce perfettamente che il padre è in un brutto momento e che è per questo che vorrebbe mandarlo a studiare in un collegio militare. Ma a lui l’idea non piace.

“Voglio stare a casa mia” dice calmo, da bravo ometto, senza cedere alle lacrime. Ma lo ripete più volte: “Voglio stare a casa mia. A casa mia…”.

“E’ questa, casa tua? E’ qui che ti senti a casa?”.

Edik è un bambino schietto. Sa che quando non si può dire la verità è meglio tacere. Ed è quel che fa.

Difatti, chi chiamerebbe casa quella stalla per ufficiali, con i gemiti ebbri dei militari a contratto dall’altro lato del tramezzo, con la mobilia fornita dallo Stato? Ma Edik sa che li cacceranno anche da lì, e dunque gli va bene pure quella, come casa.

I rapporti fra il comando del reggimento e il maggiore avevano cominciato a incrinarsi quando Rinat era andato a chiedere un alloggio nell’edificio appena costruito, quello stesso che mi aveva portato a vedere e accanto al quale ci eravamo nascosti per non farci notare da Petrov. Il maggiore pensava di averne tutti i diritti, in quanto da anni era in cima alla lista d’attesa.

“Quando glielo chiesi, Petrov andò su tutte le furie. ‘E che cosa avresti mai fatto, tu, per il reggimento?’. Se lo immagina? Disse proprio così. Rimasi di sale e gli risposi che avevo combattuto. Sempre. Che avevo salvato dei piloti su una montagna dove nessun altro sarebbe andato a riprenderli… Che lo Stato aveva bisogno di me”.

In effetti il maggiore era stato proposto per la massima onorificenza del Paese, quella di Eroe della Russia. Nel giugno del 2001 un caccia militare si era schiantato sulle montagne della Cecenia, nella zona di Itum-Kale. Diverse squadre di recupero erano partite in cerca dell’equipaggio, ma invano. I capi si ricordarono di Rinat, della sua esperienza - unica nel suo campo -, del fatto che ‘sentisse’ le montagne e che sapesse ‘leggere’ rami, foglie e arbusti.

Il maggiore ritrovò i cadaveri nel giro di ventiquattr’ore. Uno dei corpi era già stato minato dai guerriglieri, ma Rinat riuscì a disinnescare l’esplosivo. Ora le famiglie di quei ragazzi hanno una tomba su cui piangere.

Gli ufficiali in servizio attivo sono soliti dire che i comandanti che perdono la testa nei combattimenti sulle montagne sono perfetti per la vita civile. Fu quel che Rinat disse a Petrov:

“Lo so io, che razza di eroe sei stato, tu, in Cecenia, sempre imboscato al comando”. L’altro reagì colpendolo sul vivo: “E bravo il mio maggiore… Adesso sì che sei nella merda, con le tue chiacchiere. Un barbone, ti riduco. Ti sbatto per strada, maggiore… Te e tuo figlio…”.

E si diede subito da fare per mettere in pratica la sua minaccia. Per prima cosa umiliò il maggiore - ufficiale con un curriculum di assoluto rispetto - incaricandolo di decorare lo spiazzo per le parate. Poi lo mise a capo del circolo ricreativo, a organizzare la proiezioni cinematografiche per i soldati.

Dopo di che gli ordinò di occuparsi dei manifesti per le parate (Rinat sa disegnare benissimo), una mansione che era sempre spettata alla moglie di Petrov, la quale smise di presentarsi in ufficio e restò a riposarsi nella sua bella casa mentre Rinat lavorava per lei. Lo sapevano tutti, al campo.

Nel frattempo Edik si era ammalato, l’avevano portato in ospedale e i dottori avevano ordinato a Rinat di restare accanto a lui. Rinat chiedeva dei permessi, ma Petrov ignorava i certificati medici e gli segnava un’assenza ingiustificata dietro l’altra. Alla fine convocò il consiglio degli ufficiali, contraffece i verbali e se ne servì per depennare il maggiore dalle liste d’attesa per gli alloggi. Al momento si sta adoperando affinch‚ Rinat venga congedato dall’esercito senza i privilegi che gli spettano. Per farla breve, Rinat è in guai molto seri.

“Che cosa ho fatto di male?” china il capo il maggiore, consapevole di non essere in guerra e di avere poche speranze di uscire vincitore.

Le guerre che il nostro Paese combatte continuano anche dopo, ovunque vivano coloro che vi hanno preso parte. In primo luogo nelle unità di cui i soldati tornano a far parte quando la missione è ultimata, e dove gli ufficiali “stanziali” hanno il dente avvelenato con i “combattenti”.

Che finiscono sbattuti fuori dell’esercito per insubordinazione, umiliati e offesi nonostante i servigi resi al Paese. Rinat non è un’eccezione. Oggigiorno gli ufficiali si dividono in due categorie tutt’altro che paritarie. La prima è quella di coloro che hanno combattuto, che hanno rischiato la vita arrampicandosi sulle montagne e sprofondando nella neve e nel fango per giorni e giorni, che hanno il corpo segnato dalle ferite. Per loro si può provare solo una grande pena.

Stentano a riciclarsi nella vita di tutti i giorni, una vita che per noi è normale e per loro assurda.

Dove bisogna sapersi muovere e dove non basta prendere il mitra in mano. Parlano una lingua diversa da quella degli ufficiali dell’altro gruppo, che sono stati anche loro in Cecenia, ma dietro una scrivania. E allora si ribellano, si attaccano alla bottiglia, soffrono, e gli “stanziali” ne fanno quel che vogliono: se ne lamentano con i superiori, li denunciano, brigano… Basta poco, e i più caparbi finiscono espulsi dall’esercito. Per che cosa? Per essere stati se stessi. Ricordando con ciò agli ufficiali da scrivania l’effettivo stato delle cose. Giorno dopo giorno.

Intanto, però, gli altri schizzano su per la scala gerarchica come razzi. E si sistemano con tutti gli agi: appartamento, dacia e quant’altro.

Alla fine Rinat si è arreso. Ha lasciato l’esercito che tanto amava ed è sparito con Edik. Un ufficiale senza casa e senza un soldo.

Ho paura per lui, perch‚ posso immaginare dove sia finito.

E ho paura per tutti noi.

STORIE DI PROVINCIA

ovvero

APPROPRIAZIONE INDEBITA CON LA CONNIVENZA DELLO STATO.

Febbraio 2003. Mosca. Un fulmine a ciel sereno: il presidente Putin nomina un nuovo sottosegretario agli Interni e responsabile della Direzione centrale per la lotta alla malavita organizzata (GUBOP). E’ il signor Nikolaj Ovcinnikov, modesto e oscuro deputato della Duma che non prende mai la parola, non ha mai partecipato all’attività legislativa e pare politicamente inerte. E non è nemmeno di San Pietroburgo, la qual cosa nell’attuale politica delle nomine è già una credenziale di tutto rispetto. Subito dopo la nomina Ovcinnikov rilascia un’intervista: farà del suo meglio per meritarsi la fiducia del presidente e ritiene suo compito “ridurre al minimo la corruzione” e far sì che “la componente sana della società” non debba più dipendere “dalle gesta di una minoranza di criminali”. Nobili intenti, non c’è che dire. Ma allora perch‚ sugli Urali in tanti sono scoppiati a ridere?

In primo luogo va detto che la scelta del presidente non è stata fortuita. L’uomo e la poltrona si sono incontrati perch‚ nella Russia di Putin era inevitabile che ciò avvenisse.

Ma partiamo dalla poltrona. A che livello è della gerarchia statale? E perch‚ merita tanta attenzione?

Essere a capo della lotta alla malavita organizzata non è una carica come tante, in Russia. E’ un posto chiave nella struttura del potere. In primo luogo perch‚ la malavita organizzata (la mafia) è il nostro quotidiano e affonda le radici in un sistema di corruzione senza precedenti. Senza i soldi non fai niente, con i soldi quel che vuoi, come si suol dire dalle nostre parti.

In secondo luogo è una carica che ha acquistato importanza ‘strada facendo’. Un inaffondabile, uno di coloro che è rimasto a galla sia con El’cin che con Putin, uno dei massimi burocrati-mediatori di potere in Russia è Vladimir Rushajlo, ex ministro degli Interni e attuale capo del Consiglio di sicurezza (8). Rushajlo ha mosso i primi passi quale responsabile della lotta alla malavita organizzata, e una volta ministro ha continuato a coltivare i suoi interessi di un tempo rafforzando più che ha potuto il settore che aveva diretto inizialmente. Ha moltiplicato il numero degli addetti rispetto agli altri dipartimenti, ha concesso loro pieni poteri (tra cui la possibilità di usare la forza senza autorizzazione preventiva), distinguendoli con ciò dalle altre forze di polizia e, com’è ovvio, ha promosso ai più alti gradi del governo i suoi uomini, i suoi colleghi nella lotta alla mafia. La conseguenza è che oggi come oggi i ‘rushajloviani’ sono presenti in gran numero nei ministeri più importanti, un numero paragonabile solo ai ‘pietroburghesi’ (coloro che hanno prestato servizio con Putin a San Pietroburgo e che l’hanno seguito a Mosca) e ai ‘cekisti’, figli di quel K.G.B. (oggi F.S.B.) in cui anche Putin ha lavorato.

Ma veniamo a Ovcinnikov. La sua nomina pareva degna di rispetto e burocraticamente ineccepibile. Ovcinnikov sembrava essersi meritato la sua poltrona. A prestar fede al curriculum, prima di entrare alla Duma Ovcinnikov era stato ufficiale di polizia, aveva prestato servizio per trent’anni in provincia ed era infine diventato capo della polizia di Ekaterinburg. Che non è una città qualunque, ma la “capitale degli Urali”, il fulcro della regione omonima, la sua zona più industrializzata. Quando, a suo tempo, El’cin aveva invitato le diverse regioni della Russia “a prendersi tutta la sovranità che volevano”, erano stati avanzati piani serissimi per la creazione di una Repubblica degli Urali con Ekaterinburg capitale. Dirigere la polizia di Ekaterinburg, dunque, significava essere famoso in tutto il Paese, in quanto gli Urali sono sinonimo di giacimenti minerari, industria siderurgica, di un patrimonio naturale e industriale capace di sostentare qualunque nazione… Per di più Ekaterinburg è la sede storica di una delle cupole mafiose più importanti - prima dell’Unione Sovietica e ora della Russia -, la cosiddetta cupola di Uralmash.

Volente o nolente, il primo poliziotto della città si trovava a fronteggiarla.

Vero è, tuttavia, che al curriculum ufficiale di Ovcinnikov mancano molte informazioni. Alcune delle quali importantissime. Ossia: che capo della polizia è stato, Ovcinnikov? Di che cosa si è occupato? A quali mafiosi ha dato la caccia? Con quali è entrato in contatto? Quali sono state le sue vittorie? Quali personaggi pubblici locali hanno goduto del suo appoggio? E, di conseguenza, che città era la Ekaterinburg di Ovcinnikov? E che cosa è diventata oggi?

Va da s‚ che non è mia intenzione raccontare come il poliziotto di provincia Ovcinnikov sia stato assunto nell’empireo della capitale. Quel che mi interessa è un fenomeno della quotidianità russa che si chiama corruzione. Che cos’è? Su quali meccanismi si fonda a livello nazionale? Com’è la nuova mafia dell’era Putin? Come riesce a mettere le mani sulle poltrone più importanti? Per farla breve, partendo dalla nomina di Ovcinnikov a campione della lotta alla mafia, possiamo avere un’idea della politica delle nomine di Putin e della sua amministrazione?

Non sarà una storia breve. Dovremo cominciare da molto, molto lontano…

FEDULEV.

Il 13 settembre del 2000 in Russia si parla di una cosa sola. Mentre in Cecenia si combatte e Putin è stato nominato primo ministro solo perch‚, a differenza di altri pretendenti, ha accondisceso a portare avanti la seconda guerra cecena, a Ekaterinburg viene occupato uno dei maggiori complessi industriali della Russia, l’impianto chimico Uralchimmash.

Armato di mazze da baseball e sostenuto dalle Unità speciali della polizia locale (OMON), un gruppo di cittadini fa irruzione negli uffici - causando non poco scompiglio - e cerca di rimpiazzare il direttore, Sergej Glotov, con un proprio uomo.

Le televisioni degli Urali mostrano quei comunisti esultanti al grido di “Urrà! Potere al popolo!

Abbasso i capitalisti!”. Gli stessi slogan usati dai leader sindacali del luogo, che definiscono l’occupazione una “rivoluzione operaia”, le manifestano pieno appoggio e promettono di estendere quelle “rivo-nazionalizzazioni” a tutto il Paese.

Il presidente El’cin non fa commenti, ma nessuno se ne stupisce: si sa che è malato. Solo che neppure il primo ministro Putin fiata. Mosca, insomma, tace. Nemmeno il ministro degli Interni Rushajlo ha niente da eccepire sulla condotta dei suoi uomini, i poliziotti che hanno spalleggiato l’irruzione.

Va da s‚ che il silenzio della capitale significa molto: certe cose non accadono dall’oggi al domani, e i reparti speciali mai si sognerebbero di fiancheggiare in armi operai che lottano per i propri diritti.

La sera del 13 settembre, quando la “rivoluzione operaia” pare essersi quietata e gli ex dirigenti, pur di non consegnarsi, si sono barricati nell’ufficio del direttore, all’Uralchimmash entra una vera e propria colonna di mezzi corazzati, un’infilata di jeep nere nuove di zecca. I corpi speciali della polizia locale si aprono a ventaglio per lasciarle passare.

Da una di esse scende un uomo non troppo alto e piuttosto scialbo, con un abito impeccabile, occhiali costosi, catene e bracciali d’oro. L’archetipo del “nuovo russo” con tracce di recenti sbronze sul viso. Percorre il tragitto fino all’ufficio del direttore circondato da una fitta schiera di guardie del corpo fornite dalla polizia locale. Gli OMON gli aprono la strada con la forza, gli operai si fanno da parte non senza qualche mugugno.

“Pashka cerca rogne. E’ un regolamento di conti, questo…” dicono tra i denti gli impiegati della fabbrica.

“Industriale di spicco della nostra regione e deputato all’Assemblea legislativa regionale, Pavel Fedulev sta cercando di ristabilire l’ordine, forte delle decisioni del giudice” trasmettono, invece, le televisioni di Ekaterinburg, alternando le inquadrature dell’“industriale di spicco”

dall’espressione ostentatamente concentrata a quelle dei visi insanguinati di chi ha difeso la fabbrica. Tra le mazze da baseball si intravede qualche verga di ferro…

Il signore con gli occhiali entra nell’edificio e porge una pila di documenti ai rappresentanti destituiti dell’Uralchimmash. Si tratta di ordinanze giudiziarie in base alle quali il latore risulta comproprietario del complesso industriale in questione, e che in quella veste - oltre che come membro del consiglio direttivo - manifesta l’intenzione di far sedere un suo uomo nella poltrona più importante. Gli altri sono dunque pregati di alzare i tacchi.

Dopo di che Fedulev si accomoda nella poltrona del direttore affinch‚ sia chiaro a tutti chi è il padrone, lì dentro. Di lì a poco, tuttavia, i dirigenti - usciti per prendere visione degli atti loro presentati - tornano e gli rispondono prima con una valanga di improperi che lo lasciano del tutto indifferente, poi con un’analoga risma di carte e ordinanze asserenti che l’unico possibile direttore della fabbrica è l’attuale. La sfilza di firme in calce ai loro documenti, però - e va detto

-, non combacia affatto con quella in calce ai documenti di Fedulev.

Per poter comprendere l’accaduto è necessario un ulteriore excursus nella storia attuale di Ekaterinburg, utile per capire quali siano state le norme a cui ci si è attenuti nei dieci anni successivi al crollo dell’URSS. O come si sia evoluta una società nella quale è stato possibile occupare un complesso industriale di tale portata. O la ragione per la quale in questa storia figurano due diverse serie di disposizioni giudiziarie. E chi è Pavel - detto Pashka - Fedulev. E

perch‚, quando in quei giorni mi trovavo a chiedere che cosa stesse succedendo alle persone più disparate - passanti, personale di turno alla stazione ferroviaria, impiegati statali, prostitute dell’albergo, giudici, poliziotti, insegnanti -, la risposta era sempre la stessa: “Fedulev”. L’unica differenza era che alcuni lo chiamavano “Pashka”, mentre per altri era “il signor Pavel Fedulev”…

COME E’ COMINCIATA.

Dieci anni prima, agli albori della nostra società odierna, con El’cin al potere e la democrazia che

- come si diceva allora - ribolliva ovunque, Pashka era solo un teppistello, un estorsore e un delinquente. All’epoca Ekaterinburg si chiamava ancora con il suo nome sovietico, Sverdlovsk, e a Sverdlovsk, dunque, la facevano da padrone grosse bande criminali che si spartivano il territorio. Pashka, invece, era un cane sciolto con la sua piccola impresa. E se anche aveva qualche pendenza giudiziaria a seguirlo come il velo di una sposa, la polizia non si occupava troppo di lui: era un pesce piccolo, di quelli che, all’epoca, finivano dentro non per i crimini commessi, ma perch‚ ogni tanto “ci dovevano finire” per aver alzato la cresta. A Pashka Fedulev non capitava mai, allora.

Nei primi anni Novanta Pashka si dà al commercio, mossa tipica di buona parte dei suoi colleghi di Sverdlovsk e della Russia in generale. Pashka, però, è povero, è una mezza tacca, e non ha accesso alla “Cassa”, la banca centrale del sottobosco criminale (e quella di Ekaterinburg, con tutta la sua malavita, è tra le più grandi del paese). Ragion per cui deve racimolare da solo il capitale iniziale. E lo fa.

I primi soldi li mette insieme con un tipo di vodka artigianale prodotta illegalmente, la “palenka”.

Il procedimento è semplice. Fin dal tempo dei Soviet, i remoti villaggi della zona di Sverdlovsk pullulavano di distillerie, che con El’cin al potere erano andate fallendo come molte altre fabbriche di Stato. Ci fu un momento in cui chiunque si presentasse dal direttore con dei soldi -

neanche tanti - in mano, poteva portarsi via tutto l’alcol che riusciva a trasportare. Era un furto conclamato alle casse dello Stato, ma era anche la norma della quotidianità postsovietica, in cui

- per sfamarsi - una metà del Paese derubava l’altra senza che ciò suscitasse il minimo stupore.

Ognuno cercava di sopravvivere come meglio poteva: era quello il business che tanto avevamo sognato.

Chi comperava l’alcol lo allungava poi con dell’acqua, lo imbottigliava in qualche scantinato, dopo di che lo vendeva - in un lampo - come vodka a poco prezzo. All’epoca non erano state ancora introdotte le tasse sugli alcolici, non esisteva una legislazione al riguardo, e se anche avesse voluto intervenire in quella ‘guerra della vodka’ (e non voleva, perch‚ preferiva reggere il moccolo ai criminali, che le pagavano un pizzo per essere protetti dai concorrenti e dagli estorsori) la polizia era disarmata.

E’ allora che il distillatore Pashka Fedulev conosce il poliziotto Nikolaj Ovcinnikov. E’ la produzione e la vendita della vodka a farli incontrare. Come tutti, anche Ovcinnikov vuole far soldi. Lo stipendio dei poliziotti è ridicolo, sempre che lo ricevano. Lui e Fedulev, dunque, trovano un accordo. Ovcinnikov non ‘vede’ i misfatti di Pashka, che sa essergliene riconoscente: il poliziotto non ha più problemi a procurarsi pane e companatico.

Alla fine il capitale accumulato da Fedulev arriva alla cifra necessaria per affari più consistenti.

Affari legali, quel che più conta. E’ una peculiarità del nostro Paese: se il sogno di ogni soldato è di diventare generale, quello di ogni criminale russo è di fare soldi legalmente.

Tuttavia chi vuol farsi strada nelle alte sfere dell’economia - con El’cin prima e con Putin oggi -

sa che ci sono tre condizioni da rispettare.

La prima è che ha successo chi riesce a ottenere una fetta dalla torta dello Stato, ossia chi riesce a trasformare in proprietà privata quanto era proprietà statale. Questo il motivo per cui la stragrande maggioranza degli oligarchi viene dalla “nomenklatura” di partito: erano i più vicini alla ‘torta’.

La seconda è che, una volta in alto, una volta messe le mani sulle proprietà dello Stato, bisogna sempre e comunque restare vicini al potere, bisogna sempre e comunque pagare, ‘ungere’, i burocrati: è la migliore garanzia che la tua impresa potrà prosperare.

La terza condizione è farsi amici (si legga: pagare) i tutori dell’ordine.

Non essendo in grado di soddisfare la prima condizione, Fedulev si concentrò sulle altre due.

I TUTORI DELL’ORDINE.

