Sono scampati a questo inferno negandolo, ma col desiderio bruciante di potersene finalmente vendicare.

È possibile parlare con individui simili? Io ritengo che lo si debba in ogni caso tentare, sempre, perché è pensabile, anzi addirittura verosimile, che si offra loro con questo tentativo — per la prima volta - l’occasione di incontrare un testimone consapevole. Non si sa quali effetti possa produrre in loro un incontro del genere, perché le conseguenze si sottraggono alla nostra influenza: ma dovremmo almeno cercare di approfittare di questa occasione. La vita gliene è rimasta debitrice, ed è da presumere che questo valga anche per tutti coloro che sono rinchiusi nelle prigioni. Si dovrebbe tentare di mostrar loro che, durante l’infanzia, avrebbero avuto diritto al rispetto, all’amore e al libero dispiegarsi delle loro personalità; che questo diritto è stato loro negato; ma che tutto ciò non li autorizza ora a distruggere la vita altrui e che questo meccanismo di riproduzione della violenza conduce solo in un vicolo cieco. Non sono bastati milioni di cadaveri per appagare l’odio accumulato da Adolf Hitler, a saziare la sua fame di vendetta. Occorre dimostrare che ciò che è stato loro spacciato per educazione, durante l’infanzia, altro non era che un’infame, ipocrita e folle ideologia alla quale sono stati costretti a credere per sopravvivere, e che ora pretendono di spacciare a loro volta a livello politico. E occorre dimostrar loro che quelli che li hanno ingannati, che hanno originato la loro miseria, la loro smania di potere e di distruzione, non erano i turchi, gli ebrei, gli arabi o gli zingari, bensì i loro stessi genitori: cittadini «come si deve», amanti dell’ordine e della pulizia, pii e onorati frequentatori di funzioni religiose.

Noi non sappiamo quanti di questi figli e figlie della violenza, quanti giovani neofascisti o violenti criminali sono ancora disponibili a un dialogo. Se però consideriamo che di solito, nella nostra società, non incontrano quasi mai qualcuno che spieghi loro questa spaventosa verità, si può ipotizzare che l’uno o l’altro si fermi ad ascoltare. Può anche darsi che l’evidenza dei fatti - che ciascuno conosce dai tempi della sua infanzia ma che non ha mai potuto considerare per quello che sono e in connessione fra loro -

produca un’immediata illuminazione: soprattutto in chi non abbia per anni sistematicamente appreso, nelle università, a negare o a mascherare la verità.

Il pericolo non è tanto insito nei singoli individui, anche se agiscono in modo criminale; il pericolo è semmai insito nell’ignoranza della società nel suo complesso, la quale avvalora le menzogne alle quali questi individui hanno dovuto credere nella loro infanzia. Gli onorati esponenti della società -

insegnanti, giuristi, medici, operatori sociali, preti - proteggono i genitori dal risentimento del bambino maltrattato e tengono celata la verità dei maltrattamenti inflitti all’infanzia. Perfino la Lega per la protezione dell’infanzia sostiene che questo delitto - e soltanto questo - dovrebbe restare impunito (cfr.

L’infanzia rimossa, cap.

i,7).

Eppure soltanto co\’assoluta conoscenza della verità sui maltrattamenti inflitti ai bambini, a loro volta causa innescante di ulteriori violenze, si potrebbero scongiurare i pericoli che ci minacciano. Si potrebbe fra l’altro evitare che bambini gravemente traumatizzati, e che per questa ragione si sono trasformati in pericolosi criminali paranoidi, arrivino al potere: possano cioè trovarsi nella condizione di governare milioni di individui e distruggerli. Ai tempi di Nerone il dover vivere sotto la tirannia d’un solo individuo era ancora una fatalità quasi inevitabile, ma in tempi di democrazia, per imperfetta che questa possa essere, la sorte della collettività è nelle mani degli elettori. Ed essi possono scegliere fra la cecità e la verità dei fatti. Chi opta per la verità, non si affiderà a individui che gli promettano redenzione, riscatto o salvezza mediante la distruzione degli altri. Perché saprà che questa smania di distruzione non è un bisogno primario che si possa un giorno placare, bensì una permanente e perversa ricerca di vendetta che colpirebbe alla fin fine anche gli elettori del tiranno che non trovassero tempestivamente il coraggio della verità.

Non conosco esempio storico meglio documentato, e che possa prospettarci più chiaramente le conseguenze dell’uccisione dell’animo del bambino (e una di queste conseguenze è la cecità collettiva che ne scaturisce), della fatale affermazione di Hitler.

Hitler ha raccontato un giorno alla sua segretaria le circostanze in cui era riuscito, da bambino ancora, e durante una delle solite punizioni a base di frustate dategli dal padre, a non piangere più, a non sentire più niente, a contare perfino con distacco i trentadue colpi di frusta che il padre gli infliggeva (cfr. John To-land, Adolf Hitler, Bergisch-Gladbach 1977, pag. 30). E in questo modo, attraverso il completo diniego delle sofferenze, della sensazione d’impotenza e della disperazione (ovvero: attraverso il rifiuto della verità) che Hitler ha costruito se stesso come maestro di violenza e di disprezzo dell’uomo. Il risultato è stato un uomo d’una rozzezza primitiva, incapace di sentimenti differenziati rispetto al prossimo. Era spietato e costantemente costretto a esercitare la violenza. Le sensazioni d’odio e di vendetta, rimaste latenti, lo sospingevano a sempre nuove azioni distruttive.

Anche dopo che milioni d’individui erano già dovuti morire in conseguenza del suo operato, i risentimenti continuavano a perseguitarlo nel sonno. Hermann Rauschning riferisce delle esplo-sioni di grida che scuotevano Hitler nel sonno, caratterizzate da «incomprensibili enumerazioni»: ho già spiegato che, secondo me, questo ossessivo, inconscio «contare» è da mettere in relazione con il rito delle punizioni che il padre gli infliggeva da bambino (cfr. La persecuzione del bambino, pagg. 137 e seguenti).

Hitler non ha inventato il fascismo: esisteva già - come per tanti altri suoi contemporanei - nel regime totalitario della sua famiglia. Le caratteristiche nazionalsocialiste in cui si esplicò il fascismo di Hitler recano l’impronta inequivocabile della sua infanzia.

Tuttavia Hitler, con quella sua esperienza infantile, non costituiva certo un’eccezione. Ecco perché uomini come Gerhart Hauptmann, Martin Heidegger e tanti altri intellettuali famosi non seppero capire la sua follia. Per poterlo fare, avrebbero dovuto capire la follia della loro stessa educazione.

Hitler è riuscito a fare dell’Europa e del mondo intero il campo di battaglia della sua infanzia perché nella Germania di allora c’erano milioni di individui che avevano fatto da bambini esperienze simili alle sue. I principi pedagogici che ora elencherò erano per loro naturali e scontati, anche se non ne erano necessariamente consapevoli:

1. I valori supremi sono l’ordine e l’ubbidienza, non la vita.

2. L’ordine si può creare e conservare solo mediante la violenza.

3. La creatività (insita nel bambino) è un pericolo per l’adulto e deve essere repressa.

4. La prima legge è quella d’ubbidire al padre.

5. La disubbidienza e la critica sono fenomeni che scompaiono quando si provveda a reprimerle con punizioni o minacce di morte.

6. Il bambino vivace e vitale deve essere educato il più presto possibile in modo tale da farne un ubbidiente robot, uno schiavo.

7. Occorre di conseguenza soffocare nel bambino, nel modo più risoluto, i sentimenti indesiderati e quelli che sono i suoi istintivi bisogni.

8. La madre non deve proteggere mai il bambino dalle azioni

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punitive del padre, e deve invece predicargli — dopo ogni punizione che gli sia inflitta — il rispetto e l’amore per i genitori.

Per fortuna ci sono stati qui e là dei casi in cui il bambino si è almeno in parte potuto sottrarre a questo regime totalitario, rifugiandosi presso persone che lo hanno protetto, e forse trovando in loro anche dell’amore, un po’ di rispetto e di protezione. Grazie a questa positiva esperienza - data se non altro dalla mera possibilità di fare paragoni - questo bambino è stato messo nella condizione di poter condannare almeno dentro di sé la crudeltà e di non sviluppare anche lui il desiderio di perseguitare in futuro gli altri. Se tuttavia questo testimone soccorrevole è del tutto mancato, al bambino non è rimasta altra possibilità, nello scenario allucinante in cui si è trovato, che di negarsi ogni reazione naturale - come la collera o la risata -, e di piegarsi al rito della ininterrotta, cieca e totale ubbidienza. Solo così ha potuto mantenere entro limiti tollerabili la minaccia costituita dal padre. Hitler ha in seguito sfruttato per i suoi fini questa precoce e spieiata formazione del carattere. Ha sviluppato la sua ideologia nazionalsocialista conformandola quasi nei minimi dettagli alle pratiche pedagogiche che aveva sperimentato sulla sua stessa pelle, e le conseguenze concrete di questa elaborazione sono state le seguenti: 1. La volontà del Fiihrer è legge suprema.

