“Come ha reagito il giudice Kostin?”.

“Non ha reagito. Come sempre… Un altro esempio: a prestar fede a Budanov, l’informatore gli avrebbe detto che la ‘cecchina’ viveva in via Zarechnaja, mentre Budanov ha preso la ragazza in vicolo Zarechnyj, che si trova a un chilometro dalla via omonima, e cioè all’estremo opposto del villaggio!… Difficile immaginare che l’informatore non abbia indicato a Budanov almeno la direzione da prendere per catturare la sua ‘cecchina’… Anche a una persona qualunque, e non necessariamente a un giurista, tutte queste incongruenze dicono una cosa sola, e cioè che la corte “avrebbe dovuto” ascoltare l’informatore e “avrebbe dovuto” convocarlo. Così da poter stabilire la verità. Che cos’era accaduto a Tangi-Chu il giorno del decisivo incontro fra gli informatori e Budanov? Budanov era davvero andato a cercare una ‘cecchina’? O era solo una bella ragazza, che voleva? Una bella ragazza dopo una bella bevuta? Allora sì che il castello dell”operazione antiterrorismo’, di cui Budanov sarebbe l’eroe e la vittima, cadrebbe, e tutta la componente ideologica verrebbe a mancare. Inoltre, nel trarre le sue conclusioni, la perizia psichiatrica non potrebbe tenere conto dell”eroismo’ di Budanov e della sua ‘volontà di vendetta’. Tanto più che i materiali riportano notizia di diverse ‘donne del colonnello’ (‘Il comandante ne ha presa un’altra’: cito da una deposizione), e che diversi militari hanno eloquentemente testimoniato sull’atmosfera che regnava nel 160esimo reggimento, riferendo i particolari della quotidianità dei carristi nell’accampamento presso Tangi-Chu…”.

“Cos’è successo, poi?”.

“La corte ha dichiarato di non voler dar seguito alla cosa, di non essere un’agenzia investigativa e di non essere tenuta a cercare la persona in oggetto… Va da s‚ che i nostri avvocati si sono messi in moto e lo hanno trovato. E’ risultato essere un certo Ramzan Sembiev, detenuto che stava scontando una condanna per rapimento in una colonia penale a regime duro del Dagestan.

Quello che conta, però, non è la sua personalità n‚ il fatto che avesse commesso crimini ignobili: aver trovato Sembiev in una colonia penale significava solo che portarlo in aula non avrebbe comportato alcuna difficoltà. Perch‚ le norme di Procedura penale russe prevedono che chiunque sia detenuto venga inserito in una banca dati a cui tutti i tribunali hanno accesso. Per comodità del giudice, fra l’altro, abbiamo anche indicato il luogo esatto in cui Sembiev era recluso, non lontano da Rostov sul Don… Anche in questo caso, però, la risposta è stata: ‘No. Non è necessario. Il teste non può riferire alla corte nulla di sostanziale’. La parola è poi passata al procuratore Nazarov (che all’epoca, il maggio del 2002, rappresentava la pubblica accusa) che ha pronunciato un’arringa più che strana per un giurista, sostenendo che se il testimone era un criminale, non avrebbe certo detto la verità e, dunque, non aveva senso ‘convocarlo’… Ne fui sbalordito: nel nostro caso Sembiev era un testimone, non un criminale, ma il procuratore pareva non cogliere la differenza…”.

“E come mai?”.

“Il problema è che al caso Budanov si guardava in chiave ideologica. Il Cremlino faceva pressioni affinch‚ Budanov fosse assolto da ogni peccato. Dunque nulla contava o nulla era rilevante se non andava a vantaggio di Budanov… In ottemperanza alle direttive dall’alto, la procura ha finito per modificare il ruolo che la Costituzione le assegna. Il pubblico ministero rappresenta la pubblica accusa, tenuta in primo luogo a salvaguardare gli interessi della parte lesa. A nome dello Stato. Mentre in questo caso pareva aver assunto la difesa dell’imputato. Oltre all’arringa di Nazarov ci sono stati anche altri casi inspiegabili. Pare che in Dagestan, nella colonia penale che ospita Sembiev, un procuratore locale lo abbia avvicinato e gli abbia chiesto se conosceva Budanov; questi avrebbe risposto di no, che l’aveva visto per la prima volta in televisione…”.

“E questo colloquio è stato riportato nel verbale di interrogatorio durante il dibattimento?”.

“Certo che no. E’ stato riferito, ma non formalizzato. La cosa assurda è che la corte ha accettato la spiegazione! Che non l’ha confutata n‚ ha cercato di verificarla! E non ha preteso che venisse messa a verbale!”.

“Che cosa cambiano le parole di Sembiev, se mai sono state pronunciate?”.

“Si tratta sempre e comunque di stabilire la verità. Quel che ne deriva è che, non conoscendo Budanov, Sembiev non può averlo mandato a casa della ‘cecchina’ El’za, dunque il corrispondente di ‘Krasnaja zvezda’ l’ha fotografato con Budanov per qualche altro motivo…”.

“Si può dunque affermare che il tribunale militare ha fatto il possibile perch‚ la causa n.

14/00/0012-00 a carico di Budanov “non offrisse un quadro verosimile dei crimini perpetrati”?

Operando, dunque, in modo opposto a quanto è chiamato a fare dalla Costituzione e dalla legislazione vigente?”.

“Assolutamente sì. Lasci che le racconti un’altra vicenda per la quale la corte non ha richiesto conferma alcuna. Una delle prove citate era la fotografia che Budanov diceva di avere da tempo e in cui era ritratta El’za Kungaeva con la madre, entrambe armi in pugno. Budanov ha dichiarato che a dargli la foto delle due donne che avevano sparato agli ufficiali del suo reggimento durante gli scontri della Gola di Argun era stato Jach’jaev, capo del villaggio di Duba-Jurt. Situato all’imbocco della Gola di Argun, quel villaggio era stato l’epicentro dei pesanti scontri avvenuti nel febbraio 2000 con il reggimento di Budanov. La fotografia, sulla base della quale i periti avevano tratto le loro conclusioni come se l’avessero avuta sotto gli occhi, non figurava agli atti. Non c’era. Dunque la perizia era falsa, un buon motivo per non credervi e per pretenderne una seconda. Veniva, inoltre, a mancare il motore da cui, sin dal primo momento, aveva preso il via l’assoluzione di Budanov. La fotografia era il centro di tutto: in preda alla passione e al ricordo dei compagni d’arme caduti sotto il fuoco della cecchina, Budanov conservava stretta al cuore quella foto come un giuramento: l’avrebbe trovata e l’avrebbe uccisa, quella donna, per s‚ e per loro. E dunque, quando l’informatore gli dà l’indirizzo, i nervi gli cedono e, invece di chiamare in causa le forze di sicurezza, Budanov decide di farsi giustizia da solo…”.

“Va bene, la fotografia non c’è, ma esiste la testimonianza di Jach’jaev. Che poteva essere interrogato in aula, no?”.

“Secondo la normale logica giudiziaria, che prevede di scavare fino a che la verità e le responsabilità di ognuno non saltano fuori, certo che sì. Ma il nostro era un processo ideologico in difesa degli interessi di criminali di guerra. Che poi sono gli interessi dello Stato. Anche in questo caso, dunque, il giudice Kostin disse che Jach’jaev non serviva e che non avrebbe avuto nulla di importante da riferire alla corte. Mentre invece poteva dare una svolta decisiva al processo. Lo rintracciammo noi, e lui si disse disposto a presentarsi in aula. Vero è che non poteva farlo di sua spontanea volontà: serviva un mandato di comparizione del tribunale per passare i posti di blocco e di confine in Cecenia… Mandato che non venne emesso”.

“Come ha giustificato il giudice Kostin il suo rifiuto di interrogare il generale Gerasimov, che la mattina del 27 marzo si era recato al 160esimo reggimento e aveva dato ordine di arrestare Budanov?”.

“La stessa usata per Jach’jaev: ‘Gerasimov non può aggiungere nulla di nuovo agli atti’. Una frase impenetrabile. Il giudice non ha voluto ascoltare le deposizioni del generale, mentre invece Gerasimov avrebbe potuto dirci in che stato era il colonnello la mattina dopo il crimine, dato che sull’argomento c’era grande discordanza. Lui l’aveva visto e gli aveva parlato. Budanov mostrava le conseguenze della sbronza del giorno prima, per esempio? La perizia aveva già messo in dubbio che la notte in cui il crimine era stato commesso Budanov fosse ubriaco, e ora il colonnello era di colpo diventato ‘sobrio’, bench‚ durante l’istruttoria diversi testimoni avessero dichiarato che prima di uccidere El’za Kungaeva Budanov era sbronzo… E com’era Budanov la mattina del 27? Era, il suo, come dichiarato dalla prima perizia [ne furono fatte sei in tutto], uno stato perturbato dovuto all’uso eccessivo di alcol o alla sua incapacità di intendere e di volere?

Ma dato che l’incapacità di intendere e di volere non è cosa che passi nel giro di qualche ora, come sostengono gli psichiatri indipendenti dei nostri giorni, Budanov capiva o no ciò che stava facendo? E allora perch‚ la perizia afferma che non si rendeva conto delle sue azioni e quindi non poteva essere condannato per quanto commesso? Non sarà perch‚ così Budanov sarebbe stato

‘lavato’ dei suoi peccati?”.

“L’interrogatorio in aula di Gerasimov, inoltre, avrebbe aiutato a stabilire se Budanov si era opposto o meno all’arresto. E’ risaputo che quando il generale e gli uomini dei reparti speciali si erano presentati al 160esimo reggimento per arrestarlo, per tutta risposta Budanov aveva chiamato i suoi e aveva ordinato loro di rispondere con le armi ai militari di Gerasimov. Per poco non ci era scappata una sparatoria…”.

“Esattamente. Budanov aveva estratto la pistola e Gerasimov aveva temuto che gli sparasse…

Poi, però, Budanov aveva messo giudizio e si era sparato a un piede… E’ tutto riportato agli atti, e la corte era obbligata a esaminarli. Ma non lo ha fatto. Tirando le somme, vorrei far notare che il processo si è svolto senza tenere in alcun conto qualsiasi circostanza potesse nuocere al colonnello”.

“Bene. Ma se Budanov si fosse opposto all’arresto, che cosa sarebbe cambiato?”.

“Molto. In primo luogo sarebbe stata un’ulteriore accusa a suo carico. E in secondo, avrebbe messo in luce una caratteristica significativa della personalità di Budanov. Ricusando “tutte” le nostre richieste e “tutti” i nostri testimoni, la corte ha accluso agli atti solo la lettera ricevuta dal generale Vladimir Shamanov, ora governatore della regione di Uljanovsk [Shamanov è un vecchio amico di Budanov e il 160esimo reggimento ha combattuto a lungo in Cecenia ai suoi ordini}. La lettera non ci porta nulla di nuovo. Infatti quando Budanov commise il crimine Shamanov non era in Cecenia, ma a Mosca, in licenza. Trasuda, invece, ideologia: sostiene che Budanov è ‘innocente’ e che aveva tutti i diritti di arrestare la Kungaeva in quanto cecchina, nonch‚ tutti i diritti di ucciderla quando lei aveva opposto resistenza… Shamanov ha scritto alla corte in veste di combattente della seconda guerra cecena e di superiore diretto di Budanov, e la corte è stata solerte ad accludere la lettera agli atti”.

“A giudicare dal contenuto, la lettera di Shamanov è una perorazione ideologica. Possiamo sostenere che l’intero processo sia un processo ideologico, in quanto la corte si è rifiutata di ascoltare informazioni concrete da testimoni diretti quali il generale Gerasimov, Sembiev e Jach’jaev, mentre ha accettato di allegare il testo ‘patriottico’ del generale Shamanov, che non è un testimone ma è, invece, l’ideologo della brutalità dei militari applicata alla popolazione civile della Cecenia, convinto com’è che il popolo ceceno sia collettivamente responsabile delle azioni di singoli criminali?”.

“Esattamente. In aula regnavano il caos, l’assurdo, la confusione più totale. Una confusione voluta, a mio parere. Lo scopo era palese: evitare una disamina concreta del caso e dei crimini di Budanov e ridurre tutto a una ‘rappresaglia ai danni di un ufficiale russo’. Come ho già detto, inoltre, la corte ha commesso palesi violazioni procedurali. La lettura degli atti, per esempio, ha richiesto in tutto un’ora e mezza, per dieci grossi faldoni!”.

“Come li ha letti, il giudice?”.

“Non li ha letti, li ha sfogliati. Dopo di che ha dichiarato che l’istruttoria era chiusa. Il giorno seguente, però, è stata riaperta senza alcuna ordinanza in merito. Ci sono violazioni a ogni piè sospinto. Tutte cose che ci consentiranno di ricorrere in appello una volta emessa la sentenza”.

“Per lei, russo, non è un problema difendere gli interessi di una famiglia cecena? E’ ormai pratica consueta che i ceceni vengano difesi da ceceni e i russi da russi…”.

“Ad assumermi è stata Memorial, che si è fatta carico della difesa dei Kungaev. E’ noto che si tratta di una famiglia povera, che non può permettersi un legale… In un primo momento a difenderli c’era l’avvocato Chamzaev, che poi si è ammalato gravemente. I Kungaev si sono ritrovati senza un legale e la corte ha colto la palla al balzo cercando di accelerare i tempi e di emettere la sentenza. Questo nel maggio del 2002. E’ stato allora che Memorial mi ha contattato. Quando sono arrivato a Rostov, nei corridoi del tribunale me l’hanno chiesto apertamente: ‘Che cosa c’entri, tu, con la diaspora cecena?’. E io ho risposto: ‘La vedete la mia faccia? Niente di niente’. La seconda domanda è stata: ‘Di che nazionalità è, lei?’. E a chiedermelo non erano solo quelli del ‘gruppo di appoggio a Budanov’. Me lo ha chiesto Budanov stesso, in aula. Che, fra l’altro, in udienza, non faceva che urlarmi contro cose del tipo: ‘Come mai te la prendi tanto a cuore, tu? Eh?’“.

“Le dava del ‘tu’?”.

“Ovvio. E’ un militare e crede che tutto gli sia permesso. Già che ci siamo, il giudice non l’ha mai richiamato all’ordine. Gli era tutto permesso. Ho quasi l’impressione che il giudice lo temesse”.

“Budanov inveiva anche contro i suoi tre avvocati?”.

“Certo che no. Quando non ne potei più di sentirmi chiedere di che nazionalità fossi, dissi ai giornalisti di Rostov che ero russo e che era proprio per quello che avevo accettato la causa.

Perch‚ difendevo le leggi del diritto russo. La corte, invece, difendeva il diritto consuetudinario. E

Budanov si atteneva alle norme deviate del diritto consuetudinario medioevale dei ceceni: l’uccisione come forma di vendetta. Una vendetta sostenuta anche dal tribunale e dalla società.

Il colonnello Budanov non si comportava nel rispetto di quel diritto russo a cui era tenuto a obbedire. Quanto accaduto in aula dimostra che le alte sfere del Paese, il governo in genere, sembrano sottoscrivere il fatto che in territorio ceceno il diritto nazionale non vale. Quel che vale è il diritto alla vendetta, con la benedizione dello Stato”.

- Giocando con le perizie psichiatriche.

Uno dei passatempi preferiti del caso Budanov sono state le perizie psichiatriche.

Passatempi, sì. Nei tre anni del processo il colonnello si è meritato prima quattro e poi, dopo la revoca della prima sentenza, altre due perizie psichiatriche. I risultati di quasi tutte sono stati politici anch’essi, sempre allineati con la condotta che il Cremlino teneva nei confronti di Budanov in un determinato momento. Una linea che mutava a seconda della congiuntura politica e dell’immagine pubblica che serviva al presidente.

Due perizie (le prime due) ebbero luogo a ridosso - o quasi - dei crimini commessi, durante l’istruttoria preliminare, tra maggio e agosto del 2000. La prima fu effettuata in ambulatorio dagli psichiatri dell’ospedale militare distrettuale del Caucaso Settentrionale e del laboratorio centrale di medicina forense del ministero della Giustizia russo. La seconda dai medici dell’ospedale psiconeurologico civile della regione di Novocerkassk.

Le prime due perizie stabilirono che Budanov era capace di intendere e di volere, che aveva una cognizione chiara del tempo, dello spazio e delle persone. Era dunque tenuto a rispondere delle sue azioni. Si era, allora, all’epoca in cui Putin proclamava ai quattro venti che alla Russia serviva una “dittatura della legge”. I militari che commettevano crimini in Cecenia, dunque, andavano puniti, e con loro i guerriglieri ceceni membri di formazioni armate…

Era inoltre un’epoca di ammiccamenti ai ceceni dopo i feroci scontri del 1999-2000, con l’elezione a capo della Repubblica di Achmat-Haci Kadyrov, “muftì” di Dudaev, che in un primo momento aveva inneggiato alla “jihad” contro la Russia e che poi - “resosi conto della situazione” - era diventato amico del Cremlino.

Le due prime perizie, inoltre, rilevarono la seguente circostanza: mentre soffocava El’za Kungaeva era probabile che Budanov fosse mentalmente disturbato, oltre a presentare sintomi di una disfunzione cerebrale sfociata in “disturbi della personalità e del comportamento”.

Va da s‚ che simili conclusioni risultarono quanto mai sgradite al ministero della Difesa, poich‚

presentavano due implicazioni. La prima era che, essendo capace di intendere e di volere, Budanov avrebbe dovuto rispondere di fronte alla legge delle sue azioni. La seconda, che l’esercito russo utilizzava in battaglia gente con disturbi mentali che nessuno si premurava di rilevare. E che, dunque, la responsabilità di centinaia di uomini e di armamenti modernissimi era delegata a soggetti mentalmente disturbati…

Quando il processo iniziò, fu subito chiaro che le conclusioni degli psichiatri non andavano a genio a Kostin. E le ragioni erano almeno due.

La prima che, in quanto giudice militare, Kostin era lui stesso un dipendente del ministero della Difesa. La Russia ha appositi tribunali militari con relativi giudici per dirimere cause riguardanti crimini commessi da chi serve nell’esercito. Si tratta, dunque, di persone sottomesse in tutto e per tutto al sistema militare, carne della sua stessa carne, e che - dai comandanti di guarnigione al ministro della Difesa - dipendono dall’esercito quanto ad alloggio, stipendio, promozioni, eccetera. E’ un sistema assurdo che, però, fa sì che il giudice Kostin possa ottenere una promozione (la casa o una gratifica) solo dal Quartier Generale del distretto militare del Caucaso Settentrionale, quello stesso distretto ai cui ordini si trovava l’imputato Budanov e che più volte aveva dichiarato di ritenerlo innocente, anzi vittima dei servigi resi alla Patria…

La seconda ragione consisteva nel fatto che quando il processo ebbe inizio, in Russia la congiuntura politica stava cambiando radicalmente. Il Cremlino si stava disamorando dei giochi alla democrazia e alla “dittatura della legge”. Di conseguenza, tutti coloro che combattevano in Cecenia erano “eroi” indipendentemente da quello che facevano, e il presidente cominciò a distribuire gradi e onorificenze a piene mani, rassicurando tutti quanti che lo Stato non li avrebbe mai “traditi”. Una parola che nel lessico del potere significa molto: il potere, cioè, aveva tutte le intenzioni di essere indulgente fino all’assoluzione nei confronti dei criminali della guerra cecena, e le procure che avevano intentato delle cause penali contro i militari della Federazione accusati di crimini ai danni della popolazione civile andavano messe a tacere…

Controllati anch’essi dallo Stato, i mass media si diedero a diffondere il nuovo verbo. La televisione non faceva che ripetere con quanta onestà Budanov avesse compiuto il proprio dovere, e il generale Shamanov (lo stesso che aveva scritto la lettera) appariva continuamente in video con i suoi bei discorsi patriottici in onore dell’intrepido compagno d’armi. Nessuno metteva ormai in dubbio, almeno in televisione, che la diciottenne cecena di Tangi-Chu fosse una cecchina e una guerrigliera, e nessuno ricordava che n‚ l’istruttoria n‚ i difensori di Budanov erano riusciti a trovare una prova - per quanto indiretta - del coinvolgimento della ragazza con la guerriglia.