All’epoca a Ekaterinburg vive un certo Vasilij Rudenko. Vicedirettore della polizia investigativa locale e amico di Ovcinnikov, è una persona viscida, un corrotto, ma la sua posizione impone a tutti coloro che vogliono riuscire ad arricchirsi in modo legale di fare i conti anche con lui. E’

Rudenko, infatti, che ripulisce le fedine penali dei nuovi businessman (e dei recenti criminali) custodite negli archivi della polizia di Ekaterinburg.

Anche Fedulev si rivolge a lui. E’ un momento delicato, per Pashka, che a Ekaterinburg ha fama di “re della vodka” e che ha già avuto diverse richieste per sponsorizzare case di accoglienza e orfanotrofi. Pashka vola spesso a Mosca per il fine settimana, a spassarsela nei locali notturni, e porta sempre con s‚ (privilegio che attesta i suoi legami con il potere costituito) qualche pezzo grosso dell’amministrazione locale. E’ giunto il momento, dunque, di ripulire la sua immagine. Di cancellare dagli archivi della polizia ogni traccia del suo passato criminale.

Detto, fatto.

Tra parentesi: Fedulev è un uomo fortunato, è sempre riuscito a fare quel che aveva in mente.

A presentare Fedulev a Rudenko è un uomo di nome Jurij Al’tshul’. Tutti quelli che lo hanno conosciuto ne parlano con affetto, se non con ammirazione. Non è del posto, Al’tshul’, è finito a Ekaterinburg per caso, per servire il suo Paese. Era nell’esercito, un agente dei servizi segreti militari (G.R.U.) rimpatriato dall’Ungheria dopo la caduta del muro di Berlino e la smobilitazione delle forze d’Occidente; negli Urali comandava una compagnia delle truppe speciali del G.R.U.

Una volta a Ekaterinburg, Al’tshul’ chiede il congedo dalle Forze Armate e rimane in città. Sono gli anni in cui la Russia non paga gli stipendi ai militari. Tornato civile, Al’tshul’ si dà agli affari.

Come molti suoi colleghi, crea una propria agenzia di sorveglianza e di investigazione, e un’associazione benefica per i “Veterani delle unità speciali”.

Organizzazioni simili, nate dallo sfacelo dell’esercito, non sono un’eccezione, in Russia. Ogni grande città ha dei reduci che si occupano di proteggere i commercianti. Fedulev, dunque, si ritrova cliente di Al’tshul’, che per tramite di Rudenko lo aiuta a emendare dai suoi peccati il dossier della polizia di Ekaterinburg. Il sogno è diventato realtà.

Non ci vuole molto perch‚ Al’tshul’ cessi di essere una semplice guardia del corpo e diventi la persona di fiducia di Fedulev. Intelligente, deciso e istruito, è lui a introdurre Fedulev - uomo senza preparazione professionale di sorta - nel mercato finanziario degli Urali. Va detto, tuttavia, che Pashka vi si trova subito a proprio agio e diventa presto un abile giocatore. Soldi ne ha pochi, e dunque si allea con Andrej Jakuscev, famoso alla metà degli anni Novanta per essere a capo di Zolotoj telec (Il vitello d’oro), una nota fabbrica degli Urali.

Con lui Fedulev fa incetta delle azioni di diverse imprese, tra le quali, per esempio, quelle di un complesso per la lavorazione della carne, il più grosso della zona. Il giro d’affari è tale, che in un batter d’occhio Pashka diventa uno degli oligarchi della città, ammesso a frequentare persino il governatore Eduard Rossel’.

A questo punto appare chiaro che Fedulev non ama dividere i propri successi con nessuno. Sa e può stringere alleanze nel momento del bisogno, ma quando poi si tratta di dividere il successo economico - e dunque sociale - le cose cambiano. E’ allora che Pashka assume per la prima volta un sicario.

O per lo meno è la prima volta di cui si ha notizia. Il suo scopo lo raggiunge senz’altro, in quanto da allora tutti cominciano a temerlo, consapevoli che ormai si è lasciato alle spalle quelli che erano i suoi limiti di un tempo, il suo status di teppistello ed estorsore. Così vanno le cose in Russia: se ammazzi qualcuno sei degno di rispetto.

E’ più o meno in quel periodo che, per condurre in porto un altro affare, Fedulev chiede una grossa somma in prestito a Jakuscev. L’affare è concluso e la somma viene moltiplicata. Ma Fedulev si rifiuta di restituire il dovuto… Dal canto suo Jakuscev non gli mette fretta. N‚ ha il tempo di farlo, in quanto il 9 maggio del 1995 viene ucciso sulla porta di casa, sotto gli occhi della moglie e del figlio.

Ci fu un’inchiesta? Certo che sì, la causa penale n. 772801 con Fedulev, amico e debitore della vittima, a farla da protagonista…

Dunque? Dunque nulla. La pratica 772801 è ancora aperta, ma nessuno pare essersene occupato, n‚ allora n‚ mai. E quante pratiche analoghe si sarebbero accumulate, negli anni a venire, a nome di Fedulev… L’esito, tuttavia, sarebbe stato sempre lo stesso: niente. A Ekaterinburg chiunque abbia a che fare con Fedulev sa che Pashka ha fatto l’investimento migliore: si è comperato la polizia, che lo preserva fedelmente da qualunque dispiacere.

Pashka è stato furbo. Conosce perfettamente le regole del nuovo corso, la principale delle quali recita che non sei nessuno se non hai agganci di due tipi: l”amicizia’ degli alti burocrati - che se adeguatamente corrotti ti garantiscono la sopravvivenza -, e quella della polizia, che dipende dai tuoi dollari come dall’eroina.

Da quel momento Rudenko e Ovcinnikov diventano l’alter ego di Fedulev. Lo aiutano a diventare un “ricco industriale degli Urali” e fanno lievitare il suo patrimonio. Va da s‚ che la tecnica sia quella usata ai danni di Jakuscev, l’unica che conoscano.

Un giorno Fedulev offre la propria collaborazione a un altro oligarca del luogo, Andrej Sosnin. I due uniscono le rispettive risorse economiche e sferrano una campagna di speculazione azionaria mai vista negli Urali. Sosnin finisce per possedere i pacchetti di maggioranza delle più ghiotte imprese della regione, ha in mano tutto - o quasi - il potenziale industriale creato da alcune generazioni di funzionari sovietici dopo la seconda guerra mondiale, quando nella zona erano state trasferite le maggiori (e le migliori) imprese della parte europea dell’Unione Sovietica. Tra le industrie che passano sotto il controllo di Sosnin e Fedulev figurano il complesso siderurgico di Niznij Tagil e quello minerario di Kachkanar, entrambi di fama mondiale, il già citato Uralchimmash, la Uraltelekom, la direzione mineraria di Bogoslovsk e tre centri di idrolisi a Tavda, Ivdel’ e Lobva.

E’ un grosso successo. Per loro senz’altro, ma per lo Stato? N‚ Sosnin n‚ Fedulev hanno in mente una qualunque politica industriale. Ciò non di meno le autorità locali li portano in palmo di mano, senza chiedere loro che intenzioni abbiano, ma aspettando fiduciosi la propria fetta. Anche il livello di corruzione lievita. Nessuno ha da ridire su quanto ricevuto: il bottino viene spartito con generosità, poich‚ si tratta di gente che non ci si può permettere di far arrabbiare.

Arriva il momento di dividere le quote tra Fedulev e Sosnin. E il ritornello è lo stesso: Fedulev è ben lieto di dare il dovuto a funzionari e poliziotti, ritenendolo un investimento lucroso, ma non vuole saperne di fare altrettanto con Sosnin. Andrej Sosnin viene ucciso da un colpo d’arma da fuoco. Il 22 novembre 1996 viene aperta la pratica n. 474802, con Fedulev come principale sospettato, e… E niente.

E’ a questo che servono gli ‘agganci’, no? Quando Sosnin viene ammazzato, i poliziotti amici di Fedulev - Rudenko e Ovcinnikov - sono già persone facoltose, ed è evidente che più prospera il loro datore di lavoro, Fedulev appunto, più prosperano anche loro. Va da s‚ che la pratica 474802 (così come la 772801) viene chiusa. Dimenticata per sempre.

LE GUERRE DELLA VODKA.

Stilare un elenco delle fabbriche degli Urali che alla fine degli anni Novanta erano passate nelle mani di Fedulev è importante, ma non essenziale. Ekaterinburg è prima di tutto sinonimo di Uralmash. E non è la fabbrica omonima che ho in mente, bensì l’omonima cupola mafiosa, la più grande del Paese, con diverse migliaia di adepti in rigidissima gerarchia, e uomini in ogni branca del potere. Per cui una cosa è corrompere i funzionari dello Stato e ammazzare i propri sodali, un’altra è stringere accordi con i mafiosi. Nel 1997 Fedulev ci riesce: unisce le sue forze alle loro per acquisire le azioni del centro di idrolisi di Tavda. Un’alleanza che ha un grande significato in quel momento: Fedulev, che aveva un tenore di vita altissimo, si trovava di nuovo a corto di denaro per giocare sul mercato azionario, e quel denaro ce l’aveva la mafia di Uralmash. La vera sorpresa fu che, pur sapendo con chi avevano a che fare, i mafiosi decisero di mettersi in affari con lui.

Urge una spiegazione. Perch‚ Fedulev e i mafiosi mostravano tanto interesse per l’idrolisi? Un interesse in grado di unire criminali di stampo diverso con alle spalle i più diversi tutori dell’ordine?

I centri di idrolisi producono l’alcol con cui si fa la vodka a poco prezzo, merce richiestissima e dai ridicoli costi di produzione, dunque un ottimo metodo per ottenere guadagni strabilianti con investimenti miserrimi. Tanto più che si tratta di guadagni “cash”, in contanti veri e non in titoli di credito, contanti che non passano per le banche e che per il fisco non esistono. Il piatto migliore per il business russo.

Fedulev e la mafia di Uralmash acquisiscono, dunque, il novantasette per cento della centrale di idrolisi di Tavda. Lo fanno secondo uno schema ben rodato: le due parti in causa creano ognuna una società in cui convergono i fondi della società principale, si spartiscono le azioni, dopo di che le neonate società o vengono liquidate oppure si conferiscono il totale dei processi produttivi. A un certo punto, poi, si scopre che il centro di idrolisi in quanto tale non esiste più e che le sue risorse sono di proprietà delle ditte di cui sopra… Va da s‚ che si tratta di un processo distruttivo per mano di gente - Fedulev e i mafiosi - che vuole tutto e subito senza curarsi del futuro.

Una volta concluso l’affare, Fedulev si comporta come suo solito. Quando è ora di dividersi le azioni, viola gli accordi originari ed estromette i colleghi mafiosi dal nuovo consiglio di amministrazione, in cui piazza solo i suoi fedelissimi.

Perch‚? Fedulev vuole essere il “primus inter pares”, libero, dunque, da accordi e alleanze di ogni tipo, persino le più influenti. E - per quanto strano - ci riesce: la mafia non lo fa fuori, com’era lecito aspettarsi, ma anzi si fa da parte.

La ragione di tanta quiescenza è semplice: quando Fedulev acquisisce la fabbrica di Tavda ha al suo attivo non solo e non tanto dei buoni agganci con la polizia (ai cui capi lo lega una sorta di joint venture). In qualità di amico intimo del governatore Rossel’, Fedulev è di fatto il capo della polizia locale, è lui a decidere le nomine e a eleggere come primo responsabile della lotta alla malavita organizzata (e dunque a se stesso) quel Rudenko che era stato un suo sodale. A capo della polizia di Ekaterinburg mette, invece, Nikolaj Ovcinnikov.

I capimafia, però, sono fatti della sua stessa pasta, e anche loro hanno da opporgli dei buoni agganci. Giunge, dunque, il giorno dello scontro diretto, il giorno in cui una squadra di mafiosi si presenta a Tavda e si riprende con le armi quanto le era stato negato. Fedulev risponde a tono: a un suo segno la fabbrica viene presa d’assalto da un’unità speciale di rapido intervento della polizia, che si trova davanti… dei colleghi! A fronteggiarsi in quella guerra della vodka, infatti, non sono due bande di criminali locali, ma chi sta alle loro spalle: da un lato Rudenko, Ovcinnikov e i loro uomini con Fedulev, e dall’altro il generale Kraev - capo della polizia dell’intera regione - con i mafiosi di Uralmash. Ne viene uno scontro armato finalizzato alla spartizione illegale di una proprietà del demanio per mano di coloro che, invece, erano chiamati a difendere la legalità (e che, di fatto, avevano aiutato le due parti in causa ad acquisire per il proprio impero proprietà sempre maggiori).

Degna di nota è anche la reazione del ministero degli Interni, a Mosca. I funzionari del ministero spiegano quello che sta accadendo a Ekaterinburg con un conflitto intestino in seno alla polizia locale dovuto all’incompatibilità tra Kraev, Rudenko e Ovcinnikov. Rudenko e Kraev vengono rimossi. Kraev è accusato di connivenza con la mafia locale, Rudenko - invece - è definito

“vittima della strenua lotta condotta contro la maggiore organizzazione criminale degli Urali” e viene trasferito a Mosca, dove, per mano dell’allora ministro degli Interni Rushajlo, viene nominato niente meno che capo dell’antimafia della regione di Mosca, alle dirette dipendenze del ministro degli Interni.

Da quel giorno Rudenko e i suoi sono sulla bocca di tutti, nella capitale. Nessuno è più corrotto di loro, nessuno più di loro spalleggia i criminali della capitale, nessuno ha sicari più spregiudicati nell’eseguire gli ordini delle bande di malavitosi che si fronteggiano.

A Ekaterinburg, nel frattempo, ci sono delle poltrone vuote. Fedulev si occupa personalmente di trovare un sostituto di Rudenko che risponda alle sue esigenze e sia pronto a intervenire quando necessario con le milizie armate ai suoi comandi. A sostituire Rudenko arriva, dunque, Jurij Skvorcov, che di Rudenko non solo era il braccio destro, ma anche colui al quale, nel corso degli anni, erano state delegate le questioni relative a Fedulev. A vice di Skvorcov viene eletto un certo Andrej Taranov, noto negli Urali per essere colui che nella polizia protegge Oleg Fleganov, il maggior fornitore di alcolici della zona. Quel Fleganov che è un personaggio chiave per la contraffazione della vodka, venduta in massima parte tramite la sua rete di distribuzione.

L’altro vice che Fedulev sceglie per Skvorcov è Vladimir Putjajkin, incaricato di ripulire le fila della polizia locale. Cosa che fa, cominciando con l’espellere coloro che ancora provano a sollevare la testa contro la mafia o che si rifiutano di lavorare per Fedulev. Lo zelante signor Putjajkin vi si dedica con grande zelo. Lasciate che faccia un esempio di come era solito procedere. Un giorno Skvorcov chiede informazioni dettagliate a Putjajkin su chi, all’interno della polizia, è contro Fedulev e i suoi uomini. Putjajkin annaspa, non dispone della documentazione richiesta. Allora che fa? Si porta a casa un giovane sottoposto, lo fa bere e cerca di convincerlo a fare i nomi dei compagni contrari a Fedulev, e dei loro accoliti in polizia. Il giovane si rifiuta.

Putjajkin, allora, lo induce a spararsi con la pistola di ordinanza: non ha comunque altra scelta, gli dice, tanto gli uomini di Fedulev lo faranno fuori…

“Impossibile!” mi pare di sentire inalberarsi il mio lettore.

Calma. E’ possibile. Possibilissimo, anzi. Così sono nate e hanno prosperato, con El’cin, le organizzazioni criminali che ora, con Putin, scandiscono la vita del Paese. E’ proprio a quelle -

potenti, influenti, ricchissime - che si rivolge l’attuale presidente quando nega un’eventuale ridistribuzione della proprietà affermando che tutto deve restare com’è… Putin può farla da padrone in Cecenia, scegliendo chi punire e chi salvare, ma ha una paura tremenda di quei mafiosi. Perch‚ ci sono tanti di quei soldi, in ballo, che buona parte di noi non riesce nemmeno a immaginare. E se la posta arriva a milioni di dollari, la vita, l’onore o la parola di un uomo contano meno di niente.

SENZA VERGOGNA.

Con l’ascesa di Fedulev e dei suoi gli Urali smisero di avere un qualunque ‘codice d’onore’, per usare quel gergo della mala che ha messo radici tanto forti da finire persino in bocca al presidente nei suoi interventi pubblici. A Ekaterinburg e provincia la legge non esiste più.

Quando ho chiesto alla gente comune chi stimassero di più - il governatore Rossel’, Fedulev o Cerneckij, il sindaco - la risposta è stata “l’Uralmash”, dunque la mafia di vecchio stampo.

“Come si possono stimare dei mafiosi?” ribattevo io, sbigottita. La risposta era semplice: “Quelli avevano un loro codice d’onore. I ‘nuovi’ no”.

A questo siamo arrivati.

Ma facciamo un passo indietro, al 1997. Con in pugno la polizia e il commercio della vodka, Fedulev continua a giocare in borsa e finisce per frodare una società moscovita. Non si tratta, però, di una società qualunque. Insieme ad altre, fa parte di un consorzio con a capo un noto oligarca della capitale che sponsorizza El’cin e la sua famiglia. Frodarla equivale a un suicidio.

All’ufficio di Ekaterinburg preposto alla lotta al crimine organizzato arrivano due denunce di frode, ma il valoroso Ovcinnikov blocca qualunque informazione possa nuocere a Fedulev e la polizia si rifiuta di aprire un’inchiesta. Solo l’intervento della Procura di Stato fa sì che la pratica n. 142114 venga aperta. A Mosca, però, e non a Ekaterinburg. Fedulev si dà alla macchia, con un mandato di arresto che lo insegue ovunque. E siamo nel 1998.

Ricordate Al’tshul’, l’ex spia diventata guardia del corpo di Fedulev? Ricordate che tutti quelli che lo avevano conosciuto ne parlavano come di una persona a modo, di parola, che non aveva paura di niente e di nessuno?

Con la sua agenzia di investigazioni e i suoi servizi di protezione, Al’tshul’ continua ad aiutare le forze dell’ordine fornendo loro informazioni. Grazie a lui finiscono sotto chiave alcuni grossi malavitosi degli Urali. Al’tshul’, però, ha un chiodo fisso: lo scopo della sua vita postmilitare è la lotta alla cupola di Uralmash. Potrà sembrare strano, ma è proprio ciò che lo fa avvicinare a Fedulev.

Con un mandato di arresto sulle spalle e consapevole del ‘tarlo’ di Al’tshul’, Fedulev lo manda a chiamare. Ha paura che la mafia di Uralmash possa approfittare della sua assenza per mettere le mani su altre due centrali di idrolisi che ha adocchiato (quella di Tavda la considera già persa). Fedulev chiede, dunque, ad Al’tshul’ di proteggere i suoi interessi e gli promette il cinquanta per cento dei ricavi della centrale di Lobva. Al’tshul’ accetta e parte subito per la città di Lobva, che vive attorno alla sua centrale. Vi trova un quadro tristissimo di sfacelo completo e intenzionale della produzione. Gli viene spontanea una domanda: perch‚ Fedulev sta facendo incetta di azioni? A che gli servono quelle società?

Prima dell’avvento di Fedulev la fabbrica di Lobva era un’impresa piuttosto solida. Come d’abitudine, Fedulev l’aveva stretta nella morsa di una serie di minuscole società che cominciarono a farsi carico della produzione e della vendita dell’alcol, quando non della sua lavorazione clandestina. I soldi delle vendite ritornavano alla fabbrica tramite quelle compagnie minori, ma non in toto. E così, mese dopo mese, Fedulev aveva succhiato ogni linfa all’azienda originaria.

Quando Al’tshul’ arriva a Lobva, gli operai non ricevono lo stipendio da sette mesi, le casse sono vuote (le entrate restavano nelle fabbriche satellite), non ci sono soldi nemmeno per pagare le tasse, la luce e il gas. Insomma, la centrale è a un passo dalla bancarotta. La città, inoltre, è cresciuta attorno alla fabbrica, tutti gli abitanti ci hanno più o meno a che fare, e se la centrale fallisse la città morirebbe con lei.

E’ allora che Al’tshul’ decide di fare di testa propria, impegnandosi con gli operai a riportare l’ordine. La sua prima mossa è di vietare l’accesso alla fabbrica a due persone: Sergej Cupachin e Sergej Leshukov, uomini di Fedulev e suoi ‘carnefici’, vale a dire esperti nel ridurre sul lastrico le aziende.

In un recente passato Cupachin e Leshukov erano stati poliziotti nonch‚ ex ufficiali e collaboratori della sezione locale del ministero degli Interni incaricata della lotta ai crimini economici. Ed erano amici cari di Vasilij Rudenko e Nikolaj Ovcinnikov. Gente che aveva lasciato la polizia per curare gli interessi che la polizia stessa aveva negli affari di Fedulev.

Il tempo passa, e Fedulev viene arrestato. A Mosca, è ovvio. Pur se in isolamento, riesce comunque a influenzare il corso degli eventi a Ekaterinburg. I funzionari di polizia che ha a libro paga (Rudenko era già a Mosca) riescono a combinargli un incontro in carcere con Al’tshul’, durante il quale Fedulev cerca di convincerlo a restituire le redini dell’amministrazione a Cupachin e Leshukov e ad andarsene seduta stante.