2. Il Fùhrer creerà l’ordine con la violenza e farà della Germania il paradiso degli ariani, della razza eletta.

3. Chi si sottometterà ai suoi ordini come un robot, sarà premiato.

4. Chi oserà sollevare critiche, finirà nei campi di concentramento.

5. Ebrei e zingari devono essere annientati: siano essi uomini, donne o bambini.

6. Russi e polacchi vanno trasformati in utili schiavi.

7. Gli invalidi e i malati di mente devono essere eliminati.

8. La libertà dell’arte è pericolosa, «degenere», e va dunque perseguitata come ogni altra forma di libera creatività.

Se non ci fossero i molti documentar! cinematografici a testimoniare il giubilo delle masse, oggi nessuno sarebbe disposto a credere che un pazzo armato d’una simile ideologia sprezzante d’ogni valore umano potesse suscitare tanto entusiasmo. Come è stato possibile che Hitler abbia trovato un così vasto seguito?

Promettendo al popolo la soluzione di tutti i problemi e offrendogli un capro espiatorio? Certo. Ma questo soltanto non sarebbe bastato perché innumerevoli individui si facessero usare come marionette. La promessa doveva essere anche fatta nello stile del padre tiranno e violento, quello che i più conoscevano, temevano e ammiravano.

Dalla storia dei sacrifici umani e del cannibalismo, risalendo fino agli aztechi, si può imparare come le più svariate religioni abbiano santificato il sacrificio umano per giustificare e nobilitare i delitti compiuti dai genitori sui loro figli. Chi legge questa storia con occhio attento, vi riscontra sempre lo stesso principio: «Se faccio agli altri ciò che è stato fatto a me, mi sottraggo alla necessità di provare le sofferenze che il ricordo mi causerebbe. Se ammanto il tutto di bei concetti ideologici o religiosi, e se racconto agli altri tutte le menzogne cui ho imparato a credere, molti mi seguiranno. Se poi - come Hitler - mi avvalgo anche di mezzi spettacolari e assumo l’atteggiamento del padre minaccioso cui quasi ciascuno di noi credeva ciecamente da bambino e di cui ciascuno aveva paura, allora posso trovare innumerevoli aiutanti per compiere ogni immaginabile delitto: e quanto più sarà assurdo, tanto più mi risulterà facile». Il test di Milgram ha dimostrato tutto questo a sufficienza: molti adulti, che siano stati in passato bambini ubbidienti e disciplinati, non fanno altro che aspettare una forma di sfogo legalizzato della rabbia repressa decenni prima. La società offre loro questa valvola di sfogo - e la correlata, specifica giustificazione culturale - nel maltrattamento dei loro figli (definito «educazione»), oppure nelle guerre e nei genocidi.

I pericoli insiti nella nostra morale tradizionale non mi sono mai apparsi così evidenti come in riferimento alla nostra storia più recente. Noi siamo obbligati a onorare i nostri genitori e a non porli mai in discussione, qualunque cosa abbiano fatto. Quando però constato che milioni d’individui sono dovuti morire perché Adolf Hitler potesse conservare la propria rimozione, che milioni di altri esseri umani sono stati umiliati e degradati nei lager perché lui non dovesse riprovare mai la sensazione della propria passata umiliazione, allora ritengo che non si possano mai sottolineare abbastanza queste connessioni, per rendere evidente a tutti l’inconsapevole riproduzione del male. Come si può pretendere che dei giovani riconoscano e condannino la disumanità e i delitti quando questi - per esempio la sperimentazione medica su persone vive — continuano a essere occultati, anziché denunciati in ogni modo possibile?

Se i crimini dei grandi e piccoli Mengele non fossero stati per quaranta anni protetti da spessi muri di silenzio, oggi simili fenomeni risulterebbero assai più facilmente riconoscibili. Purtroppo pochi soltanto traggono profitto da queste conoscenze. E così a tutto oggi è ancora possibile fare appello alla libertà di ricerca e - senza che ciò susciti l’indignazione dell’opinione pubblica -eseguire crudeli esperimenti su persone inermi per il cosiddetto

«bene dell’umanità».

Solo se i giovani sono messi nella condizione di poter esattamente sapere cosa è accaduto e perché è potuto accadere, solo se non si lasciano più distogliere da questa legittima curiosità, e se non hanno dunque più paura della verità, possono liberarsi del peso che è stato loro addossato dalla cecità dei loro avi.

È proprio dalla conoscenza della storia di Hitler che scaturiscono il monito contro la cecità, la sollecitazione a sottrarsi a essa definitivamente e a battersi contro la rimozione collettiva. Io insisto nel dirlo, con ferma coerenza, in tutti i miei libri, per rendere comprensibili la psicodinamica del maltrattamento infantile e i suoi infiniti pericoli per la società, resi evidenti dal fenomeno Hitler. Va aggiunto, ovviamente, che la comprensione del fenomeno non comporta affatto compassione per un individuo così spietato come Hitler.

10 sono convinta che non appena il nome di Hitler non sarà più un tabù, la conoscenza della storia della sua infanzia e della sua vita potrà contribuire in modo essenziale a capire e a prevenire analoghe «catastrofi»; nel presente e nel futuro.

11 maggior ostacolo lungo questa lunga strada è il diniego dei maltrattamenti personalmente sofferti nell’infanzia, e la loro rimozione a spese altrui: dei bambini, dei subordinati, del partner o degli elettori.

Ancora nel 1987 più della metà dei genitori della Repubblica Federale Tedesca si sono espressi a favore delle punizioni corporali come mezzo educativo. E questo nonostante il lungo, pluri decennale lavoro di informazione svolto dalla Lega per la protezione dell’infanzia.

Che origine ha questa testarda incoscienza? Come mai i genitori non sanno ancora che la violenza fisica e anche gli «schiaffi» psichici comportano un’umiliazione e un abuso dei figli che, prima o poi, palesemente o in modo occulto, tornerà a manifestarsi in modo distruttivo? Come mai non sanno che con la loro ogget-tivamente falsa asserzione, secondo cui picchiare i bambini sarebbe assolutamente necessario e completamente innocuo, avvalorano, conservano e proseguono una tradizione distruttiva?

Non lo sanno perché, per personale esperienza, non conoscono altro modo d’educare i bambini e hanno dovuto precocemente imparare a considerarlo normale e innocuo. La violenza, agli occhi di questi genitori, è l’unico correttivo efficace del comportamento infantile. Ed è perciò che questa generazione di genitori costruisce complicate teorie per spiegare i massacri compiuti durante il Terzo Reich e la propria personale passività o complicità. Sembra loro più semplice che provare il dolore insito nella loro stessa condizione di bambini picchiati e umiliati, un dolore che offrirebbe loro la chiave per capire, per accorgersi che l’uso di questa chiave proteggerebbe i loro figli dai maltrattamenti e loro stessi, in quanto genitori e cittadini votanti, dalla cecità. E quando sono, oltre che genitori, anche personaggi politici, la comprensione del fenomeno potrebbe forse anche preservare intere nazioni da sacrifici e da guerre insensate.

Innumerevoli persone sono morte nel corso delle guerre convenzionali, i cui responsabili non hanno voluto rendersi conto di portare dentro di sé forze distruttive. Essi hanno sempre cercato di liberarsi di questa furia sulla pelle degli altri, e lo hanno fatto per vendicarsi di loro antiche, personalissime ferite.

Considerata anche la sola eventualità di una guerra nucleare, oggi non possiamo più permetterci di ignorare questa verità. Eppure è proprio quello che continuiamo a fare: molti esperti e molti funzio-nari si occupano quotidianamente delle conseguenze dei maltrattamenti inflitti ai bambini senza essere in grado di vederne e capirne le cause.

Nemmeno la più tremenda delle esperienze infantili assolve un criminale dalla colpa che comporti la distruzione della vita. Da persona adulta ha la possibilità di confrontarsi con la sua infanzia, di non negare gli orrori passati, di rivivere l’odio a suo tempo rimosso e di comprendere che era un sentimento legittimo. Perché provare consapevolmente questo odio è appunto soltanto un sentimento, e i sentimenti non uccidono. I gesti distruttivi, diretti ciecamente contro persone sostitutive, sono invece azioni che possono costare la vita al prossimo e vanno dunque attribuiti alla responsabilità di chi le compie.

Tuttavia forse già i nostri nipoti potranno dire di se stessi: siamo stati fortunati a non essere stati picchiati come un tempo lo erano stati i nostri nonni, tanto che oggi, rispetto a loro, possiamo avere una visione assai più chiara delle cose. Se la violenza esercitata sul bambino fosse innocua, la gente non sarebbe stata così cieca dinnanzi al disprezzo dimostrato da Hitler per la vita umana, l’avrebbero subito compreso e rifiutato, esattamente come fanno oggi e con immediatezza i nostri figli quando si trovano dinnanzi a una crudeltà. I bambini che possono difendersi non diventano violenti. La propensione alla violenza — questo fenomeno che domina il mondo - non è dunque una sorte ineluttabile per l’umanità.

