LA RUSSIA DI PUTIN.
Adelphi, Milano 2005.
Traduzione di Claudia Zonghetti.
Originally published in English by The Harvill Press under the title “Putin’s Russia”.
Copyright ¸ 2004 Anna Politkovskaja.
Da qualche tempo l’Occidente cerca di tranquillizzarsi sulla Russia presentando Vladimir Putin come un bravo ragazzo volenteroso. Ma ora questo libro di Anna Politkovskaja, giornalista moscovita nota per i suoi coraggiosi reportage sulle violazioni dei diritti umani in Russia, ci svela, in pagine ben documentate e drammatiche, tale autoinganno. Ed è un libro destinato a restare memorabile per la maestria e l’audacia con cui l’autrice racconta le storie (pubbliche e private) della Russia di oggi, soffocata da un regime che, dietro la facciata di una democrazia in fieri, si rivela ancora avvelenato di sovietismo.
Ma non si pensi a una fredda analisi politica: “Il mio è un libro di appunti appassionati a margine della vita come la si vive oggi in Russia” scrive la Politkovskaja. E tanto meno si pensi a una biografia del presidente: Putin resta infatti sullo sfondo, anzi dietro le quinte, per essere chiamato sul proscenio soltanto nel tagliente capitolo finale, dove viene ritratto come un modesto ex ufficiale del K.G.B. divorato da ambizioni imperiali. In primo piano ci incalzano invece squarci di vita quotidiana, grottesca quando non tragica: la guerra in Cecenia con i suoi cadaveri “dimenticati”; le degenerazioni in atto nell’ex Armata Rossa; il crack economico che nel
‘98 ha travolto la neonata media borghesia, supporto per un’autentica evoluzione democratica del Paese; la nuova mafia di Stato, radicata in un sistema di corruzione senza precedenti; l’eccidio a opera delle forze speciali nel teatro Dubrovka di Mosca; la strage dei bambini a Beslan, in Ossezia.
“Il mio è un libro di appunti appassionati a margine della vita come la si vive oggi in Russia.
Perch‚ per il momento non riesco a fare un passo indietro e a sezionare quanto raccolto, come è bene che sia se si vuole analizzare un fenomeno. Io vivo la vita, e scrivo di ciò che vedo”.
Anna Politkovskaja, corrispondente speciale del giornale moscovita “Novaja gazeta”, nel 2000 ha vinto il Golden Pen Award dell’Associazione dei giornalisti russi per le sue cronache dal fronte del conflitto ceceno, a cui ha dedicato anche un libro uscito nel 2003: “Cecenia. Il disonore russo”.
Nell’ottobre del 2002 ha coraggiosamente accettato di negoziare per la liberazione degli ostaggi prigionieri nel teatro Dubrovka di Mosca. Nel 2003 le è stato conferito in Danimarca l’OSCE Prize per il giornalismo e la democrazia. “La Russia di Putin” è apparso in Inghilterra nel 2004, ma la presente traduzione è stata condotta sull’inedito e più ampio originale russo.
INDICE.
DI CHE COSA PARLA QUESTO LIBRO?
L’ESERCITO DEL MIO PAESE. E LE SUE MADRI.
Storia prima. Il settimo ovvero U-729343.
Dimenticato sul campo di battaglia.
Storia seconda. I cinquantaquattro soldati ovvero Si emigra verso casa.
Qualche altra storia.
IL NOSTRO NUOVO MEDIOEVO OVVERO CRIMINALI DI GUERRA DI TUTTE LE RUSSIE.
Parte prima. Stalin sarà sempre con noi.
- Dossier.
- La preistoria del processo.
- Vladikavkaz.
- Il processo.
Parte seconda. Il precedente del colonnello Budanov.
- Il caso.
- Il processo.
- Giocando con le perizie psichiatriche.
Una breve parentesi.
E gli altri?
TANJA, MISHA, LENA, RINAT… CHE COSA CI E’ SUCCESSO?
Tanja.
Misha e Lena.
Rinat.
STORIE DI PROVINCIA OVVERO APPROPRIAZIONE INDEBITA CON LA CONNIVENZA DELLO
STATO.
Fedulev.
Come è cominciata.
I tutori dell’ordine.
Le guerre della vodka.
Senza vergogna.
La ridistribuzione.
Kachkanar.
Il sistema giudiziario degli Urali è il più corrotto del mondo.
Il migliore.
I cattivi.
I superbuoni.
Un particolare importante della procedura penale russa odierna.
ALTRE STORIE DI PROVINCIA.
Parte prima. Il vecchio di Irkutsk.
Parte seconda. La Kamchatka e la lotta per la sopravvivenza.
- Il capitano Dikij.
Parte terza. Vecchie signore e “nuovi russi”.
“NORD-OST”. STORIA DI UN MASSACRO.
Storia prima. Il quinto.
Storia seconda. N. 2551 - Non identificato.
Storia terza. Sirazdi, Jacha e i loro amici.
KAKIJ AKAKIEVIC PUTIN SECONDO.
POST SCRIPTUM.
DOPO BESLAN.
Glossario a cura di Claudia Zonghetti.
Note.
øøø
LA RUSSIA DI PUTIN.
DI CHE COSA PARLA QUESTO LIBRO?
Questo libro parla di un argomento che non è molto in voga in Occidente: parla di Putin senza toni ammirati.
A scanso di equivoci, spiego subito perch‚ tale ammirazione (di stampo prettamente occidentale e quanto mai relativa in Russia, dato che è sulla nostra pelle che si sta giocando la partita) faccia qui difetto. Il motivo è semplice: diventato presidente, Putin - figlio del più nefasto tra i servizi segreti del Paese - non ha saputo estirpare il tenente colonnello del K.G.B. che vive in lui, e pertanto insiste nel voler raddrizzare i propri connazionali amanti della libertà. E la soffoca, ogni forma di libertà, come ha sempre fatto nel corso della sua precedente professione.
Questo libro spiega inoltre come noi, che in Russia ci viviamo, non vogliamo che ciò accada. Non vogliamo più essere schiavi, anche se è quanto più aggrada all’Europa e all’America di oggi. N‚
vogliamo essere granelli di sabbia, polvere sui calzari altolocati - ma pur sempre calzari di tenente colonnello - di Vladimir Putin. Vogliamo essere liberi. Lo pretendiamo. Perch‚ amiamo la libertà tanto quanto voi.
Questo libro, però, non è un’analisi della politica di Putin dal 2000 al 2004. Le analisi politiche le fanno i politologi. Io sono un essere umano tra i tanti, un volto nella folla di Mosca, della Cecenia, di San Pietroburgo o di qualunque altra città della Russia. Ragion per cui il mio è un libro di appunti appassionati a margine della vita come la si vive oggi in Russia. Perch‚ per il momento non riesco a fare un passo indietro e a sezionare quanto raccolto, come è bene che sia se si vuole analizzare un fenomeno. Io vivo la vita, e scrivo di ciò che vedo.
L’ESERCITO DEL MIO PAESE. E LE SUE MADRI.
L’esercito da noi è un luogo chiuso. Chiuso come una prigione. Anzi no, è una prigione, solo che la chiamano diversamente. Nell’esercito, come in prigione, nessuno mette piede se le autorità (militari o carcerarie) non vogliono. Di conseguenza la vita nell’esercito è una vita da schiavi.
Vero è che non siamo i soli: qualunque esercito mira alla clausura, alla segretezza, ed è forse per questo che si è autorizzati a parlare dei generali come di un’unica casta internazionale con comportamenti analoghi in ogni angolo del pianeta a prescindere dal capo di Stato che ogni singolo generale serve.
Tuttavia, l’esercito russo ha delle peculiarità tutte sue, o meglio ad averle è il rapporto fra l’esercito e la popolazione civile. In Russia, cioè, manca il bench‚ minimo controllo della società civile sull’operato dei militari. I soldati semplici - lo scalino più basso della gerarchia - non sono nessuno. Al di là dei muri di cemento di una caserma, un ufficiale può fare a un soldato quello che vuole, quello che gli passa per la testa in un determinato momento. Analogamente, quello stesso ufficiale può trattare come più gli piace un collega di grado inferiore.
“E’ davvero questa, la situazione?” immagino che vi starete chiedendo. E ancora: “Ma no, non può essere davvero così…”.
Non è sempre così, no. Ma eventuali eccezioni si devono solo a singoli individui che danno prova di una pur vaga umanità e la dimostrano richiamando all’ordine i propri sottoposti. Solo in questo modo, in forma di singole eccezioni e non di una regola sociale, si può scorgere un barlume di luce in fondo al tunnel. Il sistema in s‚ è chiuso, ed è un sistema schiavista.
“Ma chi è al governo che fa?” mi chiederete. Il presidente non è anche, “ex officio”, il comandante supremo dell’esercito? E’ o non è responsabile in prima persona di quanto vi accade?
Per nostra sfortuna, quando si insediano al Cremlino i nostri leader (o presidenti che dir si vogliano) nulla fanno per mettere la parola fine a questo stato di cose, n‚ per promulgare leggi che limitino l’anarchia dell’esercito. Sono più propensi al contrario, e cioè a concedere all’esercito poteri ancora maggiori sui sottoposti. Perch‚ l’esercito osteggia o sostiene un capo di Stato a seconda della compiacenza che egli mostra nei suoi riguardi. Gli unici tentativi di dare un volto umano alle nostre Forze Armate furono fatti all’epoca di El’cin, nell’ambito di un programma che mirava a promuovere le libertà democratiche. Ma non durò: in Russia il potere in s‚ è cosa assai più preziosa delle vite dei soldati. Dunque anche El’cin dovette alzare bandiera bianca, cedendo alle pressioni di un indignato Stato Maggiore.
Putin non ci ha mai provato. Dirò di più: per definizione un presidente che sia un ex ufficiale è destinato a non provarci mai. Quando si delineò all’orizzonte politico russo in veste di probabile capo di Stato più che di impopolare direttore dell’universalmente inviso ex K.G.B. (ora F.S.B.), Putin esordì affermando che l’esercito screditato da El’cin (e intendeva con ciò gli esangui tentativi di porre un freno all’anarchia interna) sarebbe rinato a nuova vita. Quel che ci voleva per una rinascita completa e definitiva era una guerra, la seconda guerra cecena… La cronaca successiva degli eventi nel Caucaso Settentrionale è la conseguenza di questa premessa. Da quando è scoppiata la seconda guerra cecena, l’esercito ha avuto carta bianca, e il risultato più evidente è che alle elezioni presidenziali del 2000 ha votato all’unanimità per Putin.
N‚ c’è alcun dubbio che così abbia fatto anche nel 2004.
La guerra in atto è assai utile e redditizia per l’esercito, fonte di promozioni lampo e di un gran numero di medaglie, fucina di carriere fulminee per i giovani generali ‘combattenti’ che gettano le basi per future scalate politiche e finiscono catapultati nell’‚lite di Stato. Putin, intanto, martella il Paese con i suoi slogan: la rinascita dell’esercito è un dato di fatto e lui solo, Putin, ne è l’artefice perch‚ ha rimesso in piedi un esercito umiliato (da El’cin) e offeso (nella prima guerra cecena).
Le storie che seguono mostreranno di quale ‘sostegno’ si sia trattato. A voi trarre le conclusioni, magari cercando di mettervi nei nostri panni. Vorreste vivere in un Paese in cui le tasse che pagate vanno a foraggiare una simile istituzione? Come vi sentireste con un figlio diciottenne precettato quale “materiale umano”, come lo si definisce qui da noi? Che ne dite di un esercito da cui i soldati disertano in massa ogni settimana (e solo per avere salva la vita), talvolta in intere squadre o compagnie? Che cosa pensereste di Forze Armate che in un solo anno, il 2002, hanno perso più di cinquecento uomini - un intero battaglione - non in guerra, ma per le percosse subite? Un esercito in cui gli ufficiali rubano di tutto: ai soldati i dieci rubli mandati dai genitori, e allo Stato intere colonne di carri armati? In cui gli ufficiali odiano e picchiano a loro discrezione i sottufficiali? In cui questi ultimi sfogano sui soldati semplici l’odio che provano per i superiori? In cui ufficiali e sottufficiali sono accomunati dall’odio per le madri dei soldati, colpevoli di protestare occasionalmente - vivono nel terrore e lo fanno solo quando le circostanze di una morte sono troppo scandalose - e di chiedere giustizia?…
STORIA PRIMA.
IL SETTIMO OVVERO U-729343. DIMENTICATO SUL CAMPO DI BATTAGLIA.
18 novembre 2002. Nina Ivanovna Levurda, insegnante di lingua e letteratura russa in pensione dopo venticinque anni di servizio nella scuola, è una donna pesante, stanca e non più giovane, con tutta una serie di malanni. Aspetta da ore, come ha già fatto diverse volte nell’ultimo anno, nella sgradevole, sgradevolissima sala d’attesa del tribunale inter-municipale della Krasnaja Presnja, a Mosca.
Non sa più che fare. E’ una madre senza un figlio. Peggio: è una madre che non sa la verità su suo figlio. Il tenente Pavel Levurda - anno di nascita 1975, o meglio numero di matricola U-729343 - è morto in Cecenia quasi due anni fa, all’inizio della seconda guerra. Di quella guerra che, a detta di Putin, ha segnato la rinascita dell’esercito. Quale sia stata questa rinascita lo constateremo dal racconto degli ultimi mesi di vita della matricola U-729343. Dove non è tanto la morte - le madri russe hanno fatto il callo a molte cose, persino alla morte dei figli -, ma le circostanze della stessa e quanto ne è seguito a indurre Nina a fare il giro dei tribunali negli ultimi undici mesi. Il suo scopo è uno solo: strappare allo Stato una risposta giuridica precisa sul perch‚ suo figlio sia stato abbandonato sul campo di battaglia. E chiedere ragione del modo ignominioso in cui lei - madre di un soldato caduto - è stata trattata da un ministero della Difesa che non ha rispetto per le persone.
… Pavel Levurda voleva fare il soldato. Sognava sin da piccolo di fare carriera nell’esercito. E
non si può dire che sia un fenomeno consueto, oggigiorno. Piuttosto il contrario: sono i ragazzi più poveri e senza una famiglia in grado di garantire loro un’istruzione superiore che aspirano a entrare nelle Accademie militari, ma solo per prendersi un titolo di studio e congedarsi con un mestiere in tasca. Più che il rinnovato prestigio dell’Arma è l’indigenza estrema di chi vuole comunque istruirsi a spiegare l’inesauribile teoria di resoconti autocompiaciuti che esce dall’ufficio del presidente e ha per oggetto l’aumento delle domande di ammissione agli istituti militari (pura verità, del resto). D’altro canto, però, così si spiega un dato che il potere tiene invece gelosamente nascosto, e cioè la disastrosa carenza di sottufficiali nel nostro esercito. Una volta diplomati, i sottufficiali non si presentano al presidio di competenza per ricevere la destinazione assegnata: strada facendo accusano una qualche “grave malattia” o un’improvvisa invalidità comprovata da fior di certificati. Non son cose difficili a farsi, in un Paese corrotto come la Russia.
Pavel era diverso. Lui voleva diventare ufficiale. Sapendo a che tipo di vita - durissima - sarebbe andato incontro, i genitori avevano cercato di dissuaderlo. P‰tr Levurda, il padre di Pavel, era stato ufficiale anche lui, e la famiglia aveva passato la vita tra sperdute caserme e poligoni di campagna.
Come se non bastasse, erano i primi anni Novanta e, crollato l’impero, nel Paese stava crollando anche tutto il resto. Finita la scuola, solo un pazzo avrebbe scelto di frequentare un’Accademia militare che non aveva nemmeno di che sfamare i propri allievi.
Pavel restò fermo nella sua decisione. E partì per la Scuola ufficiali dell’Estremo Oriente. Si diplomò nel 1996 e fu destinato vicino a Pietroburgo. Poi, nel 1998, dalla padella finì nella brace: lo assegnarono al cinquantottesimo corpo d’armata.
Il 58 ha una pessima fama. Per molti aspetti è il simbolo dello sfacelo delle Forze Armate russe.
Va da s‚ che tutto era cominciato prima di Putin, ma il presidente ha enormi responsabilità, in primo luogo per aver tollerato la più completa anarchia degli ufficiali, e in secondo per avere - di fatto -concesso loro lo status di ‘intoccabili’: quale che sia il crimine commesso, gli alti gradi dell’esercito restano impuniti.
Il 58 di Levurda, per di più, era il battaglione del generale Vladimir Shamanov, Eroe della Russia che aveva combattuto in entrambe le guerre cecene distinguendosi per l’estrema ferocia ai danni della popolazione civile. Oggi il generale Shamanov è in pensione, si è congedato ed è stato eletto governatore della regione di Ul’janovsk proprio grazie alla seconda guerra cecena, durante la quale compariva continuamente in televisione per spiegare al Paese che i ceceni erano “tutti criminali” e che come tali andavano annientati; godendo, in ciò, del pieno appoggio di Putin.
I distaccamenti del 58 - che ha il suo Quartier Generale a Vladikavkaz, capitale dell’Ossezia-Alanija Settentrionale, al confine con Cecenia e Inguscezia - hanno combattuto nella prima guerra cecena e stanno combattendo attualmente anche nella seconda. Degni eredi del loro generale, gli ufficiali del 58 godono fama di violenti nei confronti sia della popolazione cecena sia dei propri soldati e sottufficiali. L’archivio del Comitato delle madri dei soldati di Rostov sul Don (città in cui ha sede il Quartier Generale del distretto del Caucaso Settentrionale, di cui il 58 fa parte) contiene per buona parte pratiche relative a soldati semplici del 58 che hanno disertato per le percosse subite dai superiori. Come se non bastasse, il battaglione è famoso anche per
‘furti’ clamorosi (di munizioni dai suoi stessi depositi) e per tradimento su larga scala (si legga: vendita ai comandanti della resistenza cecena di armi rubate all’esercito).
Conosco personalmente molti giovani ufficiali che hanno fatto carte false per non finire nel 58.
Levurda, invece, decise diversamente. Rimase dov’era, scrivendo a casa lettere durissime. A ogni licenza, poi, i genitori lo vedevano più cupo… Ma se lo supplicavano di congedarsi, lui si limitava a rispondere che qualcuno doveva pur farle, quelle cose. Oggi possiamo sostenere a ragion veduta che Pavel Levurda era un giovane russo con un forte senso del dovere di fronte alla Patria e con una propria idea di patriottismo. Era lui la nostra speranza per una rinascita vera - e non “à la” Putin -delle migliori tradizioni militari, dell’onore e della dignità degli ufficiali.
Nel 2000 Pavel Levurda ebbe un’altra opportunità per rifiutarsi di andare a combattere in Caucaso. Pochi l’avrebbero giudicato male se l’avesse colta. Nonostante la propaganda di Stato, infatti, nel 2000 molti giovani ufficiali cercarono di scampare alla guerra. Di nuovo si procurarono ogni sorta di certificati e ‘scovarono’ nel proprio organismo i segni di un’insospettata invalidità. Oppure sposarono donne con già due figli a carico, un’ottima garanzia per evitare una destinazione fatale.
Pavel, invece… Come spiegò ai genitori, Pavel Levurda non se la sentì di abbandonare i propri soldati, non se la sentì di brigare, ingannare e fare il furbo per salvarsi la pelle, e restò dov’era.
Pavel, dunque, non giocò la sua carta per la sopravvivenza, e il 13 gennaio del 2000 partì per la guerra. Da Brjansk (dove, in licenza, era andato a trovare i suoi genitori) finì dapprima nei dintorni di Mosca, al 15esimo reggimento di fanteria motorizzata della seconda divisione Taman (unità n. 73881). Poi proseguì oltre. Nina Levurda sentì per l’ultima volta la voce del figlio il 15
gennaio, al telefono; l’aveva chiamata per dirle che aveva firmato l’ingaggio in Cecenia e…
Non c’era bisogno di specificare che cosa significasse quel sinistro “e”…
“Piansi, cercai in ogni modo di convincerlo a restare…” racconta Nina Levurda. “Ma Pavel mi disse che aveva deciso e che non sarebbe tornato sui suoi passi. Chiesi a mia nipote, che vive a Mosca, di andare subito da lui alla divisione Taman, per cercare di dissuaderlo… Ma ci arrivò che Pavel era partito da qualche ora: era già sull’aereo per Mozdok”. Mozdok è una piccola città dell’Ossezia del Nord, al confine con la Cecenia. All’inizio della guerra vi era di stanza la principale base militare del Comando interforze unificato per le “operazioni antiterrorismo”.