Al’tshul’ rifiuta e torna a Ekaterinburg. Rudenko lo segue: dopo tutto ci sono anche i suoi soldi, in ballo. Al’tshul’ viene convocato ufficialmente e anche Rudenko cerca di convincerlo a rinunciare.

Al’tshul’ non demorde e ripete il suo “no”. Un paio di giorni dopo, il 30 marzo del 1999, l’ex spia viene uccisa a colpi d’arma da fuoco nella sua macchina. E lo spartito si ripete. Si apre un’inchiesta, la n. 528006. Il sospettato numero uno è ancora una volta Fedulev. Ed è ormai la terza inchiesta a suo carico per omicidio su commissione.

Ebbene? Ebbene niente. Anche la pratica n. 528006 viene insabbiata come le altre.

Fedulev ha fatto i suoi conti: sparito Al’tshul’, la fabbrica torna in mano sua. Non ha considerato, però, che a Lobva è rimasto un amico di Al’tshul’, Vasilij Leon, anche lui ex spia e veterano delle truppe speciali. Agli inviti a sgombrare il campo Leon risponde con un no altrettanto categorico.

Sarebbe diventato l’ennesima vittima?

A Leon il trio Rudenko-Cupachin-Leshukov offre un compromesso, o meglio una fetta di torta.

Può continuare a dirigere la fabbrica, ma a occuparsi della vendita dell’alcol (dunque di quel che più conta) torneranno Cupachin e Leshukov. Va da s‚ che non si tratta di una proposta, ma di un’intimidazione. Fedulev e i suoi rischiano il tutto per tutto: Skvorcovin persona (l’allora responsabile dell’antimafia nominato da Fedulev) convoca Leon e cerca di convincerlo. Rudenko chiama in continuazione da Mosca, dove lo hanno ulteriormente promosso: ora è al ministero degli Interni, a capo della polizia investigativa.

La terza persona che fa pressione su Leon è Leonid Fes’ko. E’ amico di Rudenko e come lui è un pezzo grosso della polizia locale, a capo della sezione investigativo-operativa. Di lì a poco lo avrebbe seguito a Mosca, dove si sarebbe congedato dalla polizia per andare a dirigere la cosiddetta “Fondazione per la difesa e il soccorso ai membri delle unità per la lotta al crimine organizzato della provincia di Ekaterinburg”. Di fatto Fes’ko era il ragioniere della mafia, e la Fondazione una struttura creata per riciclare in modo legale soldi sporchi, mazzette e gratifiche.

Ufficialmente era un’istituzione di tutto rispetto che rispondeva alle esigenze della polizia. In pratica forniva un secondo stipendio ai poliziotti a libro paga di Fedulev.

Per onor di cronaca va detto che simili fondazioni non erano farina del sacco di Fedulev, ma di gente sua pari. Si tratta di strutture nate alla metà degli anni Novanta e che esistono a tutt’oggi, e in gran numero: ce ne sono diverse in ogni regione e vengono utilizzate per distribuire ai tutori dell’ordine le inevitabili mazzette.

In anni a venire, inoltre, la sicurezza e l’ordine delle aziende controllate da Fedulev e dai suoi sarebbero state appannaggio di Fes’ko. In caso di concorrenti troppo focosi, sarebbe stato Fes’ko a disporre l’invio delle squadre speciali di polizia preposte a soffocare le rivolte. Nel settembre del 2000 fu Fes’ko a orchestrare la presa dell’Uralchimmash.

Nel 1999, invece, Vasilij Leon lancia la sua sfida alla mafia. Nel dicembre dello stesso anno uno dei più stretti collaboratori di Skvorcov - Evgenij Antonov - uccide il primo assistente di Leon, quell’addetto alle vendite che Fedulev avrebbero voluto sostituire con Cupachin e Leshukov.

Leon rilascia delle deposizioni scritte, conservate presso gli uffici locali dell’F.S.B., su quanto accaduto prima della sparatoria. Sono parole che non possono lasciare indifferenti.

“A metà gennaio [del 2000] ebbi una conversazione con Sergej Vasil’ev, capo della sezione per la lotta al crimine organizzato. Il quale mi fece notare in modo assai brusco che la mia presenza alla fabbrica di Lobva gli aveva causato grosse perdite. Aggiunse anche che avevo derubato la

“Cassa” dell’F.S.B., dell’antimafia e di altri potentati della zona. Mi ingiunse senza possibilità di appello di lavorare per lui. Gli chiesi in che cosa consistesse il lavoro. “Devi portarmi i soldi!” mi rispose”.

Ogni riga della deposizione di Leon è un grido affinch‚ venga aperta un’inchiesta. Ma l’inchiesta, ancora una volta, è quanto mai sgradita ai tutori dell’ordine, che non desiderano rendere conto di quanto accade a Ekaterinburg. Restano inevase anche le richieste indirizzate da Leon alla Procura di Stato, al ministero degli Interni e allo stesso Putin. Nessuna reazione. Nessuno si interessa a quanto accade a Ekaterinburg. L’interesse, piuttosto, si concentra sulle sorti di Fedulev.

A gennaio del 2000, su precisa, personale disposizione del viceprocuratore generale della Russia Vasilij Kolmogorov, Fedulev viene rilasciato. Così. Semplicemente. Non è stato scagionato. Non è stato graziato. Ha passato un po’ di tempo in prigione e poi è uscito.

Quando torna a Ekaterinburg, le autorità locali lo accolgono da trionfatore. Il governatore Rossel’

lo riempie di attenzioni e lo nomina “imprenditore dell’anno” degli Urali. Di fatto, dopo la prigione e l’assassinio di Al’tshul’, le intimidazioni a Leon e l’uccisione di chi lo sosteneva, Fedulev è diventato senza tema di smentite l’imprenditore numero uno di Ekaterinburg, e come tale lo trattano i mass media locali. Di lì a poco verrà eletto deputato alla regione, otterrà l’immunità parlamentare e arrestarlo diventerà un’impresa ancora più ardua.

Ma facciamo un passo indietro e guardiamo al quadro d’insieme, e non ai particolari. Fedulev è un oligarca. E’ deputato. Possiede enormi proprietà. Ma soprattutto ha una sua cupola mafiosa, quella che il Codice penale russo definisce un’associazione dedita al crimine organizzato.

Nell’autunno del 2000, con la conquista di quell’Uralchimmash da cui il mio racconto ha avuto origine, la cupola di Fedulev ha ormai tutti i tratti di un’entità mafiosa regolare. Con a libro paga da anni i tutori dell’ordine da una parte e i responsabili della ‘giustizia’ dall’altra. E nel mezzo una schiera di burocrati fedeli di ogni rango, fino al sommo.

C’è un solo problema. Con il padrino in prigione, fabbriche e complessi industriali sono sfuggiti al suo controllo e la ‘cupola’ è nel panico: che fine hanno fatto i soldi? Fedulev viene scarcerato per questo.

LA RIDISTRIBUZIONE.

Va da s‚ che le decorazioni e i titoli di Fedulev erano solo la parte emersa di quell’iceberg mafioso. La sua scarcerazione, tuttavia, segna una svolta cruciale nella storia contemporanea degli Urali. Ancor prima che faccia ritorno a Ekaterinburg e che il governatore Rossel’ lo stringa fra le braccia, alla sola notizia della sua liberazione è chiaro a tutti che quella storia non è un caso, che ci sarà una ridistribuzione della proprietà e che Fedulev sarà la testa d’ariete. L’hanno rilasciato per un motivo preciso: perch‚ si riprenda quel che è suo e perch‚ chi sta dalla sua parte (oltre a coloro ai quali lo stesso Fedulev risponde) possa riavere i soldi che gli spettano, la fetta di una torta che ha contribuito a mettere insieme a costo di rischi, spargimenti di sangue e tradimenti.

Fedulev non li delude. La prima cosa di cui si occupa una volta libero è di rimettere le mani sul centro di idrolisi di Lobva. Perch‚ - e lo ripeto - è sinonimo di vodka. Di soldi facili, veloci e veri.

Le cose andarono in questo modo. E torno a citare la deposizione all’F.S.B. di Vasilij Leon, direttore esecutivo della fabbrica di Lobva:

“Fedulev mi spiegò che un tempo tali questioni si regolavano per via legale: privatizzazioni, compravendita di azioni e via dicendo… Ora, invece, a dirimerle c’era solo la forza…”

La deposizione porta la data del febbraio 2000. Leon ha presentato richiesta scritta di aiuto contro la mafia. Ha chiesto alla legge di difenderlo dal ricatto della malavita organizzata. Da quello degli uomini dell’antimafia in primo luogo, che gli fanno pressioni affinch‚ lasci la fabbrica a Fedulev, e in secondo da Fedulev stesso, che una volta uscito di prigione gli chiede di andarsene e di versargli trecentomila dollari per il disturbo.

Le richieste di Leon rimangono lettera morta: lo Stato rinuncia a imporre la legge e lascia che la mafia faccia a pezzi la fabbrica. E la “forza” a cui aveva alluso Fedulev non tarda a farsi sentire.

Il 14 febbraio del 2000 Fedulev raduna un comitato di creditori della fabbrica di Lobva. Lo fa di sua iniziativa, senza averne alcun diritto giuridico. Lo scopo che si prefigge è di sbattere fuori i dirigenti attuali e di rimpiazzarli con i suoi uomini.

Si muove in modo curioso. Essendo riuscito a portare dalla sua parte solo due dei cinque principali creditori, Fedulev si inventa una delega falsa da parte di un terzo, necessaria a ottenere il quorum. E dunque il “comitato” accoglie la richiesta di Fedulev di tenere l’assemblea dei creditori a Ekaterinburg, nel suo ufficio di via Malyshev 3. Il perch‚ è chiaro a tutti. Se mai fosse spuntato uno dei veri creditori sarebbe stato molto più semplice fermarlo in un ufficio che era una fortezza. A Lobva era tutto più complicato, dunque perch‚ crearsi ulteriori difficoltà?

C’erano troppi soldi in ballo per rischiare un fiasco.

A qualche giorno dall’incontro, da Mosca arriva anche Rudenko. Lui e Fedulev devono prendere una decisione di primaria importanza: che cosa fare di Leon, il direttore ribelle. E la prendono…

Il 17 febbraio, il giorno prima dell’incontro, Fedulev spedisce due dei suoi uomini - Pil’shcikov e Najmushin - nella sede dell’antimafia. Si tratta di personaggi noti: sono anni che vi fanno capolino quali possibili sicari nelle pigre indagini relative all’assassinio di uno degli ex partner di Fedulev. Quel giorno, però, Pil’shcikov e Najmushin si presentano per una denuncia: Leon avrebbe chiesto loro una tangente di diecimila dollari. E nel giro di un’ora (una velocità inaudita per la giustizia russa) a carico di Leon viene aperta un’inchiesta. Senza indagini preliminari, senza interrogatori o verifiche. Solo sulla base di una denuncia. Contemporaneamente una macchina della polizia batte le strade di Lobva e distribuisce volantini: Leon si è sottratto all’arresto e non è più da considerarsi a capo della fabbrica.

Il 18 febbraio nell’ufficio di Fedulev si svolge l’assemblea dei creditori. Com’è ovvio, i controlli sono la prima cosa. L’ingresso, i corridoi e le stanze sono presidiate da poliziotti dell’antimafia in divisa e mitra in pugno. Nulla sembra poter disturbare la messinscena di Fedulev.

Invece l’imprevisto che aveva indotto Fedulev a spostare l’incontro a Ekaterinburg accade.

Galina Ivanova, presidente del comitato sindacale di fabbrica, con diritto di presenza all’incontro quale rappresentante degli operai (una donna che, com’è ovvio, nessuno aveva degnato della minima attenzione), sfila dalla sua borsa una delega. E’ la delega più preziosa, quella del primo creditore della fabbrica. Pur se alla macchia, Leon è riuscito a procurarsela. E’ una delega che vale il trentaquattro per cento dei voti. Dunque la Ivanova è l’ago della bilancia…

A un cenno di Fedulev la Ivanova viene fatta allontanare. La arrestano prima ancora della votazione. Chi? I funzionari dell’antimafia in borghese presenti in sala, mescolati agli astanti. La trattengono tre ore e venti minuti, fino a che Fedulev non avvisa con una telefonata che la votazione si è conclusa.

Poi cala la sera. Così la descrive Aleksandr Nuadzjus, vice di Vasilij Leon (come da deposizione ufficiale all’F.S.B. di zona):

“Arrivai in fabbrica verso le 22.30. Andai a coricarmi all‘1.30 circa. Alle 4.30 venni svegliato… La porta della direzione era già stata divelta, come anche le grate alle finestre. L’edificio era circondato da uomini armati, da una trentina di camionette e da un autobus. Ci portarono negli uffici della direzione, dove trovammo le guardie della sicurezza con le mani alzate. A sorvegliarli c’erano degli uomini in divisa da poliziotto e con dei mitra in pugno. Seduto alla scrivania c’era un tenente dell’antimafia, Oleshkevic. Nell’ufficio del direttore commerciale, invece, c’era Fedulev. “Su che basi avete occupato la fabbrica?” chiesi. Mi mostrarono il verbale dell’assemblea dei creditori e il contratto del nuovo direttore. Era falso”.

Gli sforzi congiunti di Fedulev e dell’antimafia locale, dunque, portano a un lieto fine l’occupazione illegale della centrale di idrolisi di Lobva. Violazioni della legge e abusi di potere sono lampanti. In altre parole, i responsabili della lotta al crimine organizzato si comportano esattamente come chi dovrebbero combattere.

Chi ne ha pagato le conseguenze, visto che ne sto scrivendo nel 2004, nel quarto anno di quella che Putin si ostina a chiamare “dittatura della legge”? Nessuno. Ancora nessuno. “Chiedo di essere difeso da ulteriori provocazioni da parte dei funzionari dell’antimafia” scrisse all’epoca Vasilij Leon nella sua deposizione all’F.S.B. Cinque fogli di carta sprecati. Dal 18 febbraio Leon è un direttore senza fabbrica. Dal 18 febbraio ogni giorno che passa porta a Fedulev e ai suoi uomini migliaia di dollari in contanti. Lobva significa alcol, alcol significa vodka, vodka significa Fedulev e compagnia bella… Il nuovo corso che ci si aspettava con l’uscita dal carcere di Fedulev è cominciato. E questo è quel che tutti volevano…

Oggi la fabbrica di Lobva è ridotta allo stremo: Fedulev l’ha spremuta più che ha potuto ed è passato ad altro. Com’era da aspettarsi… Già allora, però, nel 2000, sette mesi dopo aver occupato Lobva e dopo aver messo assieme montagne di denaro, l’inarrestabile e inarrestato Fedulev si diede alla metallurgia.

Il primo boccone era già stato molto ghiotto: Kachkanar.

KACHKANAR.

Il complesso di arricchimento minerario di Kachkanar gode di fama mondiale ed è patrimonio nazionale russo. E’ l’unico al mondo che estragga il ferrovanadio. Senza Kachkanar non potrebbero esserci fusioni in altoforno. Il nostro Paese, quanto meno, non potrebbe produrre un solo binario ferroviario.

Come molte altre aziende russe di rilevanza nazionale, a metà degli anni Novanta anche il complesso industriale di Kachkanar viene sottoposto a una serie di devastanti privatizzazioni.

Nel 1997-1998 la situazione appare più che mai grave. E’ allora che Fedulev prende in mano le redini del consiglio di amministrazione, agendo come sempre ha fatto: strozza l’azienda-madre in una rete di piccole società che fanno da tramite alla produzione senza che il denaro rientri nelle casse della principale. Alla fine del 1998 Fedulev ha ridotto Kachkanar sul lastrico. Solo l’arresto del “miglior imprenditore degli Urali” segna la rinascita del complesso industriale.

Intervengono gli altri azionisti, che assumono una squadra di manager competenti con a capo Dzalol Chajdarov. Con loro arrivano anche i grossi investitori.

Nel 1999 il complesso ha cambiato faccia. La produzione è al massimo, i ricavi hanno avuto un’impennata, gli operai tornano a ricevere lo stipendio (è una situazione analoga a quella di Lobva: nel complesso di Kachkanar lavorano diecimila persone, in pratica l’intera popolazione attiva della città).

I risultati del risanamento post-Fedulev sono evidenti e le azioni tornano a godere di un certo interesse in borsa.

Una parentesi politica. Ogni governatore regionale russo ha nel suo entourage una figura analoga a quel che Putin è stato per El’cin: un delfino fedelissimo e astuto che si è meritato tale onore per quel concorso di circostanze che impone la presenza di un delfino fedelissimo e astuto in grado di garantire la stabilità finanziaria e l’indennità fisica del premier allorch‚ questi decida di lasciare l’arena.

Per la regione di Ekaterinburg e per il governatore Rossel’ l’uomo in questione è Andrej Kozicyn, il ‘re del rame’ degli Urali, il padrone delle fonderie della zona. In attesa delle elezioni, dunque, Ekaterinburg è testimone dell’ascesa del ‘cupreo’ Kozicyn - ovviamente sponsorizzato da Rossel’

- anche nel settore metallurgico.

Ma che c’entra il paragone con El’cin e Putin? C’entra perch‚ nemmeno Rossel’ sarebbe stato governatore in eterno. E con l’approssimarsi delle elezioni fece in modo di concentrare i bocconi più ghiotti dell’industria locale nelle stesse mani, vale a dire quelle di Kozicyn (che poi erano le sue).

Vi ricorderete che una delle prime persone da cui si recò Fedulev una volta uscito di prigione era stato il governatore Rossel’. Non si sa di preciso di cosa abbiano parlato, ma dopo quell’udienza Fedulev girò a Kozicyn le azioni in suo possesso di due complessi industriali: quello di Kachkanar e quello metallurgico di Niznij Tagil. Era più che evidente che si trattava di un accordo tra Fedulev e il governatore. Fedulev si era comperato il diritto di fare quel che voleva nei dintorni, e Kozicyn aveva messo le mani su Kachkanar.

Va detto che in quel momento Fedulev possedeva solo il diciannove per cento delle azioni del complesso di Kachkanar, un pacchetto che, inoltre, suscitava qualche dubbio, come vedremo in seguito. Quanto trasferito a Kozicyn, dunque, non era un pacchetto tale da consentirgli di mettere un proprio uomo a capo di tutto. Anche perch‚ i manager, con Chajdarov in testa, si opponevano all’espansione del duo Fedulev-Kozicyn, spalleggiati in ciò da chi deteneva il settanta per cento delle azioni…

Che fare? Chiamasi usurpatore chi usa la forza per ottenere ciò che vuole. Il 28 gennaio del 2000 il complesso industriale di Kachkanar viene occupato. A forza di mitra, documenti contraffatti e rappresentanti delle forze dell’ordine, come da copione utilizzato anche a Lobva. E

con un’analoga - esteriore - politica di non-intervento da parte del governatore Rossel’.

All’alba del 29 gennaio il complesso ha un nuovo direttore: Kozicyn. E per gli uffici ormai vacanti si muove da padrone un altro uomo: Fedulev. “Plus ‡a change…”

Un potere di questo tipo, però, non poteva durare a lungo. Al massimo fino alla prima assemblea degli azionisti. Fedulev e Kozicyn lo sanno e sanno anche che gli azionisti li sbatteranno fuori.

La conclusione che traggono è la seguente. Uno: l’assemblea non deve tenersi. Due: Kachkanar va nuovamente messa in ginocchio, in quanto è l’unico modo di togliere i pieni poteri agli azionisti. Per la nostra legislazione, infatti, se un’azienda viene dichiarata insolvente, gli azionisti restano proprietari ma perdono il diritto di voto.

Per evitare che si tenga l’assemblea, Fedulev e Kozicyn usano il metodo che il nostro governo applica in Cecenia: chiudono ogni possibile accesso alle città, in entrata e in uscita. Tutto qui…

Gli azionisti che volessero recarsi a Kachkanar con i manager di un tempo verranno fermati ai posti di blocco disseminati lungo il perimetro cittadino. Com’è possibile? Semplice. Su precisa disposizione di Fedulev e Kozicyn, il sindaco di Kachkanar - il signor Suchomlin - emana il decreto n. 14 sul “divieto di ingresso in città da parte di forestieri”, quali sono - fra gli altri - gli azionisti e i manager del complesso industriale. Con la stessa ordinanza il sindaco Suchomlin vieta anche l’“assembramento di forestieri”, nel caso in cui i nemici di Fedulev e Kozicyn dovessero riuscire comunque a entrare in città: se avessero tentato di organizzare un’assemblea

- e dunque un “assembramento di forestieri” - la polizia avrebbe potuto arrestarli.

Un’assurdità, è ovvio. Una farsa. Ma quella era la realtà. L’assemblea non pot‚ essere tenuta e i due criminali poterono dedicarsi al punto due del loro piano: la bancarotta forzata di Kachkanar.