Potrebbe sparire dalla terra se i bambini fossero trattati con amore. L’«istinto di distruzione» è invece sempre in agguato nelle vittime dei maltrattamenti infantili che non vogliono sapere, da adulti, che cosa è loro successo in passato. Noi non abbiamo alcuna necessità di infierire sul nostro bambino indifeso.

Non riusciamo nemmeno a immaginare, in astratto, che possa esistere una necessità del genere, neanche nei momenti in cui siamo innervositi e sovreccitati al punto da reagire spazientiti alle sue domande. Ci sono tante altre possibilità per comportarci produttivamente, con rispetto nei confronti del bambino, senza assumere comportamenti distruttivi. Ancor meno di questa esigenza di vendicarci sui nostri figli, riusciamo a figurarci che possa affascinarci un mostro come Hitler. Esseri umani che siano stati rispettati durante l’infanzia, che non siano stati addestrati a furia di violenze al punto tale da diventare dei robot, si rifiuterebbero di andare a morire per «fedeltà al Fùhrer» o di marciare a migliaia, contro ogni logica, alla volta di una qualche Stalingrado solo perché questa idea si è affacciata alla mente d’uno spostato.

I generali di Hitler invece, quando sentivano parlare Lui (il padre), al suo quartier generale, si mettevano sull’attenti, e ogni loro anche ovvia obiezione si dissolveva nella paura e nella paralisi psichica, se non addirittura nell’entusiasmo. Questa cecità politica, che è costata la vita a milioni di persone, dimostra con assoluta precisione ciò che i nostri nonni ancora risolutamente contestavano: e cioè che in ogni caso le botte - quelle fisiche ma anche quelle psichiche - non si limitano a produrre un danno diretto al bambino, ma comportano anche un rischio altissimo per il suo futuro: lo rendono cioè incline alla distruzione. E questo non vale soltanto per il singolo ma, in determinate circostanze, per popoli interi.

La recente storia della Romania ce ne offre un’ennesima, tragica riprova.

NICOLAE CEAUSESCU MOSTRUOSE CONSEGUENZE D’UNA MISERA INFANZIA NEGATA Mascherare e insieme trasfigurare la propria personalità costitui uno degli scopi fondamentali della sua esistenza. Punte o poche apparizioni storiche hanno saputo abbellire e palliare se stesse con tanta violenta determinazione, con tanta pervicace e coerente pedanteria, tanto da rendere introvabile la propria autentica fisionomia. L’immagine che aveva di sé era più simile a un monumento che al ritratto d’un essere umano. E per tutta la vita ha cercato di nascondervisi dietro. (Joachim Fest, Hitler, 1973)

Ho citato già dieci anni fa, in La persecuzione del bambino, questa frase tratta dal libro che Joachim Fest ha scritto su Hitler, aggiungendovi questa osservazione: «Chiunque abbia potuto far esperienza dell’amore di sua madre non avrà mai bisogno di mascherarsi in questo modo».

A cavallo degli anni 1989-90 ci siamo di nuovo trovati dinnan-zi a un fenomeno assai simile.

Considerati i modi in cui si è espressa la dittatura di Nicolae Ceausescu, non possiamo più sostenere che

«punte o poche apparizioni storiche hanno saputo abbellire e palliare se stesse, tanto da rendere introvabile la propria autentica fisionomia», come fece Hitler. Quante vittime dovremo ancora piangere prima di riuscire a comprendere che cosa genera questi “monumenti”?

Quando il padre di Ceausescu morì — nel 1973, all’età di ot-tant’anni —, il dittatore comunista, per un atto di riguardo verso la religiosità dei genitori, mobilitò per la cerimonia funebre un vescovo e dodici altri sacerdoti. Tutti i testimoni confermano il grande rispetto e la venerazione che provava per la madre e il padre. Questo tuttavia non significa affatto che i genitori gli avessero a loro volta donato amore e rispetto, perché sono proprio i bambini gravemente maltrattati quelli che maggiormente si distinguono per il vistoso attaccamento, la subordinazione e l’assenza d’atteggiamento critico nei confronti dei genitori. Nel caso di Ceausescu questo atteggiamento significava soltanto che il dittatore aveva totalmente rimosso le violenze subite da bambino: facendone pagare le conseguenze all’intero popolo rumeno.

Non è esatto sostenere che egli abbia costretto uomini, donne e bambini a soffrire la fame e il freddo solo perché egli stesso aveva patito in gioventù simili condizioni d’estrema povertà. Molte persone sono cresciute in situazioni d’indigenza. Eppure molte di loro non avvertono il bisogno di tormentare il prossimo: e più precisamente sono quelle che, da bambini, hanno avuto contatti con persone affettuose e sincere. È noto che anche i genitori di Charlie Chaplin erano molto poveri, e che il bambino era vissuto per qualche tempo in un orfanotrofio dove si faceva ricorso a pratiche crudeli: però aveva una madre che gli voleva bene e che non lo ha abbandonto nemmeno durante il periodo di ricovero nell’istituto. Questa precoce esperienza d’amore è avvertibile, assieme alla tristezza e alla malinconia, nella maggior parte dei suoi film.

Invece il padre di Ceausescu non era soltanto un uomo povero con dieci figli (uno dei quali morto in tenera età).

Era un padre che spendeva i pochi soldi che aveva nelle osterie, per ubriacarsi, anziché procurare cibo ai figli. E

inoltre li picchiava ogni giorno «per il loro bene»: esattamente come avevano fatto il padre di Stalin, sempre ubriaco, e il padre di Hitler, spesso ubriaco. La madre, un’analfabeta, era una donna molto ambiziosa che sorvegliava con severità il profitto scolastico dei figli: figli che, a sua volta, picchiava senza ritegno. Poiché i genitori erano molto religiosi, trovavano sempre una buona ragione «morale» per giustificare questo loro comportamento, tanto che il giovane Ceausescu non dubitò mai della giustezza delle punizioni che gli venivano inflitte. L’ipocrisia permeò fin dalla nascita l’aria che respirava, e fu per lui una condizione di vita naturale.

Riusciva a sfogare la rabbia repressa - e a lui stesso incomprensibile - solo uccidendo giovani animali. Era noto per questo comportamento già da bambino, nel suo villaggio, e continuò a comportarsi così anche in seguito, da giovane, durante la detenzione in carcere. I compagni di cella, tutti parecchio più anziani di lui, hanno riferito che una volta aveva acconsentito a strangolare i gattini che una gatta randagia aveva partorito.

Tuttavia questi piccoli atti di vendetta non bastarono per esaurire completamente la carica di ipocrisia e di crudeltà che aveva accumulato dentro di sé. Quando raggiunse l’età della pubertà, trovò nel partito comunista rumeno l’ideologia adatta per sfogare infine anche sulla scena politica quanto aveva appreso nell’infanzia. Esattamente come i genitori avevano sostenuto di picchiarlo nel suo interesse, anche Ceausescu affermava di voler «riscattare»

i rumeni, quando ricorreva alla soppressione della libertà e della verità, al lavaggio del cervello, alla degradazione e all’istupidimento del popolo.

In una biografia del dittatore (cfr. Heinz Siegert, Ceausescu -Management far das moderne Rumànien [Ceausescu

— Management per la moderna Romania], C. Bertelsmann 1973, pagg. 78 e seguenti), si legge quanto segue:

«Nicolae Ceausescu è nato il 26 gennaio del 1918. Sulla sua infanzia non si dispone che di scarso materiale autentico. Il presidente del consiglio di Stato preferisce tacerne. Non gli sembra importante parlarne. Anche i suoi familiari sono riservati su quest’argomento; si evita di dare rilevanza a quel periodo della sua vita. (…) Durante l’infanzia di Nicolae Ceausescu, nella casa dove abitava, c’era una sola stanza riscaldata, e qui d’inverno si ammucchiava tutta la famiglia. Non c’erano letti né mobili. Non ci sarebbe stato posto per questi arredi. Lungo le pareti erano disposte brande con stuoie di canne, sulle quali i genitori dormivano assieme ai figli. (…) Fra i figli dei Ceausescu ce ne sono due che hanno lo stesso nome: un primo Nicolae, che è oggi presidente della repubblica di Romania, e un secondo Nicolae, il più giovane dei dieci figli, per il quale i genitori non vollero sforzarsi di pensare un nome diverso. (…)

Il mondo nel quale Nicolae Ceausescu è nato, terzo figlio di poveri contadini del bacino del fiume Olt, era squallido. La miseria dei contadini, nella Romania fin dopo la seconda guerra mondiale, non era paragonabile a quella d’alcun altro paese europeo. Tutt’al più certi paesi sudamericani potevano stare alla pari, in fatto di povertà, con la popolazione rurale rumena. Nelle case dei contadini - che disponevano di poca terra da coltivare e che spesso non ne avevano affatto - il pane si mangiava solo nei giorni di festa. Il principale alimento di milioni di persone era la mamaliga, una polenta a base di mais. E questo accadeva anche nella famiglia di Andrea Ceausescu, nel piccolo villaggio di Scor-nicesti, sul fiume Olt. Negli anni di siccità, che si succedevano con deprimente regolarità, le scarse provviste non bastavano nemmeno per questo misero cibo. (…) La mortalità infantile era elevata. Ancora nel 1930, su cento bambini nati vivi, circa un quinto moriva nei primi mesi di vita.