E così, il 18 gennaio del 2000 il numero di matricola U-729343 viene caricato su un aereo insieme ad altri numeri consimili e si ritrova in Cecenia.
“Sono alla periferia sud-ovest di Groznyj” scrive Pavel in una lettera ai genitori. L’unica sua lettera dal fronte di guerra, datata 24 gennaio 2000. “La città è stretta d’assedio su ogni lato, e dentro si combatte strenuamente […]. Gli spari non si fermano neanche per un attimo. La città è costantemente in fiamme, il cielo sempre nero, ci sono mine che ti cadono a due passi e missili che ti sibilano accanto all’orecchio. L’artiglieria, poi, non tace mai […]. Abbiamo subito perdite gravissime. Gli ufficiali della mia compagnia sono stati falciati tutti quanti […]. L’ufficiale che comandava il plotone prima di me è saltato su una nostra granata. E quando mi sono presentato, il comandante della mia compagnia ha preso male il mitra e gli è partita una raffica.
I colpi si sono conficcati a terra a pochi centimetri da me. E’ un miracolo che non mi abbia preso. Gli altri ci hanno riso su: ‘Abbiamo avuto cinque comandanti prima di te, ma tu potevi durare cinque minuti in tutto!’. C’è brava gente, ma sono fragili psicologicamente. Gli ufficiali sono a contratto, e i soldati - tranne qualcuno - sono giovani e tengono duro. Dormiamo tutti insieme, in tenda, per terra. In un mare di pulci. Mangiamo merda. Non c’è altro. Non so che cosa ci aspetta. Se ci sposteremo per attaccare chissà che cosa, o se resteremo dove siamo adesso fino a impazzire tutti quanti. O se invece ci metteranno su un aereo per Mosca… O
chissà che altro ancora… Non sto male, ma ho il morale sotto i tacchi… E’ tutto per oggi. Baci.
Pavel”.
Difficile credere che una lettera simile potesse rassicurare dei genitori. In guerra, però, si perdono i punti di riferimento consueti, il cervello li rigetta per non impazzire. Per questo non si è più in grado di confortare chi dalla guerra è lontano: si è spaventati cento volte più di loro e non ci si rende conto di angosciarli.
Come si seppe in seguito, con quella lettera Pavel era davvero convinto di rinfrancare i suoi genitori: sotto una tenda ad aspettare non rischiava nulla. Invece già dal 21 gennaio era andato a “combattere strenuamente” anche lui, da principio a capo di un plotone di fanteria lanciabombe e poi, di lì a poco, di tutta una compagnia (come aveva scritto, gli ufficiali erano stati “falciati tutti”, e lui era l’unico a poter assumere il comando).
Pavel non si era fermato alla “periferia” di Groznyj, quella che, a sentire la sua lettera, era “in fiamme”. Non si era tenuto ai margini della guerra…
Il seguito è puro burocratese: il 19 febbraio, per liberare le unità di ricognizione assediate e
“coprire la ritirata dei compagni” dal villaggio di Ushkaloj, distretto di Itum-Kalin - e cito dalla motivazione per la richiesta della medaglia al valore -, il tenente Levurda viene ferito gravemente e perisce per una “grave emorragia dovuta alle numerose ferite d’arma da fuoco”…
A Ushkaloj, dunque. Nell’inverno del 2000 vi infuria la guerra più dura, quella disperata e partigiana nei boschi, sulle montagne, per sentieri angusti. Una precisazione che, tuttavia, serve solo a comprendere quale fosso lo sfondo. Nina Levurda, la madre, ha un’altra domanda da porre: se Pavel è “perito”, dov’è il suo corpo? Cosa seppellisco, io? Perch‚ un corpo ci dev’essere, no?
A casa Levurda, invece, la bara con i miseri resti di Pavel non giunse mai. Segnando l’inizio di una nuova fase dello strazio di Nina Levurda: la sua personale ricerca dei resti dell’amato figlio, perduti da uno Stato che il figlio aveva cercato con tanto zelo di servire…
Questo è quanto Nina è riuscita a scoprire trasformandosi in procuratore militare e in detective.
Il 19 febbraio, data ufficiale della morte del figlio, i “compagni” di cui aveva coperto la ritirata a costo della vita erano in effetti riusciti a sfuggire all’assedio. Ma avevano lasciato lì il suo Pavel, a combattere strenuamente con altri sei soldati. Tutti feriti gravemente, ma tutti ancora vivi.
Quei ragazzi li avevano implorati, avevano gridato, li avevano supplicati di non abbandonarli, come testimoniarono in seguito alcuni abitanti del remoto paesino montano di Ushkaloj. Il fatto era accaduto sotto i loro occhi. Qualche ferito l’avevano bendato direttamente loro, ma non avevano potuto fare di più. A Ushkaloj non c’è un ospedale, non c’è un medico e nemmeno un’infermiera…
Com’è noto, la guerra non è sempre teatro di gesta eroiche o di nobili comportamenti. Pavel Levurda venne abbandonato sul campo. Dopo di che si dimenticarono di lui, della sua salma e del fatto che ci fosse una famiglia che attendeva di riaverla.
I sopravvissuti si dimenticarono di chi era morto affinch‚ loro potessero vivere.
Urge una precisazione: quel che è accaduto “post mortem” a Pavel Levurda è tutt’altro che un’eccezione nel nostro esercito. Un episodio tanto infame è la summa di un modo di procedere abituale. Nell’esercito l’essere umano non conta. E, ancora, nell’esercito manca un sistema preciso di controllo e di responsabilità nei confronti delle famiglie. Il caos regna sovrano. Lo ripeto: gli unici fortunati sono quelli che possono contare su un comandante che sia - di suo -
una brava persona e che perciò non tolleri che si dimentichino dei soldati sul campo.
Di Levurda si ricordarono a una settimana o quasi dalla morte. Era il 24 febbraio quando, come da comunicazione ufficiale dello Stato Maggiore Generale in Cecenia, Ushkaloj venne liberata dai
“guerriglieri” ceceni e la popolazione “passò sotto il controllo” delle forze federali (ma si trattava dell’ennesima bugia, intesa solo a provare al tribunale - cui la madre di Pavel si era rivolta per chiedere che il ministero della Difesa le risarcisse i danni morali - “l’impossibilità effettiva” di recuperare il corpo)…
E sia… Il 24 febbraio, però, a Ushkaloj, i militari raccolsero i corpi di sei soldati. Il settimo non c’era. E il settimo era Levurda. Non lo trovarono, e se ne dimenticarono di nuovo…
A casa la madre era disperata. Aveva ricevuto un’unica lettera, quella arrivata il 7 febbraio; poi più niente: niente notizie, niente figlio, niente risposte alle sue domande. La hot line del ministero della Difesa non serviva a granch‚. Parlare del proprio strazio con gli ufficiali preposti era come parlare con un computer: “Il tenente Levurda Pavel Petrovic non figura negli elenchi dei caduti e degli scomparsi”. Questa la risposta che si sentiva dare Nina. Non una parola di più.
Nina Levurda ascoltò le informazioni “esaurienti” della hot line per diversi mesi. Ma il peggio doveva ancora venire. L’ultima volta che Nina chiamò il ministero della Difesa, il 25 agosto, a sei mesi dalla prima notifica ufficiale della morte del figlio e dopo che - da sola - aveva ritrovato e riconosciuto il ‘settimo’ corpo, il corpo di Pavel, senza alcun sostegno da parte dell’esercito, la hot line non era stata ancora aggiornata. Al comando, dunque, perseveravano nella loro
“dimenticanza”.
Ma procediamo con ordine. Il 20 maggio, a tre mesi dagli scontri, gli uomini della sezione “ad interim” del ministero degli Interni del distretto di Itum-Kalin (in breve, la polizia locale) rinvennero a Ushkaloj una “sepoltura, contenente il corpo di un uomo con segni di morte violenta”. Così è scritto nel verbale. Sia come sia - e la colpa ancora una volta è della nostra eterna, colpevole indifferenza per i destini altrui -, solo il 6 luglio, dopo un altro mese e mezzo di telefonate quotidiane alla hot line e al commissariato militare di zona, i poliziotti di Itum-Kalin compilarono il modulo n. 464, notificando di aver trovato il corpo suddetto.
Il 19 luglio il modulo giunse finalmente alla polizia investigativa di Brjansk, perch‚ da Brjansk Pavel Levurda era partito per la guerra e perch‚ alla polizia di Brjansk la madre aveva denunciato la scomparsa del figlio. Il 2 agosto (a due mesi e mezzo dal ritrovamento del corpo a Ushkaloj) a casa dei genitori di Pavel si presentò un agente della polizia locale, l’agente Abramochkin.
In casa c’era solo una ragazzina di quattordici anni, nipote di Pavel e figlia della sorella maggiore Lena. L’agente Abramochkin le chiese qualche informazione su Pavel, appurò quali fossero stati i suoi effetti personali e fu oltremodo stupito di scoprire che era un militare… Pensava che si trattasse di un ragazzo che per un qualche motivo era finito in Cecenia e vi aveva trovato la morte…
La ragazzina gli spiegò che Pavel era un ufficiale, che si trovava in servizio regolare nella zona delle “operazioni antiterrorismo”, che avevano avuto notizia della sua morte ma il suo corpo non era mai stato restituito, che da diversi mesi non avevano altre notizie e non sapevano più che fare…
Fu proprio l’agente semplice Abramochkin (al quale era stata “delegata” l’altrettanto semplice inchiesta su quella “salma non identificata”) e non il ministero della Difesa in qualunque sua ipostasi, a comunicare alla madre di un ufficiale caduto eroicamente in battaglia che Pavel Petrovic Levurda figurava disperso dal 19 febbraio e che dal 20 febbraio era stato espunto da ogni sorta di emolumento o provvigione… E che se lui, Abramochkin, se ne stava occupando era solo perch‚ alcuni colleghi di Ushkaloj avevano rinvenuto il corpo di un militare con tratti somatici simili a quelli del tenente disperso (come risultava dalla denuncia di Nina Ivanovna), e non su espressa richiesta del ministero della Difesa. I poliziotti di Itum-Kalin gli avevano chiesto di passare dai genitori del ragazzo, a Brjansk, e di scoprire (!) “dove era di stanza l’unità militare 73881 presso la quale Levurda P. P. prestava servizio”, così da poter contattare il comandante e chiarire le circostanze della morte di quell’uomo che, dalla descrizione della madre, somigliava tanto al loro ufficiale…
La citazione tra virgolette è tratta dalla corrispondenza ufficiale. E aiuta a farsi un quadro dell’esercito di Putin e della guerra che sta combattendo in Cecenia. Un esercito dove la mano destra non sa quel che fa la sinistra, e dove per rintracciare il comandante della divisione Taman si rivolge la domanda per iscritto a genitori che abitano in capo al mondo piuttosto che telefonare poco distante, al Quartier Generale di Chankala (base militare nei pressi di Groznyj)…
Visto lo stato in cui versava la famiglia, l’agente Abramochkin consigliò caldamente a Nina Levurda di non perder tempo invano e di partire per Rostov sul Don. Gli era già stato comunicato che i resti dell’“ignoto milite” di Ushkaloj erano stati trasferiti, in quanto non identificati, all’obitorio centrale di Rostov. Vi lavorava il celebre colonnello Vladimir Scerbakov, capo del reparto di medicina legale n. 124 incaricato del riconoscimento delle salme. Attenzione, però: il colonnello Scerbakov se ne occupava non per disposizione di comandanti, colonnelli o quartier generali di sorta, ma per sua “personale” bontà d’animo e per sua “personale”
convinzione, avendo visto gli sguardi delle sventurate madri che da tutto il Paese convergevano a Rostov in cerca dei figli caduti.
Abramochkin consigliò a Nina di mantenere i nervi saldi, perch‚ “in Russia succede di tutto” e perch‚ disguidi simili erano all’ordine del giorno. Nel frattempo nella storia della famiglia Levurda entra un nuovo personaggio: il Comitato delle madri dei soldati di Brjansk. Fu solo per loro tramite e per tramite dell’agente Abramochkin che l’elitario 15esimo reggimento e l’ancor più elitaria divisione Taman seppero che il settimo corpo dimenticato dai “compagni” poteva essere quello di Pavel Levurda…
“Arrivammo a Rostov il 20 agosto” ricorda Nina Levurda. “Andai subito al laboratorio. L’ingresso non era sorvegliato. Entrai. Mi infilai nella prima stanza che mi capitò e vidi che sul tavolo settorio c’era una testa mozzata. Anzi no, era un teschio. Accanto ce n’erano degli altri, ma capii subito che era Pavel…”.
Si può stimare o compensare il danno morale subito da Nina?
Certo che no. Del resto è anche vero che il lavoro dei medici legali contempla la presenza di teschi sul loro tavolo, e che se qualcuno entra e li vede…
Resta il fatto che stiamo diventando giorno dopo giorno una nazione di uomini rozzi, primitivi, incapaci di cogliere le sfumature e dunque privi di morale.
Infatti, a una madre sotto sedativi dopo aver visto il teschio del figlio (perchè‚ era davvero il teschio di Pavel), si avvicinò prontamente il cosiddetto ‘portavoce’ del reggimento di Pavel, giunto anch’egli a Rostov. Abramochkin si era fatto dare l’indirizzo dalla famiglia, aveva telegrafato e il comandante aveva spedito a Rostov un suo uomo per sbrigare le formalità.
Il portavoce aveva in mano una “notifica”. Nina Levurda scorse il foglio e svenne. Il colonnello A.
Dragunov, comandante dell’unità 73881, e il colonnello A. Pochatenko, capo di Stato Maggiore di quella stessa unità, chiedevano (non si sa a chi) di notificare ufficialmente ai “sigg. Levurda” che
“il figlio era caduto in battaglia nell’adempimento di una missione, fedele al giuramento militare, dando prova di coraggio e fermezza”. Stavano cercando di coprire le tracce della loro colpevole
“dimenticanza”.
Ripresi i sensi, Nina Levurda rilesse attentamente la notifica e quel “caduto in battaglia”. E vide che il documento non riportava alcuna data.
“Dov’è la data?” chiese Nina al portavoce.
“Scriva lei quella che preferisce” fu la risposta.
“Come sarebbe?” esplose Nina Levurda. “Io so quando ho partorito Pavel, e quello è il giorno in cui è nato. Ho il diritto di sapere in che giorno è morto! Lo voglio sapere!”.
Il portavoce allargò le braccia, come a dire che lui non ne sapeva nulla e che gli era stato ordinato di portarle quei fogli e niente più… E le mise in mano un estratto dall’ordine di esclusione del “tenente Levurda dagli elenchi del reggimento”, anch’esso senza data e senza spiegazioni di sorta, ma ben fornito di timbri e firme in calce. Con lo stesso candore chiese a Nina Levurda di compilare di suo pugno le parti in bianco e di trasmettere il modulo al commissariato militare di zona, così che Pavel potesse essere cancellato dal registro militare.
Nina Ivanovna non fiatò. Perch‚ perdere tempo a parlare con una persona senza cuore, senza anima e senza cervello?
“E’ più semplice così, no? Per me è lunga arrivare fino a Brjansk…” continuò, titubante, il portavoce.
Certo che era più semplice. Non fa una piega: “essere semplici”, senza troppi pensieri, è davvero più semplice. Sergej Ivanov - attuale ministro della Difesa e amico carissimo del presidente Putin sin dai tempi in cui questi lavorava per il K.G.B./F.S.B. di Pietroburgo - “docet”.
Ogni settimana Ivanov compare in televisione e trasmette i bollettini di guerra del presidente con un tono che ricorda quello di Goebbels nei cinegiornali della seconda guerra mondiale.
Ivanov afferma che nessuno ci “metterà in ginocchio davanti ai terroristi” e che la guerra in Cecenia andrà avanti sino alla “vittoria finale”… Mai una parola, però, sulle sorti di coloro -
soldati e ufficiali - che garantiscono a lui e al presidente la possibilità di non “inginocchiarsi davanti ai terroristi”. La linea politica attuale è prettamente neosovietica: non uomini, ma ingranaggi costretti a realizzare incondizionatamente gli azzardi politici di chi ha preso il potere.
Ingranaggi senza alcun diritto, nemmeno quello a una morte dignitosa.
Il difficile è “non essere semplici”. Intendendo con ciò vedere non solo la “linea generale del partito e del governo”, ma anche i particolari della sua messa in atto. Che sono poi questi: il 31
agosto del 2000 la matricola U-729343 ha finalmente avuto degna sepoltura nella città di Ivanovo (dove si erano trasferiti i genitori, accanto alla figlia maggiore e lontano da Brjansk, troppo carica di ricordi). La scientifica ha fatto avere a Nina Levurda la testa di Pavel. Tutto quel che resta di lui.
Oggi Nina Levurda è un volto noto, in Russia. Perch‚ dopo aver consegnato alla terra quei resti che con tanta fatica aveva strappato allo Stato, a nove giorni dai funerali si è messa in viaggio per raggiungere il Quartier Generale del 15esimo reggimento della divisione Taman, nei pressi di Mosca. Lasciando Ivanovo aveva una sola cosa in mente: guardare negli occhi i comandanti di Pavel e scorgervi almeno un barlume di pentimento per quanto avevano “dimenticato” di fare.
“Non mi aspettavo certo delle scuse…” dice Nina Levurda. “Ma almeno un minimo di compassione e di pentimento…”.
Alla divisione Taman, invece, nessuno volle riceverla. Il comandante non era mai disponibile: n‚
il mattino, n‚ durante il giorno, n‚ a sera tarda. Nina Levurda attese di incontrarlo per tre giorni.
Senza mangiare, senza bere, senza dormire, senza un minimo di attenzione. Con gli ufficiali che le passavano accanto come scarafaggi, facendo finta di non vederla… Fu lì, in quell’anticamera, che Nina Levurda decise di far causa allo Stato, al ministero della Difesa e al ministro Ivanov per le sofferenze morali che le avevano procurato. La morte del figlio non c’entrava: lui era caduto nell’adempimento del proprio dovere. C’entrava quello che era successo dopo la sua morte.
Tradotto dall’astruso gergo processuale nella lingua di tutti i giorni, il nocciolo delle sue richieste era il seguente: voleva delle risposte. Perch‚ il reggimento aveva abbandonato sul campo di battaglia il corpo del figlio? Perch‚ non era tornato a cercarlo? Perch‚ non le volevano dire com’era morto Pavel? Perch‚ aveva dovuto cercarlo da sola? Chi era il responsabile?…
Questo è quello che accadde. Per prima cosa arrivò la medaglia al valore, consegnatale al commissariato militare di Ivanovo. Per seconda la vendetta. Il ministero della Difesa e la divisione Taman dichiararono guerra a quella madre che aveva osato indignarsi pubblicamente per la loro condotta. Volevano “rimettere in riga” Nina Levurda, incrinare la sua volontà, così da scoraggiare iniziative analoghe.
In poco meno di un anno ci furono otto udienze (la prima il 26 dicembre del 2001, l’ultima il 18
novembre del 2002), tutte inconcludenti. La corte non arrivò nemmeno a discutere la sostanza della causa intentata da Nina Levurda, in quanto - consapevoli della propria impunità - i rappresentanti del ministero della Difesa ignorarono le convocazioni. Avevano ragione: il caso
“Nina Levurda contro lo Stato” capitò in mano al giudice Tjulenev (al tribunale intermunicipale della Krasnaja Presnja di Mosca, dato l’indirizzo giuridico del ministero della Difesa), il quale stabilì che la madre “non aveva diritto ad alcuna informazione” riguardo al corpo del figlio, e che dunque il ministero della Difesa non era tenuto a fornirgliene. Nina Levurda si rivolse allora al tribunale municipale di Mosca, da dove - vista l’assurdità della sentenza precedente - la rimandarono alla Krasnaja Presnja per una nuova udienza. Fu l’ennesima tortura della macchina dello Stato ai danni di una madre rimasta senza figlio. I rappresentanti del ministro Ivanov, del comando di fanteria a cui faceva capo la divisione Taman e del 15esimo reggimento continuarono a boicottare le udienze. Non si presentavano, sistematicamente e sfrontatamente.