La politica aveva ordinato di lavare il cervello alla popolazione, e questo era quel che si stava facendo a spron battuto in attesa di una sentenza assolutoria.

Fu proprio in quel mentre che a Rostov sul Don la corte “mise in dubbio” le competenze dei periti incaricati dei due esami psichiatrici e richiese una terza perizia. Si sarebbe trattato di un esame misto, militare e civile, da svolgersi a Mosca presso il Laboratorio centrale di medicina legale del ministero della Difesa e del Centro scientifico statale di psichiatria sociale e forense V.

P. Serbskij.

La pessima fama del Serbskij risale agli anni sovietici, quando tra le sue mura venivano dichiarati pazzi i dissidenti che si opponevano al comunismo, alla menzogna totalitaria e alla repressione politica. I dottori del Serbskij non mancavano mai di ottemperare agli ordini dell’onnipotente K.G.B.

Al Serbskij finì anche Budanov. Quando lo si seppe, pochi dubitarono del perch‚ vi fosse stato mandato. Si stava facendo il possibile per scagionarlo. “Adesso lo liberano” sostenevano i fan di Budanov. Lo stesso dicevano i suoi detrattori.

Ufficialmente la necessità di una terza perizia era stata imputata ai “dati poco precisi, contraddittori e non esaurienti” delle due che l’avevano preceduta, oltre che alla comparsa di

“nuovi e più precisi elementi”, essenziali per “determinare il reale stato psichico di Budanov”.

“Non esauriente” era, per il giudice Kostin, “l’indesiderabile sanità mentale” (e cito dall’ordinanza del tribunale), mentre i “nuovi elementi” consistevano nel fatto che, grazie agli inquirenti della procura che avevano condotto l’istruttoria preliminare, il caso rimandava ad altri episodi dell’epopea criminale di Budanov (che vennero poi stralciati), prova del fatto che il colonnello aveva commesso gravi delitti.

Poco importa che alcuni dei casi sottoposti a perizia non fossero mai accaduti. Se favorivano il colonnello, i medici li prendevano in considerazione e li ritenevano incontrovertibili.

Si trattava, dunque, di un falso conclamato. Sia da parte del tribunale sia da parte del Serbskij.

Queste le domande che il giudice Kostin pose agli psichiatri della terza commissione: 1. Budanov ha sofferto o soffre al momento di un qualche disturbo mentale cronico?

2. All’epoca dei fatti che gli vengono contestati, Budanov si trovava in uno stato di temporanea instabilità mentale? Era in grado di capire la natura dei propri gesti e il pericolo che potevano generare? Era in grado di controllarli?

3. Quali tratti psicologici della personalità di Budanov possono aver contribuito o influito sul suo comportamento nelle situazioni in esame?

4. Al momento in cui compì gli atti di cui è accusato, Budanov si trovava in uno stato emotivo particolare (stress, frustrazione, instabilità mentale)?

5. Il comportamento della Kungaeva può aver influito sull’insorgere in Budanov di una temporanea instabilità mentale? Il comportamento della Kungaeva può aver istigato Budanov?

6. Quale ruolo può aver avuto la vodka nel comportamento di Budanov?

7. Come può essere definito lo stato di Budanov in relazione agli atti commessi ai danni della Kungaeva nell’abitacolo del mezzo di servizio nella notte tra il 26 e il 27 marzo 2000, nel caso in cui a) egli la ritenesse la figlia di una cecchina che si rifiutava di rivelargli dove si trovasse la madre, che lo offendeva [non lo fece mai, è pura invenzione, come confermato da innumerevoli testimonianze messe agli atti: El’za non parlava russo], cercava di scappare [non ci provò mai, si tratta anche in questo caso di invenzioni a favore dell’imputato] e gli opponeva resistenza? b) la ragazza avesse cercato di afferrare un’arma carica? e) egli la ritenesse una cecchina e le mostrasse la foto che la smascherava? [il giudice rimanda al verbale dell’udienza del 27 e 28

giugno 2001, e la circostanza pare assodata; in realtà la fotografia non è mai stata rinvenuta e nessuno l’ha mai presentata in aula, nemmeno Budanov; anche il rimando al verbale si riferisce a un ‘affermazione mai comprovata che Budanov aveva rilasciato nel corso dell’istruttoria].

8. Budanov necessita di cure mediche obbligatorie?

9. All’epoca dei fatti che gli vengono imputati, lo stato mentale di Budanov lo rendeva atto a prestare servizio nell’esercito? E lo rende tale oggi?

10. Le conclusioni dei periti dell’istruttoria sono clinicamente fondate e scientificamente solide?

Quanto segue è la conclusione del Serbskij, la perizia n. 1111 a carico del colonnello Budanov. Si faccia caso che ogni singolo particolare, dalla nascita alla seconda guerra cecena, contribuisce a costruire l’immagine dell’eroe’.

“A detta di Budanov, il suo era stato un parto difficile, con rischio di asfissia e conseguente rianimazione. A detta della madre e della sorella, Budanov era un ragazzo vulnerabile, se offeso reagiva prontamente, con male parole o azzuffandosi; era molto sensibile ai rimproveri ingiusti, nel qual caso si metteva sempre dalla parte dei ‘deboli’, dei poveri e dei più giovani.

Nell’aprile del 1982 la commissione medica del distretto militare di Charcyzsk, regione del Doneck, lo riconosce abile alla leva. Nel 1983 viene ammesso all’Istituto superiore carristi di Char’kov. Nel 1985 si sposa; ha due figli, un maschio e una femmina. Dal 1995 al 1999

frequenta per corrispondenza l’Accademia militare per truppe corazzate. Secondo il suo stato di servizio, Budanov si è sempre distinto in senso positivo, mostrandosi disciplinato, tenace e pronto agli ordini. Nel gennaio del 1995, durante la “prima campagna militare cecena”, Budanov prende parte agli scontri e riporta un trauma cranico con breve perdita di conoscenza. Non chiede assistenza medica. A detta della madre e della sorella, di ritorno dalla prima guerra cecena Budanov è “cambiato e anche il suo carattere è diverso”, più nervoso, più irritabile.

Nell’agosto del 1998 diventa comandante di reggimento, nel gennaio del 2000 viene nominato colonnello con largo anticipo sul previsto. Nelle unità ai suoi ordini Budanov instaura un clima di intolleranza verso casi di lassismo e indolenza. Dà prova di un fortissimo senso di responsabilità.

Riceve onorificenze governative e due medaglie al valore. Tra i compagni di Budanov, nessuno ha mai notato in lui “alterazioni mentali”. Budanov non è mai stato visitato da uno psichiatra o da un neurologo.

Budanov dichiara che il suo reggimento da che è giunto in Cecenia dal distretto militare della Transbajkalia, il 10 ottobre del 1999, non ha praticamente mai smesso di combattere fino al 20

marzo del 2000. Nell’ottobre prima, e nel novembre del 2000 poi, Budanov subisce due traumi cranici con conseguente perdita di conoscenza. Successivamente comincia a soffrire di emicranie, capogiri e annebbiamenti della vista, non è in grado di sopportare suoni improvvisi e acuti, diventa irritabile, impulsivo, con bruschi cambi di umore e accessi d’ira. E’ facile che faccia cose di cui poi si pente.

A detta di Budanov, gli scontri peggiori sono stati quelli alla Gola di Argun, dal 24.12.1999 al 14.02.2000. Dal 12 al 21 gennaio il reggimento perde nove ufficiali e tre soldati semplici. Molti dei caduti, come dichiarato da Budanov, vengono uccisi con un colpo in testa da un cecchino. Il 17.1.2000 per mano di un cecchino muore anche un amico di Budanov, il capitano Razamachnin. A due settimane dagli scontri viene recuperato il corpo mutilato del maggiore Sorokotjagi; presenta evidenti segni di tortura.

L‘8.02.2000 Budanov si reca in licenza nella Repubblica Burjata. A detta della moglie, è irritabile e nervoso. Le racconta che nella Gola di Argun il suo reggimento si è scontrato con le truppe di Hattab, uccidendone quindici comandanti. Da quel momento i guerriglieri avevano bollato i suoi uomini come “bestie feroci” e sulla testa di Budanov, loro nemico personale, era stata messa un’ingente taglia.

Budanov pare molto turbato dal fatto che buona parte dei suoi ufficiali non sia morta in battaglia ma per i colpi di un cecchino. Aggiunge che tornerà a casa solo dopo “aver stanato l’ultimo guerrigliero”.

Il 15.02, prima dello scadere della licenza, Budanov riparte per la Cecenia. Passa a trovare la madre e la sorella per un giorno, come riportato dalle stesse, che stentano a riconoscerlo: Budanov non fa altro che fumare, quasi non parla, “basta un niente per farlo uscire dai gangheri”, non riesce a stare seduto. Non fa che mostrar loro le fotografie dei caduti e le loro tombe, piange, non l’hanno mai visto in quello stato…”

“Una breve parentesi”. Come si evince dalla deposizione del responsabile dell’infermeria del 160esimo reggimento - il capitano Kupcov, che lo vedeva quotidianamente - c’erano giorni in cui l’umore di Budanov cambiava anche diverse volte nel giro di dieci-quindici minuti, passando dalla normalità e dalla cortesia a una furia spropositata per una qualunque sciocchezza. In battaglia tali inclinazioni erano ancora più evidenti. Nei suoi accessi d’ira Budanov poteva gettare a terra o scagliare addosso a qualcuno orologi a muro, telefoni o quant’altro avesse a portata di mano. A detta di Kupcov, lo stato psicologico e psichico di Budanov nell’ottobre del 1999 (dunque “prima” della morte dei suoi compagni nella Gola di Argun) “era già incline alla perversione”. Ma continuiamo a citare la perizia.

“Budanov si lancia personalmente all’attacco, arma in pugno, e prende parte agli scontri corpo a corpo. Dopo la battaglia nella Gola di Argun cerca di recuperare lui stesso i corpi dei caduti. Si ritiene responsabile della morte di soldati e ufficiali del reggimento sulla collina 950.8, e la cosa lo riduce in uno stato di grave prostrazione. Arriva a colpire i suoi sottoposti con dei posacenere.

Alla metà di marzo del 2000, esigendo che la sua tenda sia messa in ordine, getta una granata nella stufa. Nessuno resta ferito e ottiene che gli ufficiali si mettano finalmente all’opera. Dalla metà di febbraio del 2000 il reggimento viene posto in riserva e dislocato nei pressi del centro abitato di Tangi. Il compito di Budanov è di svolgere attività di ricognizione, di tendere imboscate, di controllare i documenti della popolazione locale [un incarico che non compete all’esercito] e di arrestare eventuali sospetti. Budanov e i suoi uomini hanno sottolineato che la situazione era assai complessa: non era chiaro chi fossero i nemici e chi gli amici e dove si trovasse la linea del fronte. Dal 22 al 24 marzo del 2000, nello svolgimento della loro attività di ricognizione, gli uomini del reggimento controllano alcune case di Tangi e vi rinvengono due

‘schiavi’ prelevati a forza dalla Russia Centrale circa dieci-quindici anni prima.

Ottenute delle informazioni in merito, il 26.03.2000 Budanov decide di verificare di persona lo stato delle cose a Tangi [l’informazione gli era giunta il 24 e aveva deciso di controllare solo il 26? Chi svolge la perizia, però, non se l’è posta, questa domanda]. Arrestati due ceceni, Budanov ordina che siano legati e caricati sul suo B.M.P. Una volta al reggimento, uno dei due gli mostra dei documenti a nome Sambiev Shamil’ e chiede di potergli parlare da solo. Dopo circa un quarto d’ora Budanov dà ordine di ritornare a Tangi, spiegando che Shamil’ gli mostrerà le case di coloro che hanno contatti con i guerriglieri o che li aiutano. Mentre attraversano il villaggio, il ceceno gli indica le case in questione, compresa quella bianca alla periferia sud-est dove vive una cecchina. Budanov, inoltre, ha una fotografia in cui si vedono due-tre uomini e tre-quattro donne con le armi in pugno.

A suo stesso dire, Budanov decide di non por tempo in mezzo e di arrestare la cecchina. Il 26.03

verso le ore 15, mentre pranza alla mensa degli ufficiali, Budanov consuma bevande alcoliche.

Alle 24 del 26.03 decide di recarsi personalmente a Tangi, in via Zarechnaja n. 7. Il B.M.P. viene fatto fermare accanto al domicilio della famiglia Kungaev. Budanov entra. All’interno trova Kungaeva El’za Visaevna, nata nel 1982, e altri quattro tra fratelli e sorelle, tutti minorenni.

Budanov dà ordine di prelevare la Kungaeva, che viene avvolta in una coperta, caricata sul B.M.P. e portata prima all’accampamento e poi nell’alloggio di Budanov, dove viene depositata a terra. Budanov dà disposizione ai suoi uomini di fermarsi e di non far entrare nessuno. Rimasto solo con la Kungaeva, le chiede informazioni sugli spostamenti dei guerriglieri. La Kungaeva rifiuta di fornirgliene [torno a ripetere che El’za Kungaeva non parlava una parola di russo], Budanov non smette di interrogarla.

Comincia a picchiarla con pugni e calci al volto e in svariate parti del corpo, causandole ematomi sulla superficie interna della coscia destra, ecchimosi alla mucosa della bocca e alle gengive. La Kungaeva continua a opporre resistenza, lo spintona, cerca di scappare dall’alloggio. Credendola membro di una formazione armata oltre che parte in causa nella morte dei suoi sottoposti, Budanov decide di ucciderla. La afferra per gli abiti, la getta sulla sua branda, le prende il collo e comincia a stringere fino a che la Kungaeva non dà più segni di vita. Poi chiama gli uomini del B.M.P. e ordina loro di portar via il corpo e di seppellirlo fuori dell’accampamento; l’ordine viene eseguito, come riferitogli dal sergente Grigor’ev la mattina del 27.03.

A detta dello stesso Budanov, da principio egli non intendeva uccidere la Kungaeva, n‚ tanto meno abusare sessualmente di lei. La Kungaeva, però, “esplode” in insulti [ripetiamolo per l’ennesima volta: la Kungaeva non parlava russo!] contro le Forze Armate russe, i russi in generale e Budanov in particolare. La situazione si scalda, lo scambio di battute degenera, la Kungaeva gli dice che i ceceni “l’avrebbero fatta pagare a lui e alla sua famiglia”. La ragazza si lancia in una filippica di insulti contro di lui e contro i soldati russi. Alla fine cerca di scappare dall’alloggio. Budanov viene colto di sorpresa e deve usare la forza per tirarla via dalla porta; nel corso della colluttazione gli abiti della Kungaeva si lacerano in qualche punto [i soldati l’avrebbero trovata completamente nuda].

A detta di Budanov, la Kungaeva era fisicamente molto forte. Lei gli lacera la maglietta e gli strappa dal collo la catenina della figlia, con la croce; lui le strappa gli indumenti che le coprono la parte superiore del corpo. La Kungaeva grida che “ne aveva ammazzata troppo poca, di gente come lui”. Quando la Kungaeva si trova sul secondo pancaccio dell’alloggio di Budanov, il più lontano, cerca di afferrare la pistola del colonnello, appoggiata sul comodino. Budanov le prende il braccio, e con la mano libera comincia a schiacciare il corpo di lei contro il letto, tenendo sempre la mano sulla gola della Kungaeva. Mentre la Kungaeva continua a lanciare minacce, Budanov si vede passare davanti agli occhi “i volti dei soldati e degli ufficiali morti nella Gola di Argun”.

Budanov non ricorda che altro sia accaduto. Quando torna in s‚, vede che la Kungaeva è riversa sulla branda e non si muove. Chiama gli uomini del B.M.P. A detta di Budanov, la ragazza indossava la gonna, mentre camicia e reggiseno erano ammucchiati lì vicino; lui aveva solo i pantaloni. Li-en-Shou consiglia di seppellirla nel bosco. Gli abiti della Kungaeva vengono messi nella coperta. Budanov avverte i suoi uomini di non sognarsi di spararle un colpo alla testa, per non comportarsi alla stregua dei guerriglieri. Quando il corpo della Kungaeva viene avvolto nella coperta, non si rinvengono tracce di sangue. Usciti i suoi uomini, Budanov si mette a letto e si addormenta”.

“Una parentesi necessaria”. Come ripetuto più volte durante l’istruttoria, quando i soldati che quella notte avevano montato la guardia all’alloggio del colonnello entrarono chiamati da Budanov, il colonnello indossava solo gli slip. Mentre la ragazza era completamente nuda sulla branda più lontana, supina. Sulla coperta, gettata per terra, c’erano gli abiti della ragazza, le sue mutande, la camicetta. “Qualcuno ha paura dei morti?” chiese Budanov ai soldati. Dopo di che si accese una sigaretta, ordinando di avvolgere il corpo nella coperta e di seppellirlo nel bosco. Li minacciò: se qualcuno avesse parlato gli avrebbe sparato; di pallottole ne aveva a sufficienza per tutti, anche per il colpo di grazia alla testa…

“Budanov ha dichiarato di aver incontrato il general maggiore Gerasimov, comandante ad interim del raggruppamento militare “Occidente”, verso le 13.30 del 27.03 [il vero comandante era Vladimir Shamanov, dei cui favori Budanov godeva; all’epoca, però, Shamanov era in licenza e pertanto gli inquirenti della procura militare ebbero libero accesso al territorio del reggimento carristi, cosa che Shamanov non avrebbe mai autorizzato, come ebbe poi a ripetere in diverse interviste]. Quel giorno il generale Gerasimov lo accusa di aver dato fuoco a mezzo villaggio e stuprato una ragazzina quindicenne. Gerasimov non lesina insulti e improperi. Budanov estrae la pistola, la punta a terra, spara e si ferisce a un piede. Sebbene, dopo aver sparato, Budanov abbia consegnato la sua pistola a Gerasimov, gli uomini del generale lo tengono sotto tiro.

Budanov ode un rumore e vede che stanno sopraggiungendo gli uomini del suo reggimento.

Venti uomini e due ufficiali si schierano di fronte agli uomini del generale Gerasimov. I due gruppi si fronteggiano. Budanov ordina di abbassare le armi. Dopo di che, sempre a detta di Budanov, lui e i generali Gerasimov e Verbickij si recano nella stanza del comando, dove Budanov rilascia per iscritto un’ammissione di colpa.

Nel corso dell’istruttoria, in data 5.10.2000, Budanov spiega i dati contraddittori delle sue deposizioni con lo stato di profonda tensione in cui versava durante gli interrogatori del 27.03.2000.

Sulla base di quanto esposto, la commissione è giunta alla conclusione che, in merito ai casi che gli vengono imputati, Budanov è da ritenersi “incapace di intendere e di volere”. Le reazioni della Kungaeva (insulti, tentativo di afferrare la pistola, minacce) hanno provocato in lui una temporanea instabilità mentale.