Mi sono informata presso il biografo per sapere che impressione gli aveva fatto, vent’anni prima, il dittatore che io conosco solo per come appare, figura spettrale e abulica, nel film girato durante il suo processo. Il pubblicista - che lo aveva personalmente intervistato a suo tempo e al quale era stata anche data la possibilità di visitare Scornicesti, villaggio natale del dittatore -mi ha riferito che non c’era modo di indurre Ceausescu a raccontare dei fatti. Non appena l’intervistatore gli chiedeva notizie precise, per esempio relative alla sua infanzia, rifiutando d’accontentarsi degli slogan ideologici sul «fiorente avvenire» della Romania che gli erano propinati, avvertiva come il materializzarsi d’un muro invalicabile fra sé e l’interlocutore. Nelle conversazioni Ceausescu era rigido, diffidente e non rideva mai. Soltanto in presenza dei fotografi inalberava un sorriso di maniera. Quanto profondamente erano rimosse dalla coscienza del dittatore le follie del padre alcolizzato, tanto si sfogava invece, vistosa e brutale, l’ubriachezza del figlio. Ceausescu si divertiva a lanciare contro le pareti, sfiorando le teste delle persone presenti, bottiglie ancora piene di whisky (cfr. lon Pacepa, Horizons rouges, Parigi 1987).

Chi ha seguito negli ultimi anni i servizi televisivi sul dittatore della Romania, conosce il caratteristico movimento che Ceausescu faceva con le mani: pareva il movimento dei tergicristalli d’una automobile.

Nell’osservare quel gesto, specialmente nella situazione ormai disperata in cui si trovava, durante le ultime manifestazioni di massa, avevo l’impressione che cercasse di cancellare dei ricordi, di spazzare via dei fatti, per garantirsi la possibilità di proseguire indisturbato il suo cammino, benché paure sempre maggiori, simili a fastidiosi insetti, s’accumulassero sul suo «parabrezza». E la mano che levava per salutare le masse mi ricordava il gesto di un adulto in procinto di picchiare il proprio figlio (il popolo rassegnato!). Anche nell’«Heil» di Hitler c’era indubbiamente lo stesso lontano retroscena. In fondo i movimenti di qualsiasi dittatore ne tradiscono la paura repressa.

Purtroppo i gesti di Ceausescu non sono stati gli unici modi in cui si sono esternate le rimosse torture della sua infanzia. Nella sua tirannia ha trovato modo d’esprimersi tutto quello che i nove figli sopravvissuti dei Ceausescu avevano accantonato nel buio dell’oblio e non volevano a nessun costo ricordare: così, fra l’altro, lo stato di assoluto controllo al quale non si erano mai potuti sottrarre, accatastati com’erano in un’unica stanza; l’ipocrisia dell’educazione religiosa; e la frenesia di mettere al mondo altri figli cui non c’era altro da offrire che insofferenza, incapacità di fronteggiare la situazione familiare, miseria e mancanza d’affetto.

Un bambino libero si sarebbe chiesto, forse: perché i nostri genitori continuano a fare tanti figli, se poi non hanno altro da offrir loro che fame e freddo, e se hanno così scarsa considerazione di loro da dimenticarne perfino i nomi? Un bambino maltrattato, invece, non può nemmeno porsi simili domande.

Crede a quello che gli si dice: e cioè che è Dio a volere che nascano tanti bambini. L’esistenza di tutti quei figli non desiderati, abbandonati a se stessi e maltrattati va insomma attribuita a Dio, un Dio il quale - evidentemente - si rallegra della moltitudine di bambini affamati e infreddoliti. E ciò che Dio vuole non si può notoriamente discutere: occorre assecondare la sua volontà anche quando appare assurda. «Evidentemente dietro queste e altre situazioni deve esserci un senso nascosto che ci sfugge»: così pensa molta gente pia (cfr. capitolo n, 4). Ceausescu, palesemente, non ha mai messo in discussione la sua infanzia, i genitori e il concetto che aveva di Dio; è da presumere anzi che ritenesse se stesso

«mandato da Dio». Altrimenti «il genio dei Carpazi» non avrebbe costretto i suoi connazionali a riprodursi in un modo così dissennato, generando una moltitudine di figli destinati a un’esistenza di miseria.

Una volta arrivato al potere coll’aiuto dell’ ideologia comunista, Ceausescu ha fatto di se stesso un «Dio dall’assurda volontà». Ha imposto a tutta la Romania la stessa sua sorte: una moltitudine di bambini che la gente era costretta a mettere al mondo dalla follia di un divino dittatore, senza poterli nutrire e riscaldare. Esattamente come i preti e l’istituto della confessione avevano provveduto a Scornicesti al rispetto delle imposizioni divine, in seguito è stata la «Securitate» a svolgere la mansione di sorvegliare gli uteri delle donne, di tenerli continuamente sotto controllo, di provvedere affinché il «divino»

desiderio del dittatore d’avere famiglie con numerosi bambini esposti al freddo e alla miseria fosse sempre esaudito. Alle donne non doveva in nessun caso restare del tempo da dedicare ai figli, le si distoglieva immancabilmente da questo compito mediante nuove, continue gravidanze coatte. Si voleva che succedesse a loro quello che era accaduto alla madre di Ceausescu che, costretta dal marito alcolizzato a subire continue gravidanze, aveva dovuto lasciare che i figli crescessero nella miseria. Il tiranno s’è vendicato della sua sorte personale su oggetti sostitutivi costituiti da migliaia di madri, di padri e di bambini. Rifiutandosi di confrontarsi con la sua sorte, rimuovendo totalmente la sua storia e le sue passate emozioni, ha portato un intero popolo sull’orlo della rovina.

Ceausescu ha costretto i bambini rumeni a subire le stesse sue passate sofferenze: la mancanza di affetto, la fame, il freddo, gli ossessivi controlli e la onnipresente ipocrisia. Rivalendosi sulle donne rumene si è inoltre inconsapevolmente vendicato della madre che invece consapevolmente glorificava senza riserve. Voleva costringere alla maternità milioni di donne pur di non dover mai provare ciò che aveva rimosso da bambino: e cioè che per sua madre lui era stato soltanto di peso, e che la madre si era og-gettivamente dimenticata della sua esistenza.

Oggi i giornali occidentali riferiscono quanto era stato a lungo tenuto accuratamente nascosto all’estero: la campagna avviata dall’inizio degli anni Settanta, con l’aiuto della polizia segreta, per incrementare le nascite, è costata la vita a migliaia e migliaia di madri e di bambini. Le madri morivano per lo più d’infezioni. Ai medici — pena la condanna a sette anni di carcere e il divieto d’esercitare la professione -

era proibito praticare aborti. Spesso potevano curare le donne ricoverate negli ospedali, affette da gravi lesioni conseguenti a illegali interventi abortivi, solo se queste denunciavano i nomi di coloro che le avevano aiutate a tentare l’aborto. Ci sono state donne in preda a emorragie che hanno pagato con la vita il rifiuto di parlare.

Queste e altre informazioni chiariscono sempre di più che il dittatore aveva organizzato un sistema capillare per sorvegliare e perseguitare continuamente l’intera popolazione, sino a farne la sua principale occupazione.

Verso la metà di gennaio del 1990 un team della televisione tedesca ha riferito per la prima volta del reparto infantile d’un ospedale di Timisoara che il personale addetto chiamava «reparto Auschwitz» e di cui in città si osava parlare solo di nascosto. In quel reparto si lasciava che neonati malati o malnutriti vegetassero miseramente. E l’ordine era stato impartito da Ceausescu in persona. I bambini ricoverati sembravano quelli dei territori colpiti da carestie nel Terzo mondo. Facevano loro mancare il cibo intenzionalmente, erano infilati per lo più a due per volta nelle incubatrici che tuttavia erano riscaldate solo nei periodi in cui il personale non staccava la corrente. Negli altri momenti, con temperature esterne che scendevano anche fino a 25 gradi sotto zero, i neonati giacevano semiscoperti nei loro lettini. Erano insomma abbandonati a se stessi e a morte sicura sotto gli occhi delle infermiere e dei medici.

Questi medici e queste infermiere, condannati a essere testimoni passivi della morte dei bambini, facevano parte dello scenario d’una storia rimossa. I genitori di Ceausescu non erano forse stati a loro volta testimoni delle sofferenze e della miseria dei loro figli, senza riuscire mai a rendersi conto della loro responsabilità?

In La persecuzione del bambino ho esaurientemente dimostrato quale «logica» fosse sottesa alle disumane leggi del Terzo Reich. Ho potuto dimostrare come la presenza d’una zia schizofrenica nella stessa casa in cui Hitler era cresciuto, durante tutta l’infanzia del dittatore, rientri tra i fattori che contribuirono alla decisione di varare la feroce legge dell’«eutanasia». Ed è stato illuminante per me apprendere che era stato il sospetto d’una discendenza ebraica del padre - che era un figlio illegittimo - a innescare il folle odio antisemita di Hitler. Il quale, tuttavia, non aveva mai consapevolmente odiato né il padre, né la zia malata.