Volevano prendere Nina per stanchezza. O per assedio. Lei, invece, continuava a fare la spola e ad aspettare… Ogni volta. Avanti e indietro fra Mosca e Ivanovo per ritrovarsi a fissare un banco vuoto. E ripartire a mani altrettanto vuote. Una vecchia pensionata (la pensione minima dei nostri servizi sociali basta giusto a morire di fame) con un marito che dopo i funerali di Pavel si era attaccato alla bottiglia per sfuggire a quel dolore immenso…
Alla fine il giudice Bolonina del tribunale di zona della Krasnaja Presnja, a cui il tribunale di Mosca aveva girato la causa, era esasperata. All’ottava udienza andata deserta, condannò il ministero della Difesa a una multa di ottomila rubli. Soldi che passavano da una cassa all’altra dello Stato. E non dalle tasche del ministro Ivanov a quelle di Nina Levurda. La legge non contempla casi simili, purtroppo. La giurisprudenza in Russia non sta dalla parte del debole, ma di un potere che è già forte di suo. Il 18 novembre del 2002, dopo la multa, i rappresentanti del ministero si presentarono in tribunale. Erano, però, degli strani portavoce: non sapevano nulla del caso, non ne capivano la sostanza e si rifiutavano di fornire le proprie generalità, chiamando in causa la disorganizzazione del ministero, vera responsabile dell’accaduto…
Risultato: l’udienza fu aggiornata al 2 dicembre.
Nina Levurda scoppiò a piangere in un corridoio del tribunale.
“Perch‚?” chiedeva. “Non se lo sono preso loro, mio figlio?… Non mi hanno trattato come han fatto?…”.
Come invidio Sergej Ivanov, ministro di una Difesa spietata con i propri concittadini… Lui e la sua bella vita semplice semplice. Senza ‘dettagli’. Dettagli come gli occhi delle madri che hanno perso i figli in quella “guerra al terrorismo internazionale” di cui, fedele al suo presidente, ama tanto parlare. Non le sente, le voci delle madri, Ivanov. Sono troppo lontane. Non sente il loro dolore. Non sa nulla delle vite che ha spezzato. Delle migliaia di padri e di madri che il sistema ha abbandonato dopo che i loro figli gli avevano sacrificato la vita.
“Putin non può fare tutto” urleranno i fan del presidente.
Certo che no. In quanto presidente, lui risponde del metodo. Dell’approccio. E’ lui a plasmare i suoi uomini. Si imita chi sta in alto, è così da sempre.
Quanto abbiamo appena descritto è il metodo Putin applicato all’esercito. L’unico e il solo. Putin ha sottoscritto più volte storie simili. Storie che sono la consuetudine nel nostro esercito. E se le ha sottoscritte è anche responsabile della crudeltà e dell’intransigenza introdotte nell’esercito e nello Stato. Perch‚ la crudeltà è un’infezione seria che tende a diventare epidemica. Le prime vittime sono state cecene, e sebbene a molti possa sembrare che il focolaio si sia spento in quei luoghi, così non è. Si è propagato anche contro “i nostri”, come si usa patriotticamente dire oggi. Comprendendo fra i “nostri” anche chi ha “patriotticamente” combattuto contro i primi infetti. Ed è ingenuo chi la pensa diversamente.
“E’ successo, sì… Sì, è morto… Ha fatto la sua scelta ed è andato per la sua strada” dice Nina Levurda asciugandosi le lacrime. Le passa accanto il giudice Bolonina, con la toga e un’espressione imperscrutabile. “Ma siete o non siete esseri umani?…”.
Lo sono? Mi chiedo spesso se Putin lo sia. O se è solo una gelida statua di ferro.
Se è un essere umano, non lo dà certo a vedere.
STORIA SECONDA.
I CINQUANTAQUATTRO SOLDATI OVVERO SI EMIGRA VERSO CASA.
Emigrare significa trasferirsi altrove quando l’ulteriore permanenza in Patria costituisce una minaccia per la vita o è causa di massicci attacchi dello Stato all’onore e alla dignità del singolo.
E’ esattamente quello che accadde nell’esercito russo l‘8 settembre del 2002. Cinquantaquattro soldati disertarono e cercarono di emigrare.
Andò così. Alla periferia del villaggio di Prudboj, nella regione di Volgograd, si trova il poligono d’addestramento della 20esima divisione di fanteria motorizzata. Dalla base di Kamyshin dell’unità 20004, anch’essa nella zona di Volgograd, erano stati mandati al poligono di Prudboj anche gli uomini della seconda divisione.
Lo scopo era nobile: addestrarli. La parte dell’insegnante spettava, com’è ovvio, agli ufficiali, figure paterne o quasi. L‘8 settembre, tuttavia, quegli stessi ‘padri’ - il tenente colonnello Kolenikov, il maggiore Shirjaev, il maggiore Artem’ev, il tenente Kadiev, il tenente Korostylev, il tenente Kobets e il sottotenente Pekov - si fecero carico di un’inchiesta che a loro non competeva. Al momento dell’adunata annunciarono che avrebbero scoperto gli artefici del furto di un veicolo militare anfibio da ricognizione.
In seguito i soldati avrebbero sostenuto che non era scomparso alcun veicolo. Che era sempre stato dove doveva essere: nel parco macchine della divisione. Ma gli ufficiali erano annoiati, bevevano da giorni, i postumi si facevano probabilmente sentire e avevano deciso di crearsi un diversivo. Non era una novità per il poligono di Kamyshin, che godeva di una pessima fama.
Dopo l’adunata e l’annuncio, nella tenda degli ufficiali venne portato un primo gruppo di soldati: i sergenti Kutuzov e Krutov e i soldati semplici Generalov, Gurskij e Gricenko. Agli altri venne dato ordine di attendere fuori il proprio turno. Di lì a poco udirono le grida e i lamenti dei loro compagni. Gli ufficiali li stavano torturando. Dopo un po’ il primo gruppo venne sbattuto fuori. I soldati raccontarono ai compagni che i ‘paterni’ ufficiali li avevano bastonati sui testicoli e sulla schiena con dei manici di badile e li avevano presi a calci nello stomaco e alle costole.
Ma le parole non servivano. I segni delle percosse erano più efficaci di mille racconti.
Gli ufficiali annunciarono che avrebbero fatto una pausa. Il tenente colonnello, i due maggiori, i tre tenenti e il sottotenente andarono a pranzo, non prima di aver comunicato agli altri soldati che, dopo il pasto, chi non avesse confessato spontaneamente il furto del veicolo sarebbe stato picchiato come chi era riverso sull’erba accanto alla tenda.
Che cosa fecero i soldati? Scapparono… Si ammutinarono, non vollero fare gli agnelli destinati al macello. Al poligono rimase chi era di guardia (in quanto l’allontanamento avrebbe implicato un provvedimento penale, la corte marziale e il battaglione punitivo) e i feriti: Kutuzov, Krutov, Generalov e Gricenko, che non riuscivano a camminare.
I soldati si incolonnarono, uscirono dal poligono e si diressero verso Volgograd. In cerca di aiuto.
La città, però, non era vicina: da Prudboj a Volgograd ci sono quasi centottanta chilometri. Ciò nonostante, i cinquantaquattro soldati percorsero quella distanza in colonna, impeccabili, senza nascondersi, marciando sul ciglio di una strada molto battuta anche dagli ufficiali della 20esima divisione. Non si fermò neanche una macchina… Nessuno pensò di informarsi: cos’era successo, dov’erano diretti? Senza un ufficiale, fra l’altro, in palese violazione del regolamento. Nessuno.
I soldati marciarono fino a che fece buio. Per la notte si sistemarono in una radura accanto alla strada, senza nascondersi. Stessa storia: nessuno che li andasse a cercare, bench‚ i vari ufficiali dovessero ormai aver cenato e di conseguenza scoperto che le file della seconda divisione si erano fatte quanto mai rade.
Gli ufficiali, invece, se ne erano andati tranquillamente a dormire. Ignorando dove fossero quei soldati di cui, come vuole la legge, erano personalmente responsabili. Ma sapendo perfettamente che nel nostro Paese nessun ufficiale è mai stato condannato per quanto accaduto a un soldato semplice…
La mattina del 9 settembre, di buon’ora, i cinquantaquattro soldati si rimisero in marcia. A piedi.
Lungo la strada. Senza mai nascondersi. Con le solite macchine che passavano loro accanto, eccetera eccetera.
Quel distaccamento di soldati che non avevano perso la propria dignità marciò per un giorno e mezzo senza e nella 20esima divisione nessuno si accorse della loro mancanza. La sera del 9
settembre entrarono a Volgograd. Apertamente. La polizia li vide, ma non mostrò alcun interesse. Nessun ufficiale chiese loro dove fossero diretti… A quell’ora, per di più…
Così incolonnati i soldati marciarono fino al centro della città.
“Erano quasi le sei e stavamo per andarcene, quando è squillato il telefono: ‘Ci siete ancora?
Possiamo passare?’“ racconta Tat’jana Zozulenko, responsabile di Diritto di Madre, un’organizzazione di Volgograd che difende i diritti dei genitori dei militari. “‘Passate pure’ ho risposto. Di certo non mi aspettavo niente del genere. Qualche minuto più tardi nella stanzetta della nostra organizzazione sono entrati quattro soldati. Ci dissero di essere in cinquantaquattro.
‘Gli altri dove sono?’ chiesi. Mi portarono nella cantina del palazzo: erano lì. Sono undici anni che lavoro per l’organizzazione, ma non avevo mai visto niente di simile. La prima cosa che mi passò per la testa fu di chiedere se avessero mangiato. ‘Niente, da ieri’ mi risposero. Le mie colleghe corsero a prendere del pane e del latte e ne portarono quanto più poterono. I ragazzi si avventarono sul cibo come cani affamati. Ma ci eravamo abituate: nell’esercito mangiano malissimo, sono sempre malnutriti. Quando ebbero finito chiesi loro che cosa pensassero di ottenere con quel gesto. ‘Che gli ufficiali che picchiano i soldati vengano puniti’ fu la risposta.
Decidemmo che avrebbero passato la notte in ufficio, sul pavimento, e che la mattina ci avrebbe portato consiglio. L’indomani saremmo andati alla procura militare. Chiusi a chiave la porta e me ne andai a casa; abito poco distante, in caso di necessità sarei arrivata in un attimo, pensavo.
Alle undici della sera telefonai, ma nessuno mi rispose. Pensai che stessero dormendo, stanchi com’erano. O che magari avessero paura di rispondere. Alle due di notte mi svegliò il nostro legale, Sergej Semushin. Mi disse che degli sconosciuti lo avevano chiamato perch‚ andasse a
‘prendere in consegna i locali’. Qualche minuto più tardi ero sul posto. C’erano camionette militari ovunque, con a bordo degli ufficiali. Che non si presentarono. I soldati erano scomparsi.
Chiesi agli ufficiali dove li avessero portati, ma non ebbi risposta”.
I collaboratori di Diritto di Madre scoprirono che i computer contenenti le informazioni relative ai crimini perpetrati all’interno della 20esima divisione erano stati manomessi. Sotto il tappeto, però, trovarono il messaggio di un soldato. Diceva che li stavano portando via, che li picchiavano, e chiedeva aiuto…
C’è poco altro da aggiungere. Al poligono si erano accorti di aver ‘perso’ i soldati solo dopo una telefonata dall’alto. Tat’jana Zozulenko aveva chiamato i giornalisti di Volgograd il 9 settembre sera, e la notizia dei soldati in fuga si era diffusa nell’etere. Il Quartier Generale di zona doveva aver chiesto spiegazioni agli ufficiali, che solo allora avevano scoperto il ‘buco’…
Quella notte sotto la sede dell’organizzazione umanitaria arrivarono diverse macchine, e i cinquantaquattro soldati vennero portati prima in guardiola al comando militare e poi di nuovo in caserma. Consegnati a quegli stessi ufficiali dalle cui percosse erano fuggiti. Tat’jana Zozulenko chiese ragione di quel comportamento al procuratore militare di Volgograd Cernov (la cui mansione è di far rispettare la legge nei distaccamenti militari). La risposta fu lapidaria: “Quei soldati sono nostri”.
“Sono nostri”: queste le parole chiave della storia dei ‘cinquantaquattro’. Un “sono nostri” che significa “sono nostri schiavi”. Non c’è altra interpretazione possibile.
Nulla è cambiato, nell’esercito, compreso il concetto perverso dell’“onore d’ufficiale” da difendere sempre e comunque, e che conta più della vita e della dignità dei soldati. La marcia di sfida dal poligono di Kamyshin è in primo luogo la riprova di una tradizione ripugnante e inveterata nell’esercito: i soldati sono schiavi degli ufficiali, gli ufficiali hanno sempre ragione e possono fare quello che vogliono dei propri sottoposti. E in secondo luogo è una conferma che il controllo della società civile sulle strutture militari - tanto auspicato e discusso con El’cin al potere, e sfociato in un progetto di legge - è ormai lettera morta: da sovietico e da militare (che dunque condivide la prima regola dell’esercito), il presidente Putin lo ritiene inutile per le Forze Armate russe.
Un particolare importante: il nocciolo della questione è che la 20esima divisione in generale (la cosiddetta divisione Rochlin, dal nome del comandante ed eroe della prima guerra cecena, poi deputato della Duma di Stato) e la compagnia 20004 in particolare, godono ormai di una pessima fama a Volgograd, nel distretto militare del Caucaso Settentrionale e in tutta la Russia.
“Per un intero anno abbiamo mandato alla procura militare - in primo luogo al signor Cernov, il procuratore di Volgograd, e poi seguendo la scala gerarchica fino alla procura militare di Mosca -
le informazioni sui crimini commessi dagli ufficiali dell’unità 20004” dice Tat’jana Zozulenko. “In termini di lamentele ricevute dai soldati, la 20004 è in cima alla lista. Gli ufficiali picchiano i sottoposti ed estorcono ai soldati di ritorno dalla Cecenia la paga del ‘servizio attivo’ (la 20esima divisione ha combattuto entrambe le guerre e sta ancora combattendo in Cecenia)… Non l’abbiamo solo fatto presente, l’abbiamo gridato! Niente da fare… La procura ha scelto la via dell’omertà. Noi pensiamo che quanto è accaduto al poligono di Kamyshin sia la conseguenza logica dell’impunità degli ufficiali” (1).
Il nostro Paese, è ovvio, ha un budget per le spese militari che genera molte discussioni. La lobby dei militari lotta per nuovi investimenti e nuove commesse a carico dello Stato. Come ovunque nel mondo. Niente di cui scrivere. Sono problemi comuni a tutti i Paesi, problemi globalizzati… C’è, però, una differenza sostanziale fra noi e gli altri: il nostro Paese produce e vende armi in tutto il mondo e al mondo ha dato anche i ‘kalashnikov’. Un fiore all’occhiello, per molti russi.
Non voglio, tuttavia, riempirvi la testa con le cifre dei nostri successi nel campo dell’economia militare. Il mio punto di vista è un altro: la gente è felice nell’ordine che il presidente Putin ha instaurato? E’ questo il criterio principale per giudicare l’operato di un capo di Stato. E’ per rispondere a questa domanda che sono andata al Comitato delle madri dei soldati e ho chiesto alle donne che ho incontrato se i loro figli erano felici di far parte dell’esercito, se l’esercito li aveva resi degli uomini veri.
E’ così che ho conosciuto un altro esercito.
QUALCHE ALTRA STORIA.
I particolari contano più del quadro in s‚. Le parti valgono più dell’intero. Così la penso io, per lo meno.
… Misha (Michail) Nikolaev viveva in provincia di Mosca. Partì per il servizio militare nel 2001 e si ritrovò nelle truppe di frontiera in un lontanissimo posto di confine (dieci ore di volo dalla capitale) presso il villaggio di Gorjacij Pljaz, sull’isola Anucina dell’arcipelago delle Piccole Kurili, le stesse per le quali i politici russi e giapponesi si accapigliano fin dalla seconda guerra mondiale.
Mentre loro litigano, però, qualcuno deve proteggere i confini. Misha era uno degli addetti a quella mansione. Rimase al suo posto di frontiera per sei mesi. Morì il 22 dicembre 2001.
Già in autunno, però, i genitori avevano ricevuto le prime lettere preoccupate: Misha aveva trovato sul suo corpo delle strane piaghe purulente. “Mandatemi delle medicine” chiedeva. “Un unguento, dei sulfamidici e qualunque cosa contro le suppurazioni, metapirina, antisettici, fasce e cerotti… Qua non c’è niente”. I genitori spedivano pacchi su pacchi senza fare una piega, consapevoli che il nostro esercito non ha soldi e pensando, nel contempo, che la situazione non fosse tanto tragica, dato che Misha continuava a prestare servizio come cuoco alla mensa. Se fosse stato grave, pensavano i genitori, non l’avrebbero certo fatto avvicinare ai pentoloni del rancio…
E difatti, pur con le sue suppurazioni Misha continuava a preparare da mangiare per tutti. Nel corso dell’autopsia sul cadavere di Misha, il patologo constatò che i tessuti dello sventurato si sfaldavano letteralmente sotto il bisturi: all’inizio del ventunesimo secolo un soldato si era putrefatto vivo sotto gli occhi degli ufficiali senza ricevere la minima assistenza medica. Nulla pot‚ salvare Misha dall’indifferenza di ufficiali che avevano altro a cui pensare.
… Dmitrij Kiselev era stato destinato al paesino di Istra, nei pressi di Mosca. Un vero colpo di fortuna. Era vicino a Mosca, e i genitori - che a Mosca vivevano - potevano andarlo a trovare e bussare alla porta del comandante in caso di bisogno. Non erano le Kurili, insomma. Non per questo Dmitrij ebbe salva la vita. La responsabilità, in questo caso, è da attribuire alla depravazione degli ufficiali.
Il tenente colonnello Aleksandr Boronenkov, comandante dell’unità in cui era finito il soldato Kiselev, arrotondava le sue entrate da ufficiale con qualche extra. Niente di strano nell’esercito di oggi, dove tutti cercano di incrementare la misera paga che ricevono. Quel particolare tenente colonnello, tuttavia, era uno schiavista: vendeva i suoi soldati ai proprietari delle tenute adiacenti (Istra è un villaggio di seconde case) come manodopera a basso costo. I soldati ricevevano di che sfamarsi e i soldi li intascava il comandante Boronenkov. Uno schema tutt’altro che unico nel suo genere e che non è stato Boronenkov a inventare. Si tratta, anzi, di una pratica diffusa nell’esercito: durante la ferma i soldati vengono ceduti a ricchi signori come operai non retribuiti. Dunque come schiavi. Sono merce di scambio per i ‘bisogni’ dei propri superiori. Se, per esempio, un ufficiale deve farsi riparare la macchina ma non ha i soldi, manda in officina qualche soldato, che ci lavorerà gratis per tutto il tempo che il meccanico riterrà necessario.
Alla fine di giugno del 2002 anche la recluta Dmitrij Kiselev fu mandata a fare lo schiavo e a costruire la casa di un tal Karabutov, membro dell’Associazione orticola Mir con sede nella zona di Istra. Da principio Dmitrij fu assegnato ai lavori edili. Poi, insieme ad altri sette schiavi-soldati, dovette scavare una profonda trincea tutto attorno alla tenuta. Il 2 luglio, alle sette di sera, il terreno cedette e seppellì tre ragazzi, tra cui Dmitrij, che morirono soffocati. I genitori citarono in giudizio il tenente colonnello Boronenkov, che riuscì a cavarsela grazie ai suoi
‘agganci’. Dmitrij era figlio unico… (2).
… Il 28 agosto del 2002 nell’unità militare 42839, di stanza in Cecenia non lontano dal villaggio di Kalinovskaja - dove non si combatteva da tempo -, i ‘nonni’ non facevano che ubriacarsi. I
‘nonni’ sono soldati semplici ormai prossimi al congedo e sono la componente più crudele e assassina dell’esercito. Una sera i ‘nonni’ videro che la vodka cominciava a scarseggiare e decisero di mandare in paese il primo soldato che capitò loro a tiro, Jurij D’jacenko. “Vanne a prendere ancora” gli dissero. Il soldato si rifiutò. Primo perch‚ in quel momento era di guardia, a difendere il perimetro dell’unità, e non aveva diritto di lasciare il suo posto. Secondo perch‚ non aveva soldi. Lo fece presente ai ‘nonni’, che gli dissero di rubare in paese pur di procurar loro da bere.
Jurij fu irremovibile: “No. Non ci vado”. Lo picchiarono a lungo, selvaggiamente. Fino alle cinque di mattina. Negli intervalli i ‘nonni’ lo sottoposero a umiliazioni crudeli e triviali. Infilavano uno straccio da pavimenti nella latrina e glielo sbattevano in faccia… Lo costringevano a pulire il pavimento e quando si chinava, a turno, gli piantavano il manico dello scopone nell’ano… Per concludere la “lezione” (come l’avevano chiamata), i ‘nonni’ trascinarono Jurij in mensa e gli fecero mandar giù tre litri di “kasha”, la minestra di cereali, picchiandolo quando li implorava di smettere.