Risposta al punto 5: le azioni della Kungaeva sono state uno dei fattori che hanno causato la temporanea instabilità mentale di Budanov.

Risposta al punto 6: le testimonianze relative allo stato di ebbrezza di Budanov sono contraddittorie e si escludono a vicenda. Non ci sono prove convincenti che Budanov si trovasse in stato di ebbrezza [?!].

Risposta al punto 7: al momento Budanov è consapevole delle proprie azioni. E’ bene sottoporlo a osservazione “ambulatoriale” e a cure psichiatriche. Rientra nella categoria ‘c’: parzialmente idoneo al servizio militare”.

Questa la genesi della terza perizia, quella “esatta”. In cui l’essenziale risultò essere quanto segue: è colpa tua se ti hanno ammazzata, non dovevi opporre resistenza e non dovevi fare la cecchina. E ancora: mentre ti ammazzava, Budanov era incapace di intendere e di volere, dopo averti ammazzato è ritornato normale.

Furono proprio le conclusioni della perizia, secondo la legge russa, a concedere al giudice gli argomenti necessari per esaudire i desideri dei vertici politici e rimettere al colonnello i suoi peccati di guerra.

Primo: il giudice poteva finalmente liberare Budanov dal fardello della responsabilità penale.

Secondo: doveva obbligarlo a seguire delle cure psichiatriche, sì, ma in ambulatorio (cioè senza ricovero in apposite strutture) e per un lasso di tempo la cui durata non sarebbe stata decisa da lui, ma dallo psichiatra che l’avrebbe preso in cura. I guai del colonnello, dunque, potevano essere finiti già a qualche settimana dal verdetto: bastava che il medico decidesse che era guarito, e Budanov non avrebbe dovuto nemmeno mettere piede in un ospedale.

Terzo: il giudice poteva salvaguardare il diritto di Budanov a servire nell’esercito (in quanto la sua “incapacità di intendere e di volere” era stata “estemporanea” e “situazionale”, una mera risposta alle reazioni della Kungaeva), una variante del verdetto sulla quale le alte sfere dell’esercito - lo Stato Maggiore del distretto militare del Caucaso Settentrionale e i massimi dirigenti del ministero della Difesa - avevano molto insistito, in quanto altrimenti sarebbe risultato che le truppe in Cecenia erano affidate a folli patentati che non venivano n‚ scoperti n‚

curati, e facevano quel che volevano…

Così vanno le cose in Russia: per stilare perizie legali non sono i fatti che contano, ma chi li manipola. Il risultato di una perizia dipende da chi la effettua. Nel nostro caso i protagonisti dell’assoluzione psicologica e psichiatrica di Budanov furono i seguenti:

- professoressa T. Pecernikova (presidente della commissione), responsabile del centro perizie dell’Istituto Serbskij, medico di fama mondiale, dottore in scienze mediche, consulente psichiatrico di primissima categoria con esperienza cinquantennale nel ramo;

- professor F. Kondrat’ev, responsabile del primo reparto clinico, dottore in scienze mediche con onorificenza al merito della Federazione Russa, quarantadue anni di esperienza nel ramo;

- F. Safuanov, candidato in scienze psicologiche, vent’anni di esperienza nel ramo;

- colonnello A. Gorbatko, medicina militare, primo perito di psichiatria forense del ministero della Difesa;

- colonnello G. Fastovcev, medicina militare;

- G. Burnjasheva, consulente in psichiatria.

Furono loro a svolgere il grosso del lavoro, a riconoscere Budanov “incapace di intendere e di volere al momento del crimine” - e di conseguenza a esentarlo da ogni possibile colpa, facendogli recuperare ogni facoltà “a un’ora dal crimine stesso”, rendendolo quindi abile al servizio militare, e obbligandolo a vedere il medico sotto casa giusto una volta al mese.

Mi sembra, dunque, essenziale capire chi è la squadra capitanata dalla professoressa Pecernikova. E, ovviamente, chi è la Pecernikova stessa.

E’ stato un caso che si siano rivolti a lei per una perizia politica importantissima e dall’esito

‘necessario’?

E’ mia opinione che in questa storia non ci sia nulla di casuale. Perch‚ in Russia non può essere altrimenti. E perch‚ così è stato sin dai tempi dell’Unione Sovietica. Speravamo tutti che certe cose fossero ormai svanite nel Lete, speravamo di essercene liberati, che i fantasmi di un orrendo passato non si ripresentassero più…

Invece no. Quando ce n’è bisogno, quando e dove più aggrada ai vertici del Paese, gli spettri del comunismo tornano al nostro fianco. E sono sempre gli spettri peggiori.

Tamara Pecernikova, professoressa e psichiatra con mezzo secolo di esperienza alle spalle, è un nome noto nella storia della Russia, e quelle che riporterò sono giusto alcune tappe del suo lungo percorso. E’, il mio, un excursus storico quanto mai necessario, in quanto negli anni di presidenza di Putin le pagine peggiori della nostra storia - quelle della psichiatria politica prezzolata - sono tornate a far parte del quotidiano là dove meno ce lo saremmo aspettati…

Il 25 agosto del 1968, a Mosca, sulla Piazza Rossa, si era svolta l’ormai celebre “dimostrazione silenziosa dei sette”. Sette persone - tra le quali Natal’ja Gorbanevskaja, poetessa, giornalista, dissidente, che quel giorno spingeva anche la carrozzina con il suo beb‚ - arrivarono sulla Piazza Rossa ed esposero alcuni striscioni su cui era scritto “Per la nostra e la vostra libertà!”,

“Vergogna agli occupanti!”… In un Paese in cui nessuno apriva bocca e tutti si rassegnavano alla linea del P.C.U.S., c’erano delle persone capaci di protestare contro le truppe sovietiche che avevano invaso la Cecoslovacchia.

La dimostrazione dei ‘sette’ durò soltanto qualche minuto, dopo di che vennero tutti catturati dagli agenti in borghese del K.G.B. che pattugliavano continuamente la Piazza Rossa. Due finirono in lager, uno in ospedale psichiatrico e tre al confino, mentre, avendo un neonato da accudire, in un primo momento la Gorbanevskaja venne liberata.

La arrestarono qualche tempo dopo, il 24 dicembre del 1969. Non aveva interrotto le sue attività in difesa dei diritti umani.

E’ dunque nel ‘69, trenta e passa anni fa, e in relazione al caso di Natal’ja Gorbanevskaja, che si rinvengono le prime, chiare tracce della dottoressa Pecernikova. Fu proprio lei il medico che, all’Istituto Serbskij, interrogò la Gorbanevskaja su espressa richiesta del K.G.B.

La Pecernikova del ‘69 emise il verdetto richiesto dal K.G.B.: schizofrenia. Una persona psichicamente stabile, infatti, non avrebbe potuto prendere uno striscione, andare sulla Piazza Rossa e manifestare contro l’ingresso dei carri armati a Praga.

Un’altra diagnosi del K.G.B. avallata dal timbro della Pecernikova fu che la Gorbanevskaja fosse un individuo socialmente pericoloso da internare immediatamente e compulsivamente in un’apposita struttura psichiatrica…

E per la Gorbanevskaja - che aveva fondato e diretto la “Cronaca dei fatti correnti”, il primo bollettino in “samizdat” (le pubblicazioni dattiloscritte a circolazione clandestina) degli attivisti sovietici per i diritti umani - vennero gli anni durissimi dell’Ospedale psichiatrico di Kazan’. Ci restò dal 1969 al 1972. Emigrò nel 1975 con un visto israeliano, ora vive in Francia.

“Le dice niente il nome Pecernikova?” le ho chiesto.

“Certo che sì”.

“Come si è svolta la perizia su di lei?”.

“Fu faziosa a dir poco. La diagnosi di ‘schizofrenia’ era già stata decisa dall’alto. Questo è quel che fece la Pecernikova. Il K.G.B. aveva dato disposizioni affinch‚ venissi internata in un ospedale psichiatrico e tutti, compresa lei, si adoperarono in tal senso. Consapevoli che il tribunale non avrebbe avuto bisogno di una diagnosi convincente, non persero tempo a elaborarne una. Un esempio tratto dalla perizia: ‘Manifesta a intermittenza pensieri incoerenti’.

In che modo? Nessuna spiegazione. ‘La Gorbanevskaja presenta le alterazioni psichiche, emotive e delle facoltà di giudizio che sono tipiche della schizofrenia’. Quali in dettaglio? Nessuna spiegazione. Quella frase fu cruciale, fra l’altro, in quanto comportava come necessaria conclusione una cura forzata. Nei trenta giorni della perizia, invece, non mi fecero mai domande sulle mie poesie, e io sono un poeta. Non esistevano e basta. Dal canto mio, temevo che se l’avessi fatto presente mi avrebbero aggiunto anche la megalomania, tipo ‘Ah sì, e lei si crede un poeta, eh?!’. Il perch‚ è chiaro: la ‘frigidità emotiva’ imputabile alla schizofrenia rendeva impossibile scrivere versi. ‘La paziente conversa volentieri. E tranquilla. Sorride’. Giusto, ma sapesse quanto mi costava tanta tranquillità! Capivo che dovevo stare tranquilla per non dare il destro a nuovi sintomi, ma alla fine fu la tranquillità a diventare sintomo e a dar loro il diritto di scrivere: ‘… non mostra particolari ansietà riguardo al futuro e alla sorte dei suoi figli’. Eccome se ero ansiosa per i miei figli, ma non andavo certo a dirlo a degli psichiatri del K.G.B.! O

ancora: ‘Non rinnega il gesto compiuto. E’ convinta oltre ogni possibile dubbio di aver fatto la cosa giusta. Dichiara, in particolare, di essersi comportata a quel modo per non sentirsi in colpa di fronte ai figli negli anni a venire’. Non lo rinnego a tutt’oggi, quello che ho fatto, sono tuttora convinta di aver fatto la cosa giusta e i miei figli sono fieri della sorte che mi è capitata… ‘Manca una consapevolezza critica dell’accaduto’. Gli psichiatri, e la Pecernikova con loro, mi ritenevano pazza perch‚ usavo la mia testa. Fra l’altro, nel mese della perizia gli unici con cui ebbi a che fare furono la Pecernikova e il dottor Martynenko. Le ‘osservazioni’ in base alle quali fu stilato il referto sono tutte farina del loro sacco, dunque. Penso che fossero pienamente consapevoli delle distorsioni che stavano compiendo, ma ciò non impediva loro di portare a termine il lavoro criminoso di cui erano stati incaricati. La Pecernikova, dunque, ha alle spalle lunghi anni di obbedienza. Penso che l’Istituto Serbskij abbia inesorabilmente minato l’onestà umana e la professionalità degli psichiatri che vi lavoravano. Se non erano cinici puri, quel lavoro deve aver portato loro, e non me, alla schizofrenia, a uno sdoppiamento della personalità”.

“Com’è finita? Quali sono state le conseguenze della perizia della Pecernikova? Quanto tempo ha dovuto passare in un ospedale psichiatrico?”.

“Due anni e due mesi. Ma io lo chiamavo carcere psichiatrico. Nel peggiore, a Kazan’, ci sono stata nove mesi e mezzo. Mi ci portarono dalla prigione Butyrki di Mosca nel gennaio del 1971.

Nel 1972 tornai al Serbskij, previa sosta a Butyrki. Ci restai tre mesi per una nuova perizia. Ma non è il tempo che conta, bensì le cure forzate con neurolettici fortissimi. Come l’aloperidolo, ormai considerato un mezzo di tortura, allora usato per curare delirio e allucinazioni. Che io non avevo. A meno di non voler considerare deliranti le mie idee, certo… ma son quelle che professo a tutt’oggi. Solitamente lo somministrano per un mese, l’aloperidolo, poi segue una pausa e un trattamento con altri medicinali che prevengono gli effetti collaterali, ossia il morbo di Parkinson.

A me, invece, lo iniettarono per nove mesi e mezzo di fila, senza pause n‚ altri medicinali.

Quando tornai al Serbskij da Kazan’ e ricominciarono con l’aloperidolo, la Pecernikova mi disse:

‘Si rende conto che dovrà continuare a prenderlo anche dopo, vero?’. Ipocrita!”.

“E poi?”.

“Poi sono emigrata. A Parigi con tappa a Vienna. Tra le risate degli psichiatri francesi che leggevano l’anamnesi del Serbskij. Uno è arrivato a dirmi: ‘Dobbiamo andare tutti a scuola dagli psichiatri sovietici: a prestar fede alla loro diagnosi, abbiamo di fronte un caso miracoloso di guarigione dalla schizofrenia!’“.

Il caso Gorbanevskaja segnò l’inizio delle cosiddette “repressioni psichiatriche” contro i dissidenti, repressioni che videro l’attivissima partecipazione della dottoressa Pecernikova. La futura salvatrice del colonnello Budanov fu sulla cresta dell’onda soprattutto negli anni Settanta, anni durissimi per il nostro Paese, anni di scontri prolungati del regime comunista con i dissidenti. All’epoca avevamo già una Costituzione di tutto rispetto, e per non turbare troppo l’Occidente il K.G.B. preferiva condurre la sua guerra al libero pensiero con metodi psichiatrici, dichiarando mentalmente disturbata quanta più gente poteva e internandola forzatamente in apposite cliniche.

Solo nel 1971, come scrive Ljudmila Alekseeva (nota attivista e dissidente dell’epoca sovietica, costretta a emigrare negli Stati Uniti da una vera e propria persecuzione politica, e ora a capo dell’Associazione internazionale di Helsinki) nella sua “Storia del dissenso in URSS”, “su ottantacinque colpevoli di crimini politici, ventiquattro - quasi un terzo, dunque - furono ritenuti incapaci di intendere e di volere”. Quelli che non si riusciva a far passare per pazzi, venivano condannati per calunnia ai danni del regime sovietico, ma sempre e solo con lo zampino della Pecernikova.

Nell’estate del 1978, per esempio, si celebrò un processo per calunnia a carico di Aleksandr Ginzburg in cui la Pecernikova depose come “testimone dell’accusa”.

Aleksandr Ginzburg, dissidente molto noto, giornalista, membro della filiale moscovita del Gruppo di Helsinki, è stato l’editore di “Sintaksis”, raccolta poetica in “samizdat”, e il primo amministratore (dal 1974 al 1977) del Fondo sociale di aiuto ai prigionieri politici in URSS e alle loro famiglie che Aleksandr Solzenicyn ha creato con i diritti d’autore di “Arcipelago Gulag”. Dal 1961 al 1969 Ginzburg ebbe tre condanne al lager per la sua attività, e nel 1978 venne condannato ad altri otto anni di reclusione. Nel 1979 fu espulso dall’URSS che, cedendo alle pressioni dell’Occidente, lo scambiò con alcune spie sovietiche arrestate negli Stati Uniti. E’

vissuto poi in Francia ed è morto a Parigi nel 2002 per i postumi delle malattie contratte nei lager politici sovietici.

Questo è quanto ha ricordato, su mia richiesta, Arina Ginzburg - moglie e compagna di battaglia di Aleksandr - del clima del processo che, con la partecipazione straordinaria della Pecernikova, venne celebrato a Kaluga, nella Russia Centrale:

“Al processo, i problemi più grossi Aleksandr li ebbe con gli psichiatri. Lo imbottivano di neurolettici. Alle udienze era completamente assente. Gli facevano continue iniezioni. Aleksandr aveva un aspetto tremendo: camminava a stento, vacillava, reggeva in mano una federa con dentro dei libri (aveva ricusato gli avvocati e si difendeva da solo) e aveva la barba lunga e grigia. Parlava in modo incoerente, era scoordinato; una volta chiese di potersi sedere, glielo vietarono e lui svenne […]. Dopo il verdetto lo lasciarono in pace, sospesero le iniezioni…”

Cito dai verbali delle udienze: “In risposta al documento n. 8 [un articolo tratto dalla “Cronaca dei fatti correnti” del 12 ottobre 1976], sono stati ascoltati la responsabile della sezione di perizia medica dell’Istituto Serbskij, Pecernikova, e il medico della clinica psichiatrica n. 14 di Mosca, Kuz’miceva. Esse hanno affermato che in URSS non esistono casi di abuso psichiatrico”.

Com’è evidente, Ginzburg insisteva nel sostenere il contrario. Come aveva scritto anche nei testi in “samizdat”, occupandosi del forte incremento delle repressioni psichiatriche nel Paese e dell’attività di medici come la Pecernikova.

Altri estratti dal “documento n. 8” confutati dalla Pecernikova:

“Di recente il gruppo di appoggio [di appoggio all’applicazione degli accordi di Helsinki] si è rivolto al Soviet Supremo dell’URSS e al Congresso Americano proponendo loro di creare una commissione mista atta a rilevare casi di abuso psichiatrico. Nel documento in questione il gruppo da conto delle repressioni psichiatriche di cui è a conoscenza […]. P‰tr Starcik, cantautore, è stato internato, previo intervento della milizia, il 15 settembre 1976 nell’ospedale psichiatrico sito presso la stazione del metrò Stolbovaja [le celebri “Belye stolby”, Colonne bianche, un duplicato del Serbskij]. Starcik è già stato sottoposto a forti dosi di aloperidolo. […]

Così è scritto sulla sua cartella: “S.P. [socialmente pericoloso]. In cura presso l’Ospedale psichiatrico di Kazan’ per assistenza medica obbligatoria ex articolo 70 [propaganda e agitazione antisovietica]. Dimesso nel 1975. Di recente ha composto canzoni di contenuto antisovietico e raccolto in casa propria fino a quaranta-cinquanta persone. La visita lo ha trovato lucido di mente. Non nega di aver scritto le canzoni, sostiene di avere una propria ‘visione del mondo’“.

[…] Eduard Fedotov era sacerdote a Pskov. Venne a Mosca quando seppe delle repressioni ai danni degli ortodossi (come A. Argentov, internato anche lui nell’ospedale psichiatrico n. 14).

Qui è stato prelevato dalla milizia e spedito all’ospedale psichiatrico n. 14, dove si trova al momento. […] Il 7 maggio 1976 Nadezda Ivanovna Gajdar ha presentato un esposto alla Procura dell’URSS [dove era stata rinviata dal Comitato Centrale del P.C.U.S.]; è stata prelevata dai poliziotti e portata all’ospedale psichiatrico n. 13, dove le hanno subito iniettato dell’aminazina […] La responsabile del secondo reparto, L. I. F‰dorova, l’ha così informata:

“La teniamo un po’ qui, così la smette di presentare esposti, poi la mandiamo a Kiev tramite un centro specializzato. Starà un po’ anche con loro… Così la prossima volta ci pensa due volte, prima di andare a lamentarsi…””.

Questi gli argomenti su cui venne chiamata a deporre la Pecernikova, la quale testimoniò che la psichiatria sovietica non conosceva casi analoghi e che Ginzburg stava mentendo. La sua testimonianza fu talmente efficace, che Ginzburg venne condannato per calunnia e propaganda ai danni del regime sovietico.

Il risultato furono otto anni di reclusione, prigioni, lager, tubercolosi, la perdita di un quarto di polmone, l’asportazione dell’altro e sedici anni - gli ultimi - della sua vita attaccato sedici ore al giorno alla macchina dell’ossigeno per poter sopravvivere… Una salute compromessa che solo la medicina francese riuscì a malapena a recuperare.

Per capire che cosa sta accadendo in Russia oggi è importante sapere non solo che la psichiatria politica prezzolata è risorta a nuova vita, ma anche come funziona attualmente.