Eppure molti superstiti ammiratori di Hitler e della sua ideologia si ostinano nel non trarre le conseguenze che scaturiscono da questi dati di fatto. Preferiscono tuttora attenersi a spiegazioni razionali della «politica» di Hitler.

Diverso è il caso di Ceausescu, che non aveva seguaci o ammiratori. Era un assurdo, autocratico «Dio»

e gli uomini della «Securitate» fungevano da suoi sacerdoti. Caduto lui, la sua «chiesa» si è dissolta. Ciò che resta sono le sofferenze d’una popolazione terrorizzata per decenni, sofferenze che possono essere ora fortunatamente esperite e rivissute consapevolmente senza dover essere rimosse. E quanto rimane è uno smisurato orrore.

Però non riusciremo a impedire che tutto questo si ripeta in futuro se ci limiteremo a inorridire. Dobbiamo andare sufficientemente a fondo del fenomeno, capire come abbia potuto sorgere e come vi sia la possibilità che si ripeta, in presenza di determinate circostanze e se continueremo a tenere chiusi gli occhi.

Dai crimini commessi da Ceausescu si può desumere che la sua carriera politica è stata fin dall’inizio dominata dall’idea della redenzione attraverso la violenza. In assenza d’una infanzia come la sua, nessuno diventa un dittatore. Esattamente come Hitler, Stalin e altri, Ceausescu deve essersi sentito dire in continuazione, da bambino, che lo picchiavano, lo torturavano, lo derubavano, lo sorvegliavano, che infierivano su di lui fin nel profondo dell’animo solo «per il suo bene»: e senza che potesse mai smascherare questa menzogna. Ed è questa menzogna mai smascherata che diventa poi il principio ispiratore di un tiranno.

Senza l’aiuto d’un testimone soccorrevole un bambino maltrattato non riesce a considerare la violazione della propria integrità come una mutilazione psichica. È convinto che il padre, quando lo bastona, sia animato dalle migliori intenzioni. Anche Jean-Marie Le Pen, il leader dei radicali di destra francesi, si è espresso in televisione a favore delle punizioni corporali da infliggere ai bambini, e ha raccontato di essere grato al padre e al nonno delle innumerevoli pedate che gli hanno dato quando era bambino. Simili affermazioni non devono stupire perché, a ben considerare, sono coerenti con la mentalità imposta al bambino maltrattato, il quale sa di esporsi a pericolo mortale se dubita delle «buone intenzioni» con cui gli sono inflitte le sofferenze che patisce: per sopravvivere deve rimuovere tutti i dubbi.

Ma a quali esiti porta questa rimozione nella persona adulta che anche in seguito si rifiuta di rinunciarvi? Lo possiamo dedurre dall’esempio costituito da tutti i tiranni: si radica e si rafforza in loro, sempre di più, l’opinione di poter educare, riscattare, redimere, liberare un popolo solo umiliandolo, dominandolo, schiavizzandolo, derubandolo, irridendolo e costringendolo al silenzio, esattamente come avevano fatto un tempo i genitori nei loro cofronti. E a questo punto tutto dipende dalla capacità del popolo di capire e di reagire: è possibile che si comporti con la stessa ingenuità delle «sette caprette» della favola di Grimm, alle quali bastava l’esibizione d’una finta zampetta bianca per credere che il lupo fosse la loro buona mamma; ma è anche possibile che questo popolo abbia imparato a sufficienza dal proprio passato e da quello di altri popoli per sapere che dalla sistematica distruzione della vita, della libertà, della verità e dell’essere umano non e mai scaturita nessuna redenzione.

La maggioranza non coglie tuttavia quanto è assurda e incoerente l’accoppiata formata dall’intento dichiarato (quello di voler aiutare) e dalla violenza praticata, e questo perché c’è una lunghissima tradizione che ne avvalora l’assurdità. La si legge già nei detti di Salomone: «Chi risparmia la verga, odia suo figlio; chi lo ama, lo punisce».

Fin dall’Antico Testamento la connessione fra l’amore asserito e la «redenzione» perseguita mediante crudeltà e violenza era spacciata come voluta da Dio. Nel corso del suo — troppo breve, purtroppo — processo, Ceausescu, un figlio di contadini, ha detto di aver voluto distruggere ottomila villaggi rurali, belli e antichi, solo per costruire ospedali e scuole destinati al popolo: a quello stesso popolo che era costretto a soffrire la fame e il freddo per consentire al «padre grande e buono» di costruirsi fastosi palazzi. Anche il piccolo Nicolae Ceausescu e i suoi fratelli avevano a suo tempo dovuto soffrire la fame e il freddo perché il loro irresponsabile genitore potesse pagarsi la sua grappa all’osteria.

Anche se potevo benissimo figurarmi per conto mio, fin nei dettagli, le cause originarie della palese ipocrisia del dittatore, mi sono ugualmente proposta di raccogliere e di illustrare in questo libro alcuni fatti risalenti all’infanzia di Ceausescu, tali da poter documentare adeguatamente il mio concetto.

Ho dunque cercato ulteriori informazioni sull’infanzia dell’uomo che, nella nostra epoca, ha dato prova d’una sconfinata, quasi inconcepibile mania di distruzione. La maggior parte dei giornalisti, dei politologi e degli storici che ho interpellato mi hanno tuttavia dichiarato — come era da prevedere — di non saper nulla di quest’infanzia: l’argomento stesso è parso loro del tutto irrilevante. Alcuni giornalisti, che hanno trascorso parecchi anni a Bucarest, hanno saputo riferirmi solo alcune dicerie, senza però potermene indicare le fonti precise. Tuttavia, in questo modo, ho appreso cose che in Romania erano evidentemente note da tempo, ma alle quali nessuno aveva dato particolare peso.

Un esempio: quando aveva quindici anni l’apprendista calzolaio Nicolae Ceausescu usava andare a vagabondare alla stazione ferroviaria di Bucarest, dove rubava quello che gli capitava sotto mano. Così un giorno rubò una valigia che conteneva pubblicazioni marxiste. E quello - secondo la versione corrente - fu il suo primo contatto col partito comunista. Non si può ancora stabilire con certezza, oggi, se l’arresto che seguì fosse avvenuto per il furto, oppure perché - come si legge nelle biografie ufficiali -

si fosse voluta punire la sua fresca adesione al partito comunista. È comunque assodato che fu incarcerato per diversi anni, e pare che abbia sopportato la dura prigionia - con ripetute torture e privazioni di cibo - senza manifestare emozione alcuna.

Quand’anche questa fosse solo la personale versione dei fatti del dittatore, vi si rispecchia comunque l’orgoglio del bambino un tempo maltrattato di saper reprimere e rimuovere i propri sentimenti: un tipo d’orgoglio che conosciamo già dall’esempio di Adolf Hitler e che ha indotto entrambi questi folli alla distruzione e alla eliminazione d’ogni compassione. L’«indifferenza» di Ceausescu in prigione, del resto attestata anche da suoi ex compagni di detenzione, era già una conseguenza delle violenze che abeva subito e poi rimosso durante l’infanzia.

Alla mia domanda di come fosse possibile che avesse un fratello anche lui di nome Nicolae, mi è stato ripetutamente risposto che il padre, quando era andato a far registrare dall’anagrafe la nascita del secondo Nicolae, era - «come gli capitava spesso» -ubriaco. Pare insomma che avesse dimenticato di avere già un figlio con quel nome. Però nessuno ha saputo spiegarmi come mai la madre abbia potuto dimenticare anche lei, evidentemente, questo elementare dato di fatto.

La storia dei due fratelli Ceausescu con lo stesso nome passava di bocca in bocca a Bucarest, senza che nessuno si soffermasse ad analizzarla. Eppure è indubbio che questo episodio fornisce la chiave per comprendere il maniacale esibizionismo del dittatore: non era altro che lo smisurato, assurdo sforzo di procurarsi finalmente quella attenzione di cui aveva sentito da bambino la totale mancanza. Forse la sua storia sarebbe stata diversa se non si fossero completamente dimenticati di lui in occasione del battesimo del fratello. Così invece l’individuo adulto ha cercato di compensare l’umiliazione sofferta con ogni mezzo di cui poteva

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disporre: in tutti i numerosi edifici statali della Romania, musei e biblioteche compresi, c’erano sempre alcuni uffici riservati a Ceausescu, il quale voleva, in questo modo, attestare in un certo senso la sua onnipresenza. Allo stesso scopo serviva il suo ritratto, che ogni cittadino doveva tenere ed esporre in casa: l’esistenza di Nicolae non doveva essere dimenticata da nessuno, nemmeno per un istante. Eppure tutto questo non gli è bastato: era ancora troppo poco per appagare un bisogno alle sue origini del tutto normale, naturale e poi però anche rimosso, e cioè il bisogno del bambino di essere notato, riconosciuto, lodato e preso in considerazione, il bisogno che il suo nome e la sua esistenza non fossero mai più dimenticati nel modo radicale, offensivo e umiliante mostrato dai suoi genitori.