Come possono riuscirci, dato che l’azienda è florida?

Il meccanismo è il seguente. Kozicyn chiede un prestito di quindici milioni di dollari alla banca Moskovskij delovoj mir garantendolo con un’ipoteca su Kachkanar. Glielo concedono (è ovvio: chi non vorrebbe mettere le mani su quel complesso industriale?). Con quel denaro alle spalle, Kozicyn emette delle obbligazioni a nome del complesso. I soldi, però, non li investe a Kachkanar, ma in un’altra azienda di sua proprietà, la Svjatogor, situata anch’essa nella zona e destinata - così pareva - a formare una joint venture con il complesso minerario. Il passo successivo è - apparentemente - di trasferire le obbligazioni di Kachkanar alla Svjatogor…

Perch‚ “così pareva” e perch‚ “apparentemente”? Perch‚ si scoprirà poi che nulla di tutto questo era mai accaduto, che ogni mossa era stata virtuale e che le obbligazioni di Kachkanar erano finite tutte quante in mano a una minuscola azienda prestanome registrata all’indirizzo di un modesto appartamento di Ekaterinburg di proprietà - apparente - di una donna che, nonostante ripetuti tentativi al riguardo, non fu mai rintracciata. Di colpo quella donna virtuale si ritrovò a essere la principale creditrice del più importante produttore monopolista di ferrovanadio del mondo. Com’era stato possibile? Semplice. La sua società effimera aveva rilevato le obbligazioni di Kachkanar al quaranta per cento del loro valore nominale e ne aveva poi preteso il pagamento al cento per cento. Dopo di che aveva fatto dichiarare bancarotta al complesso, impossibilitato a riacquistare le sue stesse obbligazioni al loro valore di emissione. In questo modo la prestanome finì per possedere il novanta per cento dei voti all’assemblea dei creditori.

Una frode plateale, sotto gli occhi del governo e del governatore locale.

Perch‚ plateale era stata l’apparizione della creditrice prestanome.

Plateale l’emissione di obbligazioni scoperte.

Plateale che le obbligazioni fossero state vendute al quaranta per cento del valore.

Plateale che la mattina dopo l’acquisto ne fosse stato richiesto il pagamento per il totale del valore.

Plateale che fosse stato creato un indebitamento artificiale.

Plateale che in un paio di giorni il complesso industriale fosse finito sul lastrico.

Plateale che il latrocinio si fosse svolto con la benedizione delle autorità e dei tutori dell’ordine, mentre i veri proprietari di Kachkanar - che ci avevano investito milioni di dollari - si ritrovavano senza diritto alla proprietà o alla resa dei propri investimenti…

E per tutto il tempo che servì, a vegliare ventiquattr’ore su ventiquattro su Kachkanar a scanso di apparizioni di altre “Galine Ivanovne, rappresentanti dei sindacati” ci fu l’antimafia locale.

Proprio come a Lobva.

Se un ladro non incontra ostacoli, si fa più spudorato. Se dopo Lobva era venuta Kachkanar, dopo Kachkanar toccò all’Uralchimmash, occupato nel settembre del 2000 secondo lo stesso copione. Nei mesi seguenti e per tutto il 2001, anche gli azionisti di quest’ultimo complesso industriale vennero lentamente soffocati tramite un’apposita bancarotta con l’avallo (si legga:

“con la connivenza”) delle autorità. La cosiddetta “democrazia guidata” di Putin in azione.

O forse è solo un capitalismo sfrenato gestito da cupole mafiose a cui rispondono forze dell’ordine, burocrati corrotti e… giudici.

IL SISTEMA GIUDIZIARIO DEGLI URALI E’ IL PIU’ CORROTTO DEL MONDO.

Ricordate che la notte in cui venne occupato l’Uralchimmash sia Fedulev che il direttore destituito si sventolavano reciprocamente sotto il naso una sfilza di ordinanze giudiziarie?

Non si trattava di falsi. Quando si scava nei documenti relativi all’Uralchimmash, a Kachkanar e a Lobva, una circostanza salta all’occhio: le irruzioni armate erano state autorizzate dai tribunali locali. Con certi giudici su un fronte e certi altri sull’altro… Come se le leggi e la Costituzione non esistessero. In sostanza, la lotta tra le cupole mafiose degli Urali andava di pari passo con quella, intestina, tra i giudici. Con il tribunale usato - allora e oggi - quale fabbrica di timbri su ordinanze utili all’una o all’altra fazione.

Così si legge in una lettera che I. Kadnikov (avvocato emerito della Federazione Russa ed ex presidente del tribunale del distretto Oktjabr’skj di Ekaterinburg) e V. Nikitin (ex presidente del tribunale del distretto Lenin) hanno inviato al presidente della Corte Suprema russa Vjaceslav Lebedev:

“Sono anni ormai che Ovcharuk [Ivan Ovcharuk, presidente del tribunale regionale di Ekaterinburg dai tempi dell’URSS ai giorni nostri] prende parte attiva e diretta alla formazione e all’aggiornamento della magistratura degli Urali, scegliendo e controllando personalmente i giudici per ogni nomina. Non c’è candidato che possa aspirare a un posto senza il suo avallo, n‚

si può sperare che il nostro incarico venga esteso senza il suo benestare. I giudici che non gli aggradano vengono man mano accantonati, perseguitati, costretti a lasciare il posto di lavoro a favore di personale che spesso non ha n‚ le qualifiche n‚ l’esperienza necessarie alla nomina, ma che per un qualche motivo è vulnerabile e - dunque - manovrabile. Al momento un numero enorme di giudici altamente qualificati, con anni di lavoro e di esperienza alle spalle e in possesso di doti importantissime quali princìpi morali saldi, autonomia, fermezza, incorruttibilità e coraggio sono stati costretti a lasciare il lavoro. E la ragione è una sola: se non ti fai corrompere non puoi lavorare con Ovcharuk”.

Analizziamo, allora le due posizioni principali. Per Ovcharuk, chi e com’è ‘il bravo giudice’ e chi e com’è, invece, il ‘giudice cattivo’?

IL MIGLIORE.

Il migliore - e dunque non un ‘bravo giudice’ qualsiasi - è Anatolij Krizskij, presidente del tribunale del distretto di Verch-Isetsk, a Ekaterinburg. Per lungo tempo Krizskij è stato il fedele guardiano degli interessi di Ovcharuk. In che senso?

Il tribunale di Verch-Isetsk è il più attivo della città, in quanto comprende il quartiere dove si trova la prigione. Ciò comporta che, come vuole la legge, presso quel tribunale si esaminino le richieste di aggiornamento delle misure detentive degli ospiti della prigione. E a Ekaterinburg tutti sanno che, per certe questioni, il punto non è il tipo di crimine commesso e neppure se il detenuto rappresenti o meno un pericolo per la società. Il punto è il denaro. Un criminale di una potente associazione a delinquere resta ben poco in carcere: basta che i suoi colleghi paghino.

Di qui la prosperità economica di singoli tribunali. Com’è noto, i tribunali distrettuali russi sono poveri in canna, sempre a corto di mezzi foss’anche per comperare la carta, tanto che i querelanti devono spesso portarsela da casa. Gli stipendi dei giudici, inoltre, bastano appena ad arrivare a fine mese. Il quadro offerto da Verch-Isetsk, invece, è ben diverso. L’edificio è circondato da fuoristrada, Mercedes e Ford da diverse decine di migliaia di dollari. A scendere da quelle auto, la mattina, sono modesti giudici con stipendi da qualche migliaio di russissimi rubli al mese. E la macchina più bella è sempre quella di Krizskij.

Krizskij e Fedulev diventarono subito ottimi amici. Nel corso degli anni Krizskij si fece carico delle cause che vedevano coinvolto Fedulev, e divenne il suo ‘giudice personale’. Quello a libro paga, insomma. Senza mai una lungaggine e senza troppe pastoie: sempre e solo con rito abbreviato e sempre senza curarsi di ascoltare eventuali testimoni o di verificare che le sentenze siano in sintonia con le leggi vigenti. Se Fedulev gli chiede di confermare che determinate azioni sono di sua proprietà, Krizskij non si preoccupa di pretendere prove in merito n‚ prende in considerazione l’eventualità che le azioni possano appartenere alla controparte… Si limita a mettere il suo bel timbro: “Si certifica che le azioni summenzionate sono di proprietà del signor Fedulev”… Che è ciò che Fedulev vuole da lui.

Era stato con quel documento in mano che Fedulev si era presentato all’Uralchimmash dopo l’irruzione armata.

Degno di nota è che, talvolta, quel tribunale su commissione si riuniva direttamente a casa del cliente… Krizskij vergava le sue disposizioni nell’ufficio di Fedulev e non in un’aula di tribunale, come espressamente richiesto dalla legge. E capitava persino che a compilare i testi non fosse Krizskij, ma l’avvocato di Fedulev, con il giudice che si limitava a firmare.

Quando, nell’estate del 1998, Fedulev ha i primi problemi con la Procura di Stato per aver frodato un’azienda di Mosca, è Krizskij - con al seguito l’avvocato di Fedulev - a volare a Mosca dall’allora procuratore generale Jurij Skuratov per chiedere che l’azione legale sia respinta.

Skuratov e Krizskij si conoscono da che erano giovani, il procuratore generale lo riceve e - quali che siano stati i termini della questione - il caso è chiuso. Quando Krizskij torna a Ekaterinburg, la moglie di Fedulev gli consegna un bel sacchetto di plastica colorata con dentro l’equivalente in rubli di ventimila dollari americani (9). La donna non gli fa mistero che si tratta di una ricompensa per il disturbo preso, n‚ Krizskij fa mistero a lei della sua soddisfazione. Qualche giorno dopo si sarebbe comperato una Ford Explorer.

A un lettore occidentale potrà anche non sembrare gran cosa: il presidente di un tribunale non può essere un mentecatto e non è strano che possieda una macchina del genere. In Russia un tale acquisto da parte di un giudice distrettuale può significare solo due cose: o che ha ricevuto una grossa eredità (grossa per i nostri standard) o che è corrotto. “Tertium non datur”. Perch‚ in Russia solo gli uomini d’affari possono permettersi una Ford Explorer, e di tali affari un giudice non può occuparsi per legge. Un’automobile simile, infatti, equivale a vent’anni di stipendio di un giudice.

La prodigiosa fortuna di Krizskij, tuttavia, non si limita a questo. Passa un mese dalla Ford Explorer, e Fedulev si ritrova a fronteggiare nuovi problemi con la giustizia. Il meccanismo si rimette in moto e Krizskij si ripresenta da Skuratov. Non a Mosca, questa volta, ma a Soci, sul Mar Nero, dove il procuratore generale sta trascorrendo le ferie. Le nubi che si addensano sulla testa di Fedulev si disperdono nuovamente, e Krizskij può cambiare quella Ford che aveva lasciato di stucco Ekaterinburg con una Mercedes 600, uno “status symbol” dei nuovi ricchi che non c’è modo di far corrispondere agli standard di vita di un giudice.

E che dire delle sue feste di compleanno? Ne parlava tutta Ekaterinburg! Trasudavano opulenza e reggevano il confronto con i baccanali dei crapuloni prerivoluzionari. Per l’occasione il tribunale sospendeva le udienze e, su precisa disposizione del presidente, le porte venivano chiuse a doppia mandata. Krizskij affittava un ristorante del centro, i soldi volavano a destra e a manca, la vodka scorreva a fiumi e tutti i burocrati di Ekaterinburg si davano alla pazza gioia sotto gli occhi stupiti dell’altra Ekaterinburg, ridotta quasi alla miseria. E a chi importava, tra gli invitati ubriachi e danzanti, che un giudice non avesse alcun diritto di comportarsi a quel modo non solo secondo un codice deontologico non scritto, ma secondo leggi che scritte lo erano, eccome? La legge federale “Sullo status dei giudici della Federazione Russa”, per esempio, esige categoricamente che osservino uno stile di vita morigerato, che fuori servizio (e figurarsi in servizio, dunque) rifuggano da qualunque contatto personale che possa recar danno alla loro reputazione e mostrino la massima cautela e circospezione nelle loro azioni, così da meritarsi il rispetto dovuto all’autorità giudiziaria loro conferita.

Come la mettiamo, allora, col fatto che proprio Krizskij, con il suo bagaglio di amicizie con Fedulev e gli altri mafiosi, fosse il prediletto del presidente del tribunale regionale Ivan Ovcharuk, che non perdeva occasione per definire Krizskij uno dei migliori giudici degli Urali?

E’ una domanda legittima, non c’è dubbio. Che anche Ovcharuk fosse al soldo della mafia? O

forse non distingueva più il bianco dal nero?

N‚ l’una n‚ l’altra cosa. Il fatto è che noi che viviamo in Russia siamo tutti - o quasi - un prodotto dell’Unione Sovietica e, chi più chi meno, ci atteniamo a un codice di vita sovietico. Ovcharuk ha una “forma mentis” sovietica e si comporta di conseguenza. La diagnosi è che si tratta di un tipico alto papavero della giurisprudenza di era sovietica, addestrato a non contraddire mai i superiori e a eseguire gli ordini. Il suo mestiere era sempre stato quello di ubbidire, quando non di intuire gli umori dei capi da un fremito di auguste sopracciglia. Non è un’esagerazione e non è un “divertissement” giornalistico. E’ un esempio dell’asservimento sovietico di un tempo.

Ovcharuk è un retaggio del nostro passato, un uomo che deve la sua carriera al fatto di non aver mai confutato le decisioni dei superiori, per quanto sciocche o illegali potessero essere.

Con la nuova era, all’insegna della democrazia e del capitalismo, pare che Ovcharuk abbia avuto qualche momento di panico: a chi avrebbe dovuto obbedire, lui che per mestiere sapeva fare solo quello, ora che la gerarchia precedente era saltata?

Le sue perplessità non durano a lungo. A fargli prendere la decisione migliore è quel particolare fiuto tutto sovietico che permette sempre di capire chi detiene il potere e a chi convenga inchinarsi. Ovcharuk si sceglie due nuovi ‘zar’. Il primo è il denaro (il mondo di un business in fasce, la cerchia di chi sta accumulando capitali), il secondo la burocrazia di Stato, che per quanto osteggiata, resta sempre monolitica e forte come una roccia (e che per Ovcharuk si incarna nel governatore Rossel’). E dato che a Ekaterinburg i due poli sono uniti da affettuosa amicizia e hanno dato vita a una nuova mafia (a fianco della vecchia cupola di Uralmash), Ovcharuk rompe gli indugi e si dà a esaudire ogni desiderio di Rossel’ e Fedulev. E’ evidente che i due sono grandi amici, dunque ogni capriccio di Fedulev va assecondato. Ed essendo Krizskij un uomo di Fedulev, va sostenuto anche lui, sorvolando sulle sue ‘debolezze’.

Ekaterinburg si libera di Krizskij-giudice solo alla fine del 2001. Ma il come e il dopo lasciarono a tutti l’amaro in bocca.

La sezione locale dell’F.S.B. sapeva da anni che Krizskij copriva le attività criminali di Fedulev negli Urali, ma gli agenti non erano mai riusciti a coglierlo con le mani nel sacco. Alla fine lo fecero pedinare ventiquattr’ore su ventiquattro (illegalmente, fra l’altro) e riuscirono ad arrestarlo con un’accusa di pedofilia di cui l’F.S.B. fornì le prove a Krizskij, al suo protettore Ovcharuk e a Rossel’.

Quali furono le conseguenze? Krizskij venne mandato in pensione. Senza scandali. Senza umiliazioni. Senza interdizione dai pubblici uffici “per aver compiuto azioni disdicevoli al suo status”. Venne trasferito ad altre mansioni e diventò consulente legale del sindaco di Ekaterinburg. Tutto qui. Se anche si era trovato qualcuno disposto a punirlo, il risultato fu un suo mero riciclaggio nei panni di un rispettabilissimo vecchio legale.

I CATTIVI.

Veniamo ora agli ‘immeritevoli’. Vale a dire coloro che non hanno voluto lavorare al fianco di Ovcharuk e Krizskij. Coloro che si sono opposti a che un tribunale indipendente passasse al soldo di un criminale. I giudici che hanno cercato di rimanere tali in un territorio in mano alla mafia. Giudici rimossi dalla loro funzione con la formula che, invece, non era stata applicata a Krizskij: “per aver compiuto azioni disdicevoli al loro status”.

Negli ultimi anni i ‘giudici cattivi’ sono stati la maggioranza, a Ekaterinburg. Il foro ne ha cacciati a decine, infangandone la reputazione.

Ol’ga Vasil’eva aveva undici anni di carriera alle spalle. Un periodo di tutto rispetto per una persona che pare tranquilla, equilibrata e quieta. Il giudice Vasil’eva è tra coloro che si sono rifiutati categoricamente, per principio, di sottoscrivere le ordinanze giudiziarie necessarie ai giochetti di Fedulev. Ol’ga Vasil’eva ha detto “no”. Prestava servizio a Verch-Isetsk, alle immediate dipendenze di Krizskij, e subiva pressioni inaudite che sfociarono in minacce alla sua vita e a quella dei suoi familiari. Ma rimase inflessibile, senza mai un cedimento. N‚ riguardo a Fedulev, n‚ riguardo a disposizioni più ‘semplici’, come quando Krizskij pretendeva che scarcerasse qualche criminale modificando i termini della detenzione.

La goccia che fa traboccare il suo vaso è l’accoglimento di una denuncia ai danni del presidente del tribunale regionale Ivan Ovcharuk. Krizskij pretende che la Vasil’eva la respinga per non creare un precedente. I querelanti sono dei cittadini di Ekaterinburg che Ovcharuk ha costretto a interminabili pastoie giudiziarie rifiutandosi scientemente di prendere in esame i loro esposti, in quanto diretti contro gli interessi di alcuni pezzi grossi dell’ufficio del governatore Rossel’.

Per Ekaterinburg, città schiacciata dalle mafie e in cui tutti sanno che varcare certi limiti non significa andare incontro a rogne ma a una pallottola in fronte, un gesto simile equivale a una rivoluzione. A scanso di guai, altri tribunali non prendevano nemmeno in considerazione simili denunce, non le registravano nemmeno, pur essendo tenuti a farlo per legge.

Il sistema si vendica brutalmente della temeraria Vasil’eva che ha osato agire secondo la legge.

Non la licenzia, ma la umilia e la infanga. Per espellerla dall’Ordine, la fanno denunciare da quei protetti di Krizskij che si era rifiutata di scarcerare. La tracotanza dei suoi nemici è tale e tanta, che i detenuti scrivono le denunce direttamente sui moduli delle udienze (e non avevano altro modo di procurarsele se non tramite Krizskij).

Per la Vasil’eva inizia un lungo peregrinare di porta in porta per dimostrare che si tratta di falsi, che lei è innocente. La Corte Suprema russa ci mette un anno a reintegrarla nel suo ruolo, ma i suoi tormenti non sono ancora finiti. La Corte Suprema ha sede a Mosca, ma la Vasil’eva deve tornare a esercitare a Ekaterinburg, dov’è abbandonata a se stessa. Quando Ol’ga rientra in città e presenta la disposizione della Corte Suprema a Krizskij, questi si rifiuta di reintegrarla e scrive seduta stante una mozione ufficiale contro la Vasil’eva al Collegio di qualifica dei giudici (un organo della magistratura), in cui afferma che, nonostante la reintegrazione, la Vasil’eva “non pare essersi ravveduta” (una formula che di norma si applica ai detenuti e che diventa l’ennesima umiliazione se riferita a un giudice).

In Russia i giudici sono tenuti a essere riconfermati - rinominati, in pratica - periodicamente, e allo scopo devono ottenere una sorta di ‘referenza’ dal Collegio di qualifica locale, che apre la strada a una rinomina da parte del presidente. Nel caso della Vasil’eva, Ovcharuk si unisce alle rimostranze di Krizskij e il Collegio può emettere il verdetto, negandole le ‘referenze’ per la riconferma.

Va da s‚ che nel prezzolato Collegio di qualifica, in cui è il presidente del tribunale regionale (Ovcharuk, appunto) a fare il bello e il cattivo tempo, nessuno si prende la briga di verificare i documenti che Krizskij allega alla sua dichiarazione. Quegli stessi documenti - le denunce dei detenuti su carta intestata - che la Corte Suprema ha appena ricusato.

Ol’ga Vasil’eva è una donna coraggiosa e di forti princìpi. Si ripresenta alla Corte Suprema per pretendere che giustizia sia fatta. Ma sono procedure sfiancanti, che richiedono anni e anni di vita durante i quali le sarà negata l’autorizzazione a esercitare le sue mansioni nell’interesse dello Stato.