Tanto per fare un esempio, negli atti di quasi tutti i ‘casi’ della Pecernikova, dalla Gorbanevskaja a Budanov, c’è un filo conduttore: la “ricerca della giustizia sociale”. Un’espressione che oggi, tuttavia, viene usata in un contesto completamente diverso: i “più” sono cinicamente diventati

“meno”. Se, cioè, in era sovietica la ricerca di una “giustizia sociale” era per la Pecernikova il sintomo di un disturbo mentale che rendeva impossibile la permanenza nel “socium” di un dato individuo e la induceva a emettere “verdetti” di schizofrenia, ora quella stessa Pecernikova arrivava a giustificare un omicidio brutale tramite un’interpretazione “in positivo” di quella stessa formula: il colonnello aveva ucciso una ragazza che riteneva essere una cecchina cecena perch‚

sopraffatto dal senso di colpa per la morte dei suoi compagni, avvenuta per mano della donna in questione.

La domanda più importante in tutta questa storia è la seguente: è un caso che la Pecernikova compaia nei casi Gorbanevskaja e Ginzburg?

Certo che no. Era o non era una sodale del K.G.B.? Era o non era una fedele compagna di lotta, un medico con ben chiara la propria funzione?

La domanda successiva sarà, allora: è un caso che la Pecernikova sia stata chiamata per il processo Budanov a venticinque anni di distanza dalle sue “testimonianze” contro Ginzburg?

No. Certo che no. In quanto la Pecernikova è rimasta ligia alle sue funzioni di un tempo. In questi ultimi trent’anni negli uffici del K.G.B. (O F.S.B. che dir si voglia) di lei si è sempre parlato come di una persona “fidata”. Dopo El’cin e con l’arrivo di Putin l’F.S.B. è rinato a nuova vita, e la cara dottoressa con lui. Negli anni ‘tardo-democratici’ di Gorbac‰v e con El’cin, quando i suoi servigi non erano richiesti, la Pecernikova ha saputo restare nell’ombra, in silenzio. Ma quando all’orizzonte della Russia è comparso Putin, uomo del K.G.B. con vent’anni di servizio alle spalle, che ha colmato tutti i vuoti di potere con i suoi colleghi, anche la Pecernikova è tornata a essere necessaria. Come un tempo.

“Un chiarimento importante”. Secondo fonti indipendenti (e non ne esistono altre), sono ormai più di seimila gli ex uomini del K.G.B./F.S.B. con incarichi di potere ai piani alti dello Stato, ivi compresi i posti chiave nei ministeri: nell’ufficio del presidente (due vicedirettori, il capo del personale e dell’ufficio stampa), nel Consiglio di sicurezza (il vicecapo), nell’apparato del governo, nei ministeri della Difesa, degli Esteri, della Giustizia, dell’Industria atomica, al Tesoro, agli Interni, alla Stampa, in televisione e in radio, alle Dogane, all’Agenzia russa per le riserve di Stato, al Comitato di risanamento finanziario, e via discorrendo.

Come il cancro, la storia tende a essere recidivante. E la cura è una sola: una chemioterapia tempestiva contro le cellule portatrici di morte. Così non è stato, e nel passaggio dall’URSS alla nuova Russia ci siamo trascinati dietro tutti i nostri pidocchi sovietici: il K.G.B. continua a essere ovunque, e la Pecernikova con lui.

Ma torniamo alla questione centrale di questa nostra tragedia moderna: la resurrezione della professoressa Pecernikova nel caso Budanov è o non è una coincidenza? La domanda può essere riformulata altrimenti senza perdere in sostanza: la resurrezione della polizia segreta nel nostro Paese, il passaggio dal ventesimo al ventunesimo secolo di un’infrastruttura che serviva a mantenere intatto il sistema sovietico di pressioni e costrizioni, è o non è un caso?

Ovviamente non lo è. Torniamo con la memoria al 2000, a prima che Putin fosse eletto. “Il diavolo non è così brutto come lo si dipinge” dicevano in molti. “Che cosa volete che sia se viene dal K.G.B. sovietico? Si sgrezzerà, vedrete…”.

E’ stata una valanga. Dietro di lui è venuta la sua squadra: prima qualche decina di uomini, i fedelissimi, quelli con cui aveva lavorato personalmente e di cui si fidava. Poi sono diventati qualche centinaio con gli amici degli amici, quelli di cui loro - e non Putin - si fidavano, e con i quali loro avevano lavorato. Ora sono migliaia e sono ovunque, a ogni livello, in tutti gli interstizi del potere.

Siamo, dunque, circondati da gente di cui Putin e i suoi si fidano. Da un lato è normale.

Dall’altro si è scoperto che questa gente si fida (e si fidava) solo dei propri ‘simili’, e che i loro

‘simili’ hanno tutti un passato nel K.G.B. Quindi le strutture di potere e di semipotere della

‘nuova Russia’ sono state inondate da cittadini con determinate tradizioni alle spalle, con una mentalità educata alla repressione, con un certo modo di risolvere le questioni di Stato…

Una di queste tradizioni è, appunto, la Pecernikova. Che è, sì, una tradizione, ma anche un modo di applicarla. Nel senso che in vent’anni di pratica in “difesa del regime sociale e statale sovietico” la Pecernikova ha calibrato al meglio il meccanismo sulle sue competenze scientifiche, adeguando la psichiatria a quanto richiesto dagli organi di sicurezza. E a un decennio dal crollo del sistema sovietico le sue competenze tornano a essere molto richieste.

Non sono astrazioni di teoria politica. E non sono prove della lungimiranza di alcune prognosi.

No. Le conseguenze dei contributi della Pecernikova al caso Budanov sono tremende e tangibili: è questione di vita e di morte, come negli anni Settanta e Ottanta.

Che Budanov tornasse o meno libero era infatti una questione di fondamentale importanza per la nostra epoca. Per l’esercito innanzitutto, che in Cecenia è diventato una forza di repressione politica. L’esercito aspettava di vedere se il processo di Rostov sarebbe diventato un precedente.

Budanov sarebbe risultato colpevole o innocente? Potevano o non potevano continuare a comportarsi come lui?

Sì che potevano, secondo la Pecernikova, che fece il possibile affinch‚ il giudice Kostin fosse in grado di confermare la sua asserzione.

Un segnale che in Cecenia venne interpretato come doveva: gli ufficiali di stanza continuarono l’opera di Budanov. E avremmo esempi a sufficienza per un altro volume.

Un unico caso.

La fine di maggio del 2002. Un’altra serie di rapimenti di giovani donne e di conseguenti assassini. Il 22 maggio, nella città di Argun, dei militari prelevano dalla sua casa al 125 di via Shalinskaja una maestra ventiseienne delle elementari di Argun, Svetlana Mudarova. Anche lei, come El’za Kungaeva, viene caricata su una macchina così com’è, la notte, in pantofole e vestaglia. Per due giorni i militari fanno di tutto per nascondere il luogo dove la trattengono. Il 31 maggio il suo corpo mutilato viene gettato tra le rovine di una casa di Argun.

Ognuno pensi ciò che vuole, ma si è trattato di una conseguenza del “sì” della Pecernikova: fate pure quel che volete, tanto poi abbiamo un colpo prodigioso in canna. Diremo che mentre stavate compiendo il crimine eravate incapaci di intendere e di volere, così scampate al processo, mentre prima e dopo il misfatto restate e tornate capacissimi di qualsiasi cosa, e dunque potete continuare a vivere come un tempo, a prestare servizio nell’esercito e via dicendo…

Per questo ritengo che anche la Pecernikova abbia sulla coscienza la morte di Svetlana Mudarova.

Passa più di un anno, e il caso Budanov si completa con altre tre perizie. Le conclusioni della Pecernikova vengono confutate, la Corte Suprema sottopone il caso a un ulteriore esame, la nuova corte militare di Rostov sul Don richiede una nuova perizia, il procuratore Nazarov, che difende l’imputato, viene di fatto estromesso dal caso, la giustizia sociale comincia a tirar fuori la testa dalla sabbia…

E la Pecernikova? Sarà punita per aver detto il falso? O magari le sarà chiesto di lasciare il Serbskij, dato lo scandalo?

Certo che no. La Pecernikova è eterna. E’ rimasta dov’è. Può sempre servire.

Dedichiamoci, ora, a ciò che la Pecernikova aveva ignorato: gli scogli del caso Budanov.

E’ la pagina più rivoltante, più vile e più sporca di tutta questa storia. Scavarvi è disgustoso, ma necessario. Per amor di verità, in primo luogo. E in secondo per capire che cosa accade davvero in Cecenia oltre le fanfare della menzogna e della propaganda ufficiale.

L’ultima notte della sua vita la povera El’za Kungaeva non fu solo strangolata brutalmente, ma anche stuprata.

Questi alcuni frammenti tratti dal verbale della scientifica del 28.03.2000:

“Il luogo della sepoltura è situato nell’appezzamento boschivo a 950 metri dal comando del reggimento carristi. Vi è stato rinvenuto il corpo di una donna completamente nuda e avvolta in una coperta (plaid).

Il cadavere era riverso sul fianco sinistro, le gambe strette contro il ventre, le braccia piegate al gomito e strette al torso. Il perineo nell’area esterna degli organi genitali è sporco di sangue, come anche il plaid nella zona corrispondente.

L’esame medico del corpo della Kungaeva è stato svolto in data 28.03.2000, dalle ore 12 alle 14, alla periferia del villaggio di Tangi-Chu, con luce naturale sufficiente, dal responsabile del reparto di medicina del laboratorio n. 124, capitano V. Ljanenko. Trattasi di cadavere di donna alta 164 centimetri. Sugli organi genitali esterni, sull’epidermide del perineo, sulla superficie posteriore del terzo superiore dei fianchi sono state rinvenute chiazze umide di color rosso scuro simili a sangue e muco. Il foro di ingresso dell’imene misura circa 0,6 centimetri di diametro.

L’imene presenta lacerazioni radiali lineari. Nella piega tra le natiche sono presenti tracce asciutte di color rosso-bruno-marrone. A 2 centimetri dall’ano c’è una lacerazione di 3 centimetri della mucosa. Lo strappo è pieno di sangue rappreso, prova che trattasi di lacerazioni “ante mortem”. Sul plaid, dal lato rivolto verso il cadavere, è presente una macchia umida di color bruno scuro simile a sangue di centimetri 18 per 20 per 21. La macchia è situata in un angolo del plaid all’altezza dell’imene. Oltre al corpo sono stati rinvenuti: 1. blusa di lana con il dietro lacerato (strappato) in verticale per tutta la lunghezza. […] 3. maglietta usata e lacerata (strappata) sul dietro per tutta la lunghezza; 4. reggiseno usato e lacerato (strappato) sulla sinistra, dietro, per tutta la larghezza; 5. slip usati. Al rovescio, nella zona dell’imene, gli slip presentano macchie marrone scuro e gialle, simili a tracce di feci e urina. Mancando le condizioni atte alla loro conservazione, non sono stati prelevati campioni per l’analisi istologica. Sono stati fatti, invece, un tampone vaginale e uno del retto; è stato, inoltre, prelevato un campione di sangue. Gli oggetti succitati, così come quanto trovato insieme al cadavere, sono stati consegnati agli inquirenti.

Le lacerazioni all’imene e alla mucosa del retto rinvenute sul corpo della Kungaeva sono state provocate dall’introduzione di uno o più oggetti contundenti nel retto e nella vagina. Non è da escludersi che si sia trattato di un membro maschile in stato di erezione. Potrebbe trattarsi, tuttavia, anche del manico di una pala. Gli esperti son giunti alla conclusione che le lacerazioni dell’imene e del retto rinvenute durante l’esame siano da ritenersi causate “ante mortem”.

Budanov aveva negato categoricamente lo stupro sin dalle prime fasi dell’inchiesta. Chi era stato, dunque, a infierire su El’za? Prima che morisse, fra l’altro… Ricordo che El’za aveva trascorso le ultime ore della sua vita con Budanov, sola, nel suo alloggio, e che il colonnello vi aveva fatto tornare i soldati quando la ragazza era già morta. Dunque…

Durante l’inchiesta preliminare, sul cadavere della Kungaeva furono svolte due perizie. Entrambe a opera del Laboratorio centrale n. 124 di Rostov, ed entrambe con il medesimo risultato: la ragazza era stata stuprata.

Quando il tribunale mirava a scagionare Budanov ne venne richiesta una terza. Lo scopo era lo stesso della perizia del Serbskij: che traesse le debite conclusioni, quelle più gradite alle alte sfere del Cremlino e della Russia, cioè che il colonnello pluridecorato non fosse uno stupratore.

Citerò, dunque, alcuni passaggi dalla perizia “ad hoc”, per la quale le cose stanno diversamente da come le aveva viste Ljanenko:

“Le lacerazioni dell’imene e della mucosa del retto sono da ritenersi postume, quando la capacità retrattile dei tessuti è da considerarsi nulla”.

Ne deriva, sì, che qualcuno aveva infierito sulla ragazza, ma che quel qualcuno non poteva essere Budanov, che aveva un alibi: dopo averla uccisa si era addormentato come un bambino…

Per rendere il tutto più plausibile, le diffuse ecchimosi riscontrate da Ljanenko diventano

“presenza di macchie di sangue nella zona degli organi genitali esterni, che non contraddicono il fatto che si tratti di ferite “post mortem”…”. Da bravi scolari, gli esperti trovano anche delle spiegazioni “oggettive” al “non stupro”: “Il rifiuto immotivato da parte dei consulenti di prelevare dei materiali da sottoporre ad analisi istologica non consente al momento di argomentare più dettagliatamente le nostre deduzioni”…

C’era poco da obiettare. La guerra - luogo in cui non si sa dove conservare dei reperti istologici (il “rifiuto immotivato”…) - diventò un alibi per chi la guerra la stava facendo. Senza l’esame istologico, come dissero in coro i patologi, ogni tentativo di provare lo stupro e di sostenere che a perpetrarlo fosse stato Budanov era vano.

La “giusta” conclusione poteva, dunque essere tratta: “Non ci sono dati a conferma dell’ipotesi che le ferite postume siano state provocate da un organo genitale maschile eretto. I risultati dell’esame della salma e dei reperti non consentono di affermare che El’za Kungaeva sia stata costretta a un rapporto sessuale”.

In altre parole, non era stata stuprata. E rassegnatevi voi che la pensate altrimenti.

A firmare l’atto di ‘assoluzione’ di Budanov furono:

1. I. Gedygushev, vicedirettore del Centro russo di medicina legale del ministero della Salute pubblica russo, dottore in scienze mediche, insignito di onorificenze statali; 2. A. Isaev, responsabile del Reparto perizie complesse dello stesso centro, massimo esperto del settore, candidato in scienze mediche;

3. O. Budjakov, consulente di medicina legale del Reparto perizie complesse dello stesso centro, candidato in scienze mediche, insignito di onorificenze statali.

I loro sforzi erano valsi a rimuovere una macchia lurida dall’uniforme dell’esercito russo. Dalla giacca, forse, ma non dai pantaloni, non dalla patta, dove resta a tutt’oggi. Perch‚ la storia non è un referto su commissione. E nel nostro Paese, lo ripeto, siamo abituati a riscriverla, la storia.

Col tempo, è ovvio. Ma non ho dubbi che prima o poi accadrà anche per la seconda guerra cecena e per il processo Budanov quale parte della storia della Russia di Putin. E allora, quando la cronaca della morte di El’za Kungaeva, ragazza cecena di Tangi-Chu, si sbarazzerà dei “fregi”

aggiunti dal Cremlino, verrà a galla anche la macchia sui pantaloni del colonnello, e la magistrale fuga dalle sue responsabilità dell’anno 2002 non servirà a cancellarla.

UNA BREVE PARENTESI.

Nei tre anni del caso Budanov il comportamento delle donne russe mi ha lasciato, francamente, senza parole… Le donne sono più della metà dell’intera nostra popolazione, e almeno quella metà era tenuta a disprezzare gli stupratori.

Invece no.

Decine di milioni di uomini russi, inoltre, hanno figlie femmine. Una ragione sufficiente, a mio modo di vedere, per capire e comprendere, da genitori, il dolore della famiglia Kungaev.

E invece no.

La televisione ha trasmesso le interviste alla moglie di Budanov, che ha farfugliato qualcosa sul suo povero marito che doveva sopportare perizie e processi, e sulla loro povera figlioletta stanca di aspettare che il papà tornasse a casa. E il Paese si è schierato con lei, l’ha compatita. Mentre non ha compatito i Kungaev, che non l’avrebbero più vista tornare a casa, la loro El’za…

E chi più ne ha più ne metta. L’assoluzione medico-scientifica di Budanov (il fatto che fosse incapace di intendere e di volere nel brevissimo lasso di tempo in cui aveva commesso il crimine) e la circostanza che il reato di stupro fosse stato stralciato, non ha generato alcun moto di indignazione. Non c’è stata una sola dimostrazione di protesta organizzata dalle associazioni femminili e femministe. Non sono scesi in strada nemmeno gli attivisti per i diritti umani. La Russia ha pensato che quanto successo fosse giusto: Budanov aveva strangolato la ragazza vendicandosi su di lei, magari ingiustamente, dei guerriglieri ceceni… I rapimenti erano ammessi… Era ammesso infierire su un cadavere… E la conseguenza era che il criminale restava libero.

Viviamo in un Paese tremendo. Le gesta del colonnello Budanov sono la norma per la maggioranza schiacciante dei russi.

E’ un’aberrazione che si riscontra in un Paese in cui l’impunità è divenuta legge. In cui sono tutti impazziti. Dal primo all’ultimo, dalle alte sfere ai bassi ranghi.

L”assoluzione’ cartacea del colonnello, nel 2002, diede il via libera a tutti coloro che avevano compiuto crimini di guerra in Cecenia barricandosi dietro il paravento della guerra e delle crudeltà perpetrate su entrambi i fronti. Per tutto il 2002 le epurazioni in Cecenia sono continuate su una scala e con una brutalità mai viste, accompagnate dalla voce monotona del giudice Kostin e dei suoi verdetti ‘assolutori’. Interi villaggi sono stati circondati: le donne stuprate, gli uomini portati via. Molti vengono uccisi, molti altri spariscono senza lasciare traccia.

La vendetta è assurta a giustificazione dell’omicidio commesso per una “giusta causa”; i pubblici ministeri, di fatto, sono riusciti a legalizzare il primato della vendetta sul diritto. La giustizia sommaria - occhio per occhio, dente per dente - è stata incoraggiata dal Cremlino stesso. Ci siamo dunque ritrovati nel Medioevo o in un bolscevismo a noi ideologicamente più vicino. Non eravamo dove credevamo di essere arrivati plaudendo a Gorbac‰v e scendendo in piazza con El’cin, ma a metà strada tra Stalin e Breznev. Il nostro cammino va a ritroso: dalla stagnazione di Breznev verso il “tutto è permesso” di Stalin. Terribile… Terribile perch‚ questa è la gente che ci governa e terribile perch‚ siamo come siamo. O forse è questo il governo che ci meritiamo.

L’ultima deposizione di Budanov era prevista per il primo giugno del 2002, il che significava che il processo era finito e che lo spettacolo noto come “caso Budanov”, parte della storia russa recente, si avvicinava al gran finale. I genitori di El’za Kungaeva e i loro avvocati lasciarono l’aula, incapaci di reggere alla menzogna, a un’etica perversa e a una violazione così spudorata della legge… Fuori del tribunale i fan del colonnello e i suoi compagni d’armi esultavano chiassosamente, in attesa di festeggiare la vittoria con fiumi di vodka…

Invece qualcosa si incrinò, in alto loco. La deposizione di Budanov venne annullata. Il verdetto, atteso per il 3 luglio, non veniva emesso. Le udienze furono inaspettatamente rimandate all’autunno, ai primi di ottobre. E Budanov venne spedito a Mosca per l’ennesima perizia, la quarta, presso il solito Istituto Serbskij… Ma perch‚? Per confermare che aveva ragione la Pecernikova e per togliere ogni speranza a un eventuale appello?