Un bambino maltrattato non ha possibilità di coltivare coscientemente questo bisogno e, se non glielo si soddisfa, lo deve rimuovere. L’adulto, in seguito, può revocare la rimozione se smette di negare la sofferenza patita, e può tentare di soddisfare questo bisogno importante, primario, in modo legittimo, non distruttivo. Può però anche rifiutarsi di confrontarsi con la verità della sua infanzia, continuare a negare la lesione sofferta e -come Ceausescu e altri suoi simili - costringere con la violenza altre persone a soddisfare i suoi bisogni primari rimasti inconsci, anche quando questo può costar loro la vita.

Però è un conto che non quadra. Ciò di cui si è sentita la dolorosa mancanza nell’infanzia non si può ricuperare in seguito con l’esaudimento di surrogati del bisogno originale. Anche quando l’illusione alimentata dal potere raggiunto assume dimensioni spropositate, il numero delle vittime resta sempre insufficiente per appagare l’inconscia, omicida furia del bambino traumatizzato cui non era stato concesso di vivere. Lo hanno dimostrato le «vittorie» di Hitler, Stalin e Ceausescu. Giunti al culmine del potere, questi uomini hanno in sostanza continuato a temere le botte del padre, quelle botte che hanno conferito una logica privata alla loro mania di persecuzione. Hitler ha fatto distruggere in Austria il suo luogo d’origine, e Ceausescu voleva distruggere le fattorie dei contadini per «liquidare» in questo modo il suo passato. Per fortuna i rumeni sono riusciti a liberarsi del mostro prima che fosse troppo tardi.

Perché questo processo di liquidazione non avrebbe avuto fine.

Sia il dittatore, sia sua moglie erano convinti di essere i migliori genitori del loro popolo, anche quando lo torturavano. Era una «missione» che avevano appreso assai precocemente dai loro genitori e la consideravano assolutamente legittima. Lo hanno dimostrato le ultime parole di Elena Ceausescu prima dell’esecuzione. Quando i soldati si sono accinti a legarle le mani, si è rivolta a loro esclamando: «Ragazzi, pensate che sono stata per vent’anni come una madre per voi; non dimenticate tutto il bene che vi ho fatto».

Anche nel corso del processo Elena aveva sostenuto di essersi «sacrificata» fin dall’età di quattordici anni per il suo popolo. E non era palesemente consapevole del cinismo di queste asserzioni, perché aveva appreso da bambina a credere a simili affermazioni dei suoi genitori e si aspettava che anche l’«a-mato popolo» le credesse.

In che cosa è consistita la «premura» materna e paterna dei coniugi Ceausescu per la loro amata vittima, il popolo? A sentir loro, probabilmente, nel divieto di abortire e di usare mezzi di contraccezione. L’aborto legale era consentito solo alle donne oltre i quaranta anni che avessero già almeno cinque figli. Di fatto, in pratica, una possibile conseguenza era questa: una madre di sette figli che non avesse ancora quaranta anni e che fosse ricoverata in ospedale in seguito a un’emorragia insorta durante un tentativo di aborto clandestino, non era curata e assistita perché il personale ospedaliere temeva di incorrere in sanzioni. Si lasciava che quelle madri morissero dissanguate, e i sette figli finivano all’orfanotrofio. Comprensibilmente, gli orfanotrofi erano sovraffollati, ed è anche noto che proprio lì, negli orfanotrofi, il dittatore andava a cercare i bambini da allevare per farne uomini della «Securitate». E non è tutto. Altri bambini erano letteralmente venduti ai paesi capitalisti occidentali perché fossero adottati, e la valuta estera ottenuta in questo modo era utilizzata per finanziare la lussuosa e dispendiosa vita della famiglia del tiranno. Ci si chiede: ma non è un’indegnità trarre profitto dalla vendita di bambini? Eppure la follia non finiva qui. Il divieto dell’aborto era anche altrimenti motivato, nel senso che Ceausescu voleva che la popolazione della Romania salisse fino a trenta milioni d’individui, per diventare così un grande popolo. E questo perché il popolo cui era stato dato in sorte un grande tiranno doveva essere «grande» a sua volta.

Di fronte a notizie simili, certa gente ha reazioni di totale sconcerto: ed è comprensibile. Eppure questa stessa gente non mostra nessuno sconcerto quando un adulto malmena un bambino, lo prende a calci e gli urla:

«T’insegnerò io a comportarti come si deve, e un giorno mi ringrazierai!». È fuori di dubbio che l’alcolizzato padre di Ceausescu, il tiranno che regnava su tanti figli, facesse discorsi simili. Ed è altrettanto indubbio che Elena e Nicolae Ceausescu fossero profondamente grati ai loro genitori dei maltrattamenti subiti da bambini, e li tenessero in massima considerazione. Il conto è stato presentato poi all’«amato» popolo, dal quale si aspettavano, a loro volta, gratitudine per le persecuzioni che gli infliggevano.

Se la psicodinamica dei maltrattamenti inflitti all’infanzia fosse oggigiorno universalmente conosciuta, un uomo dello stampo di Nicolae Ceausescu non sarebbe mai riuscito a sfruttare per venti anni un intero popolo, a umiliarlo, a pretendere d’educarlo in modo da farne una congerie di schiavi plaudenti, e a presentarsi poi anche come il liberatore di questo popolo. Nel suo regime erano riconoscibili tutti gli elementi della tirannia esercitata impunemente in tutto il mondo sui bambini che si autoqualifica come «educazione» e con concetti quali «lo faccio per il tuo bene». Espropriazione, sfruttamento, controllo totale, tortura, umiliazione, disprezzo, maltrattamento, abuso, accecamento, persecuzione, paura imposta col terrore, menzogna, distorsione della verità, manipolazione e spietata crudeltà psichica: ecco le componenti di questa tirannia offerta col sorriso e con promesse salvifiche.

Le bambinelle incaricate di acclamare il dittatore durante le parate, per esempio, erano costrette ad aspettare per ore e ore, vestite solo d’una camiciola bianca anche quando la temperatura era di 20 gradi sotto lo zero: dovevano patire il freddo perché l’illustre «padre» dello Stato era dell’opinione che «l’effeminatezza danneggia il carattere». Nel vocabolario pedagogico dei nostri padri simili asserzioni erano all’ordine del giorno, e oggi soltanto si constata che in realtà indoravano ed esaltavano una forma crudele e sadica di persecuzione.

Quando il suo regime era ormai prossimo alla fine, tutti sapevano che Ceausescu era un paranoico. Ma nessun uomo politico si è posto la domanda: come e diventato un paranoico? Solo quando si osa formulare questa domanda si può ottenere una risposta anche a un altro, per noi fondamentale quesito: come impedire che folli simili vadano al potere?

Chi avesse l’occasione di analizzare nei dettagli l’infanzia di Ceausescu, potrebbe facilmente dimostrare come si è innescata la micidiale furia distruttrice che si è in seguito palesata nelle sue pretese salvifiche. E ciascuno di noi, anche sulla base delle sole documentazioni televisive, può farsi un quadro dei sacrifìci coi quali, ancora una volta, un’intera nazione ha pagato la nostra cecità di fronte a questo meccanismo di riproduzione della violenza.

Il nostro pianeta è popolato da innumerevoli individui che rivelano la struttura caratteriale d’un Hitler o d’un Ceausescu, e distruggono la vita altrui ogni qual volta se ne offra loro l’occasione. Noi possiamo e dobbiamo impedire di finire noi stessi, in futuro, alla mercé di simili persone, perché oggi potremmo disporre delle informazioni necessarie per prevenirlo.

Come si possono riconoscere questi individui? Soprattutto dal fatto che spacciano la schiavitù come una benedizione per coloro che vi sono assoggettati, e i propri delitti come azioni compiute nell’interesse e per il bene di questi schiavi. Se si tiene ben presente il linguaggio ingannevole e manipolatorio della pedagogia tradizionale e si sa quali devastazioni può causare, ci si può difendere con successo dai potenziali futuri tiranni, i quali -sempre e senza alcuna eccezione - si avvalgono appunto del linguaggio proprio della pedagogia tradizionale. Finché la gente non avrà imparato a vedere il carattere menzognero di questo linguaggio, per riconoscerlo poi - e rifiutarlo -

nei discorsi degli uomini politici dalle pretese «salvifiche», questi ultimi continueranno a spuntarla. La convinzione di poter torturare un bambino e sostenere nel contempo di farlo per il suo bene era ancora così diffusa e radicata nell’ultima generazione che i più assurdi costrutti mentali degli stalinismi d’ogni specie hanno potuto trovare un posto di riguardo nella considerazione di numerose persone. Per fortuna la generazione più giovane -

meno esposta alla violenza e alle insensatezze - ha potuto smascherare queste menzogne, rifiutarle,

«detronizzarle», e spianare la strada alla democrazia.