Possiamo forse pretendere che la maggioranza dei giudici scelga questa via? Certo che no. Dopo avermi scongiurato di non fare i loro nomi, molti giudici di Ekaterinburg mi hanno detto che preferiscono avallare le disposizioni di Ovcharuk piuttosto che finire come la Vasil’eva. E a riprova della loro affermazione mi hanno raccontato quanto accaduto a certi colleghi che avevano cercato di contrastare la mafia. Un esempio ne sia la storia del giudice Aleksandr Dovgij.

Dovgij aveva commesso lo stesso crimine della Vasil’eva. Aveva ignorato una richiesta di rilascio per l’ennesimo pupillo di Krizskij. Qualche giorno dopo venne malmenato per strada con una sbarra di ferro. Nonostante in casi simili la polizia sia pronta a dare la caccia agli aggressori, per Dovgij si rifiutò di svolgere un’inchiesta. Il giudice restò a lungo in ospedale, ne uscì storpio, e una volta tornato al lavoro chiese - e ottenne - di occuparsi solo di cause di divorzio.

“Allo stato dei fatti, la professionalità di un giudice è ridotta alla capacità di non avere un’opinione propria. Ad amministrare la giustizia lo Stato chiama individui che non riescono a prescindere da metodi bolscevichi, che levano alto il pugno in segno di monito e non vedono nulla di esecrabile nel richiedere a un giudice una determinata sentenza, nel pretendere che rendano conto al Collegio di qualifica - l’equivalente della cellula del P.C.U.S. di altri tempi - o nell’esigere che si condanni o si grazi come loro vogliono, ma a nostro nome, per mano nostra…”

A scrivere quanto sopra dopo aver subito pressioni analoghe a quelle della Vasil’eva è stato un giovane giudice di belle speranze che mi ha chiesto di dimenticare per sempre il suo nome. A differenza della Vasil’eva, però, lui non ha avuto la forza di lottare, di resistere, e ha deciso di lasciare. Le righe succitate sono tratte dalla lettera di dimissioni che ha spedito a Krizskij.

Specificando: “Chiedo che la questione venga vagliata in mia assenza”. Dopo di che ha lasciato per sempre Ekaterinburg.

Va detto che il giovane giudice non aveva alcuna intenzione di licenziarsi. Solo che ‘un bel giorno’ era accaduto quel che doveva accadere: si era trovato sulla scrivania una causa relativa ai misfatti dell’ennesimo gruppo mafioso, con Krizskij che pretendeva l’immediata archiviazione.

Il giovane giudice chiese tempo per pensarci. Degli ‘ignoti’ cominciarono a minacciarlo con telefonate anonime e biglietti, e ‘casualmente’ altri ignoti lo picchiarono sotto casa. Non troppo, però, il loro doveva essere un avvertimento…

Il giovane giudice si dimise seduta stante. E l’incartamento venne trasmesso a un collega. Che il giorno prima dell’udienza ricevette un telegramma da Ovcharuk in persona affinch‚

interrompesse le udienze. Il giorno seguente il caso venne chiuso.

Sergej Kazancev, giudice del tribunale del distretto Kirov, a Ekaterinburg, aveva stabilito che in attesa del processo un tal Uporov - accusato di rapina e percosse - fosse imprigionato quale individuo socialmente pericoloso. Dopo di che era passato al caso successivo. Stava scrivendo una sentenza nel suo ufficio - nessuno, secondo le leggi russe, ha diritto di disturbare un giudice in simili circostanze, altrimenti il verdetto potrebbe essere inficiato - quando Ovcharuk gli telefonò pretendendo imperiosamente che annullasse le misure detentive a carico di Uporov e lo rimettesse in libertà. Kazancev si rifiutò. Ovcharuk reagì comunicandogli che sarebbe stato licenziato.

E così fu.

Ekaterinburg è piena di storie analoghe. Storie che si somigliano tutte come gocce d’acqua. La conseguenza è che anche i giudici che continuano a lavorare si somigliano come gocce d’acqua.

Sono tutti manovrabili, pronti a ratificare qualunque ordinanza pur di evitare grattacapi con i superiori. La resistenza è ridotta a zero e ovunque impera una moralità doppia e ambigua spacciata per “dittatura della legge”. E non sono questi i giudici di cui abbiamo bisogno.

Quanto riportato spiega perch‚ al momento dell’occupazione dell’Uralchimmash entrambe le parti sventolassero ordinanze giudiziarie che si escludevano a vicenda. Quando l’autonomia dei giudici è stata brutalmente soffocata per anni a vantaggio del loro più completo asservimento (che i più anziani già dovevano alle corti sovietiche), come si può sperare in giudizi equi e coraggiosi?

Chi ha voluto opporsi e dire “no” non è più al suo posto da un pezzo. Mentre coloro che alla richiesta di servire l’illegalità sono scattati sull’attenti lavorano tranquilli e avanzano sereni lungo la scala gerarchica.

I SUPERBUONI.

Dietro ogni colpo gobbo di Fedulev c’è un suo legame particolare con la magistratura degli Urali.

Fedulev è amico dei giudici e i giudici sono amici suoi. Uno scambio reciproco. I nomi più noti in questa accezione sono quelli di Rjazancev e Balashov. Rjazancev è un modesto giudice del tribunale distrettuale di Kachkanar, che risponde direttamente a Ovcharuk; è stato lui a ratificare le ordinanze necessarie a Fedulev per l’affare del complesso minerario, convalidando le transazioni della società temporanea quanto all’acquisto di azioni a prezzo ridotto e alla successiva vendita a prezzo pieno, e consentendo, con ciò, che le sorti di Kachkanar fossero segnate. Anche il secondo, Balashov, è un giudice di poco conto del distretto di Kirov. E’ stato lui a decidere a favore di Fedulev quanto all’Uralchimmash e ad altre questioni di un certo rilievo. E

gli automatismi sono sempre gli stessi. Di fatto è stato il giudice Balashov a dar fuoco alle polveri nella vicenda dell’Uralchimmash. Accolta il venerdì sera un’istanza a tutela degli interessi che Fedulev aveva nella fabbrica, il lunedì mattina - a una velocità che la storia del a nostra giustizia non conosceva - Balashov emise l’ordinanza ‘necessaria’ a Fedulev senza darsi pena di convocare i testimoni, raccogliere informazioni aggiuntive o interrogare terzi… Si limitò a fare quel che gli veniva richiesto.

A onor del vero va detto che Balashov resta sempre nei limiti della legalità. E’ abilissimo, infatti, a usare le scappatoie della nostra giurisprudenza: il rito abbreviato a cui fa solitamente ricorso è del tutto legittimo. L’ingiunzione emessa “in accoglimento delle richieste dell’attore” è più che appropriata nei casi in cui la controparte abbia preso decisioni intese a depauperare la proprietà comune. Lo scopo ultimo dell’istanza è di congelare lo stato delle cose, e il tribunale ha tutti i diritti di interferire e di vietare qualunque scelta manageriale fino a che la contesa sull’appartenenza non venga chiarita.

Così facendo, con la sua ingiunzione-lampo sull’Uralchimmash, Balashov non contribuì a che la questione fosse risolta a favore dell’uno o dell’altro, ma evitò che venissero prese decisioni definitive e che si potesse disporre della proprietà. Dal di fuori tutto pareva regolare… Il risultato, però, fu letale: l’illegalità mascherata da legalità.

Per la legge russa, se un verdetto è stato emesso non c’è tribunale che possa riaprire il caso. Ma quando il gioco si fa duro… Con la sua ‘ordinanza necessaria’ Balashov finse di ignorare un dettaglio fondamentale della disputa relativa all’Uralchimmash, ossia che si era già tenuto un arbitrato. Del resto, aveva già pronta una giustificazione plausibile: la regione non disponeva di un sistema di informazione unificato (il che era vero) e nei tribunali distrettuali non si veniva a sapere mai nulla…

Era una farsa bella e buona, in quanto Balashov sapeva perfettamente che cosa era accaduto e per questo aveva deciso di evitare approfondimenti: avrebbe potuto convocare dei testimoni, ma non lo fece; avrebbe potuto chiedere informazioni suppletive, ma non lo fece; avrebbe potuto rimandare il tutto di qualche giorno, fino a che le circostanze non si fossero chiarite, ma non lo fece. Fedulev non voleva. E dunque Balashov emise l’ordinanza che un paio d’ore dopo, con l’inchiostro della sua firma ancora fresco, Fedulev brandiva in un Uralchimmash occupato da uomini armati.

E l’Uralchimmash si arrese.

UN PARTICOLARE IMPORTANTE DELLA PROCEDURA PENALE RUSSA ODIERNA.

Se nella Russia di oggi i tribunali sono schierati e favoriscono apertamente una delle parti in causa è perch‚ hanno comunque la legge dalla loro. Perch‚ in Russia i tribunali devono - o dovrebbero - essere indipendenti. La questione si riduce a una sola cosa, ossia se un giudice può o non può contare su appoggi in alto loco. Se le ‘alte sfere’ giudiziarie spalleggiano le ‘basse’, queste ultime possono fare quel che vogliono. Un esempio. Dopo l’irruzione all’Uralchimmash, Balashov viene convocato dal presidente del tribunale distrettuale Valerij Bajdukov, suo diretto superiore, che pretende delle spiegazioni e che le riceve: Balashov gli riferisce che la delibera era stata sollecitata a livello regionale e concordata con Ovcharuk… E la questione relativa alla condotta di Balashov viene subito espunta dall’ordine del giorno.

Che cosa fa, intanto, l’opinione pubblica perplessa? L’impudente occupazione dell’Uralchimmash suscita, questa volta, le reazioni e le domande della città, in quanto le molte migliaia di operai del complesso industriale hanno tutti famiglia. Bajdukov fornisce loro una spiegazione molto semplice, riuscendo persino a spacciarsi per filantropo: “Il tribunale” dice “sa bene che ogni minuto è prezioso quando una proprietà può finire in mani ignote, ed è nell’interesse dei cittadini e dei legittimi proprietari che è stata presa una rapida decisione”…

Tra parentesi, Bajdukov è anche presidente del Consiglio regionale dei giudici. Che è una specie di coscienza corporativa (e va da s‚ che Bajdukov abbia avuto per le mani il caso Vasil’eva e l’abbia trattato come richiestogli da Ovcharuk). Il Consiglio dei giudici è un altro organo della magistratura come il Collegio di qualifica. A Ekaterinburg sono entrambi controllati da Ivan Ovcharuk e ne diventano membri solo coloro che più aggradano al presidente. Ragion per cui ogni azione produce la reazione desiderata. Valerij Bajdukov è un uomo terrorizzato che ha paura della sua stessa ombra. La sensazione è che non sia minimamente in grado di difendere alcunch‚. Se anche ha un’opinione propria, questa resta sempre e comunque virtuale. Bajdukov può pontificare - in via teorica - sui tribunali distrettuali quali “anelli fondanti del sistema giudiziario russo”, ma tacerà ogni qual volta dovrà passare dalle parole ai fatti esaminando l’operato di Ovcharuk.

Permettetemi una parentesi breve, ma necessaria. I tribunali distrettuali russi vagliano il novantacinque per cento di tutte le cause penali e civili del Paese, e da questo punto di vista non c’è dubbio che siano l’anello fondante del nostro sistema giudiziario. La realtà dei fatti, tuttavia, dimostra che si tratta di una farsa. I tribunali distrettuali sono manipolabili e sottomessi. La ragione principale di un tale stato di cose è che le alte sfere - i giudici dei tribunali regionali e delle varie repubbliche - non intendono promuovere una riforma della giustizia che li costringerebbe a mollare le redini con cui manovrano i loro sottoposti, i giudici distrettuali. Sulla carta - una carta che si chiama Costituzione e ha preminenza legale - questi ultimi godono di un’autonomia che però non ha alcun riscontro nella procedura.

La legge vuole che i tribunali superiori (regionali) esercitino un controllo sulla pratica giudiziaria dei tribunali loro sottoposti (municipali e distrettuali). In pratica, i tribunali distrettuali (o municipali) emettono delle sentenze e quelli regionali ne valutano l’equità. In questo modo la dipendenza procedurale trapassa in una dipendenza di organizzazione e di carriere. Un giudice scomodo è indifeso come un bambino. E come un bambino dipende dai ‘più grandi’. Che hanno il diritto di criticare e annientare i ‘più piccoli’ come meglio credono, senza doverne rendere conto alla legge. Quando un giudice regionale annulla la sentenza di un sottoposto non è tenuto a spiegare il perch‚ e il per come. La annulla e basta.

Così facendo il tribunale regionale non si assume responsabilità quanto al verdetto finale, mentre è obbligato a compilare una statistica delle sentenze cassate ai singoli giudici dei singoli distretti. Una statistica che è la base per determinare i bonus dei giudici, eventuali privilegi da concedere o negare, vacanze estive o invernali, avanzamenti nelle liste d’attesa per gli alloggi (stilate dal tribunale regionale e di grande importanza, in quanto gli stipendi reali dei giudici sono tali da non consentire loro l’acquisto di una casa), possibili riconferme e via dicendo.

Con un simile meccanismo i giudici distrettuali - gli “anelli fondanti” a detta della Costituzione -

si trovano a dipendere dai propri superiori in misura ancora maggiore rispetto al sistema sovietico. Una tale gerarchia non dovrebbe, però, essere vietata dalla Costituzione? In quanto nominati dal presidente russo, i giudici non dovrebbero essere tutti uguali e tutti indipendenti?

La realtà è ben diversa. Al momento della nomina sono tutti uguali, certo. Ma quando vengono licenziati l’uguaglianza va a farsi benedire. Se il capo di un qualche tribunale regionale desidera sbarazzarsi dei suoi giudici distrettuali, può farlo a sua discrezione. Mentre se è lui a non essere gradito ai sottoposti, è un problema tutto loro. Non c’è modo che possano ottenerne l’allontanamento.

Sono state le leggi e le norme della convivenza giudiziaria sviluppatesi dopo la caduta dell’URSS

a consentire a Ovcharuk di diventare quello che è: lo ‘spazzino’ chiamato a liberare la giustizia degli Urali da giudici che potrebbero emettere un verdetto non controllabile. Il sistema giudiziario non ha difese adeguate contro l’arbitrio di vertici senza più freni. Le inibizioni possono essere solo morali. Il sistema funzionerebbe nel giusto verso solo in un caso: se al posto di Ovcharuk ci fosse un uomo di altri - e alti - princìpi etico-morali. Ma, ne converrete, che razza di sistema è mai questo?

Torniamo, però, al nostro Balashov. Avrebbe potuto comportarsi diversamente con Fedulev? E

se sì, cosa avrebbe dovuto fare? Avrebbe davvero potuto decidere di essere obiettivo e imparziale? Certo. Gli sarebbe bastato rimandare l’esame dell’ingiunzione. E ne avrebbe avuto tutti i diritti.

Va detto che nel preparare la presa dell’Uralchimmash Fedulev e i suoi collaboratori avevano fatto il giro dei tribunali distrettuali di Ekaterinburg per testare la ‘reattività al soldo’ dei giudici.

Tutti avrebbero fatto come Balashov. Tutti tranne uno, quello del tribunale distrettuale di Chkalov (la ex Orenburg), Sergej Kijajkin. Per quel rifiuto Ovcharuk gli propose un trasferimento a Magadan, nell’estremo Nord-Est del Paese. Da sempre “finire a Magadan” è sinonimo di esilio.

E quel giudice dissenziente nato e cresciuto a Ekaterinburg, che aveva difeso la città e gli Urali, che aveva frequentato l’istituto tecnico annesso all’Uralchimmash e aveva anche lavorato per quel complesso industriale fiore all’occhiello di tutto il Paese, ebbene, il giudice Kijajkin fu ben felice di fare le valigie e di andarsene il più lontano possibile da dove era nato…

Per salvare la pelle. E per salvarla ai suoi familiari.

Ma torniamo a Balashov, giudice a comando, ormai vecchio “compagno di lotta” di Fedulev e guardiano leale dei suoi interessi, colui che ha reso un’arte l’emissione di verdetti compiacenti.

Un esempio per tutti: una sua sentenza del 28 febbraio 2000. La sostanza delle cose è la seguente. Fedulev decide di vendere l’Uralelektromash, la sua principale società per azioni. A dispetto del nome (Uralelektromash - Macchinari elettrici degli Urali), non si tratta di una fabbrica, ma di una società che gestisce le operazioni in titoli di Fedulev. Titoli tra i quali figurano le azioni del complesso di Kachkanar e dell’Uralchimmash.

Un bel giorno, dunque, Fedulev cede l’Uralelektromash e ne ricava una determinata somma. Fin qui, tutto legale. Ma il lupo perde il pelo… Qualche tempo dopo, gli acquirenti scoprono che, pur avendo sborsato i denari per l’acquisto, non hanno accesso alle azioni. Come mai? In pratica Fedulev ha venduto loro l’Uralelektromash ma si è tenuto le azioni. Gli acquirenti si rendono conto d’essere stati truffati e, va da s‚, mettono Fedulev con le spalle al muro. “Ci ho ripensato,”

ribatte lui “rivoglio indietro tutto quanto”. E come sarebbe? Te li sei presi, i soldi, o no? Tu ci ridai i soldi e noi ti ridiamo il resto… “Io i soldi non ve li do e voi le azioni non le avete. Dunque non siete nessuno. Levatevi di torno. Grazie e arrivederci”. Lo stesso quanto al pacchetto azionario dell’Uralchimmash. Uscito dalla prigione di Mosca e ansioso di riprendersi quanto aveva venduto per diversi milioni di dollari, Fedulev sostiene di non sapere niente della transazione, che non è stata debitamente registrata e che dunque è da ritenersi nulla. Dopo di che va dal giudice Balashov, che gli firma una bella ordinanza: Fedulev ha ragione, i pacchetti azionari che ha venduto sono in realtà ancora suoi e l’acquirente è tenuto a renderglieli senza che Fedulev restituisca la somma versata…

Nero su bianco, non sto inventando nulla.

Per capire le mosse di Fedulev bisogna anche sapere che la legislazione russa è tutt’altro che perfetta. E che Fedulev sa sempre servirsene a proprio vantaggio. Il nocciolo della questione è che qualunque società che emetta azioni deve registrarne l’emissione. Da principio nessuno sapeva come fare, in quanto l’URSS non aveva n‚ azioni n‚ mercato azionario. Dissolta l’URSS, le istituzioni governative preposte persero molto tempo a individuare un metodo con cui effettuare le registrazioni suddette, e la conseguenza fu che molte azioni e molte società per azioni non sono mai state registrate. Ciò non toglie, però che i loro titoli vengano trattati tranquillamente.

Lo spettacolo del mercato azionario deve continuare.

Dunque? Dunque si supponeva - per accordo tacito ma lampante - che a far andare avanti le cose bastasse l’onestà. Che non è una dote di Fedulev, estorsore e truffatore. Il quale adocchia l’affare e per prima cosa firma il contratto di vendita delle azioni dell’Uralelektromash, e solo in un secondo tempo chiede di registrarle dove occorre, e cioè alla Commissione Federale Titoli (così si chiamava). Solo a registrazione avvenuta - dopo un discreto lasso di tempo, dati i pantani burocratici e la mancanza di coordinamento - Fedulev comunica agli acquirenti che l’accordo era stato concluso prima dell’effettiva registrazione delle azioni. “Quindi è tutta roba mia!” dice loro spudoratamente. “E la rivoglio”. E i soldi? “I soldi me li tengo. L’errore è stato vostro. E gli errori si pagano”. Intanto il tribunale piazza timbri su timbri sulle apposite ordinanze.

E’ solo un caso, l’ennesimo, fra le tante truffe di Fedulev che affondano le radici nella malagiustizia russa. Perch‚ la vera giustizia è quella in cui le leggi sono uguali per tutti. E da noi non è così. Quel che accade da noi è un’altra cosa. Lobby differenti scrivono leggi differenti. Ogni lobby ha un suo scopo. Ognuna sostiene la legge che in quel determinato lasso di tempo le è necessaria. Significa, forse, che Fedulev è tanto più intelligente degli altri da conoscere questi particolari e da avvalersene? Certo che no. Fedulev è semplicemente tanto ricco da potersi comperare i servigi dei migliori legali, che conoscono a menadito le scappatoie della giurisprudenza e sono sempre in grado di suggerirgli la tattica migliore. Per di più, e lo ripeto, Fedulev ha saputo creare una piramide oligarchica (una cupola, per dirla più semplicemente) tale da garantirgli che qualunque sua azione influirà su tutti gli anelli della catena, i quali perciò risultano strettamente legati gli uni agli altri. Fedulev, Rossel’, Kozicyn (che è il delfino di Rossel’): nessuno può fare a meno dell’altro. Rossel’ non può nulla senza Kozicyn, in quanto Kozicyn è l’equivalente di Putin per El’cin, il mezzo per mantenere la stabilità economica anche dopo aver abdicato…

Quel che più ci interessa, tuttavia, è come si mosse il tribunale. Con chi si schierò, indipendente ed equo com’era tenuto a essere? La risposta dovrebbe essere univoca, dato che un tribunale non può stare dalla parte di chi truffa il prossimo…

Vediamo, allora, come si cavò dall’impasse il giudice Balashov, pienamente consapevole delle lacune della nostra giurisprudenza. Balashov si pronunciò a favore di Fedulev e della requisizione ai sacrosanti acquirenti del loro sacrosanto acquisto. Un particolare curioso: anche in questo caso l’iter fu quello seguito per l’Uralchimmash. L’istanza venne presentata la sera e l’ordinanza venne emessa la mattina seguente. Un caso complicatissimo, che avrebbe dovuto richiedere faldoni su faldoni di documenti e la consulenza di esperti del mercato azionario, venne esaminato in quattro e quattr’otto. E non perch‚ Balashov fosse un genio.