Poco si sa dei venti che all’epoca spiravano dal Cremlino. Possiamo solo provare a intuirlo da segni indiretti. Si sa, per esempio, che il Bundestag tedesco aveva esercitato forti pressioni su Putin con lettere e appelli diretti al presidente (e per tradizione Putin reagisce con prontezza maggiore a quel che viene dalla Germania piuttosto che agli appelli dei parlamentari e delle organizzazioni russe, per non parlare dei suoi singoli compatrioti). Ai summit il cancelliere Schroeder non mancava di interessarsi alle ragioni che stavano portando il processo contro il criminale di guerra Budanov verso l’assoluzione. Fonti interne all’ufficio del presidente sostengono che Putin non sapesse che cosa rispondere.

Non meravigliatevene. In un Paese con tradizioni bizantine di asservimento, quisquilie simili sono più che sufficienti a mutare il corso della storia e a indurre un tribunale a prendere decisioni che non creino disagio al presidente in occasione di incontri in cui egli gradisce sentirsi a proprio agio (7).

Quali che siano state le cause, il verdetto non venne emesso e le udienze furono interrotte sul più bello. Ripresero solo il 3 ottobre. Fondamentale doveva essere il risultato della nuova perizia psichiatrica. Tutti tiravano a indovinare: Budanov sarebbe stato “capace” o “incapace” di intendere e di volere? O magari solo parzialmente capace? Quale variante avrebbero scelto gli esperti del solito, asservito Serbskij in questo giro di valzer?

Molti si aspettavano un colpo di scena, è ovvio. Invece tutto si ripet‚. Budanov tornò a essere

“temporaneamente incapace di intendere” e il verdetto fu quello della vigilia: Budanov non poteva essere ritenuto responsabile degli atti compiuti e il tribunale insisteva affinch‚ fosse curato per un lasso di tempo stabilito dal suo medico. L’importante era salvaguardare il principio: Budanov non doveva rispondere di crimini di guerra.

La sentenza venne emessa il 31 dicembre del 2002. Che è un giorno speciale, specialissimo per noi. In Russia il 31 dicembre non lavora quasi nessuno. E pochi hanno in mente qualcosa di diverso dalle feste. Il 31 dicembre è quasi un giorno sacro, dove non c’è nulla che possa creare sgomento o far pronunciare alcunch‚ n‚ ai parlamentari democratici (e dunque anti-Budanov), n‚

a quel che resta della società civile… Tutti aspettano l’Anno Nuovo.

E difatti così fu. La scelta del giorno fu azzeccata: la sentenza non suscitò alcuna reazione. Zero.

E non ne suscitò per diverso tempo. Dopo il Capodanno in Russia vengono due settimane completamente sgombre da pensieri e preoccupazioni: la televisione trasmette solo concerti, i giornali non escono…

Va da s‚ che gli avvocati dei Kungaev ricorsero in appello al Collegio militare della Corte Suprema. Contavano di poter cambiare l’esito del processo, ma non nutrivano eccessive speranze. Come ebbe a sostenere Abdula Chamzaev, uno dei difensori dei Kungaev, subito dopo il verdetto, le loro speranze erano riposte nel Tribunale europeo per i diritti dell’uomo, e non nel sistema giudiziario russo, ragion per cui il ricorso alla Corte Suprema era solo una fase procedurale per presentare appello a Strasburgo.

Ma poi, di colpo, la sorpresa. Ai primi di marzo il Collegio militare della Corte Suprema russa annulla inaspettatamente la sentenza, riconosce le violazioni procedurali e ordina di celebrare un nuovo processo che riparta dall’istruttoria e si tenga a Rostov sul Don, presso lo stesso tribunale distrettuale, ma con un nuovo giudice.

Nella mappa del potere russo (la Corte Suprema ha fama di essere una sezione dell’ufficio del presidente e non il massimo organo di potere giudiziario autonomo del Paese) l’interpretazione era univoca: al Cremlino il vento era cambiato e soffiava in senso opposto. Lo slogan “un ufficiale russo che combatte in Cecenia ha sempre ragione” non era più gradito al presidente che, come nella primavera del 2000, tornava a farsi paladino della “dittatura della legge”: la campagna elettorale per il 2004 era ufficialmente iniziata…

La ragione principale era evidente: mancava un anno alle presidenziali. Alle elezioni politiche del dicembre 2003 Edinaja Rossija (Una Russia unica), il partito di Putin, il cui segretario generale -

in aperta violazione delle leggi vigenti - è il ministro degli Interni Boris Gryzlov, era obbligata a vincere. E andavano prendendo forma gli slogan delle due campagne - quella di partito e quella di Putin: “La legge prima di tutto”.

Il 9 aprile, a Rostov sul Don, il processo ricominciò. E il colonnello era un’altra persona.

Dell’uomo insolente che poco mancava sputasse in faccia al giudice mentre insultava senza tregua i genitori della ragazza assassinata era rimasto ben poco. Budanov non faceva che ripetere di essere stato tradito. Era chiaramente nervoso. Chiese di avere un processo con una giuria popolare, ma gli venne rifiutato. Allora decise di non rispondere alle domande. Si tappò ostentatamente le orecchie con dell’ovatta e, seduto nella gabbia degli imputati, non fece altro che leggere.

Sullo scranno del giudice sedeva il colonnello Vladimir Bukreev, vicepresidente del tribunale militare distrettuale. Che per la prima volta in due anni ammise a deporre i testimoni della parte lesa. Fu una vera rivoluzione.

Inizialmente fu interrogato il generale Gerasimov, che nel marzo del 2000 era a capo del raggruppamento militare “Occidente” in Cecenia. Egli riferì che, in quanto comandante del reggimento carristi e in quanto alle dipendenze del ministero della Difesa, e non di quello degli Interni, Budanov non aveva alcun diritto di ispezionare il villaggio di Tangi-Chu, di irrompervi e di cercare la cecchina. La ricerca e l’arresto di membri sospetti di formazioni armate è di competenza della procura, degli uomini dell’F.S.B. e della milizia, e non di un colonnello dei carristi.

Inoltre, sostenne il generale Gerasimov, tra febbraio e marzo del 2000 il reggimento non aveva avuto alcuna disposizione di “svolgere ricerche in tal senso […] Budanov non era autorizzato a verificare i documenti e a perquisire le case, n‚ poteva raccogliervi informazioni”.

Il secondo testimone fu Jach’jaev, capo dell’amministrazione municipale di Duba-Jurt. Budanov aveva sempre sostenuto che fosse stato Jach’jaev a dargli la fotografia che l’aveva spinto a cercare una delle cecchine a Tangi-Chu. Jach’jaev dichiarò di non aver mai dato fotografie a Budanov. Una circostanza confermata da Pankov, agente dell’F.S.B. in servizio in Cecenia tra la fine di dicembre del 1999 e l’inizio di gennaio del 2000 (il periodo del presunto incontro tra Jach’jaev e Budanov). Pankov confermò che all’epoca Budanov si era effettivamente incontrato con Jach’jaev in sua presenza, ma che Jach’jaev non gli aveva consegnato fotografie, n‚ gli aveva mai parlato di guerrigliere cecchine. E che Budanov non aveva mai fatto parola con lui, Pankov, n‚ della fotografia n‚ della cecchina.

Di conseguenza tutte le testimonianze in difesa di Budanov furono ricusate. Il 25 luglio del 2003

venne emessa la sentenza di condanna: dieci anni di carcere duro. Budanov uscirà il 27 marzo del 2010…

Ha avuto quel che si meritava, non c’è dubbio. E se anche si trattasse di una manovra preelettorale e di un’estemporanea macchinazione politica, non possiamo fare a meno di salutare un verdetto giusto, cosa rara in Russia. Il tribunale del distretto militare del Caucaso Settentrionale e il suo vicepresidente - il colonnello Vladimir Bukreev - hanno dato prova di grande coraggio. Perch‚ il Cremlino è lontano da Rostov, e il colonnello ha saputo andare contro corrente anche rispetto al suo stesso entourage. Buona parte degli alti gradi dell’esercito e l’intero corpo ufficiali, soprattutto in Caucaso, hanno rifiutato infastiditi la condanna di Budanov, convinti che le pene del colonnello derivino dalla sua onesta dedizione alla Patria. I dieci anni di carcere duro e la perdita dei gradi e delle onorificenze sono stati visti come un insulto personale.

Permettetemi di ricordare ancora una volta che in Russia i tribunali militari sono parte dell’esercito, e non della giustizia: gradi, alloggio e promozioni di Bukreev dipendono dal ministero della Difesa e dallo Stato Maggiore del distretto militare del Caucaso Settentrionale.

Condannando Budanov, dunque, Bukreev ha condannato anche se stesso. Per questo il suo è da ritenersi un gesto eroico.

E GLI ALTRI?

Per quanto drammatici siano stati i conflitti a margine del caso Budanov, la condanna del colonnello rappresenta un’eccezione nel panorama della legge russa. E’ stata la politica a dare visibilità al suo crimine e a metterlo sotto i riflettori, determinando importanti conseguenze politiche che a loro volta hanno indotto il potere a consentire un verdetto di condanna. Tutto è accaduto per caso. Qualsiasi altro processo per crimini di guerra che veda imputati dei russi è di norma insabbiato e gli organi di sicurezza si preoccupano solo di scagionare i colpevoli. Anche quando hanno compiuto crimini efferati.

Il 12 gennaio del 2002, per esempio, nella zona di Daj, paesino sulle montagne della Cecenia, vennero scaricati sei gruppi di militari russi elitrasportati in cerca di guerriglieri e del comandante Hattab, che da informazioni ricevute era stato ferito e si trovava nei dintorni di Daj.

Quanto sarebbe accaduto di lì a poco è stato ribattezzato “caso Budanov bis”. Appena scesi dall’elicottero, gli uomini di uno dei gruppi - dieci soldati appartenenti ai corpi speciali della Direzione Centrale di Intelligence (G.R.U.) dello Stato Maggiore russo - videro passare un pulmino, lo fermarono, fecero scendere tutti gli occupanti, li torturarono per sapere dove fossero i guerriglieri, dopo di che uccisero i sei passeggeri, e per concludere l’opera diedero fuoco ai cadaveri.

Le agenzie di stampa ufficiali definirono immediatamente quel linciaggio uno “scontro con formazioni armate illegali”. Poi, però, spuntarono dei testimoni che fugarono quella menzogna.

Le vittime risultarono essere dei civili che rincasavano in pullman da Shatoj. Tra di loro c’era la quarantenne Zajnap Dzavatchanova, madre di sette figli dai diciassette ai due anni, e incinta dell’ottavo: tutto quel che restava di lei era un piede in una scarpa, identificata dal marito e dai figli maggiori. Era andata a Groznyj per una visita ginecologica.

C’erano anche il preside della scuola di Nochci-Keloj, Sajd-Magomed Alaschanov, sessantanove anni, e un insegnante di storia di quella stessa scuola, Abdul-Vachab Satabaev, che tornavano a casa da una riunione con i colleghi a Shatoj.

Il quarto corpo era quello di una guardia forestale di Nochci-Keloj, Shachban Bachaev. Il quinto era del nipotino di Zajnap che, com’è uso in Cecenia, l’aveva accompagnata: si chiamava Dzamlajli Musaev. Il sesto era quello del conducente del pullman, Chamzat Tuburov, padre di cinque figli. Lo conoscevano tutti: portava ogni giorno chiunque glielo chiedesse da Shatoj ai villaggi sulle montagne.

La sera del 12 gennaio gli assassini furono arrestati. I funzionari della procura di Shatoj riuscirono a ottenere l’ordine di arresto grazie alla deposizione di un testimone fortuito, il maggiore Vitalij Nevmerzickij, che si trovava sul luogo della tragedia. Un caso senza precedenti in Cecenia. Di lì a poco i responsabili vennero affidati alla procura militare e venne aperto il fascicolo n. 76002.

Tutto regolare, o così pareva. Ho incontrato personalmente il colonnello Andrej Vershinin, procuratore militare di Shatoj, che si è occupato di questo caso clamoroso e che all’epoca del nostro incontro, nella primavera del 2002, si diceva ancora ottimista. Mi disse di avere prove più che sufficienti e che il caso sarebbe sicuramente arrivato in aula, che sarebbe stato impossibile insabbiarlo come sempre accade. Centinaia di casi analoghi non arrivano mai ‘in porto’, in tribunale, e restano nelle procure di qualunque livello per una sola ragione: i comandanti allontanano subito dalla Cecenia i soldati accusati dei crimini, le pratiche vengono insabbiate, la procura non può procedere, subisce minacce, viene messa a tacere…

Il procuratore Vershinin, invece, era riuscito a fare quanto allora si credeva impossibile: mentre l’istruttoria era in corso, aveva ottenuto che degli uomini del G.R.U. se ne stessero agli arresti nella guardiola del 291esimo reggimento, di stanza a Shatoj e dunque di competenza della procura cittadina e sotto il diretto, quotidiano, controllo del colonnello Vershinin.

Il procuratore non ha colpa di quanto è accaduto in seguito, quando gli imputati vennero prelevati da Shatoj e trasferiti in una prigione oltre i confini della Cecenia e fuori dalle competenze del colonnello. Coloro che avevano commesso l’eccidio di Daj - il sottotenente Aleksandr Kalaganskij e il caporale Vladimir Voevodin - si fecero nove mesi di prigione a Pjatigorsk e vennero poi scarcerati, in quanto la Procura Generale militare non si prese nemmeno la briga di chiedere il prolungamento della detenzione preventiva. Dovettero liberarli, dunque, previa accettazione della clausola che impediva loro di lasciare Shc‰lkov e dintorni, provincia di Mosca.

E’ importante capire che si trattava di una promozione. Prima della Cecenia e dell’eccidio, i due soldati avevano prestato servizio in capo al mondo, nella Repubblica Buriata. Ora, invece, si ritrovavano poco distante da Mosca… Poteva significare una cosa sola: la Direzione Centrale dello spionaggio militare e lo Stato Maggiore avevano deciso di incoraggiare Voevodin e Kalaganskij ritenendo che avessero servito fedelmente la Patria come Budanov, e che la Patria non li avesse apprezzati come avrebbe dovuto…

L’unico a rimanere agli arresti fu il capitano delle squadre speciali Eduard Ul’man, che il 12

gennaio 2002 aveva dato ordine di compiere il massacro. Libero come l’aria era, invece, l’ideatore e l’istigatore dell’eccidio, il maggiore Aleksej Perelevskij, che al momento era vice comandante del reparto 641 del G.R.U. (dirigeva le operazioni speciali) e aveva ordinato a Ul’man: “Riducili tutti a carico 200” (lo slang militare per cadavere). Era stato allora che gli altri avevano cominciato a sparare…

Posso solo immaginare che cosa sarebbe accaduto se un qualche guerrigliero ceceno avesse sparato a sei militari russi e avesse poi bruciato i loro cadaveri. Certo non sarebbe rimasto in libertà. Come ha detto l’avvocato Abdula Chamzaev, “in quarantun anni di professione, fra tribunali, procura e avvocatura, non mi è mai capitato un caso in cui una persona accusata di omicidio premeditato e aggravato restasse libera in cambio di una firma su un foglio che la obbliga a non mutare il proprio domicilio”.

“Se davvero il progetto di un Tribunale penale internazionale per la Cecenia diventasse realtà,”

gli ho allora chiesto “lei potrebbe procurare alla corte i materiali relativi ai casi per i quali gli organi di sicurezza russi non hanno voluto condurre un’inchiesta, cercando in ogni modo di coprire e di scagionare i criminali di guerra?”.

“Quanti ne vuole. Sono centinaia”.

Come già accaduto agli Stati Uniti del dopo-Vietnam, anche la Russia deve rispondere a una domanda: chi sono i soldati e gli ufficiali che ogni giorno, in Cecenia, uccidono, saccheggiano, torturano e stuprano? Sono criminali di guerra? O sono combattenti inflessibili e crudeli di una guerra globale al terrorismo internazionale in cui ogni mezzo è lecito e la salvezza del genere umano è il fine che giustifica i mezzi a cui si ricorre? E la posta ideologica in gioco in questa guerra moderna è talmente alta da indurre a ignorare ogni altra cosa?

Al momento la Russia non ha una risposta da dare.

Un occidentale risponderà, spero, che spetta al tribunale trovare le prove e mettere ogni cosa al suo posto.

L’uomo russo di oggi, l’uomo dell’era Putin, ha il cervello offuscato dalla propaganda, ma non ha ancora disimparato del tutto a pensare con la propria testa.

Oggi, con alle spalle i cinque anni dell’efferata seconda guerra cecena, il milione e più di soldati e ufficiali che l’hanno combattuta e la stanno ancora combattendo, è avvelenato da quell’esperienza; e continua a esserlo anche dopo, a casa propria. Quei soldati e ufficiali sono diventati un serio problema per la vita di una società civile, un problema che non si può più eludere, a cominciare dalla domanda: ma per che cosa hanno combattuto?

Budanov e il massacro di Daj sono casi evidenti, tragici e drammatici, e hanno portato allo scoperto tutti i nostri problemi: la nostra vita ai margini della seconda guerra cecena, la nostra condotta irrazionale riguardo alla guerra e al governo Putin, il nostro modo di distinguere tra colpevoli e innocenti nel Caucaso Settentrionale e, soprattutto, i dolorosi cambiamenti che il nostro sistema giudiziario ha subito con Putin al governo e la guerra sullo fondo. La riforma della giustizia che le forze democratiche hanno cercato di propugnare e che El’cin aveva fatto di tutto per promuovere è crollata sotto il peso del caso Budanov.

Ma è anche risorta… L’esempio del giudice Bakreev ne sia la dimostrazione più lampante. Come anche quello del procuratore Vershinin.

Tuttavia, prescindendo da singoli individui in grado di compiere nobili gesti, la Russia ha capito chiaramente di non avere un sistema giudiziario indipendente. Quel che abbiamo sono verdetti pilotati dalla politica e decisi dalla congiuntura del momento.

TANJA, MISHA, LENA, RINAT…

CHE COSA CI E’ SUCCESSO?

Ma cosa siamo diventati, tutti quanti? Noi ex cittadini dell’URSS? Noi che avevamo tutti, più o meno, un lavoro fisso e uno stipendio regolare, a scadenze definite, noi con la nostra fiducia sterminata e inflessibile nel presente e nel futuro? Noi che credevamo che i medici dovessero per forza curare e gli insegnanti insegnare? E senza che si sborsasse un soldo? Che vita è cominciata, per noi, quando tutto questo è scomparso? O ancora: quale destino incombe su di noi? Come ci siamo ridistribuiti nello spazio postsovietico dopo un triplo salto mortale?

Triplo, sì. E tengo a sottolinearlo. Il primo è stato quello della metamorfosi del singolo (parallela, è ovvio, a quella della società) con la caduta dell’URSS e con l’era El’cin, quando di colpo non avevamo più nulla, dall’ideologia al salame più scadente, dai soldi alla convinzione che al Cremlino ci fosse un “Grande Padre” che poteva anche essere un despota cattivo, ma che comunque si curava di noi.