Molti governanti e noti uomini politici, responsabili delle sorti d’intere nazioni, hanno incontrato Ceausescu. Lo hanno accolto con tutti gli onori, gli hanno dimostrato simpatia e perfino amicizia, senza che nessuno di loro si sia evidentemente accorto di avere a che fare con un campione - e della peggior specie di brutalità, falsità, violenza, di ridicolo snobismo e di vuotaggine mentale. Questa forma di disponibile complicità è dipesa forse dal fatto che taluni di questi signori hanno a loro volta approfittato delle raffinate menzogne e degli intrighi di Ceausescu? Può darsi che così sia stato per molti uomini politici: ma sicuramente non per tutti.

Tuttavia, contrariamente a giovani uomini politici di oggi, essi erano ancora per la maggior parte figli della

«pedagogia nera». L’uomo che passava le sue serate a guardare film su Napoleone oppure telefilm polizieschi, non aveva quasi altro per la testa che riuscire a spacciarsi per il «genio del secolo» sulla pelle degli altri. Escogitare piani in tal senso era la sua occupazione quotidiana. Secondo Pacepa, capo della «Securitate» fino al 1973, Ceausescu discuteva con lui di questi progetti «in giardino, fra le rose», e questo perché anche Ceausescu temeva, già allora, i microfoni-spia che egli stesso aveva fatto installare (cfr. lon Pacepa, Hori-zons rouges).

Il racconto dell’ex uomo della «Securitate» va certo letto con riserva, anche se quello che riferisce nel libro è stato ora, nel complesso, confermato da quanto si è saputo dopo la rivoluzione. Comunque sia, chi legge questo libro non riesce quasi a concepire come tanti famosi personaggi politici abbiano potuto dimostrare, di fronte al caso Ceausescu, un assoluto analfabetismo psicologico. Ci rifiutiamo in un certo senso di prendere atto di questi fatti, di crederci, poiché la vita di tante persone è tuttora affidata proprio a questi personaggi politici. Vorremmo che quello che apprendiamo non fosse vero. Però lo è.

A confermare questa verità sono i bambini nei reparti della fame. I loro visi straziati sono inoltre la prova vivente del fatto che la campagna agguerrita a «tutela della vita non nata» non scaturisce necessariamente dall’amore per il prossimo e dai sentimenti umanitari. Essa deriva purtroppo, fin troppo spesso, dall’odio di coloro che non sono stati desiderati né amati, che come Ceausescu non hanno mai potuto vivere nella loro infanzia una vera vita, e che intendono concedere anche agli altri bambini solo quella condizione di esseri umani non amati e non desiderati. A questo odio devono la loro esistenza i bambini nei reparti della fame. Riceveranno mai quel affetto di cui avrebbero bisogno per non dovere, in futuro, vendicarsi della loro terribile sorte a spese di innocenti?

IL BAMBINO MALTRATTATO NELLE «LAMENTAZIONI DI GEREMIA»

È assai difficile riuscire a figurarsi bene la situazione del piccolo bambino totalmente esposto all’arbitrio e non raramente alla follia dell’adulto. È una follia che può perfettamente coincidere con una brillante posizione sociale dei genitori, tanto da non dare affatto nell’occhio. I padri possono essere anche persone che rivestono incarichi di elevata responsabilità, che godono ovun-que di massimo rispetto: e che pure sfogano sui loro figli le torture rimosse della loro infanzia. Lo stesso vale per le donne. Esistono donne che hanno fama d’essere buone madri, e che invece sono completamente cieche di fronte ai bisogni del figlio, perché hanno imparato, da bambine, che i bisogni dei bambini, molto semplicemente, non contano niente. Non hanno mai avuto protezione, cura amorevole, orientamento e tenerezza dalle loro madri, e hanno dovuto reprimere i propri bisogni. E così sono cieche di fronte alle esigenze dei loro figli, a meno che questa cecità non si dissolva grazie a nuove, positive esperienze coi

loro mariti.

Analizzando il dramma Lungo giorno verso la notte di Eugene O’Neill ho mostrato una madre che s’aggrappa a tal punto all’immagine idealizzata del padre alcolizzato da dover pagare questa forma d’autoinganno non solo con la propria dipendenza dalla droga, ma con l’annichilimento dei suoi stessi tre figli (cfr. L’infanzia rimossa, cap. i, 6).

Se anche noi abbiamo dovuto subire, da bambini, una simile forma d’inferno familiare, da adulti preferiamo non ricordarlo, evitiamo di calarci nella condizione d’un bambino infelice anche se noi stessi siamo stati un tempo come quel bambino. E anche quando lo vogliamo fare, andiamo inizialmente a urtare contro barriere interiori perché, da adulti, non ci troviamo quasi mai in una situazione che possa paragonarsi allo stato di tremendo abbandono cui il bambino è invece spesso esposto senza disporre d’una benché minima via d’uscita.

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Esistono comunque nella letteratura, nelle arti figurative e nelle favole alcune testimonianze di questo stato infantile di totale abbandono: sennonché gli adulti autori di queste opere non si rendevano concretamente conto di che cosa comunicavano. Ho cercato di dimostrare, nel Bambino inascoltato, che la verità del bambino maltrattato trova ripetutamente modo d’esprimersi nelle favole e nella letteratura. Però questo avviene solo mediante trasfigurazioni simboliche della realtà, poiché i vari narratori e poeti non hanno voluto compromettere la loro rimozione. E quindi non sapevano che le realtà rimosse superavano di gran lunga le loro anche più terribili fantasie.

Sulla base dei romanzi e dei racconti di Kafka ho cercato di mostrare come egli vi abbia inconsciamente raccontato la verità della sua prima infanzia, una verità che gli è però rimasta del tutto celata a livello di coscienza: e questo nonostante l’atteggiamento critico che Kafka pure assunse a un certo punto nei confronti del padre. Il castello ci informa sulla condizione d’un bambino non desiderato e continuamente ingannato; II processo sui tormenti d’un senso di colpa innominato eppur sempre presente; Nella colonia penale sulla follia del sistema punitivo cui è esposto il bambino ignaro; L’artista del digiuno sulla mai appagata fame di rapporti affettuosi; La metamorfosi sulla condizione d’un bambino non amato, non capito e abbandonato.

Con riferimenti alle opere di Gustave Flaubert, Samuel Beckett e altri si è potuto dimostrare che i poeti hanno la possibilità di aiutare la loro verità a manifestarsi, almeno in parte e in forma simbolica: senza preoccuparsi tuttavia delle sottese realtà nascoste, e quindi alla fin fine senza nemmeno assumersi la piena responsabilità di ciò che svelano. Di conseguenza queste testimonianze di verità non offrono un concreto contributo per destare l’umanità dal suo sonno pericoloso.

Testimonianze di questo genere non si trovano soltanto nella letteratura moderna. L’esercizio del potere dell’adulto sul bambino indifeso (che arrivava spesso anche all’infanticidio legalizzato) e il disprezzo per la sua personalità, che è poi l’esperienza decisiva offerta dalla maggior parte delle culture (e spero proprio che non lo sia di tutte), si rispecchia negli scritti di queste culture. Nell’Antico Testamento, per esempio, ritroviamo gli stessi modelli pedagogici che conosciamo così bene per averli subiti nella nostra stessa educazione: sanzioni inflitte per punire l’indisciplina, l’infedeltà e l’adorazione di altre divinità (cfr. Il bambino inascoltato, pagg. 233 e seguenti); promesse di ricompense e di riscatto per premiare l’ubbidienza; esplosioni di collera e di furia distruttrice. E - dall’altra parte - il bambino indifeso e la sua totale dipendenza dall’adulto, le cui esplosioni di collera devono essere subite con passiva umiltà perché la realtà costituita dalla crudeltà dell’adulto è così inconcepibile che il bambino deve continuamente negarla per sopravvivere.

Gli adulti che abbiano dimenticato in quali condizioni sia iniziata la loro esistenza e si attengano alla rimozione di quelle esperienze, non sanno più come si sentiva il piccolo bambino accanto ai suoi onnipotenti, severi e capricciosi genitori. Eppure molte di queste persone leggono, ogni mattina e ogni sera, brani della Bibbia; li leggono anche ai figli e vi trovano conferma che la loro educazione all’ubbidienza è stata assolutamente giusta. Continuano ad aspettare la redenzione, la liberazione che è stata loro in passato promessa dai genitori. E se questa non arriva, se ne addossano la colpa. Cercano conforto nella Bibbia perché li conferma nella loro antica speranza che Dio o i genitori provvederanno, benché questo sia continuamente contraddetto dalla realtà. Sperano che le crudeltà patite siano solo la giusta punizione della loro stessa cattiveria. Una cattiveria che si può correggere, eliminare, facendo qualcosa per essere apprezzati e amati da Dio: andare in chiesa, fare la carità, pregare, praticare il digiuno e l’astinenza. L’idea di dipendere da un Dio capriccioso, ingiusto e imprevedibile è invece insopportabile, perché non ci si può far niente. È inconcepibile e si cerca una via di scampo nella fede, nell’illusione che in fondo le cose siano completamente diverse da come l’esperienza le mostra e dimostra.

Questa è la condizione in cui si trovano molti bambini. Si aggrappano all’illusione di poter essi stessi modificare in qualche modo la loro condizione — la condizione dell’essere disprezzati, abbandonati, maltrattati e ingannati — a patto di metterci sufficiente impegno. E di fatto si adoperano, s’impegnano, cercano di perdonare tutto il male che subiscono, pur di essere finalmente - finalmente! - apprezzati e amati.