Dopo di che la ruota cominciò a girare. E l’episodio del giudice spedito a Magadan è il male minore. L’ordinanza relativa alla disputa dell’Uralelektromash divenne il prologo ai fatti di sangue dell’Uralchimmash, per i quali fu ancora una volta Balashov a dare il ‘la’ giudiziario.

Un sodale di Balashov, l’ennesimo giudice accomodante, risponde al nome di Rjazancev e lavora presso il tribunale distrettuale di Kachkanar. E come Balashov salvaguarda gli interessi di Fedulev per quanto concerne il complesso industriale.

Il 28 gennaio del 2000, come ricorderete, gli Urali vennero scossi dalla notizia che gli uomini -

armati - di Fedulev avevano preso possesso del complesso industriale suddetto. E, lo ricordo, su cinquantamila abitanti di Kachkanar, diecimila lavorano per quel complesso industriale dalla cui salute dipendono le sorti di un’intera città.

Come reagì il tribunale a quel dramma? Il primo febbraio del 2000 il giudice Rjazancev, del tribunale distrettuale di Kachkanar, esaminò l’istanza relativa a quanto accaduto qualche giorno prima. Che la riunione del consiglio direttivo si fosse tenuta a mitra spianati non venne giudicata una violazione della legge.

L’udienza fu un’udienza “à la” Balashov: fulminea, senza convocazione di coloro che avevano visto calpestati i propri diritti, senza preparazione alcuna. Va da s‚ che il verdetto venne emesso il giorno seguente.

Il 15 febbraio, a sole due settimane dall’ordinanza (e anche in questo caso si tratta di una velocità inaudita nell’iter giudiziario russo, dove di norma gli appelli richiedono almeno sei mesi), il Collegio giudiziario per i Casi civili del tribunale regionale di Sverdlovsk-Ekaterinburg (la parrocchietta di Ivan Ovcharuk) ratificò quanto deciso dal signor Rjazancev. Anche in questo caso senza perdere tempo a studiare i materiali e senza riscontrare “violazioni” di sorta.

Ma le vessazioni alla dea Themis non si limitano a questo. Onde evitare contrattempi, quello stesso 15 febbraio il tribunale distrettuale di Kachkanar nella persona del giudice Rjazancev emette un’ordinanza che vieta la convocazione degli azionisti del complesso industriale.

Un’ordinanza atta a consolidare il successo degli occupanti.

La legge non consente nulla di simile. Il Codice di Procedura civile non contempla che si possa vietare alcunch‚ a individui diversi dalle parti in causa.

Pensate, però, che i guardiani della legge di Sverdlovsk e provincia se ne siano dati pensiero?

Certo che no. Il signor Rjazancev è stato forse sanzionato per il suo sprezzo della legge? E’ stato forse rimosso? Nossignori. Comandano i forti. E i tribunali dispongono a favore dei forti senza perdere tempo in verifiche, che in questo caso sarebbero consistite nel controllare se Fedulev fosse l’effettivo proprietario del complesso. Perch‚ di fatto il diciannove per cento delle azioni del complesso di Kachkanar che Fedulev sbandierava come proprio in realtà non esisteva, era una truffa. Quel pacchetto azionario gli era stato confiscato da tempo in relazione all’inchiesta che contro di lui era stata aperta a Mosca. Ricordate che Fedulev era finito in prigione per frode ai danni di una società della capitale? La frode consisteva, giust’appunto, nell’aver venduto due volte a diverse società e persone il famigerato diciannove per cento delle azioni di Kachkanar, a garanzia del quale il giudice Rjazancev e il presidente Ovcharuk si erano affrettati a perdere quel poco di faccia che era loro rimasto.

Dal febbraio del 2000 molta acqua è passata sotto i ponti. La Corte Suprema ha cercato di impugnare le ordinanze farsa del tribunale di Sverdlovsk. E più di una volta. Ma nulla è cambiato nella vita reale. Fedulev si è tenuto Kachkanar. Quelli che ha abbindolato sono ormai all’estero, ben nascosti. E la pratica giudiziaria dei tribunali di Kachkanar e di Ekaterinburg si è arricchita di una sfilza di cause indotte dalla bancarotta del complesso industriale di Kachkanar. Come da copione.

Così facendo, e in quanto al soldo della criminalità locale, la magistratura della regione di Ekaterinburg ha reso possibile una serie di transazioni che, tutte assieme, hanno portato alla deliberata insolvenza del complesso. Un atto criminale, detto tra parentesi. Ma chi se ne cura?

Come abbiamo visto, dichiarando che non avrebbe tollerato alcuna ridistribuzione delle proprietà acquisite, una volta al potere Putin si è schierato proprio con gente come Fedulev e Rossel’. Vi siete accaparrati delle proprietà? Complimenti, la legge è dalla vostra e nessuno ve le porterà via. Il 14 luglio del 2000, a pochi giorni dalla sua prima nomina, Putin vola a Ekaterinburg e prende parte alla cerimonia solenne della posa della prima pietra dello Stabilimento 5000, presso il complesso metallurgico di Niznij Tagil, il più grande del mondo. Personaggi e interpreti sono gli stessi di Kachkanar, con Fedulev al posto d’onore. E il 5000 è il maggiore investimento di Eduard Rossel’.

Lo spettacolo del “presidente che posa la prima pietra” fu un eccezionale semaforo verde per l’espansione criminale di Fedulev. Sull’onda di Putin arrivarono nuovi denari… Per ricambiare tanta munificenza, Fedulev e Rossel’ sostengono attivamente il loro presidente, garantiscono finanziamenti alla sezione locale del suo partito, Edinaja Rossija, e stanno dalla sua parte alle elezioni presidenziali della primavera del 2004.

Resta da aggiungere che, visto da fuori, il nostro Paese pare immerso in un regime di ineccepibile democrazia. Ha proclamato l’assoluta indipendenza della magistratura e la punibilità di qualunque ingerenza nel suo operato. La legge sullo “status dei giudici” è all’avanguardia e parrebbe garantirne l’autonomia…

La realtà, invece, è che i princìpi costituzionali e democratici vengono cinicamente violati senza conseguenze. L’illegalità è più forte della legge. Il tipo di giustizia che avrai dipende dalla classe a cui appartieni. Al vertice ci sono i VIP: la mafia e gli oligarchi. E gli altri? Gli altri niente.

Dal momento che stiamo costruendo il capitalismo, la proprietà privata ha diritto di esistere. E

se c’è la proprietà privata ci sarà sempre qualcuno che vorrà metterci le mani e qualcun altro che non vorrà spartirla. E’ solo un problema di metodi. Di regole del gioco. Quello del nostro governo è un gioco sporco, corrotto, che segue le regole di Pashka Fedulev, un tempo piccolo truffatore di Ekaterinburg, oggi oligarca degli Urali.

Un’altra breve scena prima che cali il sipario. Il 2003. Marzo. Ekaterinburg. In provincia la vita scorre lenta, tutto pare congelato. Ma sono diversi giorni, ormai, dal 25 al 28, che sulla piazza principale si tiene una dimostrazione di protesta. Sono gli attivisti del Centro Internazionale per i Diritti dell’uomo della regione di Sverdlovsk, del Comitato in Difesa dei diritti dei detenuti e di un’associazione chiamata Unione e Territorio di potere popolare. Raccolgono firme per richiedere l’immediata destituzione di Ivan Ovcharuk. Salmodiano che, con i suoi legami di vecchia data con la criminalità degli Urali, Ovcharuk è l’artefice degli arbitri giudiziari e il principale oppositore della riforma della giustizia. Ovcharuk - e lo dicono a chiunque abbia orecchie per intendere -

soffoca la democrazia e si opporrà strenuamente all’introduzione della giuria popolare nei processi, dichiarando che “non si confà agli interessi della popolazione di Ekaterinburg e provincia”. Il suo scopo è uno solo: che non si pongano limiti al sistema giudiziario corrotto che ha messo in piedi per beneficare la criminalità degli Urali.

Ancora marzo 2003. Mosca, e non Ekaterinburg. Putin riconferma Ivan Ovcharuk alla carica di presidente del tribunale regionale di Sverdlovsk…

Qualcuno mette in dubbio che la mafia ha sette vite?

ALTRE STORIE DI PROVINCIA.

PARTE PRIMA.

IL VECCHIO DI IRKUTSK.

L’inverno del 2002-2003, terzo anno di regno di Putin, è stato freddissimo. Un inverno critico.

Siamo un Paese nordico, certo, abbiamo la Siberia, gli orsi, le pellicce e via dicendo, e dunque dovremmo essere in grado di affrontarlo, il freddo…

E invece ogni cosa, per noi, è un fulmine a ciel sereno, freddo compreso, ragion per cui la storia tremenda che segue è potuta accadere.

Irkutsk, cuore della Siberia, gennaio 2003. Un vecchio sull’ottantina, un semplice pensionato di quelli che il Pronto soccorso si rifiuta di aiutare (sono troppo vecchi, dicono, e alle richieste di aiuto rispondono: “Certo che non sta bene! E cosa crede? E’ l’età…”). Questo vecchio signore che viveva solo viene trovato morto, assiderato, sul pavimento di casa sua. Ipotermia. Era caduto ed era morto congelato. Aveva fatto la seconda guerra mondiale con tanto di ferite e medaglie per aver liberato il mondo dai nazisti, e in forza di ciò riceveva una pensione dallo Stato; era uno di coloro ai quali il presidente Putin manda gli auguri il 9 maggio, il giorno della Vittoria, augurando felicità e salute (e i nostri vecchi, i nostri reduci di cui lo Stato tanto poco si cura, ci piangono, su quelle lettere tutte uguali con la firma prestampata) . Si chiamava Ivanov, il nome più comune in Russia, dove gli Ivanov sono centinaia di migliaia.

Il reduce Ivanov è morto congelato perch‚ la sua casa non era riscaldata. Affatto. Mentre avrebbe dovuto esserlo, come tutti gli altri alloggi del condominio in cui il vecchio viveva. Come tutti i condomini della città di Irkutsk nel terzo anno di Putin alla guida del Paese.

Che cosa era successo? La spiegazione è semplice: in tutta la Russia i tubi del riscaldamento si erano usurati, in servizio com’erano dai tempi di quell’URSS sparita più di un decennio fa, grazie a Dio. Avevano gocciolato a lungo, quei tubi, senza che il Servizio manutenzione immobili intervenisse. La manutenzione è centralizzata, è un monopolio statale senza alternative possibili al quale siamo tenuti a versare ogni mese una discreta somma di denaro per niente, o meglio per un’assistenza tecnica che non riceviamo, per un’attenzione di cui non veniamo quasi degnati. Gli addetti non fanno il loro lavoro ma pretendono continui aumenti, che il governo concede e che noi siamo obbligati a corrispondere.

Alla fine, dopo aver gocciolato per anni senza mai una riparazione, i tubi suddetti erano scoppiati, e l’avevano fatto in inverno, con un freddo tremendo e senza possibilità di sostituirli…

I tubi erano marciti (e c’era da aspettarselo), ma non avevamo con che sostituirli (questo, invece, non se l’aspettava nessuno, in quanto la Russia produce migliaia di chilometri di tubature all’anno). “Non ci sono soldi” proclamarono gli uomini del governo Putin allargando le braccia come se la cosa non li riguardasse. “Come sarebbe?” ribatterono fiacchi i politici che solitamente si ergono a paladini dei diritti civili… Basta. Finita lì. Senza scandali, senza dimissioni del governo, senza che il ministro preposto venisse rimosso.

E che sarà mai se la gente deve starsene in casa con pelliccia e stivali, mangiando e dormendo vestita? Che stringano i denti, e in estate sistemeremo tutto quanto…

Il presidente tirò pubblicamente le orecchie al primo ministro. I membri dell’opposizione fecero qualche discorso infuocato che il giorno dopo nessuno ricordava più. N‚ chi li aveva tenuti, n‚ chi li aveva ascoltati…

E tutto continuò come prima. Gli uomini del Servizio manutenzione staccarono a colpi di piccozza il vecchio dal pavimento ghiacciato e lo seppellirono nella terra ghiacciata della Siberia. Senza giornate di lutto nazionale. E neppure cittadino.

Il presidente sembrava volerci convincere che il misfatto non fosse accaduto in casa sua, nel suo Paese e a un suo elettore. In occasione dei funerali - come anche prima e dopo - non aprì bocca.

E il suddetto Paese mandò giù il suo silenzio. Per non perdere posizioni, Putin cambiò bersaglio e se ne uscì con un discorso di fuoco in cui ascriveva i mali della Russia - tutti quanti - ai terroristi, e in cui proclamava che la guerra al “terrorismo internazionale” in Cecenia doveva essere una priorità dello Stato…

Quanto al resto, la vita continuava ‘tranquilla’ come in era sovietica, quando i cittadini non erano tenuti ad avere grosse preoccupazioni n‚ dovevano perdere tempo a pensare alle imperfezioni della realtà che avevano sotto gli occhi.

Arrivò la primavera. Fece capolino un timido sole. E il malessere suscitato da quanto accaduto andò dissipandosi. Quella primavera Putin cominciò i preparativi per le presidenziali del 2004.

Dove non poteva esserci spazio per il rimpianto delle sconfitte subite, ma solo gioia per le vittorie riportate. Dalla primavera in poi, dunque, il Paese fu tutto un brulicare di festeggiamenti.

Finanche in Quaresima.

Più si avvicinava l’estate, meno si parlava del collasso che le infrastrutture di distribuzione termica avevano patito in inverno. I cittadini, invece, venivano chiamati a gioire per l’imminente tricentenario di San Pietroburgo, e ad andar fieri dei palazzi dello zar freschi di restauri, perfetti per gettare fumo negli occhi dell’‚lite politica mondiale.

Esattamente ciò che accadde.

Putin invitò i leader del mondo a San Pietroburgo, violando con una tinteggiatura sconsiderata le facciate della capitale del Nord. Nessuno ricordò il vecchio di Irkutsk o i vecchi di San Pietroburgo. Nemmeno Putin. Quasi non fosse il presidente di un Paese in cui i vecchi muoiono assiderati in casa propria e stentano a mettere insieme il pranzo con la cena.

“Se fosse morto a Mosca…” mormoravano i politologi della capitale. “Allora sì che si sarebbe gridato allo scandalo e che i potenti avrebbero provveduto a sostituire i tubi per l’inverno seguente…”.

Schroeder, Bush, Chirac, Blair e molti altri sono accorsi a Pietroburgo e hanno - di fatto -

incoronato Putin a proprio pari. Ricevendo in cambio un’accoglienza degna del nostro ultimo imperatore.

L’inverno del 2002-2003, l’inverno dei colpi di piccone nella casa del vecchio di Irkutsk, è stato l’apice del regno di Putin senza che nessuno se ne rendesse conto. Perch‚? Putin ha scelto di fondare il proprio potere su piedi d’argilla, gli oligarchi, cassando dal suo schema la gente comune. Putin lega con i miliardari che si sono spartiti le riserve di petrolio e di gas e dichiara guerra al resto della popolazione, che non conta nulla. Mosca e le province sono come il Sole e la Terra. Il Sole significa calore, luce, vita. La Terra gira attorno al Sole. Orbite diverse, diversi percorsi.

PARTE SECONDA.

LA KAMCHATKA E LA LOTTA PER LA SOPRAVVIVENZA.

La Kamchatka è il punto più estremo della Russia. Da Mosca sono più di dieci ore di volo. Gli aerei che percorrono la tratta fino a Petropavlosk-Kamchatskij sono poco confortevoli e il lungo volo induce a riflettere sulle dimensioni della nostra Patria complicata e sul fatto che a Mosca viva solo uno sparuto gruppo di nostri connazionali che, però, portano avanti i loro giochi politici elevando e abbattendo idoli, convinti di controllare un Paese enorme…

La Kamchatka è un buon posto per capire quanto lontana sia la provincia dalla capitale. E non c’entrano le distanze. La provincia vive in modo diverso, respira in modo diverso. Ma la Russia vera è lì.

- Il capitano Dikij.

In Kamchatka ci sono tanti marinai quanti pescatori, o forse di più. Nonostante i massicci tagli alle Forze Armate, il principio resta lo stesso: a vincere le elezioni sarà colui per il quale voteranno gli uomini della Flotta del Pacifico di stanza in Kamchatka.

Come in tutte le città di mare, a farla da padrone sono il blu e il nero dei giacconi, delle maglie, dei berretti. Quel che manca, invece, è l’eleganza che ha sempre contraddistinto la Marina. I giacconi sono lisi, le maglie scolorite dai troppi lavaggi, i berretti sbiaditi.

Aleksej Dikij comanda un sottomarino atomico antisommergibile, il Viljucinsk. Fa parte dell’‚lite della Flotta del Pacifico. E il Viljucinsk con lui.

Dikij ha avuto un’istruzione eccellente a Leningrado, l’odierna San Pietroburgo. Dopo di che, da ufficiale ricco di talento, è salito a grandi passi lungo la scala gerarchica, arrivando a essere - a soli trentaquattro anni - un qualificatissimo ufficiale sommergibilista, di quelli che nel resto del mondo hanno stipendi da migliaia di dollari. Al momento il capitano di prima classe Aleksej Dikij fa la fame. Non c’è altro modo di dirlo. Pare piuttosto un barbone o un fallito.

La sua casa è uno squallido ostello degli ufficiali con le scale scrostate, semideserto e tremendo come la Harlem del tempo che fu, quella dei film americani con i gangster. Chi ha potuto se n’è andato “sul continente”, gettando alle ortiche la carriera militare. Molte finestre sono buie: non ci abita più nessuno, lì dentro. Freddo, fame, disagio. E’ dalla miseria che è fuggita la gente. Il capitano Dikij ci racconta che spesso, quando il tempo è bello, lui e gli altri ufficiali vanno a pescare per mettere qualcosa di decente nel piatto.

Sul tavolo della cucina c’è quanto la Patria gli elargisce per anni di irreprensibile servizio. Dikij ha appena riportato a casa, avvolto in un lenzuolo del demanio, ciò che spetta mensilmente a un capitano. Due pacchetti di piselli secchi decorticati, due chili di grano saraceno e riso in sacchetti di carta, due lattine di piselli in scatola dei più economici, due lattine di aringhe del Pacifico e una bottiglia di olio di semi…

“Tutto qui?”.

“Tutto qui”. Dikij non si lamenta, prende atto senza fare commenti. E’ un uomo forte, un uomo vero. Un russo vero. E’ abituato alle privazioni. Serve la sua Patria, lui, e non chi è al potere in un determinato periodo. Se la pensasse diversamente se ne sarebbe andato da un pezzo. Invece accetta tutto, anche la fame. Perch‚ una razione di quel tipo significa solo fame.

Quel cibo è per una famiglia di tre persone. La moglie Larisa è un radiochimico con laurea al prestigioso Istituto di Chimica e Ingegneria di Mosca (MIFI), i cui allievi pare vengano corteggiati dalle aziende della Silicon Valley sin dai banchi di scuola.

Larisa, però, che vive con il marito nella cittadella militare della flotta, non lavora, perch‚

nessuno si cura di questi ‘dettagli’, n‚ lo Stato Maggiore della Marina Militare, n‚ il ministero della Difesa. La politica di arruolamento delle truppe è tale che chi vi è preposto non vede nemmeno l’oro che calpesta. Larisa non può neppure insegnare alle scuole elementari: non ci sono posti liberi e la lista d’attesa è lunghissima. La disoccupazione tra il personale non militare sfiora il novanta per cento.

Il terzo membro della famiglia del capitano Dikij è la figlia Alisa, che fa la seconda elementare.

Anche la sua vita è tutt’altro che invidiabile. In una cittadella militare non c’è nulla che possa sviluppare le inclinazioni di una bambina e dei suoi coetanei. Niente palestre, niente posti dove ballare, niente computer… L’unica cosa su cui possono contare i figli dei militari è un cortile squallido e sporco e una casa con un videoregistratore e qualche cassetta di cartoni animati.

La Kamchatka è all’altro capo del mondo e dell’insensibilità dello Stato: da un lato le tecniche più perfezionate di distruzione umana, e dall’altra un livello di vita da cavernicoli per chi le gestisce.

Tutto si fonda sull’entusiasmo dei singoli e sull’amore per la Patria. Niente soldi, niente gloria, niente futuro.