Il secondo è stato quello della crisi del 1998. A partire dal 1991 - anno dell’inizio effettivo dell’economia di mercato in Russia - molti di noi erano riusciti a mettere da parte qualche soldo, e si era andata formando una classe media che poco aveva a che spartire con quella occidentale ma che tale restava, puntello della democrazia e del mercato. Da un giorno all’altro ci ritrovammo con un pugno di mosche a ricominciare tutto da capo. Molti, però, erano stanchi di combattere, e invece di risollevarsi finirono giù, sul fondo, per sempre.

Il terzo salto mortale, infine, è stato quello di, e con, Putin. Sullo sfondo la nuova tappa di un capitalismo dal volto neosovietico - un modello economico “sui generis” dell’era del secondo presidente russo, un ibrido bizzarro fra leggi di mercato, dogma ideologico e molto altro ancora.

Gli ingredienti sono forti capitali, un’ideologia di taglio marcatamente sovietico posta al loro servizio, e un numero crescente di poveri. Fu subito chiaro, inoltre, che un vecchio ceto stava rinascendo a nuova vita: la “nomenklatura”, l’‚lite di governo, un anello fortissimo della catena di potere dell’era sovietica che stava marciando sui binari di un’economia a cui aveva saputo adattarsi in un batter d’occhio. I rappresentanti di questa “nomenklatura” hanno tutte le intenzioni di vivere nell’agio quanto i “nuovi russi”, ma ufficialmente ricevono stipendi ridicoli.

Non ritornerebbero mai indietro ai vecchi tempi sovietici, ma nemmeno i nuovi soddisfano del tutto il loro desiderio di ordine e legalità (che la società chiede con sempre maggior insistenza).

Perciò perdono molto del proprio tempo ad aggirare la legalità e l’ordine costituito in favore del proprio arricchimento personale. La conseguenza è una rinascita assai rigogliosa della corruzione, che con la nuova-vecchia “nomenklatura” putiniana ha raggiunto vette inattingibili per i comunisti o per El’cin e compagni, una corruzione che stritola le piccole e medie imprese (e la classe media con loro) e sostiene (“fa fiorire”, cioè predilige quali erogatori di tangenti) i grandi e i grandissimi gruppi e i monopoli paragovernativi, che sono quelli che portano alla Russia le entrate maggiori, le più stabili, e non solo ai manager e ai padroni del vapore, ma anche a chi, nello Stato, offre loro protezione (e in Russia non si fanno grossi affari senza sponsor nel governo). Sullo sfondo di tale e tanto sfacelo - che nulla ha a che spartire con il mercato - la nostra nuova ““nomenklatura” di partito” (hanno ricominciato a chiamarla così, come in epoca sovietica) è rosa da una forte nostalgia per l’URSS, per i suoi miti e i suoi fantasmi. Tenuto conto che Putin cerca di raccogliere attorno a s‚ e alla sua bandiera una pletora di ‘ex’ - dunque di gente con esperienza di governo in era sovietica -, il rimpianto è tale che l’ideologia al servizio del capitalismo putiniano rimanda sempre più marcatamente a quella dei peggiori anni della stagnazione brezneviana, tra la fine degli anni Settanta e i primi anni Ottanta del Novecento.

Tanja, Misha, Lena, Masha, Sasha, Tolja sono persone reali, non personaggi di fantasia. E’ gente comune, gente che ha lottato per sopravvivere insieme al proprio Paese e che non sempre ce l’ha fatta. Niente cognomi. Erano (e sono) miei amici, persone che conoscevo (e che conosco), dunque se usassi nomi e cognomi non mi sentirei libera di dire fino in fondo ciò che penso.

Mentre è quello che devo fare per capire che cosa è successo.

TANJA.

Primi giorni dell’inverno 2002. La storia di “Nord-Ost” e del teatro Dubrovka è appena finita; l’opinione pubblica russa, soprattutto a Mosca, è sotto choc. Sono stata spesso in televisione, ho avuto una parte - pur minima - in quanto è accaduto, e le conseguenze più dirette sono state le telefonate di alcuni vecchi amici: sono ricomparsi, raccontando di s‚.

Il telefono che squilla a tarda sera, per esempio. Chiamava sempre di notte, Tanja, oppure a un’ora in cui comunque dormivamo già tutti.

“Quanto tempo…”.

“Come hai fatto a trovarmi?”.

“Ti va di incontrarci?”.

“Certo…”.

Era almeno una decina d’anni che non vedevo Tanja, vecchia amica e vicina di casa. All’epoca era sempre giù di corda, mentre quel giorno mi trovai davanti una regina. Vincente ed elegantissima. E non perch‚ indossasse vestiti costosi (che, di fatto, indossava), ma perch‚ era sicura di s‚ e serena come mai era stata dieci, quindici e anche venti anni prima.

In epoca sovietica Tanja faceva una vita grama e non passava sera che non venisse da me (io abitavo al piano terra di un vecchio casamento, lei all’ultimo) a piangere su una vita rovinata alla quale nessuna delle due vedeva rimedio.

Erano gli anni in cui Tanja, ingegnere, lavorava in un centro di ricerca ed era dunque considerata membro effettivo di quella ““intelligencija” tecnico-scientifica” che veniva tenuta in grande considerazione e che ora non esiste più, scomparsa anch’essa insieme all’URSS.

Come se ne diventava parte? All’epoca una ragazza di buona famiglia (e Tanja era l’unica figlia di genitori rispettabilissimi) non poteva esimersi dal frequentare l’università, e se non mostrava particolari interessi o inclinazioni, finiva in una facoltà tecnica come ce n’erano tante e diventava ingegnere. Tenuto conto che i neolaureati erano costretti a lavorare tre anni gratuitamente per lo Stato, va da s‚ che ci fosse un esercito di giovani professionisti insoddisfatti che non avevano mai pensato di fare gli ingegneri e che passavano le loro giornate nei centri di ricerca senza combinare nulla di concreto.

Di quell’esercito Tanja - ingegnere civile nelle centrali nucleari - faceva parte a pieno diritto. Se ne stava giorni e giorni nel suo centro di ricerca a disegnare senza il minimo entusiasmo progetti per impianti di drenaggio e canalizzazione che nessuno avrebbe mai costruito, ottenendo in cambio uno stipendio irrisorio, facendosi il sangue cattivo per la sua indigenza cronica e sforzandosi di sfamare e vestire comunque la sua famiglia, con due figli piccoli perennemente malati e un marito - uno strano tipo di nome Andrej - che all’epoca insegnava in una prestigiosa università di Mosca e ne ricavava uno stipendio ridicolo quanto quello della moglie.

Su questo sfondo Tanja era un tipico esempio di nevrastenica che non faceva che tormentare se stessa, Andrej e i figli con il suo pessimo umore, le scenate isteriche, le depressioni e una costante insoddisfazione…

Per di più Tanja era una donna del Sud, nativa di Rostov sul Don. A metà degli anni Settanta, quando ancora i permessi di soggiorno per lavoro nella capitale erano centellinati, era riuscita a trasferirsi a Mosca sposando Andrej, che aveva conosciuto su una spiaggia del Mar Nero.

All’epoca le “ingegnere” di provincia che sposavano dei moscoviti erano un’infinità. Le “ragazze di buona famiglia” volevano tutte venire a Mosca.

Tanja non lo sapeva, cosa voleva. Sapeva perfettamente, invece, che cosa “non” voleva: non voleva fare l’ingegnere e non voleva essere povera insieme ad Andrej. Ne parlavamo spesso.

Tanja era furiosa perch‚ non vedeva soluzioni possibili.

Quando, poi, giunsero tempi diversi, sarebbero state proprio le donne a fare la differenza, a darsi al commercio e a lasciare mariti che non avevano saputo reagire e che sarebbero finiti arruolati dalla malavita, ammazzati nei frequenti scontri a fuoco dell’era El’cin… Perch‚ proprio le donne? Perch‚ prima della “perestrojka” molte di loro pensavano come Tanja di non avere alcuna possibilità di cambiar vita, e invece…

Ma torniamo alla metà degli anni Ottanta. A casa di Tanja le sfuriate erano all’ordine del giorno.

Come vuole la tradizione sovietica, Tanja - che non aveva un proprio alloggio a Mosca - era andata a vivere con Andrej, anche lui senza una casa propria. Vivevano con i genitori di lui e i suoi due fratelli maggiori, entrambi sposati e con due figli a carico.

Un tipico alveare sovietico, insomma, senza speranze di una vita autonoma. Come se non bastasse, Andrej non era una persona facile e discendeva da un’antica famiglia della nobiltà moscovita che annoverava tra i propri avi diverse persone straordinarie. Una delle quali, per esempio (il secondo marito della nonna di Andrej, che a sua volta aveva insegnato violino), era stato un noto insegnante del Conservatorio di Mosca. La nonna era morta da un pezzo, ma il marito - che come Tanja non avrebbe saputo dove andare - era rimasto “nell’alveare”.

I genitori di Andrej insegnavano fisica e matematica all’università. Il fratello maggiore era professore di chimica e inanellava scoperte che, però, poco incidevano sulla sua vita da un punto di vista prettamente materiale.

Tutte cose che esasperavano Tanja. Nonostante il florilegio di titoli accademici, riteneva quei suoi parenti dei falliti e degli incapaci; da parte sua la famiglia di Andrej la ricambiava con analoga disistima e non perdeva occasione per dimostrargliela.

Non dimenticatevi che Tanja veniva da Rostov sul Don, dal Sud della Russia, dove anche in era sovietica tutti vendevano e comperavano di tutto, dove prosperavano fabbriche e laboratori clandestini, e dove molte persone facoltose facevano la spola tra la prigione e la libertà senza che nessuno avesse niente da eccepire. I giornali li bollavano come “speculatori” e

“intrallazzatori”, ma le fanciulle di Rostov non disdegnavano certo di sposarseli.

Quando ci conoscemmo, all’inizio degli anni Ottanta, Tanja era già convinta di aver fatto un grosso errore sposando Andrej. L’amore c’entrava poco. Lo scopo era Mosca, e lo riconobbe. Il matrimonio con un moscovita era segno di prestigio, in provincia, ed era anche l’unico modo per trasferirsi nella capitale. Raggiunto il suo scopo, però, Tanja si era trovata a vivere di stenti, soffrendone. La vedevo rifiorire solo quando mi proponeva di comperare cose bellissime che non so davvero dove si procurasse. Possedeva doti indubbie di venditrice: era capace di piazzare una camicetta di infima qualità a tre volte il suo prezzo, assicurandoti che “in Europa le portano tutti così”. Quando, poi, la truffa veniva smascherata, Tanja non faceva una piega. Va da s‚ che in una famiglia ricca di tradizioni e di interessi intellettuali come quella di Andrej, la passione per il commercio e la speculazione faceva di lei un corpo estraneo da disprezzare…

Ma veniamo al 2002. Tanja mi telefona e mi invita ad andarla a trovare: abita nello stesso, spazioso appartamento di una volta, nel cuore di Mosca, ai piedi del Cremlino.

L’appartamento è completamente diverso. L’ha ristrutturato in modo splendido, sistemando ogni cosa e riempiendolo con gli ultimi prodigi della tecnologia, splendide riproduzioni di quadri celebri e mobili in stile. Tanja è sulla cinquantina, ha una bella pelle giovane e sana, porta vestiti sgargianti, parla a voce alta, è sicura di s‚, ride molto e di gusto, ma senza che le si formino delle rughe, dal che deduco che si è fatta il lifting. E dunque - continuo a dedurre tra me e me -

dato che i poveri non se lo fanno, il lifting, e che dimostrano tutti i loro anni, vuol dire che è diventata ricca.

“Andrej avrà fatto fortuna…” continuo a pensare. Tanja si muove tranquilla fra le stanze. Dieci anni fa preferiva bisbigliare e starsene in un angolo per evitare di incrociare gli altri.

“Dove sono, tutti quanti?”.

“Adesso ci arrivo, ma tieniti forte. E’ tutta roba mia”.

“Tua? Brava! E gli altri dove abitano?”.

“Adesso, adesso… Una cosa per volta”.

Nella stanza entra, silenzioso, un bel ragazzo dell’età dei suoi figli. L’ultima volta che li ho visti erano ancora dei ragazzini, ragion per cui mi scappa di bocca un:

“Non sarai Igor’, tu?”.

Igor’ è il figlio maggiore di Tanja e Andrej. Dovrebbe avere ventiquattro o venticinque anni, oggi…

Tanja scoppia a ridere. E’ una risata sonora, gustosa, sguaiata. Non da Tanja, insomma.

“Mi chiamo David” mormora il giovane con i capelli neri e gli occhi da pesce lesso. Poi bacia la bella mano curata di Tanja (me le ricordavo diverse, le sue mani, rovinate da ore e ore di bucato senza lavatrice, mani con le quali si asciugava le lacrime nella mia cucina) e si allontana a passo felpato: “Vi lascio sole, ragazze…”.

Tutto possiamo essere, tranne che “ragazze”.

“Racconta, accidenti! Svelami il segreto dell’eterna giovinezza e di tanta fortuna” chiedo alla mia amica di un tempo. “Dove sono i tuoi?”.

“Non sono più ‘miei’“.

“E Andrej?”.

“Ho divorziato. Addio lavori forzati”.

“E ti sei risposata? Con quello lì? Con David?”.

“David è il mio amante. Non per molto, giusto per tenermi in forma. Lo mantengo. Starà qui finch‚ ne avrò voglia”.

“Ossignore… Ma per chi lavori?”.

“Per nessuno. Lavoro per me stessa” risponde Tanja con una voce dura e metallica che non ha niente a che spartire con l’immagine della donna che ho di fronte: oziosa, curata e con un giovane amante al seguito.

Tanja è un prodotto felice della nuova era. Nell’estate del 1992, quando su buona parte delle tavole di Mosca non c’era niente da mangiare (la chiamavano “terapia d’urto”, le riforme verso l’economia di mercato dell’allora primo ministro Egor Gajdar), Tanja, i suoi figli e il resto del parentado accademico vivevano fuori città, nella vecchia dacia di famiglia.

In quell’estate tremenda di fame, tutti i moscoviti che avevano una dacia se ne andarono a vivere nelle loro casette di legno, in campagna, a coltivare ortaggi da mettere nel piatto durante l’inverno. Nei mesi estivi il centro di ricerca dove lavorava Tanja chiuse (del resto era già un po’

che non pagavano gli stipendi) e gli impiegati - tutta gente di città - andarono a zappare l’orto o a vendere nei mercati che spuntavano a ogni angolo di una Mosca ridotta alla fame. Anche Tanja zappava l’orto e si occupava dei figli. Andrej rimaneva spesso a dormire in città. Al contrario di molti centri di ricerca, la sua università restava aperta, gli studenti continuavano a frequentare e a dare esami, gli insegnanti a insegnare per puro entusiasmo e senso del dovere, considerando che nemmeno loro ricevevano da tempo lo stipendio.

Una mattina Tanja piombò a Mosca per un qualche motivo, aprì la porta di casa e trovò Andrej nel talamo nuziale con una ragazza. In pieno giorno, quando avrebbe dovuto essere in università. Tanja, donna del Sud e dunque facile alle scenate, si mise a gridare per tutto il palazzo che “era così che il marito faceva lezione”, eccetera eccetera.

Andrej non si scusò nemmeno, anzi le disse di essere innamorato della ragazza. Che, guardandosi bene dall’aprir bocca, si rivestì e andò zitta zitta in cucina a prepararsi un tè. Il silenzio della sua rivale e la sua perfetta conoscenza della casa furono il colpo finale, per Tanja.

Non aveva mandato giù ogni sorta di angherie dalla patetica famiglia del marito per farsi soffiare il posto da una ragazzetta. Lo fece presente ad Andrej. Che raccolse le sue cose e se ne andò con la giovane amante.

La nuova vita di Tanja - indipendente e diversissima - cominciò quel giorno. Andrej si comportò come peggio non avrebbe potuto, e non le diede mai un soldo, n‚ per i figli n‚ per lei. Mai. Anzi, in seguito, tre anni dopo, non avrebbe nemmeno disdegnato di farsi mantenere da Tanja, che si era arricchita e ogni tanto gli allungava qualcosa per mangiare o per comprarsi dei vestiti. Non per bontà d’animo nei confronti di quel professore rimasto povero che aveva scelto di non venir meno alla sua deontologia professionale e di non darsi al business come molti suoi colleghi. No.

Tanja lo faceva perch‚ la vendetta è un piatto che si consuma freddo: “Pensavi di umiliarmi?” gli diceva apertamente. “E invece no, sono io che umilio te!”. Gli portava del caviale rosso, simbolo di quel lusso sovietico che ora si poteva permettere, e Andrej se lo mangiava a quattro palmenti, senza dar segni di umiliazione. Perch‚ la fame è brutta e lui lo sapeva bene, visto che frequentava le mense delle chiese fingendosi credente (allo scopo aveva persino imparato a farsi il segno della croce).

Va da s‚ che la sua giovane amica era ormai scomparsa da un pezzo e che Andrej viveva dove capitava e come capitava. Era vestito di stracci, sporco, pareva un barbone.

Ma torniamo all’estate del 1992, l’estate della svolta verso l’economia di mercato. La settimana dopo il misfatto, senza più nulla con cui sfamare i figli e con la suocera che insisteva affinch‚

Andrej fosse perdonato e riammesso in casa, Tanja andò a vendere nel mercato vicino.

“Vergogna!” urlava la suocera, che finì per ammalarsi. Guarì presto, però. E grazie a Tanja che usò i soldi della “vergogna” per comprarle le medicine necessarie. Non avendo il becco di un quattrino, figli e nuore non avevano mai fatto niente del genere per lei. La situazione divenne quasi tragicomica. Il consiglio di famiglia decise all’unanimità - e il primo voto fu quello della suocera, pronta a morire pur di evitare l’infamia - che le reliquie di famiglia (i mobili dei loro avi, gli spartiti d’antiquariato, i quadri dei maestri russi dell’Ottocento) non sarebbero mai state vendute. Non avrebbero fatto come altre famiglie nella loro situazione, che avevano venduto e vendevano per due soldi, quando non “per un tozzo di pane”, reliquie e tradizioni conservate negli anni dello stalinismo.

Tanja, intanto, continuava a lavorare al mercato. Dalle sei del mattino alle undici di sera. Non era nemmeno lavoro, era schiavitù allo stato puro. Senza giustificazioni a parte una: quella schiavitù aveva un prezzo. Tanja lavorava per rubli veri, che le frusciavano in tasca. E che le venivano pagati giornalmente. Sei stata qui tutta la giornata? Bene: questi sono per te. Adesso, non domani: era quello che contava. Tanja tornava sempre a casa con dei soldi in tasca. Magari con le gambe gonfie, magari trascinandole a stento e con le mani grosse come chele, tanto da non riuscire a lavarsi e a riprendere un aspetto umano. Però era quasi felice!…

“Non ci crederai, ma ero felice di non dipendere più da nessuno. Niente più direttore di un centro che non mi pagava, niente Andrej che non mi dava un soldo, niente suocera con mobilia e tradizioni annesse. Dipendevo solo da me stessa” così mi descrive Tanja, ormai bella e ricca, la ragazza che era dieci anni fa. “Mia suocera? Un bel giorno gliel’ho detto chiaro e tondo: ma va’

un po’ a farti f…! E sai una cosa? E’ stata la prima volta che non mi ha fatto la predica. Una rivelazione, per me. Era un cambiamento epocale: nella vecchia, incorruttibile “intelligencija”

moscovita si era aperta una breccia. E ad aprirla erano stati i soldi che davo a mia suocera.