Dov’erano gli ufficiali? Erano ubriachi anche loro, quella notte, e non si resero conto di nulla. Il 29 agosto, verso le sei del mattino, Jurij D’jacenko venne trovato in un angolo del deposito vettovagliamenti. Si era impiccato…
… La Siberia non è la Cecenia, è molto lontana da lì e dalla guerra. Ma non basta a cambiare le cose. Valerij Putincev, un ragazzo nato nella regione di Tjumen, era stato destinato a Uzur, capoluogo di provincia non lontano da Krasnojarsk, nei reparti d’‚lite delle Unità missilistiche strategiche. La madre, Svetlana Putinceva, ne era stata molto felice, dato che si è soliti credere che quelle unità abbiano gli ufficiali più qualificati, gente che - dovendo maneggiare le armi più moderne e più pericolose che ci siano - non beve, non picchia i soldati e mantiene la disciplina.
Di lì a poco, però, Svetlana cominciò a ricevere delle lettere in cui il figlio definiva “sciacalli” i suoi superiori.
“Cara mamma! Fa’ in modo che questa lettera non finisca mai in mani altrui. Soprattutto in quelle della nonna. Penso che tu capisca cosa voglio dire, e so che non permetterai che quel poco di salute che le rimane venga compromesso: sto molto in pena per lei. Non riesco a rassegnarmi a fare lo schiavo per gente che odio. Se c’è una cosa che voglio è lavorare per il bene degli altri e della mia famiglia, di cui solo qui ho capito l’importanza…”
Valerij non sarebbe riuscito a “lavorare per il bene degli altri”. Nella caserma di Uzur gli ufficiali non avevano freni. I sottotenenti rubavano ai soldati fino all’ultimo copeco, maltrattando chi cercava di salvaguardare la propria dignità come Valerij. Nei sei mesi che vi passò, dalla caserma uscirono quattro bare, tutte di soldati semplici. Tutti picchiati a morte.
Per prima cosa gli ufficiali gli portarono via l’uniforme (e un soldato russo non ha altri abiti che la sua divisa) e gli dissero che per riaverla doveva pagare un “riscatto”. Va da s‚ che Valerij avrebbe dovuto scrivere a casa chiedendo che gli mandassero “urgentemente” dei soldi. Non lo fece, consapevole che la madre non era in grado di spedirgli del denaro: lei, la nonna pensionata, sua sorella e la nipotina già facevano una vita molto modesta. Quel rifiuto costò a Valerij percosse brutali e ripetute. A un certo punto non resse e reagì: fu subito spedito in guardiola per insubordinazione. Dopo di che venne simulato un tentativo di evasione in cui Valerij fu ferito gravemente… Allarmata, la madre telefonò al comandante, il tenente colonnello Butov, che la ‘tranquillizzò’ dicendole di non preoccuparsi, che lì sapevano come picchiare la gente senza lasciare segni. Svetlana mollò tutto e prese un aereo per Uzur. E trovò il figlio in fin di vita. Aveva delle ferite d’arma da fuoco al pube, alla vescica, all’uretere e all’arteria femorale.
All’ospedale le dissero di trovare lei il sangue per le trasfusioni: “E alla svelta. Noi non ne abbiamo!”. Servivano dei donatori… Ma Svetlana era sola, in una città che non era la sua…
Corse in caserma a chiedere aiuto, e il comandante glielo rifiutò. Vagò per la città tentando di fare qualche cosa per il figlio. Non ci riuscì. Il suo ragazzo morì il 27 febbraio del 2002, senza trasfusione.
In una delle sue ultime lettere così aveva scritto a Svetlana, profetico: “Non faccio conto sul loro aiuto. Sono capaci solo di umiliarci senza motivo…”.
… Ancora una volta in provincia di Mosca. Villaggio di Balashicha. Unità militare 13815. 4
maggio 2002, mattina. Due addette alla caldaia che riscalda la caserma sentono delle grida d’aiuto poco distante. Si precipitano in cortile e vedono che nel mezzo c’è una trincea con un soldato interrato fino al collo. E’ lui che chiede aiuto. Le donne scavano, tagliano la corda che lo lega mani e piedi e lo aiutano a uscire.
Compare, infuriato, il maggiore Aleksandr Simakin. Urla alle donne di non toccare niente, che quello è il suo modo di educare il soldato Cesnokov, e che se non ritornano subito alla loro caldaia “le farà licenziare”.
Una volta fuori della fossa, il soldato Cesnokov disertò.
POST SCRIPTUM. In Russia l’esercito - uno dei pilastri istituzionali dello Stato - continua a essere un campo di concentramento per i giovani che finiscono dietro il suo filo spinato. Un campo con relative norme di convivenza paracarcerarie imposte dagli ufficiali. Un luogo in cui il primo metodo educativo è quello di “stanarli e ammazzarli fin nel cesso” (il primo slogan che il neoletto Putin ha usato per scandire la sua lotta con i nemici all’interno della Russia).
E’ probabile che ciò aggradi al nostro attuale presidente, con le sue mostrine da tenente colonnello e con due figlie che non dovranno fare il servizio militare. A noialtri, invece (eccezion fatta per la casta degli ufficiali, perfettamente a loro agio nel ruolo dei fuorilegge impuniti), certe cose fanno soffrire. Soprattutto a chi ha dei figli maschi. E tanto più a chi li ha in età di leva, e dunque non ha tempo di aspettare quelle riforme dell’esercito promesse da tempo, ma che finiranno immancabilmente insabbiate. Ragazzi che rischiano di finire direttamente al poligono di Kamyshin, in Cecenia, o in qualunque altro luogo da cui non si torna.
IL NOSTRO NUOVO MEDIOEVO
ovvero
CRIMINALI DI GUERRA DI TUTTE LE RUSSIE.
Al momento in Russia ci sono due tipi di criminali di guerra. I loro misfatti hanno a che vedere con la seconda guerra cecena, iniziata nell’agosto del 1999 (con la nomina di Vladimir Putin a primo ministro da parte del presidente El’cin), durata per tutto il tempo del primo mandato presidenziale di Putin e tuttora in corso.
I crimini di guerra hanno una caratteristica comune: l’ideologia più che la giustizia. “Inter armas silent leges”, come si suol dire: in tempo di guerra la legge tace. I colpevoli non sono stati condannati secondo la procedura giuridica determinata dalle leggi, ma in base alle folate dei venti ideologici che spiravano dal Cremlino in quel dato momento.
Il primo tipo di criminali comprende coloro che in guerra ci sono effettivamente stati e hanno combattuto. Essi sono, da un lato, i militari russi che hanno partecipato alle cosiddette
“operazioni antiterrorismo” in Cecenia, e dall’altro i guerriglieri ceceni sul fronte opposto. I primi hanno visto cancellati i propri misfatti. I secondi si vedono affibbiare ogni sorta di crimini. I primi vengono assolti dal sistema giudiziario anche in presenza di prove certe (e pure questo è un fatto raro, in quanto la procura si preoccupa raramente di raccogliere le prove della loro colpevolezza). I secondi ricevono condanne severissime.
Il caso ‘russo’ più noto è quello del colonnello Budanov, comandante del 160esimo reggimento carristi del ministero della Difesa russo, che il 26 marzo del 2000 (giorno in cui il presidente Putin fu eletto) rapì, stuprò e uccise El’za Kungaeva, diciottenne cecena che viveva con i genitori nel villaggio di Tangi-Chu, alla cui periferia era temporaneamente di stanza il reggimento del colonnello Budanov.
Il caso ‘ceceno’ più noto è quello di Salman Raduev. Celeberrimo comandante e generale di brigata responsabile di attacchi terroristici sin dalla prima guerra cecena, nonch‚ a capo del cosiddetto “Esercito del generale Dudaev”, Raduev venne catturato nel 2001 e condannato all’ergastolo; morì in circostanze mai chiarite nella prigione di massima sicurezza di Solikamsk (nota città ‘penitenziaria’ degli Urali, nella regione di Perm’, dove si trovano delle miniere di salgemma; sin dai tempi degli zar è stata luogo di deportazione ed esilio per molte generazioni di russi). Raduev era il simbolo del guerriero indomito che combatte per l’indipendenza della Cecenia. Processi come il suo sono eccezioni, e di norma si svolgono a porte chiuse, così da non lasciar trapelare informazioni all’esterno (anche se il motivo di una tale scelta resta oscuro). E’
capitato - anche se raramente, in segreto e con grande fatica - di poter visionare i materiali processuali contro i guerriglieri, ed è risultato che si trattava di processi ideologici ‘al contrario’: i crimini venivano ascritti senza curarsi di trovare le prove. “Condannare sempre e comunque”, questo il principio da seguire.
La prima categoria di criminali di guerra, dunque, russi o ceceni che fossero, non ha mai avuto un processo degno di questo nome. E la conseguenza principale è che, emesso il verdetto, i combattenti ceceni non sopravvissero a lungo in colonie o prigioni lontane. Morirono tutti in circostanze poco chiare, “tolti di mezzo” per espresso desiderio del potere. Alcuni sondaggi sull’argomento hanno rivelato che il governo e il presidente sono ritenuti responsabili di tali morti anche da quella parte della popolazione che è loro favorevole: in Russia nessuno - o quasi
- crede che la giustizia sia imparziale, e anzi la considera politicamente schierata.
La seconda categoria di criminali di guerra è costituita da coloro che erano nel posto sbagliato al momento sbagliato. Persone finite tra gli ingranaggi della storia. Uomini e donne che non hanno mai combattuto, ma che sono nati ceceni e che perciò vanno condannati. Un caso tipico è quello di Islam Chasuchanov. Un caso che ci riporta al 1937, l‘“annus horribilis” delle purghe staliniane.
E’ come se Stalin fosse ancora vivo e la Ceka ancora in forze: confessioni strappate a furia di botte, torture, uso di droghe psicotrope allo scopo di spezzare la volontà dell’imputato… Questo il calvario di buona parte dei ceceni finiti nelle celle dell’ex K.G.B. O di altre istituzioni analoghe che in Cecenia hanno carta bianca, come i ‘kadyroviani’, un gruppo di sostenitori di Ahmat-Haci Kadyrov, capo del governo fantoccio filomoscovita, che torturano nei comandi militari, nelle fosse scavate nelle caserme, nelle celle di isolamento dei commissariati di polizia…
A capo di tutto c’è l’ex K.G.B. Gli uomini di Putin. Che godono del suo sostegno. Che esaudiscono ogni suo desiderio.
PARTE PRIMA.
STALIN SARA’ SEMPRE CON NOI.
“ovvero”: Islam Chasuchanov: “… con quattordici fratture alle costole, una scheggia conficcata in un rene, il cranio fracassato, le braccia spezzate… non penso che sopravviverò”.
- Dossier.
Chasuchanov Islam Sheich-Achmedovic, nato nel 1954 in Kirghizia. Nell’esercito dal 1973.
Diplomato all’Istituto politico superiore della Marina militare di Kiev. Nella Flotta del Baltico dal 1978. Dal 1989 nella Flotta del Pacifico. Nel 1991 si laurea all’Accademia politico-militare Lenin di Mosca. Quale ufficiale sommergibilista formatosi all’Accademia militare, entra di diritto nell’‚lite della Flotta. Nel 1998 si congeda con il grado di capitano di primo rango e mansioni di comandante in seconda del sottomarino atomico B 251. Nel 1998 si stabilisce a Groznyj. Nel governo di Aslan Maschadov, dirige l’Ispettorato militare e diventa capo di Gabinetto del presidente. Sposato, due figli. Si risposa in seconde nozze con la nipote (figlia del fratello maggiore) di Aslan Maschadov. Non ha combattuto in nessuna delle due guerre cecene. Non si è mai dato alla macchia. Ha sempre usato documenti autentici. Arrestato il 20 aprile del 2002
nella cittadina di Shali dai reparti speciali dell’F.S.B. in quanto “terrorista internazionale” e
“organizzatore di formazioni armate illegali”. Condannato dalla Corte Suprema della Repubblica dell’Ossezia-Alanija Settentrionale a dodici anni di reclusione da scontarsi in un carcere a regime duro.
- La preistoria del processo.
Che cosa succede a chi finisce nelle mani dell’F.S.B.? Non della Ceka del ‘37, quella di Solzenicyn, del Gulag e di tanti libri tremendi, ma quella attuale, foraggiata dai contribuenti?
Ultimamente in Russia se ne parla molto e i timori crescono. Nessuno ne sa niente, ma tutti la temono come un tempo. E come un tempo solo di rado qualcosa trapela. Come con Chasuchanov. Solo dopo aver appreso i tremendi particolari del suo caso si può comprendere il significato - scioccante - di quel che l’imputato Islam Chasuchanov disse prima che fosse emessa la sentenza: “Nel settembre del 2000 c’erano molte scelte di Maschadov che non condividevo, non gliene facevo mistero, vedevo altre strade possibili… Ora, dopo quello che ho passato, riconosco che aveva ragione lui”.
Stando alla documentazione del procedimento penale n. 56/17, Islam Chasuchanov era stato arrestato il 27 aprile del 2002 in via Majakovskij, a Shali, per “possesso di armi da fuoco”. Ex articolo 222 del Codice penale della Federazione Russa. Ciò significa che le armi in oggetto erano state rinvenute, giusto?
Sbagliato. Gli uomini armati e mascherati - come spesso accade in Cecenia - che irruppero all’alba nella casa di certi parenti di Chasuchanov dove egli viveva con la famiglia, e lo portarono via, non gli puntarono addosso nemmeno le proprie, di armi: Chasuchanov era disarmato. Ma i reparti speciali russi che operano in Cecenia per stanare i “terroristi internazionali” fanno conto da tempo sulla propria impunità. In quel caso, poi, avevano agito in seguito a una soffiata, e a colpo sicuro erano andati a prelevare un “comandante delle formazioni armate illegali” la cui sorte era già stata decisa: morire… Con queste premesse è chiaro perch‚ le carte processuali non abbiano riportato notizia di pistole o mitra quali prove a carico.
L’articolo rimase comunque il 222. Falso, come falsa era la data in cui Chasuchanov risultava prelevato, il 27 aprile. In realtà l’arresto era avvenuto il 20, ma i vuoti temporali sono una peculiarità delle nostre “operazioni antiterrorismo”. La prima settimana è la più tremenda. Chi è stato catturato pare non esistere più: non figura trattenuto in nessun comando, i parenti lo cercano ovunque, ma lui non c’è, sparito. Sono i giorni in cui i reparti speciali gli cavano di bocca quel che devono.
Chasuchanov non ha ricordi distinti della settimana dal 20 al 27 aprile. Giusto qualche barlume sfocato, come durante un’agonia: botte, iniezioni, altre botte, altre iniezioni… Nient’altro.
Dal verbale dell’udienza, a dieci mesi da quella settimana tremenda, apprendiamo quanto segue: “Durante i primi sette giorni fui rinchiuso nella sede dell’F.S.B. di Shali, dove venni picchiato. Da allora ho quattordici fratture alle costole, una scheggia conficcata in un rene…”.
Che cosa volevano fargli confessare prima che morisse per le percosse?
Volevano che li portasse da Maschadov, dopo di che poteva anche crepare. Il problema era che Chasuchanov non parlava. E, data la salute di ferro di chi ha servito sui sottomarini, nemmeno si decideva a morire…
Il 30 aprile, dunque, le accuse contro di lui vennero formalizzate. Per far questo, e con il nullaosta dell’allora procuratore della Cecenia Aleksandr Nikitin, Chasuchanov venne trasferito nel carcere di isolamento temporaneo di un’altra cittadina cecena: Znamenskaja. Lo stesso carcere che il 12 maggio del 2003 sarebbe stato raso al suolo da una kamikaze. Giustizia è fatta, avrebbero detto tutti in Cecenia dopo quell’esplosione. Troppa gente era stata torturata e poi sepolta in segreto, lì attorno…
Chasuchanov arrivò a Znamenskaja più morto che vivo. Un pezzo di carne che respirava ancora.
Le torture ripresero, agli ordini del tenente colonnello Anatolij Cerepnev, sostituto del giudice titolare della sezione inquirente facente capo alla direzione dell’F.S.B. in Cecenia. Cerepnev assunse la direzione investigativa dell‘“affaire” Chasuchanov: era lui a decidere il livello delle torture inflitte allo scopo di carpire delle deposizioni. Che cosa voleva Cerepnev?
Dal verbale del processo:
“Perch‚ le è stata usata violenza?”.
“Gli interrogatori avevano un solo scopo: scoprire dove si trovava Maschadov e dov’era il sottomarino che a sentir loro avrei voluto rubare. La violenza aveva sempre a che fare con queste due domande…”.
Quanto al punto uno le cose erano più o meno chiare: Chasuchanov non li portò da Maschadov, n‚ avrebbe potuto farlo, dato che l’ultima volta che l’aveva visto era stato nel 2000, quando ancora non aveva alcun ruolo direttivo, e dato che se doveva parlare con lui lo faceva solo virtualmente, tramite audiocassette: quando aveva bisogno di Chasuchanov, Maschadov incideva il suo messaggio e glielo faceva pervenire tramite un messo (ed era stato proprio un messo a tradirlo). Chasuchanov rispondeva di rado. L’ultima volta che Maschadov gli aveva fatto arrivare una cassetta era stato nel gennaio del 2002. Chasuchanov aveva deciso di rispondergli due giorni prima dell’arresto, in aprile… Che cosa c’era in quelle cassette? Di solito Maschadov gli chiedeva di annotare (per la storia, probabilmente) quanti soldi aveva consegnato al tal comandante. Del perch‚ avesse scelto di affidare quel compito a Chasuchanov daremo conto in seguito.
Ma torniamo al sottomarino, perch‚ è una storia degna di essere raccontata nel dettaglio. Vi ricordo che Chasuchanov era un ufficiale sommergibilista, l’unico ceceno che sia mai stato ufficiale di un sommergibile atomico in era sovietica e postsovietica. Cerepnev, dunque, prova a incriminarlo per aver “pianificato il furto di un sottomarino nucleare allo scopo di impadronirsi di una testata atomica con la quale prendere in ostaggio dei deputati della Duma e chiedere di modificare la costituzione della Federazione Russa minacciando di far esplodere la carica atomica e di uccidere gli ostaggi” (cito dalla lettera che Cerepnev mandò alla procura cecena chiedendo che l’ordine di carcerazione fosse prolungato. Così fu).
Ci prova, ma non ci riesce. Chasuchanov non cede. Perch‚ anche in questo caso non può farlo.
Nel 1992, infatti, aveva “costruito” personalmente (come si dice in Marina per indicare chi, in rappresentanza del futuro equipaggio e già sapendo che vi presterà servizio, segue la costruzione del sommergibile in cantiere) il sottomarino che Cerepnev voleva fargli rubare. Un sottomarino che gli era caro più di qualunque altro, tanto da non poter desiderare di rubarlo…
Cerepnev prepara con grande cura la storia del “ratto del sommergibile”. L’F.S.B. si inventa e falsifica documenti che i guerriglieri ceceni avrebbero scritto sulla base dei dati forniti loro da Chasuchanov: un “Piano di lavoro per un atto di sabotaggio sul territorio della Federazione Russa con mappe autoredatte della base della Quarta Flottiglia sottomarina atomica della Flotta del Pacifico…” e un “Piano per un’azione diversiva sul territorio russo”. Con la postilla: “Il piano delle operazioni è stato stilato sulla base di ispezioni visive e personali nella regione di nostro interesse nel dicembre del 1995”. Chasuchanov avrebbe dovuto firmare in calce.
Ma non lo fa. Continuano, dunque, a picchiarlo con metodi sempre nuovi, anche se - a onor del vero - c’è poco che non abbiano ancora sperimentato. Se ora lo picchiano, però, è perch‚ sta mandando a monte i loro progetti…
L’unica cosa che Cerepnev riesce a strappare a un Chasuchanov stordito dal dolore e dalle droghe è di firmare (“vistare”, come si sarebbe detto poi nella condanna) i fogli bianchi “degli ordini e delle disposizioni di battaglia di Maschadov”. Cerepnev li avrebbe poi riempiti con quel che riteneva più opportuno. Un esempio:
“Il 2 settembre del 2000 Chasuchanov dà disposizione ai comandanti in campo di gettare chiodi, bulloni, dadi e puntine su strade, autostrade e vie di circolazione delle forze federali così da poter nascondere mine e cariche esplosive […]. Avvalendosi del proprio ruolo guida all’interno delle formazioni armate illegali, Chasuchanov induce altri membri delle medesime a compiere atti terroristici intesi a contrastare l’introduzione di un ordine costituito sul territorio della Repubblica Cecena…”
Cerepnev, inoltre, costringe Chasuchanov a firmare i verbali d’interrogatorio senza rileggerli. E
questo è quel che ne deriva:
Domanda [che si suppone posta da Cerepnev]: “Le è stata mostrata la fotocopia di un appello agli ufficiali russi, il n. 215 del 25 novembre 2000. Che cosa può testimoniare al riguardo?”.