Il posto dove vive il capitano Dikij si chiama Rybac’e ed è a un’ora di macchina da Petropavlovsk-Kamchatskij, la capitale della penisola di Kamchatka. Con i suoi ventimila abitanti Rybac’e è forse la cittadella militare chiusa più famosa al mondo. E’ anche il simbolo e il vessillo della flotta nucleare russa: dotata degli armamenti più moderni, ospita lo scudo nucleare che protegge la Russia da est. E tutti coloro che lo mantengono in funzione.

Il sottomarino del capitano Dikij è una delle componenti essenziali dello scudo nucleare, e il capitano con lui. Il Viljucinsk, un’arma tecnicamente perfetta e senza eguali nel resto del mondo, è in grado di distruggere intere flotte di superficie e i migliori sottomarini esistenti, compresi quelli americani. Agli ordini di Dikij c’è un’arma nucleare eccezionale e un impressionante arsenale di siluri. Fino a che il sottomarino non ha problemi, la Russia è invulnerabile, per lo meno sul fronte dell’Oceano Pacifico.

Il capitano Dikij, invece, lo è. E’ vulnerabilissimo. E il primo ad approfittarne è lo Stato per cui presta servizio. Il capitano del Viljucinsk, però, non ci pensa. Come molti altri ufficiali, si arrabatta per sopravvivere senza l’ombra di un quattrino. Gli stipendi sono bassi e può capitare -

capita spesso, in realtà - che vengano pagati con un ritardo che arriva a sei mesi (mentre sto scrivendo sono cinque mesi che non vedono un soldo, da quelle parti).

Come fa Dikij a sopravvivere? In questo modo. Quando non ha soldi, rinuncia a mangiare a bordo (cosa che gli ufficiali sarebbero tenuti a fare), porta a casa il pasto che gli spetta e lo divide con il resto della famiglia. Non c’è altra soluzione. La conseguenza è che Dikij è ridotto all’ombra di se stesso. Scheletrico ed emaciato, il suo viso ha un colorito grigiastro e il perch‚ è evidente: il capitano della principale componente dello scudo nucleare russo ha la pancia vuota.

Va da s‚ che anche la presenza costante di radiazioni fa la sua parte. Ma se negli anni passati tutto questo comportava un ritorno in denaro e rendeva i sommergibilisti degli ottimi partiti, ora le cose sono cambiate e le ragazze da marito non li prendono nemmeno in considerazione.

“Ma non è la miseria la cosa peggiore” afferma Dikij. Un uomo ascetico, un romantico senza un soldo. Un ufficiale fino al midollo. Un santo, quasi, in un’epoca in cui la scala dei valori viene ricalcolata secondo il linguaggio cinico del dollaro. “La miseria si sopporta, se si hanno un fine e uno scopo militare evidenti. La vera disgrazia è un’altra: la precarietà della flotta nucleare del nostro Paese, la totale assenza di prospettive. Pare che a Mosca non si rendano conto che con certe armi non si scherza. Se i finanziamenti resteranno quelli attuali, tra dieci anni a Rybac’e o non ci sarà più nulla o alle nostre banchine farà rifornimento la NATO”.

Per sfuggire alla desolazione di quanto accade sotto i suoi occhi, Dikij ha deciso di continuare a studiare, di iscriversi all’Accademia di Stato Maggiore. Vuole scrivere una tesi sullo stato della difesa nazionale russa tra la fine del ventesimo e l’inizio del ventunesimo secolo. Lo scopo che si prefigge è di dare una risposta scientificamente fondata a una domanda che lo assilla: chi ha interesse a ridurre allo stremo la sicurezza nazionale russa?

Al momento le sue deduzioni non scagionano la capitale. Ma il capitano non nutre rancore o risentimento. La sua logica è più o meno la seguente: certo, è assurdo che Mosca si comporti in questo modo, ma noi non possiamo farci niente. Noi dobbiamo resistere, perch‚ siamo più forti e più intelligenti di chi ci comanda.

Il lavoro del capitano Dikij fa sì che la sua vita non gli appartenga. Il capitano non può far nulla di quel che fanno gli altri. Essendo tenuto a presentarsi in cinque minuti sul sottomarino in caso di ordine, non può allontanarsi mai. Dev’essere sempre reperibile. E allora niente gite nel bosco per raccogliere bacche e funghi, niente battute di pesca e niente passeggiate con gli amici. La sua vita è quella che ha accettato di fare, e non può delegarla a nessuno. Deve restare con i suoi ufficiali, affinch‚ non si perdano d’animo in tempi difficili come gli attuali. Deve farsi vedere in caserma per capire in tempo come se la passano i marinai. Deve fare tutto questo e anche di più.

Quel che ne consegue è che non ha tempo - invece - di fare quello che oggigiorno fanno altri ufficiali, ossia trovarsi un secondo impiego per sfamare la famiglia e comperare i vestiti o l’uniforme (non stupitevi: buona parte degli ufficiali devono comprarsela da soli, la divisa). Nelle poche ore libere che ha, il capitano Dikij è costretto (proprio così, è costretto) a riposarsi, a dormire, a calmare i nervi - che non possono non cedergli con una vita del genere - per non arrivare al sommergibile carico come una molla. E’ un divieto assoluto: alle conseguenze di un’eventuale nevrastenia potrebbe non esserci rimedio.

“Quando sono in servizio devo essere tranquillo ed equilibrato” mi spiega Dikij. “Come se fossi appena tornato dalle vacanze. Come se tutto fosse a posto. Come se non mi dovessi preoccupare di come sfamare mia moglie e mia figlia l’indomani…”.

“Lei mi dice che ‘deve’ essere tranquillo. Non è che sbaglia a impostare la questione? Lei serve lo Stato, e dunque è lo Stato che dovrebbe creare le condizioni necessarie affinch‚ lei arrivi al lavoro tranquillo ed equilibrato. O sbaglio?”.

Uomo di vecchio stampo, Dikij abbozza un sorriso condiscendente che non capisco a chi è rivolto, se a me che gli pongo certe domande o allo Stato che se ne frega di coloro che lo servono… No, è per me.

“Lo Stato non può farlo, al momento” dice infine il capitano. “Non può e basta. Come si può pretendere qualcosa che non esiste? Io sono realista e non mi arrabbio facilmente. Gli arrabbiati e i sentimentalisti se ne sono andati da un pezzo. L’hanno lasciata, la Marina”.

“Però continuo a non capire perch‚ non se n’è andato anche lei… Lei è un esperto del nucleare, è ingegnere. La troverebbe, un’occupazione degna”.

“Non posso. Non posso lasciare la mia nave. Sono un comandante, non un marinaio. Non potrebbero sostituirmi. Mi sentirei un traditore, se me ne andassi”.

“Ma è lo Stato che ha tradito lei!”.

“Verrà il giorno in cui anche lo Stato metterà giudizio. Fino ad allora ci vuole pazienza. Bisogna aspettare. E difendere la flotta. Ed è quel che sto facendo. Anche se il ministero della Difesa fa una politica sleale. Ma io servo il mio Paese, io difendo la gente, non i burocrati”.

Questo il ritratto di un sommergibilista russo di oggi, un uomo che se ne sta alla periferia del Paese, che resta fedele al suo giuramento e che ogni giorno tappa le falle con il suo stesso corpo. Perch‚ non gli resta altro da usare allo scopo.

Per poter svolgere le sue mansioni nelle condizioni di profondo disagio finanziario delle Forze Armate, al comandante si richiede una dedizione totale. Il capitano Dikij esce di casa alle 7.20 in punto e torna alle 22.40. Ogni giorno. Quindici ore e anche di più a bordo del suo sottomarino.

Non ha altra scelta: la Marina sta andando a pezzi sotto i suoi occhi, e quando la tecnologia non viene assistita adeguatamente tutto può succedere, compreso l’irreparabile. L’unico rito rimasto immutato è l’alzabandiera. Si celebra ogni mattina alle 8 in punto. Qualunque cosa accada: uragani, bufere di neve, incidenti, cambi al governo.

Il tragitto da casa sua al molo del Viljucinsk, Dikij lo percorre a piedi, in quaranta minuti esatti.

E non perch‚ voglia tenersi in esercizio, ma in primo luogo perch‚ non ha l’automobile (non se la può permettere) e in secondo perch‚ la Marina non gli fornisce altri mezzi di trasporto. O meglio, glieli fornirebbe anche, ma sono costretti in deposito. Come tutta la Kamchatka, anche la flotta a cui fa capo il sottomarino Viljucinsk è a corto di combustibile. Non c’è benzina. Un’assurdità per un Paese che vende petrolio a destra e a manca! E il pane? La guarnigione è perennemente in debito con il panificio locale, che tuttavia - per fortuna - non ha smesso di fornirgliene…

Riuscite a immaginarvelo? Gli addetti allo scudo spaziale di un Paese che pretende di essere definito una superpotenza vivono della carità altrui.

Personalmente, io me ne vergogno. E il presidente? Come si sente ai summit del G8?

Passi che gli ufficiali di Rybac’e vadano a piedi al lavoro ogni mattina. Strada facendo, però, le loro voci sono come un ronzio di api furiose. Il punto dolente è sempre lo stesso: quanto possono reggere ancora? In quale abisso stanno precipitando?

Le discussioni politiche si accendono di fronte a quello che vedono lungo il tragitto. Se, per esempio, prendono per il molo 5 dove è attraccato il Viljucinsk, hanno di fronte l’isola di Chlebalkin, dove si trova un cantiere navale ormai dismesso. Un paio d’anni fa, forse tre, lì stavano alla fonda per manutenzione anche quindici o sedici sottomarini contemporaneamente.

Ora l’acqua è una tavola e il cantiere non ha neanche un ‘malato’. “Tutta colpa della crisi” è stato detto agli ufficiali, che due volte al giorno - all’andata e al ritorno - osservano lo spettacolo di quelle banchine in agonia.

“Uno spettacolo tremendo” dice Dikij. “Sappiamo bene che cosa significa… Tutto si paga. Le nostre macchine “devono” essere riparate. Non possiamo aspettare la manna dal cielo. I sottomarini sono come gli anziani: hanno bisogno del medico. Devono capirlo, a Mosca. O gli incidenti saranno inevitabili”.

Lo sfacelo della flotta ha totalmente demotivato alcuni ufficiali di Rybac’e. Altri sono finiti allo sbando. Alla guarnigione si è visto di tutto negli ultimi tempi. Persino qualche suicidio e dei comportamenti sconsiderati.

“Secondo me questa situazione sta inasprendo gli ufficiali” racconta Dikij. “Per questo insisto affinch‚ siano tutti presenti all’alzabandiera delle 8. L’equipaggio deve guardare negli occhi il proprio comandante e leggervi che è tutto in ordine, che il lavoro va avanti. Nonostante tutto. A dispetto di tutto”.

“Stronzate da ufficiali! Belle parole per testoline romantiche!” obietterà qualcuno. A ragion veduta, ma non del tutto. Sono davvero belle parole, ma gli ufficiali che non hanno ancora girato le spalle a una flotta allo sbando e continuano a svolgere le proprie complicatissime mansioni, lo fanno solo perch‚ quelle belle parole sono la loro ancora di salvezza. E’ gente con ideali e princìpi saldi, e dunque restano. Non c’è altro su cui possano contare. La loro è una vita durissima, molti sono al limite, anche solo perch‚ hanno conosciuto una vita diversa che speravano di poter continuare: se avevano scelto i sottomarini era stato per una questione di prestigio, nella speranza di una carriera fulgida e di stipendi consistenti.

La vita reale è diversa da quella dei film e dei libri, e a Rybac’e sublime e ridicolo si danno il braccio.

“Senta, ma come si fa a vivere come suo marito? Una persona deve potersi riprendere la propria vita!”.

Larisa, la moglie di Dikij, è una bella donna sorridente nata a Zitomir, in Ucraina, una donna che ha sacrificato la propria vita e che vive in miseria affinch‚ il marito possa compiere il proprio dovere. Mi risponde allegra e provocatoria:

“A me, invece, questa vita piace. Almeno so sempre dov’è mio marito! Lui non può filarsela, e dunque addio gelosia!”.

Dikij sorride imbarazzato, pare uno scolaretto a cui la più bella della scuola ha appena fatto la dichiarazione. Il capitano è timido, dunque. Arrossisce. A me, invece, viene da piangere. Ho chiaro in testa che il gravoso onere di responsabilità di cui si fa carico non è compatibile non solo con il suo stile e il suo modo di vivere, ma anche con l’età e l’aspetto.

A casa, tolta l’uniforme, il capitano Aleksej Dikij è smunto e triste come i primi della classe… E

ha solo trentaquattro anni.

“Però lei ha già maturato trentadue anni di servizio! Potrebbe andarsene tranquillamente in pensione”.

“Potrei, certo…” mi risponde il capitano, e l’imbarazzo riaffiora.

“Mi spieghi, per cortesia. Non è mica entrato in Marina a due anni, come i figli dell’aristocrazia di un tempo, arruolati alla nascita e con un discreto curriculum e i gradi appena maggiorenni?”

insisto.

Il capitano sorride. E’ felice di dirmi quello che sta per dire, si vede. Il padre era stato anche lui ufficiale di Marina. Ora è in pensione, è ovvio. Dikij è cresciuto a Sebastopoli, nella base navale del Mar Nero.

“Quanto ai miei trentadue anni di servizio su trentaquattro di vita…” esordisce, subito interrotto dalla spigliatissima moglie:

“La spiegazione è semplice: ha sempre prestato servizio nel settore più difficile, i sottomarini, a stretto contatto con i reattori e gli armamenti nucleari. Dove un anno vale per tre”.

“E non crede che anche solo per questo lo Stato avrebbe dovuto coprirla d’oro da un pezzo?”

non demordo. “Non si sente insultato quando è costretto a dividere il suo rancio per tre? Come un qualunque studente?”.

“No. Non mi sento insultato” mi risponde Dikij tranquillo, convinto. “Battere gli spadini contro il selciato [simbolo di sciopero] come si faceva un tempo non ha senso, per noi sommergibilisti.

Siamo tutti sulla stessa barca, in questa città chiusa. Se sopravviviamo è perch‚ ci aiutiamo a vicenda. Prestandoci e riprestandoci denaro e cibo gli uni con gli altri”.

“Se qualcuno riceve un pacco di cibarie dai parenti, organizza subito una festicciola” mi dice Larisa. “Facciamo il giro delle case. E così riusciamo a mettere qualcosa sotto i denti. E a tirare avanti”.

“Anche i suoi le mandano qualcosa dall’Ucraina?”.

“Certamente. E allora siamo noi a sfamare gli amici”.

E ride…

Ha ragione il detto: di certa gente hanno buttato via lo stampo…

E’ curioso. Passano gli anni, il Partito comunista non c’è più da un pezzo, ma alcune peculiarità del passato restano immutate. Come la patologica mancanza di rispetto per le persone in generale e, in particolare, per chi, nonostante tutto, lavora con dedizione e sacrificio. Per chi ama la causa che serve. Il potere non ha ancora imparato a ringraziare chi gli dimostra fedeltà.

Lavori duro? Bravo, continua fino a che non crepi o fino a che non ne puoi più di sopportare. Il potere si fa di giorno in giorno più spudorato nel voler annientare i nostri migliori concittadini e nel puntare sui peggiori con la pervicacia di un maniaco.

Non c’è dubbio che il comunismo sia stato un danno tremendo per il nostro Paese. Ma quel che sta accadendo oggi è ancora peggio.

Con il capitano Dikij continuiamo a parlare dei massimi sistemi sul ponte di comando del sottomarino Viljucinsk. A Rybac’e l’accesso è severamente vietato agli estranei e ai curiosi.

Nemmeno le mogli degli ufficiali possono mettere piede sui moli. Stranamente, per me fanno un’eccezione.

Il profilo rapace e combattivo del Viljucinsk è evidente già dalla riva. A prua, bianco su nero, c’è un disegno di forte impatto: le fauci spalancate di un’orca con tanti denti quanti un’orca vera non si è mai sognata di avere (l’artista deve averla voluta rendere ancora più minacciosa).

L’orca non è un caso: in origine il sommergibile si chiamava “kasatka”, orca assassina, ed è stato ribattezzato solo di recente. Nessuno degli ufficiali ricorda perch‚, ma non se ne curano più di tanto.

Il giro sul Viljucinsk mi conferma perch‚ mi abbiano ammessa a bordo. Sto camminando lungo il cratere di un tremendo vulcano che, Dio non voglia, potrebbe essere alimentato in modo improprio… Un reattore atomico e dei missili nucleari sono una miscela esplosiva. Cosa ci può essere di più spaventoso di un sottomarino carico di armamenti atomici in condizioni di profondissima crisi economica e di sbando delle Forze Armate?

Mentre continuiamo il giro, Dikij non recede dalle sue posizioni, fino a risultare quasi pedante in materia ideologica. Quali che siano i rivolgimenti nella società civile, le Forze Armate non tollerano compromessi. Dikij rifiuta categoricamente la possibilità di non obbedire a un “ordine criminale”, una tendenza che, invece, ha preso piede nell’esercito dal 1991. Basta un cedimento, basta non eseguire una sola disposizione o un solo ordine - per quanto lo si possa ritenere sciocco o intempestivo - perch‚ tutto crolli come un domino. L’esercito infatti è una piramide, e l’effetto domino sarebbe inevitabile.

Una curiosità. Sia Dikij sia coloro che intervengono nella conversazione - tutti ufficiali in servizio attivo con le uniformi cariche di onorificenze per le lunghe missioni sui sottomarini - distinguono fra due concetti. Da una parte c’è la Patria, che loro servono, e dall’altra Mosca, con la quale sono ai ferri corti. La Russia e la sua capitale, mi dicono, sono due Paesi differenti.

Gli ufficiali parlano senza remore. A vederlo dalla Kamchatka, quello che accade nelle alte sfere delle Forze Armate è assurdo. Perch‚ il ministero della Difesa insiste a non stanziare fondi per la manutenzione della flotta sottomarina, pur sapendo che effettuarla sul posto con le risorse disponibili non è possibile ed è, anzi, rigorosamente vietato? Perch‚ depenna senza alcuna pietà sommergibili di dieci-quattordici anni che possono ancora navigare a lungo? Perch‚, infine, trasforma intenzionalmente in un colabrodo quello scudo atomico messo insieme con gli sforzi di un’intera nazione? In un momento, fra l’altro, in cui la minaccia dal mare esiste, data la presenza di un gran numero di sottomarini cinesi in acque territoriali russe…

Ad accompagnarmi nella mia perlustrazione del Viljucinsk non è solo il capitano Dikij, ma anche la persona più importante del luogo, il viceammiraglio e comandante delle Forze Armate del Nord-Est del Paese Valerij Dorogin (che di recente ha lasciato la Marina ed è stato eletto alla Duma).

Gli ufficiali parlano apertamente, senza inibizioni dovute alla presenza di un superiore. Non colgo pressioni imputabili alla gerarchia o a questioni di rango, consuete tra i militari.

Ciò si deve, in larga misura, al fatto che Dorogin è anche lui un figlio di Rybac’e. Ufficiali e comandante non hanno nulla da nascondersi. Dorogin ha prestato servizio in questa cittadella chiusa per quasi vent’anni. E per lungo tempo ha comandato un sottomarino, proprio come Dikij. Ora a Rybac’e c’è il figlio Denis, che come tutti gli altri ogni mattina deve raggiungere il molo a piedi. Che come tutti gli altri ha sotto gli occhi lo sfacelo. Che come tutti gli altri non ha mezzi di sussistenza. E aspetta paziente che qualcuno lo inviti e lo ‘sfami’.

Il raggruppamento militare del Nord-Est comprende la Kamchatka, la Cukotka e la regione di Magadan, ed è nato in seguito ai massicci tagli alle Forze Armate. Simili agglomerazioni erano già esistite prima del 1917 e negli anni Trenta, con i bolscevichi.

Ogni raggruppamento ha un elemento dominante, è inevitabile. In Kamchatka, sede dello scudo nucleare, sono i sommergibilisti, ed è per questo che a capo dell’intera formazione c’è un viceammiraglio, ai cui ordini rispondono anche la fanteria e le truppe dislocate sulla costa, l’aviazione e la contraerea. Da principio c’era stato qualche malumore e qualche mugugno, che poi, però, si erano sopiti. Il merito va soprattutto a Dorogin, che da queste parti è una leggenda.

Il viceammiraglio ha dato alla Marina trentatr‚ anni di vita. Ma ha un’anzianità di servizio di quarantotto, che deve ai ventun anni trascorsi sui sommergibili.

Fra l’altro, la leggenda di Dorogin non si basa sul suo passato militare, ma sul suo presente.

Dorogin vive a Petropavlovsk-Kamchatskij e fino a qualche tempo fa il suo stipendio era quello del responsabile di un’area militare enorme, della persona che più contava dopo i governatori delle tre regioni più vaste della Russia, vale a dire tremilaseicento rubli. Un centinaio di dollari…

Oggi, oltre alla pensione, il viceammiraglio ha in tasca un cinquemila rubli al mese. Tanto per fare un paragone, chi guida gli autobus di Petropavlovsk-Kamchatskij ne guadagna seimila…

Dorogin vive nell’appartamento che gli fornisce l’esercito, in via Morskaja. E come tutti gli altri ufficiali, neanche lui ha l’acqua calda. La sua casa è fredda, piena di spifferi, poco confortevole.