Aveva smesso di farmi la paternale perch‚ le mettevo qualcosa nel piatto. Io che non facevo mai una cosa giusta… Pian piano tutti quanti, tutta quella patetica famiglia che per anni mi aveva disprezzato perch‚ non ero di un casato antico quanto il loro e perch‚ avevo sposato Andrej per venire a Mosca, tutto il mio bel parentado imparò a sorridermi e a prestare ascolto a quel che avevo da dire. Solo perch‚ ero io a dar loro da mangiare e perch‚ lo facevo al mercato. Avevo vinto. E se lavoravo come una pazza era solo per guadagnare di più… E sbatterglieli in faccia, quei soldi”.

Tanja tornava a casa verso mezzanotte e crollava sul letto. Non aveva più tempo per i figli. N‚

per verificare che facessero i compiti. Crollava. E la mattina seguente, all’alba, schizzava di nuovo fuori.

Per la prima volta da che vivevano sotto lo stesso tetto, fu la suocera a farsi carico dei nipoti.

Tanja rimase un’altra volta senza parole.

Verso la metà degli anni Novanta la Russia ha assistito a un boom di tossicodipendenti tra i ragazzi dai quindici ai diciotto anni. La mattina, uscendo di casa, ci trovavamo spesso a camminare su un tappeto di siringhe. Erano i figli delle donne che correvano al mercato per guadagnare qualcosa, figli che non avevano più nessuno che li tenesse d’occhio, senza più scuole (che di fatto non funzionavano), abbandonati a se stessi da genitori in cerca di soldi facili… Il numero delle donne tra i quaranta e i cinquant’anni che hanno perso uno o più figli, oggi, è altissimo. E’ stato calcolato che quasi il cinquanta per cento dei ragazzi e delle ragazze nati tra il 1978 e il 1982 siano morti di overdose a metà degli anni Novanta.

Ma torniamo a noi. Al mercato Tanja finì a lavorare per Nikita, un tipo sveglio che faceva la

“navetta”, come si diceva allora. Il suo lavoro consisteva nel procurarsi merce a poco prezzo: vestiti in Turchia, angurie in Uzbekistan, mandarini in Georgia… Come molte altre donne, Tanja lavorava per Nikita e vendeva la sua merce. Niente dazi, niente tasse. Nei mercati vigevano le leggi della prigione: le liti si risolvevano col coltello, estorsioni e pestaggi erano all’ordine del giorno. E le venditrici, le compagne di Tanja, che come lei erano sole e con figli a carico, rappresentanti come lei di un‘“intelligencija” tecnico-scientifica messa sulla strada dalla chiusura di centri di ricerca, giornali e case editrici, si ritrovavano a fare da schiave - quando non da prostitute - per i loro padroni.

Anche Tanja finì nel letto di Nikita, che l’aveva notata fra le altre nonostante la differenza d’età e che se la portò in Turchia a fare provviste. Ce la portò una prima volta, poi un’altra, poi un’altra ancora… In capo a un paio di mesi Tanja, che aveva il bernoccolo degli affari e aveva capito che quel mestiere non richiedeva una gran scienza, divenne anche lei una “navetta”.

Nel frattempo Nikita era finito ammazzato: una mattina lo trovarono al mercato con una pallottola in testa. Le venditrici di Nikita andarono tutte a lavorare per Tanja, e furono felici del cambio. Era molto più efficiente di Nikita, molto meno figlia di buona donna di lui e gli affari prosperavano.

Passarono altri sei mesi, e Tanja smise di andare in Turchia. Non perch‚ fosse stanca (anche se il pane delle “navette” sa certamente di sale: la merce va portata personalmente, in enormi balle, per aeroporti e stazioni ferroviarie, risparmiando su tutto, finanche sui carrelli a pagamento).

Smise di viaggiare perch‚ aveva scoperto di avere un fiuto sensazionale per gli affari: quel che comperava lei andava venduto in un attimo.

La fortuna di Tanja aumentava. Cominciò assumendo cinque “navette”, poi altre cinque, fino a poter disporre di quella che - per il mercato - era una grossa impresa. Le “navette” facevano la spola, le venditrici vendevano, Tanja dirigeva il tutto. Ormai gli abiti che indossava non erano più “made in Turkey”, ma “in Europe”. Era cliente fissa di molti ristoranti, dove andava a mangiare, gozzovigliare, spender soldi e riprendere fiato dopo il lavoro. Aveva comunque denaro a sufficienza per s‚, per la famiglia e per i suoi dipendenti. In quegli anni si guadagnavano cifre astronomiche. Anche i suoi amanti erano adeguati alle sue entrate e alla sua età. Li cambiava come e quando voleva. Per onor di cronaca, Tanja si era lamentata più volte anche con me del fatto che Andrej non fosse un grande amatore…

Di lì a un altro anno Tanja decise di sistemare l’appartamento, ma prima se lo comprò. Comprò anche dei monolocali per i “parenti” - uno per Andrej, uno per il suocero, uno a testa per i cognati - e nessuno ebbe nulla da obiettare. La suocera, invece, la tenne con s‚: qualcosa si mosse nel suo cuore e Tanja ebbe pietà di quella povera vecchia ormai sola. Eppoi qualcuno doveva pur badare ai suoi figli! Il maggiore, Igor’, era in un’età critica, la pubertà, e le stava dando qualche problema; il piccolo era spesso malato.

Anche la ristrutturazione fu una rivalsa, per lei.

“Volevo che avessero ben chiaro chi fosse la padrona!”.

Buttò via tutto quanto. Tutto. Vendette tutta la mobilia di famiglia e cancellò ogni granello di polvere del loro passato gentilizio.

Senza incontrare ostacoli. La suocera se ne andò a stare nella dacia e si tenne alla larga.

Il risultato fu un appartamento europeo dotato delle ultime novità high-tech. A cose fatte Tanja si decise a un ulteriore passo: dal commercio con le “navette” passò a quello vero e proprio, e si comperò diversi negozi.

“Come come? Sono tuoi?”. Non credo alle mie orecchie: Tanja possiede i due supermercati dove vado a fare la spesa quando esco dall’ufficio. “Complimenti! Ma hai certi prezzi…”.

“Il nostro è un Paese ricco” mi rintuzza Tanja brusca, ma sorridente.

“Neanche tanto. Sei tu che sei diventata uno squalo imperialista…”.

“Certo che sì. El’cin è acqua passata, e con lui se ne sono andati anche i soldi facili e l’alone di romanticismo. Ora il potere è nelle mani di pragmatici insaziabili, li chiamo così, io. E io sono come loro. Tu sei contro Putin, io a favore. Io lo sento come un fratello: è un pragmatico insaziabile come me, un umiliato e offeso dalla vita precedente che ora si vendica del passato”.

“In che senso sarebbero ‘insaziabili’?”.

“Nel senso delle bustarelle. Dei soldi che tutti ti chiedono. Pago perch‚ non mi portino via i negozi. E pago un sacco di gente. La prefettura, i pompieri, l’ufficio d’igiene, la giunta municipale… I criminali che controllano il quartiere dove sorgono i negozi… E’ da loro che li ho comperati, fra l’altro…”.

“Non hai paura di trattare con certa gente?”.

“No. Voglio diventare ricca, è questo il mio scopo. E al giorno d’oggi significa pagare. Senza questa ‘tassa’ mi sparerebbero all’istante e mi rimpiazzerebbero con qualcun altro”.

“Non starai esagerando?”.

“Esagerando? Al contrario!”.

“E la burocrazia?”.

“Qualche burocrate lo pago di persona, gli altri li paga la malavita. Io do i soldi a loro e quelli se li spartiscono con i compari. I burocrati, intendo. Mi conviene quasi”.

“E Andrej dov’è?”.

“E’ morto. Alla fine non ha retto a che io ce l’avessi fatta e lo rimpinzassi a caviale. Mi ha persino chiesto di tornare insieme, ma non ne ho voluto sapere. Gli ho detto di andarsi a trovare un’altra ragazzetta. Non volevo certo vivere con un uomo brutto. Ho imparato ad apprezzarla, la bellezza: vado agli spettacoli per sole donne e me li scelgo lì, i miei amanti. E molti ci stanno”.

“Non ci credo! E non ti manca la famiglia? Una casa?”.

“No. Neanche un po’. Ho appena iniziato a vivere. C’è un prezzo da pagare, certo. A te sembrerà una vita sordida… Ma forse che la mia vita di un tempo era pulita?”.

“I bambini come stanno?”.

“Purtroppo Igor’ ha preso da Andrej, è un debole. Si buca. Adesso è in clinica, è già la quinta volta. Ma ci spero ancora… Stasik studia a Londra. Sono molto fiera di lui. Molto. E’ il primo della classe in ogni materia. Sta con mia suocera, le ho preso un appartamento. Lui sta tutta la settimana al college, e il week-end lo passa con la nonna. Lei l’ho fatta operare all’anca in Svizzera. Ho pagato tutto io. E’ tornata a vivere, corre come una ragazzina e mi adora. Penso che mi voglia bene davvero, sai… Gran cosa, i soldi…”.

David frulla nella stanza con un vassoio in mano.

““Tea time”, ragazze! Posso berlo con voi?”.

Tanja annuisce e si allontana per un momento: vuole cambiarsi per il tè. David sprizza oziosa depravazione. Una situazione decisamente sgradevole. Tanja ricompare di lì a poco. E’ ricoperta di brillanti: le orecchie scintillano, il “d‚collet‚” è un tripudio di luce e persino tra i capelli si intravedono dei baluginii…

Tutto per me. E io apprezzo. Perch‚ non dovrei farla felice? E Tanja è davvero molto felice, raggiante come i suoi brillanti per la gioia di mostrare quella nuova se stessa a una vecchia amica.

Beviamo il tè senza indugiare - abbiamo fretta entrambe - e ci salutiamo.

“Non facciamo passare altri dieci anni, va bene?” mi dice mentre ognuna va per la sua strada.

“Proviamoci!” le rispondo. Mentre scendo le scale penso che con Putin le occasioni di vedersi, di vedere i “vecchi amici”, si sono moltiplicate. C’è stato un momento, in Russia, gli ultimi anni di El’cin, in cui avevamo tutti un gran da fare a procurarci di che vivere, tempi in cui non ci si telefonava per anni, vergognandosi chi della propria povertà, chi della propria ricchezza, tempi in cui molti sono partiti per sempre e altri si sono sparati una pallottola in fronte perch‚ nessuno si curava più di loro; in cui si tirava cocaina perch‚ schifati dalle proprie azioni… Ora, invece, chi è sopravvissuto ha ripreso a incontrarsi. Persino più di prima. La società si è data un certo ordinamento interno, e ha fatto la sua comparsa anche il tempo libero.

La settimana seguente dovevo andare a una conferenza stampa per una qualche elezione. Alla Duma, forse, dov’era rimasto un seggio vacante. Con mia grande sorpresa ci trovai anche Tanja.

In una società strutturata e ben ripartita come la nostra, le proprietarie di supermercati non frequentano le conferenze stampa politiche.

Tanja si presentò alla stampa con grandissimo stile: abito nero di taglio classico e neppure l’ombra di un brillante. C’era anche David. Anche lui perfetto nei panni dell’impeccabile segretario di Tanja, defilato e mai petulante. Niente “Ciao ragazze!” in quell’occasione.

Mi sedetti fra i giornalisti. Tanja era dall’altra parte della barricata. Le porsero il microfono: fu l’ultima a intervenire. Era lei la candidata al seggio. Espose ai giornalisti - e a me con loro - la sua opinione sui senza tetto di Mosca e promise di lottare per i loro diritti se gli elettori le avessero fatto l’onore di votarla all’assemblea legislativa.

“A che diavolo ti serve tutto questo? Non sei già abbastanza ricca?” le chiesi dopo la conferenza stampa.

“Te l’ho già spiegato: voglio esserlo ancora di più. E in questo caso la riposta è semplice: non voglio più pagare tangenti a un qualche deputato”.

“Tutto qui?”.

“Non mi pare poco. Sono i rudimenti della gestione aziendale. Non hai idea del livello di corruzione che esiste oggi. Ai tempi di El’cin non se lo sognavano nemmeno. Se divento deputato, almeno una ‘tassa’ me la tolgo. E non è cosa da poco, credimi”.

“Perch‚ hai scelto di difendere i senza tetto?” le chiesi al tavolo di un costoso “caf‚” francese che aveva scelto lei; io non li frequento, certi posti, non sono per le mie tasche.

“Secondo me su quello sfondo risalto meglio. E in realtà posso aiutarli davvero: io ce l’ho fatta”.

“Perch‚ alla fine della conferenza stampa hai parlato di Putin? Di quanto lo apprezzi e lo rispetti e della fiducia che hai in lui? Questa te l’hanno suggerita i curatori d’immagine… Pessimo gusto”.

“Tutt’altro. E’ così che si fa, oggi. E lo so senza che me lo dica uno dei tuoi “image maker”“.

Tanja incespica in quell’espressione inglese che la nostra lingua ha mutuato insieme a tante altre cose. “Se non avessi menzionato Putin, domani mi si sarebbe presentato in negozio qualcuno dell’F.S.B. di quartiere a dirmi che non è così che si fa… Chi fa affari vive in questo modo, mia cara”.

“E se anche si fosse presentato?”.

“Se anche si fosse presentato mi avrebbe chiesto una mazzetta”.

“Per che cosa?”.

“Per ‘dimenticare’ quello che non avevo detto”.

“Ma non ti sei ancora stancata di questa vita?”.

“No. Se dovessi baciare il culo a Putin per procurarmi un altro paio di negozi, glielo bacerei”.

“Perch‚ dici ‘procurarmi’? Non li comperi, i negozi? Non ti basta pagare per comperarli?”.

“No, adesso non più. ‘Procurarseli’ significa strappare ai burocrati il diritto di comperarseli. Si chiama ‘capitalismo russo’. A me piace. E quando non mi piacerà più, mi comprerò la cittadinanza in qualche altro Paese e arrivederci!”.

Ci salutammo. Tanja fu eletta, è ovvio. Pare che non sia male, come deputato, che si dia davvero da fare per i poveri di Mosca, che abbia creato un’altra mensa per senza tetto e profughi. Nel frattempo si è comperata altri tre supermercati. E va spesso in televisione a inneggiare alla nostra vita di oggi. Mi ha chiamato di recente, mi ha chiesto di scrivere un articolo su di lei. L’ho scritto. Eccolo. E’ quello che state leggendo. Tanja mi ha chiesto di dargli un’occhiata prima che venisse pubblicato. Si è spaventata: “E’ tutto vero” ha detto. Ma mi ha proibito di pubblicarlo in Russia finch‚ sarà in vita. Le ho dato la mia parola.

“E all’estero?”.

“Fa’ pure. Che sappiano di che cosa odora la nostra pecunia”.

Ora lo sapete.

MISHA E LENA.

Misha era il marito di Lena, mia amica d’infanzia e compagna di scuola di quando avevamo sette anni. Si erano sposati durante l’università, alla fine degli anni Settanta. All’epoca Misha era un ragazzo intelligentissimo e di grande talento, un interprete dal tedesco che faceva le simultanee ancora da studente universitario e a cui si prospettava un futuro radioso: dopo la laurea se lo contesero a suon di splendide offerte di lavoro, cosa più unica che rara all’epoca.

Misha finisce al ministero degli Esteri, un impiego prestigioso in era sovietica, soprattutto nell’ultimo periodo, quando era raro che un ragazzo senza agganci finisse in un’istituzione chiusa come gli Esteri. A Misha mancavano, quegli agganci: lo aveva tirato su la nonna, che per campare faceva le pulizie. La madre era morta prematuramente per un cancro al cervello quando lui era appena quattordicenne, e il padre l’aveva subito abbandonato per andare a stare con un’altra donna.

Misha, dunque, finisce agli Esteri. Con Lena siamo molto legate, ma anche Misha si sforza di unirsi al gruppo. Facciamo i picnic insieme, cuociamo gli spiedini sulla brace, nel bosco. Siamo felici.

La base dell’amicizia con Misha è strana. Io ho due figli piccoli, e quando viene da noi Misha sta a guardare per ore, estasiato, le loro sciocchezze. E per ore parla e gioca con loro.

Noi amici sappiamo che Misha vorrebbe dei figli, che è un’ossessione per lui. Ma la mia amica Lena è una linguista di talento, sta scrivendo la tesi di dottorato e continua a rimandare la gravidanza a quando l’avrà finita.

Misha è molto irritato, e il fatto di non avere figli diventa pian piano un complesso, per lui. Misha soffre e fa soffrire chi gli sta accanto, Lena per prima. Ma Lena è una donna di carattere: se ha preso una decisione, quella dev’essere. Se ha deciso di discutere la tesi e di pensare poi a un figlio, così sarà.

Lena si dà alla ricerca, Misha all’alcol… Per un po’ si controlla, poi esplode. Inizia bevendo poco, gli altri lo prendono in giro, ma poi le sue libagioni si prolungano per diversi giorni, con annesse sparizioni e notti passate chissà dove. I giorni diventano settimane. Lena sta per cedere, è a un passo dal mettere da parte la tesi, ma come si fa a fare un figlio con uno che è sempre ubriaco?…

Poi arrivano Gorbac‰v e El’cin, e l’unica ragione per cui Misha non viene cacciato dal lavoro (con i comunisti sarebbe avvenuto all’istante) è perch‚ non hanno con chi rimpiazzarlo. Chi lavora all’ormai disastrato ministero degli Esteri ha un’ottima conoscenza della lingua e una certa esperienza dell’altra parte della cortina di ferro, e viene pagato a peso d’oro dalle compagnie straniere. Per quanto i tedeschi siano stati i primi ad avventarsi sul mercato russo e gli interpreti dal tedesco siano i più ricercati in assoluto, Misha non lo vuole nessuno.

Anche al ministero, però, Misha ha i giorni contati: alla fine lo licenziano.

Una sera di dicembre del ‘96, una sera di freddo pungente e di trenta gradi sotto zero. Suonano alla porta. E’ molto tardi. Sulla soglia c’è Lena in camicia da notte. Che non è l’abbigliamento più adatto con certe temperature, ve lo garantisco… Tanto più che Lena è una donna equilibrata, elegante, educata, colta. Le manca una scarpa, come all’ultimo dei barboni, e all’altro piede ha uno stivale mezzo slacciato, col gambale che garrisce come una bandiera. Trema come se fosse caduta tra i ghiacci e l’avessero appena tirata fuori dall’acqua gelida. E’ spaventata a morte, talmente scioccata da non riuscire a parlare:

“Misha… Misha…” ripete come un automa che sa pronunciare una sola parola, e intanto continua a singhiozzare: non sembra nemmeno lei, non riesce a smettere e non capisce dove si trova e chi ha davanti.

Quel baccano sveglia anche i miei figli, che si alzano e vengono a vedere che cosa sta succedendo. Circondano Lena, stregati da quel dolore che non capiscono. Alla fine Lena torna in s‚: i bambini la riportano su questa terra. Prende un tranquillante e mi racconta tutto.

Erano tre notti che Misha non tornava a casa. Non che se ne fosse data pensiero; aveva fatto il callo alle sbronze e alle gozzoviglie e se n’era andata tranquillamente a dormire, dato che la mattina dopo la aspettavano presto in università. Misha era ricomparso poco dopo la mezzanotte: una stranezza, perch‚ quando beveva rincasava sempre la mattina seguente.