Risposta [ che si suppone data da Chasuchanov] : “Quella di redigere e diffondere documenti analoghi era una parte rilevante della propaganda svolta dalla centrale operativa delle Forze Armate della Repubblica Cecena di Ichkerija “alle mie immediate dipendenze”. I messaggi succitati erano intesi a contrastare le informazioni fornite dai mass media russi riguardo allo svolgersi delle operazioni antiterrorismo. Ero consapevole che la diffusione di materiali simili poteva destabilizzare la situazione in territorio ceceno, ma ho continuato a farlo…”.
Tipico gergo militare. E’ nel mese in cui preparano materiale simile che Chasuchanov viene torturato, a Znamenskaja.
Dai verbali del processo:
“Quando ormai le percosse mi avevano ridotto a non capire niente e a non opporre la minima resistenza, mi vennero fatte delle iniezioni e venni trasferito all’F.S.B. dell’Ossezia del Nord. Il carcere di isolamento non volle prendermi in consegna in quanto il loro medico sosteneva che sarei morto nel giro di un paio di giorni per le percosse subite in precedenza; ragion per cui mi portarono in una segheria, la fabbrica JaN 68-1”.
“Ha ricevuto cure mediche?”.
“Mi hanno lasciato lì per tre mesi”.
Una “segheria”? E’ un luogo che compare di rado nelle storie dei dispersi in Cecenia dopo le purghe. Chi ci è stato ed è sopravvissuto usa un termine d’epoca staliniana - “ammasso del legname” - o la chiama, appunto, “segheria”. La denominazione ufficiale è fabbrica JaN 68-1, di competenza del ministero della Giustizia della Repubblica dell’Ossezia del Nord.
Di sicuro si sa che accoglie chi è stato picchiato a sangue dai funzionari delle varie polizie segrete (in primo luogo l’F.S.B.) e che chiude un occhio sul fatto che non abbiano documenti. I suoi ospiti sono le non-persone scomparse senza lasciare traccia dopo l’incontro con i federali.
Abbiamo un grosso debito di gratitudine verso chi lavora nelle “segherie”, in quanto accolgono contro ogni legge persone fuori della legge, salvando da morte certa molti di coloro che dovevano essere passati per le armi strada facendo, e con i quali i federali non avevano voluto sporcarsi le mani. Nessuno sa in quanti vi siano morti durante la seconda guerra cecena senza lasciare nemmeno un tumulo di terra dietro di s‚. Si sa, invece, quanti sono sopravvissuti.
Chasuchanov è uno dei miracolati. Ne ha avuto pietà una guardia. Una pietà che significava latte fresco portato da casa ogni giorno.
Dunque Chasuchanov risorge per l’ennesima volta e per l’ennesima volta si trova di fronte Cerepnev. Alla direzione dell’F.S.B. ceceno vige la regola che chiunque sopravviva agli interrogatori abbia diritto a un processo. Sopravvivono in pochi, ragion per cui pochi sono anche i processi a carico dei “terroristi internazionali”. Qualcuno, però, bisogna celebrarlo, qualche
“terrorista” va processato, perch‚ può sempre capitare che i leader occidentali ne chiedano conto a Putin, che girerà la questione all’F.S.B. e alla Procura Generale. Che si daranno da fare.
Sempre che qualcuno sopravviva…
- Vladikavkaz.
Vladikavkaz è la capitale della Repubblica dell’Ossezia-Alanija del Nord, ai confini con la Cecenia e l’Inguscezia. L’Ossezia partecipa a pieno diritto alle “operazioni antiterrorismo”. In Ossezia si trova Mozdok, la più importante base militare federale, in cui si addestrano le truppe prima di mandarle in Cecenia (per questo nel 2003 Mozdok è stata teatro di due grossi attentati kamikaze: il 5 giugno, quando una donna si è fatta saltare in aria dopo esser salita su un autobus che trasportava dei piloti, e il primo agosto, quando un kamikaze alla guida di un camion con una tonnellata di esplosivo è andato a schiantarsi contro l’ospedale locale).
Vladikavkaz è dunque, per tradizione, la sede di molti processi farsa contro “terroristi internazionali”, con gli avvocati locali che collaborano con la corte e la procura e sostengono l’F.S.B. nel suo sforzo di stanare i suddetti “terroristi”.
Vladikavkaz è anche la sede prediletta dagli uomini dell’F.S.B. in Cecenia, che lì portano le loro vittime per interrogarle. Perch‚ è sempre meglio starsene alla larga dalla guerra vera.
Così accade anche a Chasuchanov. Cerepnev arriva a Vladikavkaz con il suo prigioniero e per prima cosa gli trova un avvocato, in quanto - si badi bene - dal primo luglio del 2003 la Russia ha un nuovo, avveniristico Codice di Procedura penale a livello europeo, che - fra le altre cose -
vieta di interrogare un sospettato in assenza del suo legale. Ciò non di meno, “se necessario”, le cose continuano ad andare come un tempo, e dal 20 aprile al 9 ottobre del 2002 Chasuchanov non ha nessuno che lo difenda. Nessuno. Per sei mesi. Fino a che le ossa del cranio e delle braccia, oltre che le costole, non gli si sono saldate rendendolo nuovamente presentabile.
Ancora una volta, i particolari del caso sono degni di interesse. L‘8 ottobre Cerepnev convoca Chasuchanov per un interrogatorio e gli impone di firmare una richiesta a lui rivolta. Gli detta quanto segue: “Chiedo che mi sia procurato un avvocato per l’inchiesta preliminare […]. Fino a oggi non ho avuto bisogno dei servigi di un legale, ragion per cui non ho lamentele da muovere agli organi inquirenti […]. Chiedo che l’avvocato venga scelto a discrezione del giudice per l’indagine preliminare…”.
Dunque il 9 ottobre Chasuchanov viene interrogato in presenza di Aleksandr Dzilichov, il suo avvocato. Va da s‚ che Chasuchanov non lo ritiene tale. Crede si tratti di un agente dell’F.S.B.
(3) e Dzilichov non fa nulla per convincerlo del contrario: non gli fornisce assistenza legale e si limita a presenziare senza mai aprire bocca.
Dai verbali del processo:
“Può dire se c’è una qualche differenza tra le deposizioni da lei rese prima e quelle rese dopo che le è stato assegnato un avvocato?”.
“Una differenza c’è. Prima, alla fine di un interrogatorio non mi facevano leggere i verbali; da che c’è l’avvocato, invece, sì…”.
Chasuchanov viene interrogato tre volte in presenza del suo difensore: il 9, il 23 e il 24 ottobre.
Più precisamente, in quelle tre occasioni Cerepnev copia le testimonianze estorte a Znamenskaja su nuovi moduli, trasformandole in deposizioni “in ottemperanza al Codice di Procedura penale”.
Il 25 ottobre Cerepnev decide che l’inchiesta è terminata. E annuncia a Chasuchanov che di lì a poco riceverà il testo dell’incriminazione. Quel che gli chiede è di firmarlo prima possibile. Tanto perch‚ non si faccia illusioni, il 29 e il 30 ottobre Chasuchanov viene messo in isolamento. Senza avvocato, ovviamente… Dove di preciso, non lo saprà mai, visto che gli infilano un sacco in testa. Il perch‚, invece, lo scopre presto, dato che i secondini armano i fucili e gli dicono: “Sei spacciato”.
Va da s‚ che è tutta una messinscena per spaventarlo, perch‚ non faccia storie e firmi la condanna con quel che c’è scritto.
E lui firma, è ovvio… Chi ha avuto puntato contro un fucile sa che è difficile opporre resistenza.
Chi non lo sa, si legga Dostoevskij.
Chasuchanov, dunque, non cede. In seguito, durante il processo, ritratterà anche i fatti su cui si basa la condanna (che verrà, però, confermata dal nuovo procuratore della Cecenia, Vladimir Kravcenko, e il cui testo migrerà quasi per intero nel verdetto del giudice Valerij Dzioev).
Affinch‚ sia chiaro come certi casi siano inventati a tavolino e come nessuno tra coloro che li inventano tema alcunch‚ avendo dalla propria le alte sfere (non temono nemmeno che le carte restino a futura memoria, per quella storia che in Russia, come sempre accade, sarà riscritta negli anni a venire), riporto ora alcuni brani che non necessitano di ulteriori commenti.
“Nell’aprile del 1999 il sig. Chasuchanov […] entra volontariamente in una formazione armata, la cui esistenza non era contemplata dalle leggi federali […]. Chasuchanov prende contatto con un uomo di Maschadov, Chambiev Magomedov, che gli propone di usare la sua esperienza per aiutare Maschadov a organizzare il neonato “Ispettorato militare”…”
E’ chiaro fin qui? Si sta dicendo che, dopo essersi congedato dall’esercito, Chasuchanov torna a casa, a Groznyj, e in quanto ufficiale con una formazione accademica alle spalle - caso unico in Cecenia - viene invitato da Maschadov a lavorare per il governo, che nel 1999 era un governo repubblicano regolare finanziato da Mosca, con Maschadov come presidente legalmente eletto e riconosciuto da Mosca… A Maschadov quell’“Ispettorato militare” serviva come il pane. I burocrati ceceni erano corrotti fino al midollo - come i loro colleghi moscoviti, del resto - e gli urgeva una persona competente in grado di controllare le entrate dell’esercito, provenienti in primo luogo dal Tesoro federale. Dov’era, dunque, la formazione armata?
Cito dal verbale dell’udienza:
“Riteneva che il presidente Maschadov agisse nella legalità [gli chiede il procuratore]?”.
“Sì. Non potevo sapere che Maschadov, il governo e i dicasteri preposti alla sicurezza sarebbero stati poi considerati fuori legge. Sapevo che Maschadov era il presidente e che era stato riconosciuto dal governo federale, che i suoi ministri incontravano i loro omologhi, che ci venivano stanziati dei fondi. Certo non sapevo di entrare a far parte di una formazione armata illegale…”.
“Era di sua competenza controllare le finanze e l’amministrazione del ministero degli Interni della Repubblica Cecena di Ichkerija?”.
“Sì. Nel giugno del 1999 riferii a Maschadov il risultato della mia verifica. Avevo stilato un elenco di tutte le spese sostenute. I dati mi erano stati forniti dal ministero degli Interni della Federazione Russa ed erano stati ottenuti per vie ufficiali. Non avevo ragione di supporre che ci fosse qualcosa di illegale”.
Nelle mansioni di Chasuchanov prima della guerra rientrano la verifica della gestione finanziaria e l’organizzazione di un sistema di controllo e monitoraggio delle risorse stanziate per il mantenimento delle forze di sicurezza della Cecenia: il ministero degli Interni, la Guardia nazionale, quella del presidente e lo Stato Maggiore. Nell’estate del 1999 Chasuchanov scopre che proprio attraverso lo Stato Maggiore dell’esercito passano somme ingenti per armi e uniformi, ma che, per esempio, i lanciarazzi che il ministero della Difesa commissiona alla fabbrica Martello rosso di Groznyj sono inutilizzabili, e che dunque si tratta di un marchiano furto ai danni dello Stato. Lo stesso dicasi per le uniformi, confezionate nella città cecena di Gudremes a sessanta rubli l’una, ma con l’etichetta “fatto negli Stati del Baltico” per gonfiare il prezzo…
Chasuchanov fa rapporto a Maschadov, e subito cominciano i problemi con le Forze Armate del presidente, coinvolte in quello sperpero di denaro. A una sola settimana dall’inizio della verifica, Maschadov - che ha bisogno di gente onesta - nomina Chasuchanov capo di Gabinetto.
Il calendario segna la fine di luglio del 1999. Il capo di Gabinetto Chasuchanov si mette all’opera in agosto, qualche giorno prima dello scoppio della seconda guerra cecena. Alla quale si rifiuta di partecipare.
Leggendo i verbali del processo (un processo a porte chiuse, lo ricordo), non si può evitare di pensare che sia stato una farsa. Qualcuno aveva deciso che Chasuchanov si prendesse una lunga condanna con imputazioni serissime. Per che cosa, però, non è specificato. Non ci resta che provare a indovinarlo per vie traverse. E se Chasuchanov, nel 1999, avesse scoperto qualcosa che gli si ritorse contro nel 2002-2003? E se c’entrasse il mistero dei fondi sottratti agli stanziamenti federali, quei fondi erogati per le strutture di sicurezza della Cecenia attraverso le strutture di sicurezza della Federazione Russa? Che poi è la frode che si sospetta abbia portato alla seconda guerra cecena, una guerra intesa a insabbiare per sempre le tracce di quei misfatti… Sarà per questo che i vertici militari della Russia sono tanto contrari ai trattati di pace?
Torno a citare dall’imputazione (e dal verdetto):
“Coinvolto attivamente nelle attività delle formazioni armate illegali, nel 1999 Chasuchanov svolge incarichi relativi al finanziamento della formazione stessa… Egli elabora e mette in atto un sistema di monitoraggio dei fondi stanziati per formazioni armate illegali denominate
“Guardia nazionale” e “Stato Maggiore Generale”, oltre che per il ministero degli Interni dell’autoproclamata “Repubblica di Ichkerija”. Avendo dato prova di doti eccelse di organizzatore, nonch‚ di grande efficienza, alla fine di luglio del 1999 Maschadov lo nomina capo di Gabinetto. Coinvolto attivamente nelle attività delle formazioni armate suddette, Chasuchanov collabora alla messa a punto di una strategia di fondo per la resistenza - compresa quella armata - alle forze del governo federale che mirano a restaurare l’ordine costituito sul territorio della Repubblica Cecena”.
Se non sapessimo qual è stato il prezzo che Chasuchanov ha pagato per una tale spudorata falsificazione della storia a opera dell’F.S.B. verrebbe quasi da ridere.
Cito dal verbale dell’udienza:
“Dica alla corte quale necessità aveva di trovarsi in Cecenia dall’inizio dei combattimenti al giorno dell’arresto”.
“Non potevo voltare le spalle a Maschadov, in quanto lo ritenevo un presidente legalmente eletto. Non ero in grado di fermare la guerra ma ho fatto tutto il possibile […]. Ogni tanto facevo quel che Maschadov mi chiedeva. Non ero in condizione di marciare per i boschi, ma ho fatto quello che potevo. Vedevo la gente morire e ho visto come si restaura l’ordine costituito.
Non posso non ritenere questa guerra un genocidio. Ma non ho mai istigato nessuno a compiere atti di terrorismo”.
“Ha mai istigato qualcuno a uccidere i soldati della Federazione Russa?”.
“Per farlo avrei dovuto avere degli uomini ai miei ordini. E non ne avevo”.
“Aveva alle sue dirette dipendenze qualche comandante in campo?”.
“No”.
Ho di fronte dei documenti “per uso interno”. Mentre preparava la causa, Cerepnev spedì in tutte le sedi locali dell’F.S.B. ceceno richieste di informazioni relative agli “atti terroristici” compiuti sul territorio per “disposizione del capo del Gabinetto operativo delle Forze Armate della Repubblica Cecena di Ichkerija, Chasuchanov”. Ricordo che si trattava di “disposizioni” inserite sui moduli in bianco firmati da Chasuchanov durante l’inchiesta e che Cerepnev aveva poi compilato (si legga: inventato) con quel che più gli faceva comodo.
Tutti i responsabili delle sedi locali dell’F.S.B. risposero che Chasuchanov non era coinvolto in nessun atto terroristico. E si badi bene che a scrivere non erano dei combattenti ceceni, ma i
‘colleghi’ di Cerepnev.
La macchina dell’inevitabile, necessaria condanna di Chasuchanov - “leader di una formazione armata illegale”, com’era ormai definito - si era messa in moto. Incurante dei fatti e delle prove.
Senza che n‚ il tribunale, n‚ la procura mostrassero il minimo interesse per la pila di scartoffie
“per uso interno”.
- Il processo.
Il caso Chasuchanov viene esaminato a porte chiuse e a gran velocità: il processo si celebra tra il 14 gennaio e il 25 febbraio del 2003 presso la Corte Suprema della Repubblica dell’Ossezia-Alanija del Nord presieduta da Valerij Dzioev. La corte non ha nulla da eccepire. N‚ sul fatto che per sei mesi l’imputato non abbia avuto un legale. N‚ sulla scelta del legale medesimo da parte di coloro che avevano picchiato a sangue Chasuchanov. N‚ sulla settimana di buco dal 20 al 27
aprile. N‚ sulle torture. La corte riconosce che ci sono state, ma non vi trova nulla di esecrabile.
Cito dal verdetto:
“Nel corso dell’inchiesta Chasuchanov non ha rilasciato dichiarazioni di colpevolezza, ma in seguito a pressioni psicologiche e fisiche da parte dei funzionari dell’F.S.B. è stato indotto a firmare i verbali di interrogatori stilati in precedenza.
“Lei ha sostenuto di aver subito delle violenze” chiede il giudice a Chasuchanov. “Può indicarmi i nomi di coloro che le hanno usato violenza?”.
“No. Non li conosco””.
I carnefici non hanno favorito alla vittima i documenti, quindi la corte passa oltre. E rifiuta di sottoporre a perizia medica quell’imputato con un’ammaccatura nel cranio. L’unica cosa che fa è chiedere al direttore della “segheria”, Tebloev, se Chasuchanov sia stato suo ospite. Quando questi risponde che sì, era stato in infermeria dal 3 maggio al settembre del 2002 con fratture diagnosticate alla cassa toracica, la corte non ‘afferra’ n‚ pare stupirsi che un uomo con simili fratture passi quattro mesi in un’infermeria… Cito dal verdetto:
“Nel corso dell’udienza l’imputato Chasuchanov non ha riconosciuto la propria colpevolezza quanto ai crimini contestatigli… Ha affermato che riteneva suo dovere dare corso a singole richieste ed eseguire le disposizioni di Maschadov, presidente legalmente eletto. Nega di aver ideato atti terroristici o di aver fornito denaro ai comandanti in campo. Ammette solo di aver autenticato personalmente con la sigla “copia autentica” alcuni ordini e disposizioni di Maschadov…”
Tutto qui?
Tutto qui. La conseguenza sono dodici anni di carcere duro (4). Senza diritto all’amnistia. Il commento finale dell’imputato è: “Non intendo ripudiare le mie idee. Quel che sta accadendo in Cecenia è una violazione gravissima dei diritti umani. Nessuno si cura di arrestare i veri criminali. E finch‚ tutto questo continuerà, molti altri come me finiranno a questa sbarra”.
Siamo ripiombati nelle tenebre da cui già una volta abbiamo cercato di venire fuori nei lunghi decenni dell’era sovietica. Abbiamo notizia di un numero sempre maggiore di casi in cui l’F.S.B.
si inventa dei procedimenti penali ricorrendo alla chiave ideologica che gli è più necessaria, con la corte e la procura a fare da tirapiedi. Sono talmente tanti, ormai, da essere la regola, e non l’eccezione.
Malgrado il garante preposto a salvaguardarla, la nostra Costituzione è in punto di morte. E del funerale è stato incaricato l’F.S.B.
Attorno a me accadono strane cose. Gli “occidentali” - così in Russia chiamiamo europei e americani - hanno una tale passione per Putin, lo amano a tal punto, da temere di pronunciarsi contro di lui.
Quando seppi che Chasuchanov era stato portato alla Krasnaja Presnja, celebre prigione di transito moscovita (una sorta di centro di smistamento da cui i condannati vengono poi tradotti in altri punti del Paese), chiamai la sede moscovita della Croce Rossa internazionale (5). I collaboratori della Croce Rossa sono gli unici, o quasi, che possano far visita ai detenuti in cella.
Li chiamai perch‚ sapevo che dopo le torture subite Chasuchanov aveva un piede nella fossa.
Dissi loro di andare alla Krasnaja Presnja, di portargli dei medicinali, di chiedere alle autorità penitenziarie di curarlo, di accordarsi per visite regolari…
Passò una settimana. L’ufficio di Mosca stava vagliando la mia richiesta, mi dicevano. Dopo di che mi diedero un responso negativo, farfugliando che la situazione era “molto complessa”.