“Perch‚ non si compera un boiler?”.

“Non ho i soldi. Quando arriveranno, ce ne compreremo uno”.

Ciò che Dorogin ha di più caro è la reputazione. Fa una vita ascetica. Il suo alloggio non è vuoto, certo, ma non è neanche una casa degna di un ammiraglio. Le cose più preziose sono tutte nel suo studio. Sono le reliquie delle navi che hanno prestato servizio in Estremo Oriente e che ora sono in disarmo. La sua più grande passione è la storia della Marina Militare.

“E la casa in campagna? Ce l’ha la dacia? Gli ammiragli ce l’hanno tutti!”.

“Certo che ce l’ho” risponde Dorogin. “E vedesse che dacia! Domani ce la porto, altrimenti non mi crede…”.

L’indomani arriva, e mi trovo davanti un fazzoletto di terra alla periferia di Petropavlovsk-Kamchatskij con piante di patate e cetrioli: le verdure di cui la famiglia dell’ammiraglio si nutrirà l’inverno prossimo. In mezzo all’orto, su qualche pila di mattoni, c’è un vagone dismesso. Una vergogna, se paragonata agli standard di vita di un comandante come se li immagina la capitale.

Ma la Kamchatka non è Mosca. Qui tutto è più semplice, tutti sono più cordiali. Dei pescatori mi regalano il pesce che hanno appena pescato: salmoni. Non saprei dove cucinarli e li cedo a Galina, la moglie del viceammiraglio, ma non senza un po’ di imbarazzo, supponendo che gliene portino a tonnellate…

E invece succede l’inimmaginabile: Galina mi è talmente grata che scoppia in lacrime. Nella sua vita di stenti quei salmoni sono una grossa fortuna. Potrà prepararci la cena, potrà invitare gli amici e potrà anche mettere un po’ di pesce sotto sale. Tanto più che piove sul bagnato: alcuni salmoni nascondono un tesoro di caviale rosso!

Galina Dorogina mi racconta che, avendo vissuto sempre in Kamchatka, lei e le altre mogli di ufficiali hanno visto ben poco.

“La nostra vita è trascorsa tra addestramento, missioni, brevi incontri e lunghe separazioni” mi dice.

Ma non ha rimpianti, Galina, non rimpiange nemmeno di aver sacrificato i suoi anni migliori.

“Vede, in realtà per le mogli degli ufficiali è cambiato ben poco. Se vent’anni fa dovevo starmene tutto il giorno in fila, al freddo, affamata, con il numero scritto sul dorso della mano per non perdere il posto e riuscire a comperare una dozzina di uova, oggi è lo stesso, con la sola differenza che adesso le uova ci sono e i soldi no”.

La “forma mentis” del marito, il viceammiraglio Dorogin, è un miscuglio di comunismo e capitalismo. E non potrebbe essere altrimenti, forse, per un uomo che ha passato i cinquanta e ha trascorso quasi tutta la sua vita in Unione Sovietica, che è stato nel “komsomol” e ha avuto la tessera di partito, e che ora deve vivere in una società di mercato. Da un certo punto di vista Dorogin è un uomo di idee ormai superate, appartiene alla vecchia ideologia scomparsa insieme all’URSS. Da un altro, invece, il viceammiraglio comprende perfettamente le pulsioni democratiche e perch‚ siano tanto necessarie.

Ma qual è, tra i due, il polo ideologico della sua anima? In quale il viceammiraglio si sente a proprio agio? Difficile dirlo. Ma ci provo.

Le responsabilità di Dorogin in Kamchatka spaziano dai sommergibili alla creazione di un museo militare. Un solo esempio del suo modo di pensare.

Il raggruppamento militare del Nord-Est comprende anche la 22esima divisione motorizzata Chapaev, cosiddetta in quanto fu proprio il leggendario eroe della Guerra Civile, Vasilij Chapaev, a metterla insieme nel 1918, nella regione del Volga. Ci combatteva anche la sua donna, la bolscevica Anka, poi protagonista di centinaia di barzellette di dubbio gusto.

Dopo la seconda guerra mondiale la divisione Chapaev venne trasferita in Estremo Oriente, e oggigiorno deve la sua fama in Kamchatka al fatto che la sua prima compagnia conserva la

“branda di Lenin”, leader del proletariato mondiale. Nel 1922, infatti, Lenin era stato nominato soldato onorario della divisione Chapaev, e come tale gli spettava una branda. Dal 1922, dovunque venisse dislocata la divisione, la branda di Lenin viaggiava insieme al resto dell’equipaggiamento. Ancora oggi ha il suo posto d’onore in caserma. Il letto è sempre fatto e ha accanto un angolo dedicato a Lenin con disegni sul tema “Volodja [diminutivo di Vladimir] era un bravo studente”. Gli oggetti sono tutti schedati e registrati in un modulo conservato in un luogo segreto.

Il comandante della prima compagnia - Igor’ Shapoval, ventisei anni - è convinto che la branda tenga in riga i soldati.

“Scherza?”.

“No no. Vedono il letto rifatto alla perfezione e non vogliono essere da meno”.

Mi verrebbe da ridere, ma poi mi rendo conto che il viceammiraglio Dorogin la pensa come il capitano Shapoval.

“La meraviglia delle reclute diventa presto rispetto” mi dice Dorogin. “Quando a Mosca ha vinto la democrazia, hanno tentato di sbarazzarsi anche della branda. Ma alla fine l’abbiamo spuntata noi. Non come il monumento a Dzerzinskij, sulla Lubjanka”.

Dorogin è convinto che nulla debba essere modificato dal di fuori. La storia è quella che è, e buttar giù il monumento a chi ha creato la polizia segreta non è stata una scelta intelligente, secondo lui. E’ anche persuaso che, in quanto destinata alla divisione Chapaev da un’ordinanza speciale del Consiglio dei commissari del Popolo, la branda di Lenin potrebbe finire in una discarica solo a seguito di una delibera del governo sottoscritta dal primo ministro.

Chiedo a tutti quale esempio dovrebbero essere chiamati a seguire i soldati in Kamchatka. Mi risponde il tenente colonnello Valerij Olejnikov, attuale comandante della divisione Chapaev.

“L’esempio di chi ha combattuto in Cecenia e in Afghanistan”.

In precedenza al comando della prima compagnia, la ‘leninista’, c’era proprio un ‘ceceno’, l’allora tenente Jurij Bubnev che per aver combattuto a Groznyj ha ricevuto la medaglia di Eroe della Russia.

Continuiamo a parlare di esempi da seguire. Mi permetto di dubitare che la Cecenia sia un esempio valido per educare i soldati… Dorogin si taglia fuori dalla discussione come è bene che faccia in quanto alto ufficiale: lui è chiamato a servire il Paese e, per principio, le sue opinioni politiche non dovrebbero interessare a nessuno. Quindi non si pronuncia. Parla volentieri del futuro, invece: l’ideologia è una cosa, i tagli all’esercito un’altra. Agli ufficiali sembra di stare seduti su una polveriera.

“Siamo consapevoli che in qualunque momento lo Stato potrebbe sbarazzarsi di chi lo ha sempre servito fedelmente” ritiene Aleksandr Shevcenko, capo di Stato Maggiore della divisione. Gli altri ufficiali la pensano come lui, e anche Dorogin. Nessuno dei probabili smobilitati ha qualifiche civili corrispondenti al rango attuale, n‚ - ovviamente - avrebbe dove vivere. Lasciare l’esercito significherebbe lasciare l’alloggio fornito dallo Stato. Igor’ Shapoval è un ingegnere esperto in manutenzione di cingolati. Shevcenko è un esperto di lavorazione a freddo dei metalli. Se lasceranno l’esercito finiranno ad aggiustare trattori e a fare duplicati di chiavi. Shevcenko ha già dei trascorsi nell’imprenditoria privata: per due dei tre anni passati all’Accademia, a Mosca, ha arrotondato le entrate come guardiano al deposito di un fiorista, alternandosi ogni quattro giorni con i suoi compagni di corso.

A Mosca - dicono in Kamchatka -, al ministero della Difesa, non capiscono che un ufficiale dovrebbe dedicarsi esclusivamente alle sue mansioni di militare e non perdere tempo in secondi e terzi lavori.

“In queste condizioni cedere all’illegalità è fin troppo facile” dice il viceammiraglio. “Anche a me hanno offerto una busta con duemila dollari dentro. Era un tipo mandato da un amico. ‘So che ti servono soldi per curare tua moglie’ mi disse, cercando di ammantare il tutto di un alone di rispettabilità. Era vero, fra l’altro. Voleva che firmassi un contratto per vendergli ottone di scarto a quattrocentocinquanta dollari a tonnellata invece che settecento. La mia firma sarebbe stata l’ultima di una lunga serie apposta dagli alti gradi dell’esercito. Avrei potuto limitarmi a cacciarlo, quel tale, e invece ho fatto intervenire il procuratore. Pensando di poter essere d’esempio a qualcun altro, che avrebbe smesso di accettare mazzette”.

Per molti versi Dorogin è la bontà fatta persona. Come molti altri ufficiali, non serve il proprio Paese per soldi, ma per senso del dovere. Sono rimasti solo quelli come lui, quaggiù, alla fine del mondo, solo quelli di sani princìpi. Tutti gli altri, il nostro Paese li ha persi per strada, la strana strada che sta percorrendo.

Nessuno può sapere quanto durerà la pazienza di gente come Dikij e Dorogin. Non lo sanno nemmeno loro. Oggi la flotta si regge su due generazioni di ufficiali: la vecchia e quella di mezzo. Mancano i giovani. Non ci arrivano, quaggiù, e se ci arrivano non si rassegnano all’idea di doversi sacrificare per un lavoro che non dà nulla in cambio. Dunque quali ufficiali avrà la flotta tra qualche anno?

“Il patriottismo?” sorride cinico un giovane capitano di seconda classe di Rybac’e, ufficiale sul sottomarino Omsk. “Anche il patriottismo va pagato. E’ ora di smetterla di fare i poveracci. E’

ora di alzare la testa e di finirla di annaspare come fa Dikij. E’ un comandante, lui, e invece porta scarpe da ginnastica da poco prezzo e beve cognac da due soldi. Quel che sta succedendo nella flotta è illegale, e allora occhio per occhio!”.

“Che cosa intende?”.

Il giovane ufficiale intende uno stile di vita in cui il fine giustifica i mezzi. Dice che i suoi coetanei commerciano tutti sottobanco: vendono qualunque cosa, dipende solo dalle conoscenze.

“A me, per esempio,” mi dice con una punta di orgoglio “pesce e caviale me li portano direttamente a casa, ormai. Mentre un paio d’anni fa li barattavo con l’alcol che rubavo sulla nave, cosa per cui non godevo di grande stima…”.

“Per i giovani ufficiali il tenore di vita sta diventando la ragione principale per cui sono in servizio” dice, affranto, il viceammiraglio Dorogin. Convinto che, per un militare, quell’“occhio per occhio” sia deleterio quanto discutere un ordine dall’alto.

PARTE TERZA.

VECCHIE SIGNORE E “NUOVI RUSSI”.

Due vecchie signore - Marija Vasil’evna Savina, ex mungitrice modello, e Zinaida Vasil’evna Fenoshina, in passato altrettanto valida addetta ai vitelli - se ne stanno in mezzo al bosco brandendo rabbiose dei bastoni contro un bulldozer ringhioso, e gridano a squarciagola:

“Via di qui! Via! Quanto durerà ancora, questa storia?”.

Da dietro gli alberi secolari spuntano delle guardie accigliate, che le circondano come a dire:

“Vedete di andarvene con le buone, che se ci gira cominciamo a sparare”… Nikolaj Abramov, veterinario in pensione, ora a capo del villaggio e di quella protesta, allarga le braccia:

“Vogliono cacciarci dalla nostra terra… Ma noi la difenderemo fino alla morte, non ci resta altro…”.

Il campo di battaglia è la periferia del villaggio di Pervomajskoe, distretto di Naro-Fominsk, provincia di Mosca. L’epicentro della vicenda è il comprensorio demaniale dell’ex tenuta Berg, la famiglia di proprietari fondiari che fin dal 1904 possedeva questi terreni, poi diventati parco culturale e riserva naturale protetta.

Calmatisi, i vecchi scuotono la testa:

“Alla nostra età siamo diventati tutti ‘verdi’. Che altro ci resta? Ci siamo solo noi a difendere il parco da questa lordura! Noi e basta”.

La “lordura” sono i “nuovi russi” che hanno assoldato dei barbari senza cuore per tirar su trentaquattro villette nel bel mezzo del centenario parco Berg. Marija e Zinaida fanno parte di un gruppo di ecologisti nato dall’assemblea cittadina di Pervomajskoe per opporsi strenuamente a chi vorrebbe distruggere il loro ecosistema.

Camion e trattori continuano a ringhiare tra quel tesoro di alberi secolari, degnando di scarsa considerazione gli ecologisti. Un’ora dopo hanno già aperto un varco tra le piante. Lì passerà il

“corso” del futuro centro residenziale. Ci sono tubi, attrezzi e lastre di cemento ovunque. Il lavoro ferve, e con il massimo sprezzo per la natura circostante. Centotrenta metri cubi di legno pregiato sono già stati falciati. Ovunque si volga lo sguardo ci sono cedri e abeti marcati per essere abbattuti. Le macchine deturpano l’ambiente senza ritegno, rivoltano il terreno e seppelliscono metri e metri sotto terra l’ecosistema di un sottobosco formatosi nel corso dei decenni.

“Ha mai sentito parlare del pino di Weymouth?” mi chiede Tat’jana Dudenus, a capo degli ecologisti e ricercatrice in un istituto medico locale. “Nel nostro parco ce n’erano cinque esemplari, gli unici nella zona di Mosca. La famiglia Berg aveva una passione per gli alberi rari.

Tre ne hanno già abbattuti, e sa perch‚? Perch‚ dovevano farci passare una strada. Anche altre specie pregiate sono in pericolo: l’abete rosso della Siberia (picea), il larice, il pioppo bianco (gattice), l’unico esemplare di “thuja occidentalis” della zona di Mosca… In tre giorni abbiamo già perso sessanta alberi. Se almeno distruggessero le piante malate, o le meno belle… Ma il principio che seguono è diverso: se hanno deciso che la strada deve passare per di lì, di lì passerà. E addio alberi. Là devono costruirci una villetta? Ecco pronto un bello spiazzo. Senza pensare a quanto siano rari gli alberi che buttano giù. Le piante che crescono nel parco sono tutte di categoria uno. La legge vieta di toccarle. Per poterle abbattere bisogna dimostrare che si tratta di una ‘circostanza eccezionale’ e avere la convalida di una perizia dell’Ispettorato per l’ambiente. Serve un apposito permesso federale per ogni singolo ettaro”.

Nulla di tutto questo è stato fatto mentre si decidevano le sorti del parco Berg. Per contrastare l’impudenza dei nuovi ricchi i Verdi locali hanno sporto denuncia al tribunale di Naro-Fominsk, tentando di ottenere da Elena Golubeva, il giudice assegnato al caso, un’ingiunzione che interrompesse immediatamente i lavori in attesa del processo. Una volta che gli alberi fossero stati abbattuti, che senso avrebbe avuto una sentenza a loro favorevole?

Come abbiamo già visto, però, questa è l’epoca degli oligarchi. L’unico fruscio che il potere intende non è quello delle fronde, ma delle mazzette di banconote. Il giudice Golubeva non ha interrotto i lavori a Pervomajskoe e, anzi, ha evitato deliberatamente di tenere le udienze…

E gli alberi sono stati abbattuti…

Tra le guardie sbuca Valerij Kulakovskij. E’ il vicedirettore dell’impresa edile Promzilstroj, che si definisce “cooperativa di costruttori edili”. Kulakovskij mi consiglia di tenermi fuori da quella storia, in quanto tocca gli interessi di molta gente influente della capitale che andrà a vivere in quelle villette. Un’affermazione che spiega come la “cooperativa” sia riuscita ad acquistare il parco Berg, che secondo la legge è “patrimonio nazionale”. Un’illegalità palese.

Alle parole infuocate degli ecologisti Kulakovskij risponde allargando le braccia, cercando di spiegare la propria posizione:

“Queste continue dimostrazioni ci hanno stancato. Che cosa dovrei fare? Ci ho già investito un sacco di soldi, qui; ho comperato il terreno, sto già costruendo… Chi me li ridà, i miei soldi?”.

Neanche lui ha intenzione di cedere.

E non ha ceduto. Il parco Berg non esiste più. Ha vinto chi ha avuto la legge dalla sua. Il pugno e la forza bruta sono il fondamento del sistema giudiziario russo odierno. Con gli oligarchi a fare da puntello. Gli altri sono solo polvere sotto i calzari… O sotto i cingoli dei bulldozer… Le nostre foreste migliori vengono abbattute per soddisfare gli interessi degli oligarchi e dei loro accoliti.

Interessi per i quali si promulgano decreti, si viola la legge e si assoldano i migliori avvocati del Paese.

Poco prima che le vecchiette ‘verdi’ di Pervomajskoe tentassero una strenua difesa del loro parco, la Corte Suprema russa aveva esaminato la questione su scala nazionale. Il caso è assurto agli onori della cronaca come la “vertenza foreste”.

“Bisogna tenere conto degli interessi dei proprietari. La terra è la loro, le case sono già state edificate, e voi vorreste che vi restituissero tutto quanto…” sostenne in aula l’avvocato, facendo eco alle parole di Kulakovskij.

Le posizioni degli avvocati ecologisti Ol’ga Alekseeva e Vera Mishcenko, che difendevano gli interessi della società civile contro i capricci dei “nuovi ricchi”, erano diametralmente opposte:

“Ogni singolo cittadino del nostro Paese ha diritto alla vita e a godersi il patrimonio nazionale. E

la proprietà privata del singolo non è commensurabile a questo principio! La Russia è di tutti i suoi cittadini, e dobbiamo fare in modo che le generazioni a venire abbiano almeno tanto quanto le attuali, in termini di patrimonio nazionale. Inoltre, come si possono avanzare diritti per una proprietà acquisita illegalmente?”.

Il nocciolo della “vertenza foreste” è il seguente: gli ecologisti russi che con l’Istituto di Ecologia legale Eco-Juris di Mosca hanno promosso la causa, chiedevano che venissero revocate ventidue delibere del Consiglio dei ministri che tramutavano foreste di categoria uno in terreni deforestati, autorizzando l’abbattimento di trentaquattromila ettari di alberi di pregio.

Le foreste russe sono divise in tre categorie. Alla prima fanno capo boschi di grande rilevanza per il genere umano e per la natura: alberi pregiati, aree che costituiscono l’habitat di uccelli e animali rari, riserve, parchi e “spazi verdi” urbani e suburbani. Secondo il Codice forestale della Repubblica Russa, il primo gruppo (e dunque il parco Berg) rientra nel patrimonio nazionale.

Per quanto strano, il primo a richiedere il cambiamento di categoria (e il conseguente diritto di abbattimento) è stato il Rosleschoz, il Servizio forestale della Federazione Russa. Che è l’organismo preposto a sottoporre al primo ministro i documenti relativi al cambio di categoria delle foreste. Nelle ventidue delibere che gli ecologisti contestano manca la perizia ecologica richiesta per legge, di conseguenza il patrimonio nazionale è stato sacrificato a interessi estemporanei: dove c’erano le foreste sono sorte stazioni di servizio, garage, centri industriali e commerciali, discariche e, va da s‚, residenze varie.

Queste ultime, fra l’altro, sono il male minore, a detta degli ecologisti. Basta che chi ci abita si prenda cura degli alberi che circondano le case e non li svella per poterci far passare le fogne.

Mentre la “vertenza foreste” veniva esaminata e i giudici si prendevano tutto il tempo per decidere, altri novecentocinquanta ettari di boschi pregiati vennero condannati a morte da disposizioni analoghe del capo del governo. Le perdite maggiori sono toccate alle regioni autonome di Chanti-Mansijskij e Jamalo-Neneckij, dove gli alberi sono stati sacrificati a esclusivo vantaggio delle compagnie petrolifere. Ma anche Mosca ha subito delle perdite. Quanto accaduto al parco Berg è il frutto dei tempi lunghi - deliberatamente lunghi - della giustizia.

Mentre le mezzemaniche ‘scrivevano’ e nessuno si assumeva l’onere di mettere la parola fine alla questione, la battaglia delle foreste si faceva via via più accesa. A Pervomajskoe, per esempio, si arrivò allo scontro fisico. Quando, su precisa richiesta della procura, gli ecologisti andarono a filmare le conseguenze della barbarie di chi edificava, intervenne la polizia in forze.