Quella volta, invece, si era piazzato così com’era - in cappotto e scarponi luridi, fetido e lurido anche lui - sulla porta della stanza da letto, davanti a Lena, zitto, a fissarla nella penombra senza accendere nemmeno la luce. Pareva ubriaco fradicio e fuori di s‚. Gli occhi neri brillavano in modo innaturale, accendendogli riverberi d’argento sulle guance. Quello che fino a poco prima era stato un bel viso, appariva solcato da una smorfia minacciosa e tesa. Lena si era infilata sotto le coperte, in silenzio. Sapeva per amara esperienza che era inutile parlare. Doveva aspettare che lui si addormentasse, era quella la ricetta migliore.

Misha, invece, si avvicinò al letto.

“Basta…” le disse. “E’ tutta colpa tua, se bevo… Quindi adesso t’ammazzo…”.

Lena colse nella sua voce una calma determinazione che non lasciava adito a dubbi. Saltò giù dal letto e corse per la stanza. Misha la raggiunse una prima volta sul balcone; Lena credette di non avere speranze. Gli ubriachi, però, sono goffi, Lena riuscì a sfuggirgli, raggiunse la porta, afferrò la prima giacca che le capitò sotto mano e corse via sulla neve. Fino a casa mia.

Divorziarono. Nessuno dei due aveva la lacrima facile, ma entrambi vennero nella mia cucina a piangere e a dirmi quanto si amassero, ma come non potessero più vivere insieme.

Vidi Misha diverse volte ancora, anche se sempre più di rado. Veniva a trovarmi per chiedermi soldi in prestito: non aveva smesso di bere, l’avevano licenziato e tirava avanti con qualche traduzione ogni tanto.

Quand’era sobrio - raramente - mi diceva che voleva smettere di bere e rifarsi una vita. Si era avvicinato alla Chiesa ortodossa, leggeva libri religiosi, era stato battezzato, si era trovato un padre spirituale, si confessava e si comunicava e trovava conforto nella fede. Insomma sembrava convinto di potersi redimere. Esteriormente non pareva certo qualcuno sulla via della salvezza: aveva una zazzera di capelli sporchi e arruffati, era trasandato, sciatto come chi non ha una donna in casa, come si dice dalle nostri parti. Portava un cappotto nero usato e troppo corto, e quando gli chiedevo dove vivesse mi rispondeva in modo sconclusionato che nessuno lo capiva e che la vita è dura quando nessuno ti capisce…

Con El’cin al governo il caso di Misha non era n‚ strano n‚ eccezionale: le strade pullulavano di poveracci rimasti senza lavoro, cittadini colti e rispettabili che si erano dati all’alcol perch‚

incapaci di riciclarsi nella nuova realtà. Fu sul terreno dell’insoddisfazione, della disoccupazione e dell’abbandono che la Chiesa ortodossa raccolse proseliti tra molti ex professionisti dell’era sovietica: spesso senza una vera fede alle spalle, gli sfortunati che avevano perso lavoro, famiglia e ragioni di vita si rifugiavano in chiesa.

Misha era uno di loro. Un giorno venne a trovarmi, sobrio e persino felice, e mi chiese di fargli gli auguri: il giorno prima era diventato padre. Il suo sogno si era finalmente realizzato e ne fummo tutti molto felici. Misha, però, non pareva al settimo cielo.

Il bambino si chiamava Nikita. Anche quando era sposato con Lena Misha aveva sempre detto che, se avessero avuto un figlio, l’avrebbero chiamato Nikita.

“Chi è la madre?” gli chiesi cauta.

“Una ragazza”.

“Vivi con lei? Siete sposati? Vi sposerete presto?”.

“No. Non piaccio ai suoi genitori”.

“Allora prendetevi un appartamento e andateci ad abitare voi. E’ importante”.

“Non abbiamo soldi”.

“Trovati un lavoro”.

“Non voglio e non posso. Tanto non lo troverei comunque: ho perso il treno, ormai”.

E troncò ogni possibile conversazione al riguardo.

Passò un anno, o forse più. El’cin aveva abdicato a favore del suo delfino, Putin, la seconda guerra cecena era iniziata e il nuovo leader era continuamente in televisione a guidare aerei o a dare disposizioni sul campo. Si avvicinavano le elezioni presidenziali. Una sera mi telefonò Lena.

“Mi hanno appena chiamato per dirmi che Misha ha ucciso la donna con cui viveva” mi disse con una voce che non pareva nemmeno la sua, la voce roca delle cantanti dopo un concerto. “Lei lascia il figlio quattordicenne avuto dal primo marito. Il ragazzo era in casa, quando è successo.

Misha aveva bevuto. Pare che quella donna fosse più vecchia di lui e che con lui bevesse per non farlo sentire solo. Avevano bevuto anche ieri sera. Misha ha preso un coltello e le ha detto quel che anch’io mi son sentita dire: ‘Adesso t’ammazzo’“.

Lena scoppiò a piangere.

“Potevo finirci io, così” disse. “Te lo ricordi? E voi che cercavate di convincermi a non divorziare, che mi dicevate che ce l’avrebbe fatta, che bastava curarlo… Mi avrebbe ammazzato…”.

Il tribunale ebbe pietà di lui. Soprattutto dopo aver appreso la sua storia, iniziata con la morte prematura della madre che tanto amava. Gli diedero quattro anni e mezzo, una condanna ridicola per un omicidio, considerando che l’avevano riconosciuto capace di intendere e di volere nonostante i suoi problemi con l’alcol.

Lo mandarono in un campo di lavoro in Mordovia, in mezzo alle foreste. Sei mesi dopo a casa di Lena - che intanto si era risposata e aveva avuto un figlio - si presentò il comandante della colonia di lavoro dove Misha stava scontando la sua pena. Il comandante non era certo una cima, ma aveva buon cuore. Non era stato Misha a chiedergli di andare da Lena, si era deciso da solo. Di passaggio a Mosca per lavoro, il comandante aveva pensato che fosse suo dovere riferire a Lena - per quanto ormai ‘ex’ moglie - che il “suo Michail” (disse proprio così, facendo inorridire il secondo marito) era il miglior detenuto con il quale avesse mai avuto a che fare. Era il più colto del campo e un gran lavoratore. Quel comandante con l’animo del pedagogo gli aveva affidato la biblioteca, e Misha l’aveva risistemata completamente. Leggeva molto e lavorava con gli altri detenuti come un autentico psicologo. Inoltre aveva costruito con le sue mani una chiesetta di legno, all’interno del campo, e voleva prendere i voti. Era in corrispondenza epistolare con un monastero, a cui chiedeva sostegno sulla via intrapresa. Il comandante disse a Lena di aver sostenuto in prima persona le inclinazioni monastiche di Misha, in quanto potevano fare solo del bene al suo contingente di assassini, stupratori e criminali incalliti. Fra l’altro, Misha gli aveva chiesto di passare al negozio del Patriarcato di Mosca e di portare in Mordovia degli arredi sacri.

“Non è contenta, Lena?” chiese alla ex moglie, che, invece, aveva gli occhi lucidi.

“Ho paura” rispose lei.

“Non ne ha motivo” replicò il comandante. “E’ cambiato, non è più un pericolo. Non beve più. E

non ucciderà più. Almeno credo”.

Il comandante si passò una mano tra i capelli, bevve il suo tè e - partecipe com’era della riabilitazione dei suoi detenuti - aggiunse sfregandosi le mani con foga, neanche volesse accendere un fuoco:

“Se devo dire la verità, mi dispiace che esca… E’ il migliore che ho…”.

Da quel giorno cominciammo a prepararci alla ricomparsa di Misha. Che però diede notizia di s‚

solo nel 2001, quando lo rilasciarono. Per qualche settimana vagò per la capitale senza una casa, senza nessuno, senza nemmeno il tedesco ad aiutarlo - l’aveva ormai dimenticato -, incapace di inserirsi nella nuova realtà.

Sapevo che era a Mosca. Ci incontrammo per puro caso in viale Tverskoj, e riconoscemmo a stento quello che per entrambi era stato un volto familiare. Ci sedemmo su una panchina e restammo a parlare per tre ore filate. Non mi chiese dei miei figli e io non gli chiesi di Nikita.

Aveva solo bisogno di qualcuno con cui parlare, di qualcuno che lo ascoltasse.

L’argomento era il monastero e la giusta scelta che aveva fatto. Intanto io osservavo l’uomo che avevo di fronte. Non c’era più traccia del Misha di un tempo. Era canuto, vecchio, flaccido. E

anche l’arguzia e i talenti di un tempo erano scomparsi. C’era solo la rabbia contro il destino. E il gergo carcerario. Mi propinò una sfilza di banalità sul senso della vita, sul genere di quelle degli opuscoli per analfabeti o quasi. E capii che tipo di biblioteca avesse il lager della Mordovia.

“Ce l’hai, un lavoro?”.

“E quale? Pagano poco e pretendono molto”.

“Siamo tutti sulla stessa barca… Devi avere pazienza…” cominciai, ma Misha mi interruppe subito:

“Io non voglio essere come tutti”.

Ecco di cosa aveva piena la bocca.

“E il monastero? Come va?”.

“Al momento non mi vogliono. C’è la coda anche lì, entri solo se conosci qualcuno. E poi essere stato in prigione non mi aiuta”.

“Be’, c’è da capirli… Sei uscito da poco…”.

“Io non li capisco, invece…”. Misha stava diventando aggressivo.

“Che cosa pensi di fare?”.

“Andrò in quella chiesetta” e indicò un edificio alle sue spalle, una delle chiese più antiche di Mosca. “A fare il custode. Per entrare in monastero devo aggiungere voci al mio curriculum”.

Scoppiammo a ridere entrambi. Solo chi è nato in URSS e vi abbia vissuto una buona parte della sua vita cosciente sa che le “voci sul curriculum” sono un espediente sovietico per essere assunti o per essere ammessi in una buona università se non si hanno degli agganci. Noi, invece, stavamo parlando di un monastero, di fede, di religione, di norme conventuali… E non c’era nulla di più distante dalla quotidianità sovietica. Non riuscivamo a smettere di ridere.

“Buffo” disse Misha. “Al giorno d’oggi le strade dell’ortodossia e della realtà sovietica si sono ricongiunte…”.

Quello che spuntava da sotto le palpebre appesantite di un cirrotico o di un cardiopatico era il Misha di un tempo: allegro, ingegnoso, burlone, spavaldo.

“Certo che si sono ricongiunte. Manchi da un po’, tu. Non hai paura che quella Chiesa in cui hai tanta voglia di entrare sia diventata l’analogo del comitato rionale della Gioventù comunista, di quel “komsomol” da cui a suo tempo eri fuggito a gambe levate? Non temi che abbiano solo passato una mano di vernice su vecchie strutture? Non hai paura di restare deluso, una volta in monastero? E di ricasc…”.

Non riuscivo a trovare la parola adatta, e mi bloccai.

“E di ammazzare qualcun altro, volevi dire? Scaricando su di lui i miei problemi?”.

“Non era quel che intendevo…” anche se, invece, era proprio quel che avevo in mente: io e Misha sembravamo capirci al volo come un tempo.

“Sì che lo intendevi, invece. Lascia perdere gli eufemismi… Ti rispondo così: certo che ho paura, ma non ho altra scelta. Se resto qui, torno dentro di sicuro. Stavo meglio in prigione, in uno spazio recintato. E il monastero lo è. Cambiano solo le guardie. E io ho bisogno di avere delle guardie. Non riesco a controllarmi in questo tipo di vita”.

“Che tipo?”.

“Cinica. Non lo sopporto, il cinismo. Ho iniziato a bere per questo”.

“E perch‚ l’hai ammazzata, la tua donna? Era cinica anche lei?”.

“No, lei era buona. Non ricordo perch‚ l’ho uccisa. Ero ubriaco”.

“Dunque non c’è modo che resti tra noi?”.

“No. Non resisterei”.

Non lo incontrai più. Ma so che non entrò mai in monastero. La procedura era lunga. La burocrazia religiosa somiglia a quella di Stato: reagisce solo a quanto la tocca direttamente.

Misha andava al Patriarcato a presentare i suoi certificati, e intanto faceva il custode e viveva in chiesa. Ricominciò a bere. Pian piano. Un paio di volte andò anche da Lena a chiederle soldi… La prima volta lei gli diede cento rubli. La seconda niente, e fece bene: lei e il marito non lavoravano perch‚ Misha potesse andare a sbronzarsi. Aveva ragione.

Misha si è buttato sotto un treno della metropolitana. Lo scoprimmo per caso, molto tempo dopo. Misha, una delle persone più intelligenti che abbia mai conosciuto, è stato sepolto tra i barboni e i cadaveri “non reclamati”. O meglio, hanno sepolto le sue ceneri, perch‚ in casi come il suo i corpi vengono cremati. Nessuno sa dove sia la sua tomba.

RINAT.

Le cose o si affrontano o si evitano.

La sede di un reggimento speciale dei servizi segreti del ministero della Difesa russo - un reparto d’‚lite al massimo livello - non è posto per dei civili come me. Talvolta, però, certe visite diventano necessarie. A portarmici è Rinat, un maggiore di quello stesso reggimento. Rinat non ha parenti, è orfano ed è cresciuto in un orfanotrofio. Il suo viso tradisce origini orientali, gli occhi sono a mandorla; parla diverse lingue dell’Asia Centrale. Rinat è una spia, e i servigi che ha reso al Paese gli sono valsi svariate medaglie e onorificenze. Ha combattuto in Afghanistan, poi è stato infiltrato per anni nelle bande di tadziki sui monti, o al confine afghano-tadziko a cogliere in flagrante i narcotrafficanti; sempre da infiltrato, poi, ha aiutato a salire al potere - a nome del governo russo - alcuni degli attuali presidenti delle ex repubbliche sovietiche. E’ stato anche in Cecenia, è ovvio. Ha combattuto in entrambe le guerre. Il suo petto è un tappeto di onorificenze.

Insieme cerchiamo un buco nella recinzione. Vuole farmi vedere la caserma dove vive, con tutte le sue onorificenze, e la casa nel villaggio militare dove avrebbe voluto andare ad abitare. La fortuna, però, gli ha voltato le spalle. Il suo è un reggimento noto, ben addestrato e d’‚lite, ma lo troviamo, un varco. Ci passerebbe un carrarmato, altro che noi due.

Cinque minuti a piedi ed eccolo, il villaggio delle spie. E’ mattina. Intorno a me solo i visi lunghi degli ufficiali fuori servizio. Anche il tempo è grigio. Sotto i piedi abbiamo solo fango: non camminiamo, pattiniamo quasi, dobbiamo stare attenti a non cadere.

Alzo gli occhi. Miracolo! Di fronte a me, tra miseri edifici bassi, si erge come un miraggio un palazzo nuovo, alto, di un bel colore grigio-verde.

“E’ da quella casa che è cominciato tutto quanto” dice Rinat. “Anch’io avrei voluto andare ad abitarci. Ero stanco di girare. Mio figlio sta crescendo e io, invece, sono sempre a combattere qualche guerra…”.

Il maggiore si blocca e si mette a fare cose che non comprendo. Si copre il viso, si china come se ci stessero sparando e dovessimo trovare un riparo. Mi sussurra che sarebbe meglio far finta di non conoscerci, di esserci appena incontrati, e mi chiede di non guardare avanti, di non gesticolare e di fare il possibile per non attirare l’attenzione…

“Che cosa sta succedendo?” gli domando. “Ci attaccano?”.

Sto scherzando, è ovvio. Come possono attaccare uno stanziamento militare fisso e sotto costante sorveglianza?

“Non dobbiamo farlo arrabbiare…” mi dice piano, continuando le sue manovre diversive.

Cambiamo strada, lesti ma senza fretta, come vere spie, per non attirare l’attenzione altrui con qualche movimento troppo brusco.

“Chi è che non dobbiamo far arrabbiare?” lo interrogo quando solleva la testa e tira un sospiro di sollievo per lo scampato pericolo.

“Il vicecomandante del reggimento. Petrov”.

Tutte quelle manovre si dovevano al fatto che Petrov stava sopraggiungendo a bordo di un’auto.

Parcheggiò di fronte a quel palazzo nuovo. Era lì che viveva, Petrov. Rinat si calmò solo una volta che il suo superiore ebbe varcato la porta dell’androne. E il nostro giro pot‚ continuare. Per quanto girassimo, però, ci ritrovavamo sempre di fronte al palazzone grigio-verde… Con Rinat che se lo guardava con occhi pieni di desiderio e di invidia.

Ero perplessa, lo confesso. Sapevo qualcosa del curriculum di Rinat, sapevo quanto fosse impavido e coraggioso, e il suo comportamento mi lasciava interdetta. Di che cosa aveva paura?

Era una spia espertissima, aveva combattuto fior di battaglie. Aveva forse paura di morire?

“No, alla morte ho fatto il callo. E non lo dico per dire”.

“Ha paura che la catturino, allora?”.

“Be’, certo, so che mi torturerebbero. L’ho visto fare, nelle bande. Ma non è nemmeno la prigionia, che temo”.

“E allora che cosa?”.

“Forse la pace, la vita da civile. Non mi ci raccapezzo. Non sono pronto ad affrontarla”.

Rinat ha trentasette anni. In vita sua ha sempre e solo combattuto. Il suo corpo è pieno di cicatrici. Ha l’ulcera peptica e duodenale, i nervi a pezzi e i postumi delle ferite alla testa gli danno dolori lancinanti alle giunture, nonch‚ spasmi cerebrali.

Un po’ di tempo fa il maggiore aveva deciso di mettere radici da qualche parte, di lasciare le guerre per una vita normale, e aveva scoperto di non sapere che fare. A chi doveva chiedere una casa, per esempio? Perch‚ gli spettava, una casa, dopo tutto quello che aveva fatto e passato per difendere gli interessi del Paese. E i soldi? A chi doveva chiederli, i soldi?

Le aveva fatte a Petrov, quelle domande, e aveva subito capito di non avere alcun diritto. E

subito aveva tirato le sue conclusioni: fino a che lo Stato aveva avuto bisogno di lui per missioni tra montagne, Paesi e continenti, era stato pronto a dargli medaglie e onorificenze. Ma da quando la sua salute non era più quella di un tempo, da quando aveva deciso di lasciare tutto e mettere radici da qualche parte, aveva scoperto che per lui non c’era posto e che le alte sfere dell’esercito erano pronte a sbatterlo per strada. E a cacciarlo persino dalla misera stanzetta in cui dormiva con suo figlio, in caserma.

Rinat ha un figlio, Edik, che sta tirando su da solo. La moglie è morta qualche anno fa, Edik è vissuto a lungo da solo, in caserma, ad aspettare che il padre tornasse dalle sue guerre e dalle sue missioni…

“Io so come uccidere un nemico senza che abbia il tempo di fiatare” mi spiega Rinat. “So risalire una montagna rapido e silenzioso per catturare chi ci si è arroccato. Sono un eccellente scalatore e alpinista. Le so leggere, le montagne, io: rami e cespugli mi dicono se qualcuno ci si è nascosto di recente e dove… Le sento, le montagne. Dicono che sia un dono di natura. Invece non sono in grado di procurarmi un posto dove stare. Non sono in grado di far nulla, nella vita di tutti i giorni…”.

Ho di fronte un killer professionista addestrato dallo Stato e incapace di cavarsela da solo. E ce ne sono tanti, nella sua situazione, oggigiorno. Lo Stato continua a mandare gente in guerra, gente che vive per anni in quelle condizioni e che quando torna a casa non è in grado di capire la vita normale, di comprendere le leggi e le norme che la regolano. Molti allora si attaccano alla bottiglia o vanno a fare i sicari per la malavita. I nuovi datori di lavoro li pagano più che bene e riescono persino a convincerli che stanno facendo fuori gente che nuoce agli interessi dello Stato…