So cosa significa: hanno paura. Paura dell’F.S.B. E non vogliono osteggiare la politica di Putin.
Vergogna.
PARTE SECONDA.
IL PRECEDENTE DEL COLONNELLO BUDANOV.
Il 25 luglio del 2003, il tribunale militare del distretto del Caucaso Settentrionale emette finalmente la sentenza relativa al caso dell’ormai ex colonnello dell’esercito russo Jurij Budanov, che ha combattuto in entrambe le guerre cecene ed è stato insignito di due medaglie al valore.
E’ una condanna a dieci anni da scontare in un carcere duro per crimini compiuti in Cecenia nel corso delle “operazioni antiterrorismo” (quindi durante la seconda guerra) e relativi al rapimento e al brutale assassinio della giovane cecena El’za Kungaeva.
La corte lo privava, inoltre, del suo grado e di tutte le onorificenze ricevute.
Il caso Budanov era iniziato il 26 marzo del 2000, giorno dell’elezione del presidente Putin, era durato più di tre anni (con la guerra in corso) ed era assurto a banco di prova della nostra società, dal Cremlino fino all’ultimo villaggio. Tutti cercavamo di rispondere a una domanda: i soldati e gli ufficiali che ogni giorno, in Cecenia, uccidono, saccheggiano, torturano e stuprano, sono dei criminali comuni o dei criminali di guerra? O sono, piuttosto, paladini inflessibili autorizzati all’uso di qualunque mezzo in una guerra globale al terrorismo, dove il fine della salvezza del genere umano giustifica i mezzi a cui si ricorre? La conseguenza fu che il caso Budanov divenne un caso politico su scala nazionale, un’icona della nostra epoca. Un caso lampante, tragico e drammatico che ha fagocitato ogni altro evento accaduto nel frattempo in Russia e nel mondo: l‘11 settembre, la guerra in Afghanistan e in Iraq, la nascita di una coalizione internazionale contro il terrorismo, gli attentati in Russia, gli ostaggi di Mosca nell’ottobre del 2002, le donne cecene che si fanno esplodere una dopo l’altra, la palestinizzazione della seconda guerra cecena in risposta alle gesta di Budanov e agli esiti di un processo a suo carico che i ceceni hanno ritenuto offensivo per tutta la nazione… E’ un caso che ha portato allo scoperto tutti i nostri problemi, la nostra vita ai margini della seconda guerra cecena, la nostra condotta irrazionale riguardo alla guerra e al governo Putin, il nostro modo di distinguere tra colpevoli e innocenti nel Caucaso Settentrionale e, soprattutto, le alterazioni morbose subite dal nostro sistema giudiziario con Putin al governo e la guerra sullo sfondo.
Sotto il peso dell‘“affaire” Budanov è crollata la riforma della giustizia che le forze democratiche avevano cercato di propugnare e che El’cin aveva fatto di tutto per promuovere. Perch‚ per tre anni e più ci è stato dimostrato che, nonostante le riforme, il nostro non è un sistema giudiziario indipendente. Quel che abbiamo sono processi su commissione politica a seconda della congiuntura del momento, una commissione che - per di più - è ritenuta ovvia da buona parte dei nostri compatrioti. L’uomo russo di oggi, l’uomo dell’era Putin, ha il cervello offuscato dalla propaganda e per buona parte è tornato a pensare da bolscevico. Ma non ha disimparato del tutto a pensare con la propria testa, come era autorizzato a fare con il presidente El’cin. Oggi un russo non avrà fretta di rispondere alla domanda se un processo debba per forza essere politico o se debba, invece, fare i conti solo con la legge. Anzi, è molto probabile che chieda del tempo per rifletterci…
Il 25 luglio del 2003 i genitori di El’za Kungaeva, barbaramente uccisa dal colonnello Budanov, avevano chiaro meglio di chiunque altro che cosa stava per succedere e non si presentarono in aula. Erano sicuri che colui che aveva massacrato El’za sarebbe stato assolto.
Invece accadde il miracolo che nessuno si sarebbe mai aspettato. Un miracolo che allo stesso tempo è un gesto di grande coraggio ed eroismo da parte del giudice Vladimir Bukreev. Perch‚
Bukreev ha osato emettere un verdetto di condanna, comminando, per di più, una pena detentiva tutt’altro che simbolica. Con ciò si è schierato contro l’establishment militare russo, che sosteneva attivamente Budanov e giustificava le sue gesta. Nonostante le enormi, evidenti pressioni subite dal Cremlino e dal ministero della Difesa (e la giustizia militare in Russia è parte di quelle Forze Armate di cui il presidente è Comandante Supremo), il giudice Bukreev ha deciso che Budanov doveva avere quel che si meritava. E ha dimostrato con ciò, per l’ennesima volta, che ora come un tempo in Russia non esiste un sistema giudiziario. Quel che abbiamo è un sistema che ottempera alle esigenze della politica, al quale si oppongono solo singoli eroi.
Ma veniamo al caso Budanov.
- Il caso.
Per dissipare le leggende che attorno al caso Budanov sono sorte in Russia e tra gli estimatori europei di Putin, lasciamo che a parlare siano gli atti.
Che cos’è, nella Russia di oggi, un crimine di guerra? Per rispondere alla domanda mi sia consentito citare la sentenza del caso n. 14/00/0012-00 (caso Budanov).
Pur se scritti con la lingua asciutta della procura, i passaggi qui riportati testimoniano meglio di qualunque pagina giornalistica quale sia il clima della seconda guerra cecena e quale la situazione fra le truppe dislocate nella zone delle “operazioni antiterrorismo”, in cui regna un’anarchia pressoch‚ assoluta. Ed è questa anarchia, in ultima analisi, la causa e l’humus di quanto commesso da Jurij Budanov, ormai ex colonnello dei carristi, comandante di un’unità d’‚lite delle Forze Armate russe, nonch‚ esponente lui stesso di quell’‚lite, in quanto uscito dall’Accademia militare e decorato con le massime onorificenze del Paese per i suoi meriti in battaglia.
E dunque:
“Verdetto di condanna a carico del colonnello dell’unità n. 13206 (160esimo reggimento carristi) Budanov Jurij Dmitrievic, accusato di aver commesso i crimini previsti al punto ‘c’ comma 2
articolo 105; al comma 3 articolo 126; e ai punti ‘a’ e ‘c’ comma 3 articolo 286 del Codice penale della Federazione Russa; e del tenente colonnello Fedorov Ivan Ivanovic, accusato di aver commesso i crimini previsti ai punti ‘a’, ‘b’, ‘c’ comma 3 articolo 286 del Codice penale della Federazione Russa”.
Una precisazione. Il caso Budanov era, in partenza, il caso Budanov-Fedorov. Quest’ultimo era comandante di reggimento e vice di Budanov. Il 26 marzo i due avevano commesso crimini sia insieme sia separatamente. Fedorov venne assolto in quanto la sua vittima si salvò e lo perdonò pubblicamente durante le udienze.
“L’inchiesta ha appurato che Budanov Jurij Dmitrievic è stato nominato comandante dell’unità n.
13206 (160esimo reggimento carristi) il 31 agosto del 1998. Il 31 gennaio 2000 Budanov viene promosso al grado di colonnello. Il 12 agosto del 1997 Fedorov Ivan Ivanovic viene promosso al grado di tenente colonnello. Il 16 settembre del 1999, come da direttiva n. 312/00264 dello Stato Maggiore delle Forze Armate della Federazione Russa, Budanov e Fedorov partono per il distretto militare del Caucaso Settentrionale, e quali membri dell’unità n. 13206 vengono dispiegati nella Repubblica Cecena per svolgere operazioni antiterrorismo. Il 26 marzo del 2000
l’unità 13206 è temporaneamente di stanza alla periferia del villaggio di Tangi, nella provincia cecena di Urus-Martanov. Durante il pasto alla mensa degli ufficiali, Budanov e Fedorov consumano alcolici per festeggiare il compleanno della figlia di Budanov. Alle 19 dello stesso giorno - in stato di palese ubriachezza e su proposta di Fedorov - Budanov, Fedorov e un gruppo di ufficiali del reggimento si recano agli accantonamenti della compagnia di ricognizione posta agli ordini del tenente Bagreev R. V.”.
Una precisazione. In seguito, in aula, Roman Bagreev avrebbe perdonato entrambi per quello che gli avevano fatto.
“Dopo aver ispezionato le tende dell’unità, per dimostrare a Budanov che la compagnia di ricognizione, agli ordini di quel Bagreev da lui stesso raccomandato, è in grado di agire al meglio in combattimento, Fedorov propone a Budanov di testarne le capacità operative. In un primo momento Budanov declina l’offerta. Fedorov, tuttavia, insiste. All’ennesima insistenza Budanov acconsente e con un gruppo di ufficiali si dirige al centro comunicazioni. All’insaputa di Budanov, Fedorov decide di autorizzare l’uso delle armi contro il villaggio di Tangi. Lo fa senza un’effettiva necessità al riguardo, in quanto a Tangi non erano in corso scontri a fuoco.
Agendo in flagrante violazione della direttiva n. 312/ 2/0091 (21.01.2002) dello Stato Maggiore delle Forze Armate della Federazione Russa (che vieta l’impiego delle unità di ricognizione senza debita preparazione e verifica della loro capacità a eseguire missioni operative), Fedorov dà ordine di prendere posizione e di aprire il fuoco alla periferia di Tangi.
Obbedendo all’ordine ricevuto, il tenente Bagreev ordina ai suoi effettivi di prendere posizione e di aprire il fuoco su una casa isolata alla periferia di Tangi. Tre veicoli da combattimento prendono posizione. Individuato l’obiettivo, però, parte della compagnia non obbedisce all’ordine di Fedorov di aprire il fuoco. Fedorov insiste continuando ad abusare dei suoi poteri. Infuriato per il rifiuto dei sottoposti, Fedorov se la prende con Bagreev, imprecando affinch‚ faccia aprire il fuoco dai suoi uomini. Insoddisfatto di come agisce Bagreev, Fedorov assume personalmente il comando della compagnia e ordina di sparare sulla periferia di Tangi. Salta a bordo di una postazione missilistica e pretende che il responsabile, l’aspirante Larin, faccia fuoco sul bersaglio. Gli effettivi obbediscono all’ordine di Fedorov; di conseguenza viene colpita e distrutta la casa sita al n. 4 di via Zarechnaja nel villaggio di Tangi - di proprietà di Dzavatchanov A. A., ivi residente -, il cui valore ammonta a centocinquantamila rubli. Fatto eseguire l’ordine iniquo, Fedorov afferra Bagreev per il bavero e comincia a insultarlo. Bagreev non oppone resistenza e si ritira nella tenda della sua unità. Trovandosi presso il centro trasmissioni e uditi gli spari nella zona dove era di stanza l’unità di ricognizione, Budanov dà ordine a Fedorov di cessare il fuoco e lo convoca. Questi riferisce a Budanov che Bagreev ha intenzionalmente disubbidito all’ordine di aprire il fuoco. A questo punto viene convocato anche Bagreev. Budanov lo insulta per non aver obbedito all’ordine di Fedorov e lo colpisce con almeno due pugni al volto.
Nel contempo Budanov e Fedorov ordinano agli uomini di legare Bagreev e di collocarlo nella fossa scavata all’interno della base affinch‚ vi sconti la sua pena. Budanov afferra Bagreev per il bavero e lo sbatte a terra. Fedorov colpisce Bagreev al volto con lo stivale. Sopraggiungono gli effettivi del comando che legano Bagreev, sempre riverso a terra. Intanto Budanov e Fedorov, che indossano gli stivali d’ordinanza, continuano a picchiarlo. Fedorov lo colpisce non meno di 5-6 volte al corpo, viso compreso; Budanov gli infligge 3-4 calci al torso. Dopo le percosse Bagreev viene calato nella fossa, seduto, con mani e piedi legati. Trenta minuti dopo il pestaggio, Fedorov va alla fossa, ci salta dentro e colpisce Bagreev al viso con almeno due pugni, facendogli sanguinare il naso; viene bloccato dagli ufficiali sopraggiunti di corsa sul posto.
Qualche minuto dopo giunge alla fossa Budanov e dà ordine di estrarre Bagreev. Accortosi che Bagreev è riuscito a slegarsi, Budanov dà disposizione di legarlo nuovamente. Eseguito l’ordine, Budanov e Fedorov ricominciano a pestare Bagreev, dopo di che ordinano che venga ricollocato nella fossa con mani e piedi legati. A questo punto, Fedorov salta nella fossa e morde Bagreev al sopracciglio destro. Bagreev resta nella fossa suddetta fino alle 8 del mattino del 27.03.2000, quando viene liberato su ordine di Budanov.
Alle 24 del 26 marzo, senza avere ricevuto istruzioni in merito dal comando superiore delle operazioni antiterrorismo, Budanov decide di recarsi al villaggio di Tangi per verificare personalmente le notizie sulla presenza di formazioni armate illegali al n. 7 di via Zarechnaja.
Per recarsi a Tangi Budanov ordina ai suoi sottoposti di preparare un veicolo da fanteria B.M.P.
391. Budanov e i suoi uomini - i sergenti Grigor’ev, Egorov e Li-en-Shou - prendono con s‚ armi automatiche A.K.-74 [kalashnikov]. Budanov li informa che la missione è intesa a bloccare una donna-tiratore scelto. Per questa ragione i soldati avrebbero poi eseguito ciecamente i suoi ordini.
Budanov giunge a Tangi tra la mezzanotte e l’una del 27 marzo. Su sua precisa disposizione il veicolo viene fatto fermare al n. 7 di via Zarechnaja, domicilio della famiglia Kungaev. Budanov, Grigor’ev e Li-en-Shou entrano. In casa c’è Kungaeva El’za Visaevna, nata il 22 marzo 1982, con quattro tra fratelli e sorelle, tutti minorenni. I genitori non sono presenti. Budanov le chiede dove si trovino. Non avendo ottenuto risposta, prevaricando le sue mansioni e i suoi poteri e in violazione dell’articolo 13 della legge federale “Sulla lotta al terrorismo”, Budanov ordina a Grigor’ev e Li-en-Shou di prelevare El’za Kungaeva.
Credendo di agire legittimamente, Grigor’ev e Li-en-Shou prendono la Kungaeva, la avvolgono in una coperta trovata sul posto e la caricano sul veicolo B.M.P. 391. A rapimento avvenuto, Budanov porta la Kungaeva all’accampamento dell’unità 13206 del reggimento carristi. Su ordine di Budanov, i sergenti Grigor’ev, Egorov e Li-en-Shou trasferiscono la Kungaeva, ancora avvolta nella coperta, nei prefabbricati dove alloggiano gli ufficiali e dove risiede anche Budanov, e la depongono a terra. Budanov dà loro disposizione di restare nei paraggi e di non far entrare nessuno nel suo alloggio.
Rimasto solo con la Kungaeva, Budanov la interroga: vuole sapere dove sono i suoi genitori e come si spostino i guerriglieri ceceni a Tangi. Non avendo ottenuto risposta, Budanov - che non ha alcun diritto di interrogare la Kungaeva - insiste nell’estorcerle le informazioni desiderate.
Poich‚ la Kungaeva si rifiuta di rispondere alle sue domande, Budanov comincia a picchiarla con pugni e calci al volto e in diverse parti del corpo. La Kungaeva oppone resistenza, lo spintona e cerca di scappare dall’alloggiamento.
Convinto che la Kungaeva sia membro di una formazione armata coinvolta nell’assassinio di alcuni suoi sottoposti nel gennaio del 2000, Budanov decide di ucciderla. A questo scopo la afferra per la veste, la getta sulla sua branda, le stringe le mani al collo e comincia a premere.
Consapevole che stringendole a quel modo il collo l’avrebbe uccisa, e intenzionato a farlo, Budanov non demorde fino a che la ragazza non dà più segni di vita. Solo allora allenta la presa.
La stretta premeditata di Budanov provoca alla Kungaeva una frattura del corno destro dell’osso sublinguale, causa dell’asfissia e del successivo decesso. Resosi conto di aver ucciso la Kungaeva, Budanov chiama nei suoi alloggi Grigor’ev, Egorov e Li-en-Shou, ordina loro di portare via il corpo e di seppellirlo segretamente oltre i confini dell’accampamento. L’ordine viene eseguito. Il corpo della Kungaeva viene prelevato e seppellito in un bosco, come riferito da Grigor’ev a Budanov la mattina del 27 marzo 2000. Interrogati sul crimine loro contestato, gli imputati Budanov e Fedorov hanno parzialmente ammesso la propria colpevolezza, modificando le deposizioni rese nella fase iniziale dell’istruttoria.
Imputato Budanov Jurij Dmitrievic
Fase 1. Budanov testimone.
Interrogato in qualità di testimone il 27.03.2000, Budanov ammette di essersi recato il 25 marzo a Tangi, di aver rinvenuto alcune mine in una abitazione e di aver arrestato due ceceni.
Spiegando le ragioni e le circostanze del suo scontro con il tenente Bagreev, Budanov sostiene di non averlo mai percosso. Durante una verifica operativa dell’unità di ricognizione svolta assieme a Fedorov intorno alle 19.00 del 26 marzo 2000, gli uomini avevano mal risposto a un ordine d’attacco. Era scoppiato un diverbio e Bagreev aveva insultato Fedorov. Dunque Budanov aveva dato ordine di arrestare Bagreev. Budanov nega di aver ordinato a Fedorov di aprire il fuoco su Tangi e nega anche che tale sparatoria sia avvenuta. Alla fine dell’interrogatorio Budanov chiede di presentare un’ammissione di colpa relativa all’uccisione della parente di alcuni cittadini membri di bande armate che operano sul territorio ceceno.
Il 27.03.2000, nella sua ammissione di colpa indirizzata al procuratore del distretto militare del Caucaso Settentrionale, Budanov scrive di suo pugno quanto segue. Il 26 marzo 2000 si era recato alla periferia est di Tangi allo scopo di catturare o uccidere una donna-cecchino. Era giunto a Tangi alle 0.20 ed era entrato in una casa di periferia dove si trovavano due ragazze e due ragazzi. Alla domanda su dove fossero i loro genitori, la maggiore aveva risposto di non saperlo. Budanov aveva ordinato ai suoi sottoposti di avvolgere la ragazza in una coperta e di caricarla sulla macchina. Giunti alla base, la ragazza era stata portata nel suo alloggiamento.
Rimasto solo con lei, le aveva chiesto dove fosse la madre. Fonti militari lo avevano informato che la madre della ragazza era un cecchino. La ragazza aveva risposto di conoscere poco il russo e di non sapere dove fossero i suoi genitori. Budanov le aveva ribattuto che doveva sapere dov’era la madre e quanti russi aveva ammazzato. La ragazza si era messa a strillare, mordere e divincolarsi. Budanov aveva dovuto ricorrere alla forza. Era sopravvenuta una colluttazione, durante la quale Budanov aveva strappato alla ragazza camicia e reggiseno. La ragazza aveva continuato a divincolarsi e Budanov aveva dovuto sbatterla sulla branda e soffocarla. Lo aveva fatto stringendole la gola con la mano destra. L’aveva denudata solo fino alla vita. Dopo una decina di minuti la ragazza aveva smesso di lamentarsi e Budanov aveva verificato il battito all’altezza del collo. Era morta. Budanov aveva chiamato i suoi uomini, aveva ordinato loro di avvolgere il corpo in una coperta, di portarlo nel bosco, nella zona di stanza del battaglione carristi, e di seppellirlo.
Fase 2. Budanov sospettato.
Interrogato il 28.03.2000 in qualità di sospettato, Budanov dichiara di aver saputo da fonti operative in data 3 marzo 2000 che a Tangi viveva una donna-cecchino della guerriglia cecena.
Gliene era stata mostrata una fotografia. A riferirglielo era stato un abitante di Tangi che aveva dei conti in sospeso con i guerriglieri. Il 13-14 marzo 2000 quella stessa persona gli aveva indicato la casa alla periferia est del villaggio in cui viveva la donna. Il 24 marzo 2000 Budanov passa accanto alla casa, ma non vi entra.
Vi torna il 26 marzo. E’ stato informato che quella notte la donna sarà in casa. Budanov entra.
Trova tutti in piedi, tutti vestiti. Budanov chiede dove sia il padrone di casa, la ragazza più grande risponde di non saperlo. Il colonnello ordina allora ai sottoposti di prelevarla. Tornano all’accampamento e Budanov rimane solo con la ragazza nei suoi alloggi.
La ragazza si mette a strillare e a insultarlo e cerca di fuggire. Lui la afferra e la getta sulla branda. Ciò facendo le strappa la camicetta. Spinta la ragazza in un angolo, Budanov la scaraventa sulla branda e comincia a soffocarla premendole la mano destra sulla gola. Lei oppone resistenza. Il risultato della colluttazione è uno strappo nella parte superiore della veste di lei. Dopo una decina di minuti la ragazza smette di divincolarsi. Budanov verifica il battito, assente. Chiama i suoi uomini. Entrano l’ufficiale comandante e il marconista. La ragazza è riversa nell’alloggio di Budanov, in un angolo, svestita, con solo le mutande addosso. Budanov dà ordine di avvolgerla nella coperta in cui l’avevano portata e di seppellirla. Spiega di essersi infuriato perch‚ la ragazza non aveva voluto confessare dov’era la madre, che da informazioni in suo possesso era un tiratore scelto responsabile dell’uccisione, tra il 15 e il 20 gennaio del 2000, di dodici tra soldati e ufficiali nella Gola di Argun.
Fase 3. Budanov imputato.
Interrogato il 30.03.2000 in qualità di imputato, Budanov si riconosce parzialmente colpevole e dichiara quanto segue. Il 23 marzo del 2000 arresta due ceceni e sequestra 60 mine da 80
millimetri nella casa in cui si trovano. Uno dei due, Shamil’, dice a Budanov che gli indicherà la casa di alcuni guerriglieri in cambio della libertà. Fatto indossare a Shamil’ un cappello da soldato, Budanov lo carica su un B.M.P. e si dirige con lui al villaggio. Shamil’ gli indica la casa alla periferia est di Tangi in cui vive la cecchina e gli mostra altre cinque o sei case abitate da guerriglieri. Da Shamil’ Budanov apprende che la donna torna spesso a casa, la notte, e che ha una figlia che la tiene informata sulle mosse dei militari russi.
Budanov ritocca in parte quanto deposto in relazione alla condotta della Kungaeva, sostenendo ora che la ragazza gli avrebbe detto che lui e i suoi uomini non sarebbero mai usciti vivi dalla Cecenia; quindi avrebbe insultato volgarmente la madre di Budanov, e infine avrebbe tentato di scappare.
Budanov si infuria. Riesce ad afferrare la ragazza per la camicia e a gettarla sulla branda.
Accanto alla branda, su un tavolo, c’è la sua pistola. La ragazza cerca di afferrarla. Budanov tiene ferma la ragazza sulla branda stringendole la gola con la mano destra mentre con la sinistra le blocca il braccio così che non possa afferrare la pistola. Lei si divincola, e la parte superiore della veste si strappa. Budanov non toglie la mano dalla gola della ragazza, che dopo una decina di minuti si quieta”.
[Una precisazione. I graduali mutamenti nelle deposizioni di Budanov sono dovuti al fatto che il Cremlino e le alte sfere militari si erano ripresi dallo choc causato dall’inattesa audacia della procura - che aveva osato arrestare un colonnello pluridecorato - e avevano cominciato a esercitare pressioni sugli inquirenti incaricati degli interrogatori. Di qui le imbeccate a Budanov su cosa dire per ridurre al minimo le conseguenze penali dei crimini commessi, se non per evitarle del tutto].
“Nel corso dell’interrogatorio del 26 settembre 2002, l’imputato Budanov fornisce ulteriori dettagli sulle fonti che gli avrebbero riferito di come la Kungaeva fosse membro di formazioni armate illegali. Le notizie provenivano da un ceceno incontrato tra gennaio e febbraio del 2000, dopo gli scontri alla Gola di Argun. Il ceceno suddetto gli aveva consegnato una fotografia che ritraeva la Kungaeva con in mano un fucile S.V.D. [l’arma dei cecchini].
Interrogato in data 4.01.2001, Budanov dichiara di non ritenersi colpevole del rapimento della Kungaeva e di aver agito correttamente, date le informazioni in suo possesso. Aveva riconosciuto El’za Kungaeva come la donna della fotografia. Se aveva dato ordine a Grigor’ev e Li-en-Shou di prelevare la Kungaeva era stato perch‚ voleva consegnarla agli organi di sicurezza.
Se poi non l’aveva fatto era perch‚ sperava di scoprire dove si trovavano i guerriglieri e di provvedere ad arrestarli lui stesso. Era consapevole che, se i guerriglieri avessero saputo che la Kungaeva era stata catturata, avrebbero fatto di tutto per liberarla. Per questo motivo aveva deciso di tornare subito al reggimento. Di notte, inoltre, è vietato ogni spostamento su lunga distanza. Budanov si era mosso nella zona di competenza del suo reggimento, dove era autorizzato a spostarsi. Non si riconosceva colpevole di omicidio premeditato, in quanto non era sua intenzione uccidere la ragazza, si trovava in uno stato di forte turbamento e non sapeva spiegarsi come avesse potuto strangolarla.
Imputato Fedorov Ivan Ivanovic.
Interrogato in data 3 aprile 2000 in qualità di testimone, Fedorov dichiara che il 26 marzo 2000
lui, Arzumanjan [compagno d’armi, capitano, amico e vice di Budanov] e Budanov si erano recati a ispezionare la compagnia di ricognizione. Completata l’ispezione, Fedorov aveva dato a Bagreev un ordine provvisorio: “Attacco alla postazione di comando. Occupare posizioni di fuoco” e gli aveva indicato il bersaglio. Poi aveva fatto venire Bagreev e gli aveva chiesto perch‚
i veicoli da combattimento non fossero orientati verso l’obiettivo.
Non ricorda che cosa gli avesse risposto Bagreev, ma alle spiegazioni di quest’ultimo potrebbe aver reagito insultandolo. Dopo di che l’aveva afferrato per il bavero. Budanov e Arzumanjan erano poi andati al comando del reggimento. Fedorov non ricorda chi avesse dato ordine di legare Bagreev mani e piedi. Quindi si era avvicinato a Bagreev e lo aveva colpito più volte. Non ricorda come. Su suo ordine, Bagreev era poi stato calato in una fossa. Fedorov ci era saltato dentro per dire a Bagreev quel che pensava di lui.
Arzumanjan lo aveva tirato fuori dalla fossa. Che quella notte Budanov era stato a Tangi, Fedorov lo scopre quando all’accampamento si presenta una commissione inviata dallo Stato Maggiore del raggruppamento militare “Occidente”.
Intorno al 20 marzo Fedorov vede da Budanov la fotocopia della fotografia di una donna: una cecchina, gli spiega Budanov. Sempre a detta di Budanov, la donna vive a Tangi e lui deve trovarla. La donna non dimostra più di 30 anni. Intorno al 25 marzo del 2000 Budanov si reca a Tangi e un ceceno gli mostra le case dei guerriglieri. L’esame del taccuino di lavoro di Fedorov -
prodotto come prova - ha rilevato un appunto sul retro di pagina otto: Sambiev Shamil’, via Zareckaja, 7, Chungaev Idolbek. Seguono due indirizzi, in quanto il ceceno non aveva saputo dire quali fossero le altre vie e si era limitato a indicare le case, dieci in tutto.
Interrogato il 24.11.2000, Fedorov dichiara di aver dato ordine a Bagreev di attaccare il nemico a Tangi il 26.03.2000 e di aver poi osservato le reazioni dell’unità di ricognizione. Bagreev aveva ripetuto l’ordine. Fedorov, però, aveva notato che Bagreev stava agendo impropriamente e si era infuriato. Aveva poi ottenuto da Bagreev che facesse eseguire correttamente dai suoi uomini quanto richiesto.
Dopo di che, riscontrando una scarsa operatività del comandante, Fedorov aveva deciso di verificare fino in fondo come la compagnia si sarebbe comportata in un’azione di fuoco. All’uopo aveva dato ordine a Bagreev di puntare un pezzo d’artiglieria contro una casa isolata alla periferia di Tangi. Sulla sua decisione di aprire il fuoco su quella determinata casa aveva influito il fatto che il reggimento carristi l’aveva più volte tenuta d’occhio. Quanto allo scontro con Bagreev, Fedorov ammetteva di essersi risentito per aver sbagliato tanto marchianamente a giudicare un uomo, la qual cosa spiegava il comportamento da lui tenuto in seguito.
Interrogato il 26.12.2000, Fedorov dice di non convenire sul fatto che la casa abbattuta valesse centocinquantamila rubli. Quando aveva fatto aprire il fuoco, la casa era già per buona parte distrutta dai massicci scontri avvenuti nel dicembre del 1999 fra le truppe federali e le formazioni di banditi locali. Già prima della sparatoria Fedorov era a conoscenza del fatto che dal quartiere in cui era situata la casa in oggetto erano partiti alcuni colpi diretti contro il loro accampamento.
Oltre che dalla loro parziale confessione, la colpevolezza di Budanov e Fedorov quanto ai crimini loro contestati è confermata anche dall’insieme delle prove raccolte.
Parte lesa Kungaev Visa Umarovic.
Nato il 19.04.1954, coniugato, di nazionalità cecena, agronomo presso il “sovchoz” Urus-Martan, padre di Kungaeva El’za Visaevna, ha dichiarato quanto segue: El’za era la sua figlia maggiore.
Oltre a lei ha altri quattro figli. El’za era una ragazza molto riservata, tranquilla, laboriosa, onesta, brava. Si occupava lei delle faccende domestiche, in quanto la madre è malata e non può lavorare. Per questa stessa ragione El’za si occupava anche dei fratelli più piccoli. Passava il tempo libero in casa, non usciva mai, non aveva un ragazzo. Si vergognava di intrattenere rapporti con persone di sesso maschile. Non aveva relazioni intime con nessuno. Non era un cecchino e non faceva parte di formazioni armate illegali, la qual cosa è assolutamente assurda.
Il 26.03.2000 lui, la moglie e i figli erano andati a votare [ironia del destino, era il giorno dell’elezione di Putin], poi si erano occupati delle faccende di casa. La moglie era uscita intorno alle 15 per andare da suo fratello a Urus Martan. Con i figli era rimasto solo lui.
Non avendo la luce elettrica, si erano coricati verso le 21. Lui sul divano della cucina. Verso le 0.30 del 27 marzo era stato svegliato dal rumore di un veicolo da combattimento fermatosi davanti alla porta di casa. Si era affacciato alla finestra e aveva visto alcune persone dirigersi verso casa sua. Aveva chiamato la figlia maggiore, El’za, e le aveva detto di svegliare i piccoli, di vestirli e di portarli via, avvisandola che i soldati stavano circondando la casa. Lui si era precipitato dal fratello Aldan, che abita a 20 metri di distanza e che stava già correndogli incontro. Entrando in casa dalla porta principale, Aldan aveva visto il colonnello Budanov e l’aveva riconosciuto da una fotografia apparsa sul giornale “Krasnaja zvezda” (Stella rossa). “Tu chi sei?” gli aveva chiesto Budanov. Aldan gli aveva risposto che era il fratello del padrone di casa. Budanov gli aveva detto brutalmente di andarsene. Aldan era corso fuori e si era messo a urlare. Visa Kungaev aveva poi saputo dai figli che Budanov aveva dato ordine ai soldati di prelevare El’za. E che lei aveva urlato. I soldati l’avevano avvolta in una coperta e l’avevano portata via. Poi erano sopraggiunti i parenti, che avevano svegliato l’intero villaggio per trovare la ragazza.
Kungaev si era rivolto al capo dell’amministrazione locale, al comandante militare del villaggio e del distretto di Urus-Martan. Alle 6.00 di mattina si erano recati a Urus-Martan per cercare la figlia. La sera del 27 marzo del 2000 avevano saputo che El’za era stata uccisa. Kungaev ritiene che Budanov abbia rapito la figlia e l’abbia stuprata solo perch‚ era una bella ragazza.
Altri testimoni.
Il testimone Magamaev A. S. ha dichiarato di essere un vicino di casa dei Kungaev. La famiglia Kungaev è povera. Lavorano essenzialmente nei campi. Conosceva El’za da che era nata. Era timida, non aveva contatti con i coetanei dell’altro sesso. Può affermare con certezza che El’za non avesse mai preso parte a formazioni banditesche armate. L’inchiesta non ha trovato prove del fatto che Kungaeva E. V. fosse riconducibile a formazioni armate illegali o ne fosse membro.
Il testimone Makarshanov Ivan Aleksandrovic, ex militare [soldato semplice] dell’unità 13206 ha dichiarato quanto segue. La sera del 26.03.2000 i soldati del corpo di guardia furono messi in stato di allarme. Su ordine del comandante di reggimento, gli uomini avevano legato il comandante dell’unità di ricognizione, Bagreev, che era riverso a terra. Budanov e Fedorov lo avevano colpito con almeno tre calci ciascuno. Tutto si era svolto assai velocemente. Dopo di che Bagreev era stato calato nella fossa, il cosiddetto “zindan”.
Tempo dopo, ormai a notte fonda, aveva sentito urla e gemiti e aveva visto che nella fossa in cui era stato messo Bagreev (la tenda era a 15-20 metri dallo zindan) c’erano Budanov e Fedorov.
Fedorov stava picchiando Bagreev al volto. Budanov era accanto a lui. Qualcuno puntava una torcia elettrica a terra, per questo la scena era ben visibile. Fedorov, poi, era stato tirato fuori dalla fossa. Makarshanov era rimasto nella tenda di Fedorov fino alle 2 di notte del 27 marzo, per tenere accesa la stufa. Verso l’una aveva sentito un veicolo B.M.P. che si avvicinava all’alloggio di Budanov, e dalla tenda aveva visto quanto stava accadendo. Quattro persone entravano nell’alloggio (una di esse era Budanov). Una portava a spalla una specie di involto delle dimensioni di un corpo umano. Makarshanov aveva visto dei lunghi capelli che spuntavano da un’estremità dell’involto, capelli di donna o di ragazza. Colui che teneva l’involto aveva aperto la porta, aveva portato il suo carico nell’alloggio e lo aveva deposto a terra. La luce era accesa, per questo Makarshanov aveva potuto vedere quel che accadeva. Budanov era entrato nel suo alloggio. La distanza fra la tenda dove si trovava Makarshanov e l’alloggio di Budanov era di 8-10 metri, non di più. Le tre persone del B.M.P. erano rimaste accanto all’alloggio di Budanov.
Il testimone Mishurov E. G., ex militare dell’unità 13206 [soldato semplice], ha dichiarato di aver montato la guardia alla tenda del colonnello dalle 2 di notte del 27 marzo e di aver notato che accanto all’alloggio di Budanov c’erano due uomini del suo B.M.P. Il veicolo si era allontanato verso le 3.30. Era tornato verso le 5.50, fermandosi accanto all’alloggio del colonnello.
Il testimone Kol’cov Viktor Alekseevic ha dichiarato di aver prestato servizio a contratto presso l’unità 13206 dal 1.02.2000. La notte del 26.03.2000, dalle 23 circa, era stato messo di guardia alla fossa in cui si trovava il comandante della compagnia. Quella notte Budanov aveva lasciato l’accampamento a bordo di un veicolo B.M.P. Dopo circa 30 minuti il veicolo era tornato. A un centinaio di metri dal punto di sosta del B.M.P. Budanov aveva gridato all’autista di spegnere i fari. Il B.M.P. si era avvicinato all’alloggio del colonnello a fari spenti. Dopo di che Kol’cov aveva sentito sbattere il portellone posteriore del veicolo e aprirsi la porta dell’alloggio. Finito il turno di guardia e tornato alla tenda, aveva incontrato Makarshanov, l’addetto alla caldaia del colonnello.
Che gli aveva detto che “il comandante ne aveva presa un’altra”.
Il testimone Sajfullin Aleksandr Michajlovic ha dichiarato di aver prestato servizio presso l’unità 13206 dall’agosto del 1999 [anche lui come soldato semplice]. Alla fine di gennaio del 2000
svolgeva mansioni di addetto alla caldaia presso l’alloggio di Budanov. Verso le 5-5.15 del 27
marzo era entrato nell’alloggio del comandante per attizzare il fuoco nella stufa. Budanov era coricato sulla branda di destra e non su quella più lontana, come era suo solito. Il tappeto era fuori posto. L’orologio da parete sopra il letto di Budanov stava accanto al letto di destra, sul pavimento, vicino all’uscita. La tenda che nascondeva la zona notte era scostata e Sajfullin aveva notato che il letto di Budanov non era stato rifatto. Budanov dormiva. Verso le 7 del mattino era rientrato nell’alloggio per portare al comandante l’acqua per lavarsi. Budanov gli aveva detto di tornare alle 7.15. Gli aveva poi ordinato di rimettere ordine nell’alloggio e -
mostratogli il letto con un cenno del capo - gli aveva detto di cambiare coperta e lenzuola.
Sajfullin si era messo all’opera e aveva notato che la coperta era bagnata. La macchia era situata a circa 20 centimetri dalla pediera sul lato accanto alla parete. Sollevata la coperta, aveva rinvenuto sul lenzuolo una macchia gialla di 15 centimetri per 15. Aveva cambiato le lenzuola. Budanov gli aveva dato un’ora di tempo per sistemare l’intero alloggio. Mentre disfaceva la branda più lontana, Sajfullin aveva notato che l’angolo sinistro di un lenzuolo era bagnato. Durante l’ispezione dell’alloggio di Budanov in data 27.03.2000 è stato riscontrato che il materasso del giaciglio più lontano dall’ingresso era bagnato al centro ed emanava odore di urina.
Durante l’inchiesta lenzuola e coperte del letto di Budanov sono state sequestrate e accluse ai materiali in qualità di reperti. L’esame svolto ha riscontrato delle macchie di colore giallo.
Il testimone Gerasimov Valerij Vasil’evic ha dichiarato di aver svolto mansioni di comandante del raggruppamento militare “Occidente” dal 5 marzo al 20 aprile del 2000. La mattina del 27.03
aveva saputo dal comandante di Urus-Martan che quella notte a Tangi era stata rapita una ragazza e che del fatto erano sospettati i soldati. Si era messo in contatto con i comandanti dei tre reggimenti, compreso quello del 160esimo carristi, Budanov, e aveva ordinato loro di liberare la ragazza entro 30 minuti. Dopo di che lui e il generale Verbickij Aleksandr Ivanovic si erano recati personalmente dapprima al 245esimo reggimento e poi al 160esimo.
Al 160esimo Gerasimov era stato accolto da Budanov, che gli aveva riferito di non aver scoperto nulla riguardo alla ragazza. Con Verbickij si era allora recato a Tangi, dove la popolazione era già riunita. Da quanto esposto dal padre della ragazza, Gerasimov aveva capito che quella notte il colonnello Budanov e i suoi soldati erano arrivati a bordo di un B.M.P., avevano avvolto la ragazza in una coperta e l’avevano portata via. Dal villaggio Gerasimov era tornato al reggimento, ma Budanov non c’era più. Gerasimov aveva dato ordine di arrestarlo”.
[Una precisazione. Nelle Forze Armate russe un militare può essere arrestato solo su ordine e indicazione del proprio superiore. Nel caso di Budanov, l’unico suo superiore era Gerasimov.
Dobbiamo dunque a Gerasimov se Budanov è stato inquisito. Senza quell’ordine del 27 marzo -
e sia detto che in Cecenia buona parte dei comandanti non autorizzano la procura ad arrestare i propri sottoposti e cercano in ogni modo di coprirli - l‘“affaire” Budanov non sarebbe mai scoppiato. In una “zona di operazioni antiterrorismo” il gesto di Gerasimov è stato un gesto di estremo coraggio che avrebbe potuto costargli la carriera. La vasta eco del caso ha fatto sì che ciò non accadesse e, anzi, il generale Gerasimov è stato persino promosso a comandante della 58esima armata].
“Dopo l’arresto Budanov venne trasferito a Chankala [la più importante base militare russa in Cecenia]. Quella stessa sera l’autista del B.M.P. (l’individuo che era stato al villaggio) confessò di aver portato al campo una ragazza, la notte del 27 marzo, e di averla trascinata nell’alloggio di Budanov. Il comandante li aveva fatti chiamare un paio d’ore dopo: la ragazza era già morta.
Budanov aveva dato ordine di rimuovere il corpo e seppellirlo. La mattina del 28.03 il cadavere fu riesumato e portato al battaglione sanitario, dove venne eseguita l’autopsia. Il corpo venne poi lavato e reso ai genitori.
Il testimone Grigor’ev Igor’ Vladimirovic ha dichiarato che, una volta giunto al campo, il 27.03.2000 Budanov gli aveva ordinato di portare la ragazza avvolta nella coperta nel suo alloggio e di restare fuori a montare la guardia affinch‚ nessuno entrasse. Budanov era rimasto all’interno. Dopo una decina di minuti da che avevano lasciato l’alloggio, avevano udito delle grida di donna e la voce di Budanov, quindi anche della musica. Le grida di donna erano continuate per qualche tempo ancora. Budanov era rimasto con la ragazza un paio d’ore. Poi aveva chiamato i tre uomini nel suo alloggio; sul letto c’era la ragazza che avevano prelevato, nuda e con il viso bluastro. La coperta in cui la ragazza era stata avvolta giaceva per terra, con sopra il mucchio dei suoi abiti. Budanov aveva dato ordine di portar via la donna e di sotterrarla di modo che nessuno scoprisse nulla. Così avevano fatto. L’avevano avvolta in una coperta, erano saliti sul B.M.P. 391, avevano portato via e seppellito il corpo, come riferito a Budanov la mattina del 27 marzo.
Interrogato il 17.10.2000, Grigor’ev ha spiegato che Budanov si era messo a urlare un 10-20
minuti dopo che avevano lasciato l’alloggio, ma nessuno aveva capito cosa stesse dicendo.
C’erano state anche delle grida di donna, tipiche grida di spavento. Quando Budanov li aveva chiamati, avevano visto sulla sua branda una ragazza nuda che non dava segni di vita. Non aveva nulla addosso. Era supina. Sul pavimento c’era una coperta e sulla coperta i suoi abiti: mutande, camicia e qualcos’altro ancora. La ragazza presentava dei lividi sul collo, come se l’avessero strangolata. Budanov gliel’aveva indicata e aveva detto con un’espressione tremenda sul volto: “Per te, puttana, da parte di Razamachnin e dei ragazzi caduti sulle montagne”.
L’esame del corpo della Kungaeva ha rilevato le seguenti ferite: escoriazioni ed ecchimosi sulla superficie del terzo anteriore del collo, ecchimosi sui tessuti molli del collo, lividi, gonfiore al volto, ecchimosi puntiformi sulla pelle del volto, alla congiuntiva, alla mucosa ai lati della bocca, sotto la pleura e l’epicardio; ematomi nella zona suborbitale destra e sulla superficie interna del fianco destro, ferita alla congiuntiva dell’occhio destro, ecchimosi alla mucosa della bocca, alla gengiva e alla mascella sul lato sinistro. Il cadavere era svestito. Accanto al cadavere sono stati rinvenuti gli abiti: maglia di lana strappata sulla schiena, gonna di cotone con cucitura laterale scucita, maglietta gialla e bianca lacerata sulla schiena per tutta la lunghezza, reggiseno beige con bretella strappata sul dietro, mutande di cotone beige.
L’esame medico n. 22 in data 30.04.2000 della salma di Kungaeva E. V. ha accertato che le ferite riscontrate sul cadavere sono da ritenersi causate “ante mortem”. Le suddette ferite corporali sono il risultato della pressione sul collo di uno o più oggetti solidi di superficie limitata.
Tali ferite possono essersi formate all’ora e nelle circostanze indicate nella parte descrittiva del presente certificato. La morte della Kungaeva è stata provocata da una pressione sul collo di un oggetto solido, causa dell’asfissia. Gli ematomi riscontrati sul cadavere della Kungaeva (sul viso e sull’anca sinistra), le ecchimosi alla mucosa della bocca e la ferita all’occhio destro sono stati causati da uno o più oggetti solidi di superficie limitata. Trattasi probabilmente di percosse. Le ferite indicate sono occorse “ante mortem” e possono essersi formate all’ora e nelle circostanze indicate nella parte descrittiva del presente certificato.
Interrogato quale testimone, il capitano Simuchin Aleksej Viktorovic, investigatore della procura militare, ha dichiarato di aver ricevuto disposizione di scortare Budanov alla pista di decollo dell’unità 13206 in data 27.03.2000, affinch‚ fosse tradotto a Chankala.
Durante l’inchiesta Budanov è apparso molto nervoso, chiedeva continuamente come comportarsi, che cosa dire e che cosa fare. La mattina del 28.03.2000, quale membro della commissione inquirente e in compagnia del testimone Egorov, Simuchin ha svolto delle indagini intese al recupero del cadavere della Kungaeva. Egorov ha indicato il luogo in cui la Kungaeva era stata sepolta. La sepoltura era molto ben camuffata e coperta di sterco, e se Egorov non avesse indicato dov’era sepolta la vittima, non sarebbe stato possibile individuare il luogo. Il corpo era in posizione semiseduta, ‘fetale’, completamente nudo.
Parte lesa Bagreev Roman Vital’evic.
Nato a Nikopol’, regione di Dnepropetrovsk, Repubblica Socialista Sovietica di Ucraina, il 12.02.1975, vicecomandante dell’unità 13206 del battaglione carristi, tenente, ha dichiarato quanto segue.
Quale membro del 160esimo battaglione, ha preso parte a operazioni antiterrorismo dall‘1.10.1999. Sostiene di non avere conti in sospeso con Budanov o Fedorov. Il 20.03.2000 la sua compagnia di ricognizione giunge al villaggio di Tangi da quello di Komsomolskoe. Tra le unità del reggimento viene indetta una gara per stabilire quale sia la meglio organizzata. La vincitrice risulta la divisione contraerea. Fedorov non condivide il risultato e vuole convincere tutti quanti che i migliori sono i ricognitori. Per convincere anche Budanov, il 26 marzo Fedorov insiste per fargli ispezionare l’accampamento della compagnia.
Dopo le ore 18 al campo giungono Budanov, Fedorov, Silivanec e Arzumanjan [tutti ufficiali del reggimento carristi]. Budanov è in stato di ubriachezza, ma riesce, tuttavia, a controllarsi.
Fedorov ha bevuto molto, parla in modo sconnesso, incespica. Cerca di convincere Budanov a verificare l’operatività della compagnia. Budanov rifiuta tre volte o forse più, ma Fedorov non demorde. Budanov cede e autorizza Fedorov a ordinare l’attacco. Bagreev corre subito alle trincee della compagnia. Fedorov lo segue. I veicoli prendono posizione. Budanov resta al centro trasmissioni. Sa che i veicoli sono dotati di proiettili dirompenti. Oltre all’ordine di Fedorov non ci sono ragioni palesi per aprire il fuoco sul villaggio. Gli uomini prendono posizione sui veicoli e Bagreev dà ordine di togliere la granata dirompente, inserirne una a carica cava e sparare un colpo sopra le case. Se sparata in aria e se non incontra ostacoli, la carica si autodistrugge. La granata dirompente, invece, non può autodistruggersi. Al momento della ricarica si verifica un intoppo. Il veicolo n. 380 spara in aria, sopra le case. Fedorov se ne accorge, salta su un altro veicolo e dà ordine all’addetto di sparare su Tangi. Scontento dell’operato di Bagreev, Fedorov afferra quest’ultimo per l’uniforme e lo insulta. Budanov convoca Bagreev, che si presenta al centro comunicazioni e vi trova Budanov e Fedorov. Che lo picchiano a sangue.
A un controllo effettuato risulta che a sud-ovest dell’unità 13206, a una distanza di 25 metri dal comando del reggimento, il 27.03.2000 c’era una fossa coperta da tre assi squadrate. Trattavasi di un affossamento del terreno lungo 2,4 metri, largo 1,6 e profondo 1,3 con pareti ricoperte di mattoni e fondo in terriccio”.
[Un chiarimento. Quanto avete letto è la prima descrizione in un documento legale del già citato zindan, pozzo di tortura molto diffuso nella seconda guerra cecena. Di norma gli zindan vengono utilizzati per i prigionieri ceceni, ma anche per soldati russi - più di rado per i sottufficiali -
colpevoli di qualche misfatto].
“Il testimone Pachomov Dmitrij Igorevic, soldato semplice, dichiara che il 26.03.2000 verso le ore 20 Fedorov aveva gridato a Bagreev: “Ti insegno io come si obbedisce agli ordini, moccioso!”
riversando su di lui una pioggia di insulti e offese. Gli uomini di Fedorov avevano legato Bagreev e lo avevano calato nella fossa. Nel reggimento si erano già verificati casi del genere - soldati a contratto ubriachi erano stati legati e messi nella fossa -, ma l’incredibile era che quel giorno toccasse al comandante dell’unità di ricognizione.
Dopo circa un’ora Budanov aveva nuovamente messo in allerta gli uomini del plotone che al loro arrivo avevano trovato Bagreev già riverso a terra. Budanov e Fedorov avevano ricominciato a picchiarlo. Dopo di che, su ordine di Budanov, Bagreev era stato legato e rimesso nella fossa.
Poi Fedorov era saltato dentro e aveva cominciato a picchiare Bagreev, che intanto urlava e gemeva. Silivanec era saltato nella fossa per tirar fuori Fedorov. Verso le due, dalla sua tenda, Pachomov aveva sentito delle raffiche di mitra. Aveva poi saputo che a sparare era stato Suslov: voleva far tornare in s‚ Fedorov e fermarlo mentre cercava di raggiungere Bagreev”.
[La causa penale a carico di Grigor’ev, Li-en-Shou e Egorov, accusati di favoreggiamento preterintenzionale nell’omicidio della Kungaeva - crimine commesso da Budanov ex articolo 316
del Codice penale della Federazione Russa - è stata chiusa in seguito a un ‘amnistia].
“Conformemente a quanto stabilito dalla perizia legale psicologico-psichiatrica, al momento in cui compiva gli atti di cui era incriminato ai danni di Bagreev, Budanov non si trovava in uno stato di temporanea infermità mentale, n‚ presentava scompensi patologici o fisici. Al momento dell’omicidio della Kungaeva Budanov si trovava in uno stato psico-emotivo transitorio indotto dalla situazione e non si rendeva pienamente conto della natura e del significato delle sue azioni n‚ era in grado di usare la propria volontà per controllarle.
Sulla base di quanto premesso, si autorizzano le accuse a carico di Budanov Jurij Dmitrievic e Fedorov Ivan Ivanovic.
Il viceprocuratore del distretto militare
del Caucaso Settentrionale
colonnello Achmedov S.M.”
- Il processo.
Il caso Budanov, dunque, passa al tribunale. E l’estate del 2001. Il primo giudice a vagliare i crimini di Budanov è il colonnello Viktor Kostin, in forza al tribunale militare del distretto del Caucaso Settentrionale situato a Rostov sul Don (città in cui ha sede anche lo Stato Maggiore del distretto militare succitato). A Rostov sul Don l’influenza dei militari è fortissima. A Rostov si trova il più importante ospedale militare, dove sono passati migliaia di feriti e mutilati. E a Rostov vivono le famiglie di molti ufficiali di stanza in Cecenia. In un certo senso si può dire che sia una città di frontiera. Una circostanza estremamente importante nell’iter giudiziario del caso Budanov. Picchetti e raduni fuori del tribunale in difesa di Budanov e al grido di “La Russia alla sbarra!”, “Liberate il nostro eroe!” sono stati l’immancabile corollario al processo.
La prima fase delle udienze durò più di un anno, dall’estate del 2001 all’ottobre del 2002. Non fu intesa alla ricerca dei colpevoli e degli innocenti, ma del modo per assolvere Budanov da ogni sua colpa. Nel corso del procedimento il giudice Kostin non nascose d’essere apertamente filobudanoviano, respinse ogni richiesta proveniente dai Kungaev e qualunque testimonianza che potesse ritorcersi contro Budanov. Rifiutò persino di interrogare i generali Gerasimov e Verbickij, in quanto responsabili dell’arresto del colonnello omicida.
In quei mesi persino il pubblico ministero si espresse a favore dell’imputato, assurgendo a suo secondo difensore (laddove dovrebbe essergli stato chiaro che erano le vittime i suoi clienti).
Quel che accadeva in aula era anche quel che accadeva fuori. L’opinione pubblica era tutta ‘pro’
Budanov (con raduni di bandiere rosse presso il tribunale e fiori per l’imputato quando veniva accompagnato all’interno dell’edificio). Altrettanto dicasi per le alte sfere del ministero della Difesa (con il ministro Ivanov che sosteneva pubblicamente la “palese innocenza” di Budanov).
La base ideologica per l”assoluzione’ di Budanov fu la seguente: aveva ucciso, certo, ma “aveva il diritto di farlo”, di comportarsi con El’za Kungaeva come aveva fatto in quanto - ritenendola un cecchino responsabile della morte di alcuni ufficiali del reggimento nel febbraio del 2000, durante i violenti scontri nella Gola di Argun - si stava vendicando di un nemico. Come fu spiegato al processo, vendicarsi dei “nemici” - e i ceceni lo sono - è cosa buona e giusta…
La famiglia Kungaev ebbe problemi con gli avvocati sin dai primi giorni del processo. I Kungaev sono poverissimi, hanno molti figli ma non un lavoro, e dopo la tragica morte della figlia maggiore per mano del colonnello e la denuncia sporta a suo carico furono costretti a trasferirsi nella tenda di un campo profughi in Inguscezia per paura di ritorsioni da parte dei militari (e minacce ne avevano avute). Si ritrovarono, dunque, senza avvocati difensori. Fu allora che l’associazione Memorial (con base a Mosca, ma con una filiale a Rostov sul Don) trovò loro un avvocato e si assunse l’onere di fornirgli un seppur minimo stipendio.
Il primo legale coinvolto fu Abdula Chamzaev, avvocato ceceno di lunga esperienza residente a Mosca da tempo, oltre che lontano parente dei Kungaev (6). Va detto che la sua difesa fu per molto tempo inefficace, per non dire controproducente. Ma Abdula Chamzaev non ne ha colpa.
E’ la nostra società che sta diventando via via più razzista e che non si fida di chi viene dal Caucaso e tanto più dalla Cecenia. Le conferenze stampa che Chamzaev convocò a Mosca per esporre le difficoltà del processo in atto a Rostov non ebbero alcun esito: i giornalisti non gli credevano, ragion per cui non ci fu alcuna campagna stampa in difesa della Kungaeva. Una campagna che, purtroppo, era l’unica ancora di salvezza in un caso politico arenatosi già sul nascere.
A quel punto Memorial chiamò in aiuto di Chamzaev un giovane avvocato moscovita, Stanislav Markelov, membro dell’Ordine interrepubblicano degli avvocati a cui, fra l’altro, apparteneva anche il collegio di difesa di Budanov. I casi più importanti di cui si era occupato Markelov - e che gli erano valsi l’attenzione di Memorial - erano stati i primi, in Russia, con accuse di terrorismo ed estremismo politico: gli attentati dinamitardi ai monumenti dell’imperatore Nicola Secondo nei dintorni di Mosca, l’analogo tentativo di far saltare quello di Pietro primo, e l’assassinio da parte di skinhead di cittadini russi di origine afghana.
Markelov è russo, un dettaglio fondamentale. Memorial fece la scelta giusta. Sarebbero state proprio l’energia di Markelov, una tattica ben scelta e la sua capacità di trattare con la stampa ad attirare sul processo l’attenzione del Paese e dei giornalisti di Mosca, russi e stranieri: fu una svolta cruciale per l’iter del processo.
Un esempio: una dichiarazione di Markelov riguardo a quanto visto in aula appena assunto l’incarico (ricordiamo che, di fatto, si trattava di un processo a porte chiuse, dove i giornalisti non erano ammessi) :
“La corte pareva avere molta fretta, non approfondiva nessuna delle nostre richieste, ricusava qualunque mossa contraria agli interessi di Budanov. Era ammesso solo ciò che andava a suo favore o in sua difesa. Tutti i nostri ricorsi - la richiesta di convocare i ‘nostri’ testimoni, per esempio, di nominare degli esperti o di svolgere delle perizie “super partes” -, non venivano neppure presi in considerazione. Avevo l’impressione che il giudice Kostin non li leggesse nemmeno… Perch‚ per quanti ne potessimo produrre, e arrivarono a essere più di una decina al giorno, ci venivano rifiutati tutti quanti”.
“Perch‚ tanti ricorsi?” gli ho chiesto. “Quel profluvio di carte era una provocazione, ne convenga.
Era davvero la linea di difesa più adatta?”.
“Il motivo era semplice: la corte consentiva continue violazioni della legge, e in quanto avvocati eravamo tenuti a reagire. Perch‚ tante richieste e perch‚ tanti testimoni a favore della parte lesa, mi chiede? Perch‚ su due di loro, per esempio, si è accesa una battaglia conclusasi solo quando la corte è riuscita a non farli testimoniare. Le ricordo le circostanze del caso: il giorno prima che il crimine fosse commesso, il 26 marzo del 2000, Budanov e gli altri ufficiali - come da loro stessi dichiarato nel corso dell’istruttoria - avevano fermato due ceceni, uno dei quali, a loro dire, avrebbe indicato una casa in cui, sempre a detta di Budanov, viveva una famiglia che aiutava i terroristi o che di terroristi era composta. Gli atti del processo riportano i nomi degli informatori, che non sono mai stati tenuti nascosti. Noi, come difesa, abbiamo cercato di capire chi fossero le persone che avevano indotto in errore Budanov indicandogli la casa dei Kungaev.
Sempre ammesso che quanto dichiarato fosse vero e che davvero lo avessero indotto in errore.
La nostra posizione era comprensibile: volevamo che quelle persone si presentassero in aula e ci dicessero perch‚ l’avevano fatto. E lì sono cominciate le stranezze… Abbiamo scoperto che un informatore era sordomuto. Che cioè non poteva fisicamente sentire la domanda di Budanov. E
che fisicamente non poteva dargli una riposta. E si badi che nei materiali prodotti si sostiene che fosse stato quell’informatore a ‘riferire’ tutto quanto a Budanov!…”.
“E l’altro?”.
“Trovarlo è stato ancora più facile. Il 26 marzo, dopo aver incontrato Budanov, il secondo informatore e il colonnello, per pura fatalità, è ovvio, furono fotografati insieme dai corrispondenti del giornale militare del ministero della Difesa ‘Krasnaja zvezda’, che proprio quel giorno stavano lavorando al villaggio di Tangi-Chu. Undici loro fotografie sono state accluse agli atti. Così ha deciso la procura militare che ha condotto l’istruttoria. Ciò significa che quell’uomo poteva essere rintracciato in qualunque momento e poteva presentarsi al processo per confermare che quella fatidica sera Budanov era andato a Tangi-Chu ad arrestare dei terroristi.
Così pensavamo noi, e pensavamo anche che fosse una cosa importante e fondamentale. Invece sono cominciati malintesi e fraintendimenti. Abbiamo studiato attentamente le fotografie fornite dai corrispondenti di ‘Krasnaja zvezda’ e abbiamo scoperto che la data che vi è impressa è il 25
marzo, e non il 26, come insisteva Budanov a conferma della sua versione (e come da materiali dell’istruttoria). Tengo a ricordare che a suo dire Budanov avrebbe ricevuto le informazioni sulla
‘cecchina’ il 26 marzo e che, smanioso di vendicare i compagni uccisi, si sarebbe subito recato a
‘catturarla’. Avrebbe faticato ad attendere fino a sera, sopraffatto com’era da quelle stesse emozioni che, in seguito e come comprovato dalla perizia medica legale, lo avrebbero indotto a sbarazzarsi della ‘cecchina’ per vendicare secondo le leggi di guerra i compagni caduti… Se invece dovesse risultare che la notizia gli era giunta il 25 marzo, come potremmo parlare di reazioni spontanee e impulsive a giustificazione della sua condotta? Abbiamo dei testimoni che dichiarano che per tutto il 25 marzo e per metà del 26, quando poi aveva cominciato a bere con gli ufficiali per festeggiare il compleanno della figlia, il colonnello era tranquillo e non manifestava alcuna intenzione di vendetta su fantomatici cecchini…”.
“D’accordo, ma cerchiamo di essere obiettivi. Le date sono sbagliate… Va bene. Può capitare.
C’è la guerra, laggiù… Passi…”.
“No, non ‘passi’ un bel niente. Nel caso Budanov ci sono dettagli che non coincidono a ogni piè sospinto. Ci sono sviste di ogni tipo. Nei materiali dell’istruttoria, per esempio, si dice che l’informatore avrebbe indicato come ‘casa della cecchina’ un edificio color ‘bianco sporco’. Ma quello da cui Budanov ha prelevato El’za è di mattoni ed è rosso, come si vede dalle foto che abbiamo prodotto in aula”.