Nelle pagine che seguono cito alcuni passi dalle Lamentazioni di Geremia risalenti al vi secolo avanti Cristo: l’autore vi insorge contro la crudeltà come un bambino ancora forte, ancora capace di sentire e di vedere, che continua a cercare consolazione nel pensiero che i tormenti che gli si infliggono sono soltanto una punizione giusta e necessaria delle mancanze che ha commesso .1

12. Voi che passate per la strada, rendetevi conto, guardate la sofferenza che il Signore mi ha inflitto quando la sua collera è esplosa. Il mio è un dolore troppo grande, non c’è sofferenza che sia pari alla mia.

13. Ha mandato un fuoco dall’alto e l’ha fatto penetrare in me. Ha teso una trappola ai miei piedi e mi ha fatto cadere. Mi ha abbandonato e mi ha reso infelice per sempre.

14. Egli tiene d’occhio le mie colpe; le ha annodate l’una all’altra con la sua mano, e le ha appese al mio collo come un giogo. Il Signore ha paralizzato la mia forza, mi ha consegnato ai miei nemici, senza ch’io potessi opporre resistenza.

15. Il Signore ha ripudiato con disprezzo tutti i miei eroi. (…) 18. Il Signore ha avuto ragione nel punirmi perché mi sono ribellato ai suoi comandi. Ascoltate voi, popoli tutti, e guardate la mia sofferenza. (…)

19. Ho chiamato quelli che mi amavano, ma essi mi hanno tradito. (…) 20. Signore, guarda la mia angoscia, guarda come sono sconvolto. Il mio cuore si è spezzato perché sono stato ribelle. (…)

21. Senti come sospiro, nessuno mi consola. Tutti i miei nemici hanno visto la mia sventura, e son contenti di quel che mi hai fatto. Manda il giorno che hai annunziato e allora essi avranno la mia stessa sorte!

22. Considera bene tutti i loro delitti e tratta anche loro come hai trattato me per tutte le mie colpe.

Nient’altro mi resta che sospirare e il mio cuore è affranto. (…) II

11.1 miei occhi si sono consumati per il troppo pianto, sono profondamente sconvolto (…).

1 La versione italiana delle Lamentazioni è quella offerta dalla «traduzione in-terconfessionale in lingua corrente» della Bibbia, più simile a quella tedesca usata dall’autrice rispetto all’edizione ufficiale cattolica. (N.d.t.) 17. Il Signore ha fatto come aveva stabilito, ha messo in pratica quel che aveva detto e minacciato da tanto tempo: ha distrutto senza pietà. (…)

18. (…) Fa’ scendere le tue lacrime come torrenti, giorno e notte! Non darti pace, e lascia che i tuoi occhi piangano.

19. A ogni ora della notte ripeti i tuoi lamenti, apri il tuo cuore e confida nel Signore, tendi verso di lui le tue mani, supplica per i tuoi bambini (…).Ili

1. Io sono l’uomo che ha conosciuto la miseria sotto i colpi furiosi del Signore.

2. Egli mi ha fatto camminare nelle tenebre e non nella luce.

3. Continua a colpirmi un giorno dopo l’altro. (…)

5. Tutto intorno mi ha innalzato un muro di amarezze e difficoltà.

6. Mi ha gettato nell’oscurità come chi è morto da lungo tempo.

7. Mi ha chiuso tra quattro mura, mi ha legato con le catene.

8. Anche se grido e chiedo aiuto, egli soffoca la mia preghiera.(…) 10. Egli è stato per me un orso nascosto, un Icone sempre in agguato.

11. Mi ha reso la strada impossibile, mi ha fatto a pezzi e mi ha lasciato sconsolato.

12. Ha teso il suo arco e mi ha preso come bersaglio. (…)

14. Tutti ridono di me, ogni giorno mi canzonano.

15. Mi ha fatto mangiare erbe amare e mi ha dato da bere bevande velenose. (…) 17. Mi ha tolto la pace, ho dimenticato che cosa vuoi dire star bene. (…) 19. Il ricordo del mio dolore, del mio vagabondaggio è un veleno amaro.

È più di quanto possa concepire un bambino, che cerca disperatamente consolazione e la trova nella menzogna d’una propria colpa, nella propria malvagità. E ne trae speranza: 20. Non posso più dimenticare niente e mi sento abbattuto.

21. Però voglio ricordarmi di tutto questo per riavere la speranza.

22. La bontà del Signore non è finita, il suo amore continua.

23. La sua bontà si rinnova ogni mattino, la sua fedeltà è grande.

24. Sono sicuro: il Signore è il mio tesoro, per questo io spero in lui.

25. Perché il Signore è buono con chi spera in lui, con tutti quelli che lo cercano.

26. È bene aspettare in silenzio la salvezza che il Signore manderà.

27. È bene che l’uomo si abitui alle contrarietà fin dalla giovinezza.

28. Chi è messo alla prova dal Signore, stia solo e in silenzio.

29. S’inchini con la bocca nella polvere, perché forse c’è ancora speranza.

30. A chi lo colpisce offra la guancia, e accetti le offese senza reagire.

31. Perché il Signore non abbandona per sempre;

32. anche se fa soffrire, rimane pieno d’amore e ricco di bontà.

33. Non prova piacere quando fa soffrire e umilia gli uomini.

34. Quando si schiacciano sotto i piedi tutti i prigionieri di una terra, 35. quando si sfida il Dio Altissimo violando i diritti di un uomo, 36. quando si commettono ingiustizie nei processi, forse che il Signore non lo vede?

37. Chi può con la sua parola far accadere qualcosa se il Signore non l’ha ordinato?

38. Non è forse la parola del Dio Altissimo che provoca benessere e sventure?

39. Di che cosa si lamenta, allora, l’uomo se, malgrado i suoi peccati, è ancora in vita?

40. Esaminiamo con attenzione il nostro comportamento e torniamo al Signore.

42. Siamo stati ribelli incalliti e tu, Signore, non ci hai perdonato.

43. Chiuso nella tua ira, ci hai perseguitati e massacrati senza pietà.

Ma ecco che il sentimento dell’indignazione riaffiora:

45. Ci hai ridotto come spazzatura, come rifiuti in mezzo agli altri popoli.

47. Il terrore, il baratro, la devastazione e la rovina sono la nostra sor te.

48. Torrenti di lacrime scendono dai miei occhi (…).

49. Essi sono una fonte inesauribile, perché il Signore non ci da respiro.

50. Ma aspetto che il Signore ci guardi dall’alto e ci veda.

51. Mi tormenta quello che succede (…).

52. Quelli che mi sono nemici senza motivo, mi hanno dato la caccia come a un passero.

53. Mi hanno buttato vivo in una fossa e mi hanno coperto di pietre.

54. L’acqua mi ha sommerso e mi son detto: «Per me è finita».

55. Dalla fossa profonda, Signore, ti ho invocato.

56. Tu mi hai sentito gridare: «Non restare sordo ai miei lamenti e sospiri».

57. Quando ti ho invocato, ti sei avvicinato e mi hai detto: «Non aver paura».

58. Signore, tu mi hai difeso e hai salvato la mia vita.

59. Signore, tu hai visto il torto che mi hanno fatto, rendimi giustizia.

60. Hai visto come si sono vendicati di me, hai visto i loro intrighi. (…) 64. Puniscili, Signore, trattali come mi hanno trattato.

65. Rendili incapaci di reagire, sia questa la tua maledizione su di loro. (…)V

19. Ma tu, Signore, rimani re per sempre, tu regni attraverso i secoli.

20. Perché vuoi dimenticarci per tanto tempo e abbandonarci per tutta la vita?

21. Fa’ che ritorniamo a te, Signore, e noi ritorneremo. Fa’ che viviamo ancora come nei tempi passati.

22. Ci hai forse respinti per sempre? Non c’è limite alla tua ira?

Dopo tutta la disperata lotta contro la chiara consapevolezza dell’ingiustizia patita, dopo tutti i tentativi di inculcarsi l’auto inganno di una propria colpa, la semplice verità torna nuovamente a imporsi: «Non c’è limite alla tua ira». E, contemporaneamente, la preghiera infantile: «Fa’ che ritorniamo a te, e noi ritorneremo». Un bambino educato senza pietà, contrariamente al bambino libero, non può tornare in qualsiasi momento. Dipende dall’aiuto dell’adulto, dal suo «perdono» per le presunte colpe commesse.

Il commento alla Bibbia parla di «amore del Signore per il popolo su cui infierisce», e sostiene: «Da questo passo mirabile (w. 22-27) trapela un tono di speranza e di fiducia pur in mezzo alle tenebre dei lamenti. Nemmeno il dolore riesce a oscurare nel profeta la fede nel Signore».

Con simili commenti, che scaturiscono dallo spirito della «pedagogia nera», si seppellisce la verità delle lamentazioni. Perché non è il lamento che conduce alle tenebre, bensì il dolore, il disorientamento, la paura della colpa, l’auto colpevolizzazione. Il lamento potrebbe portare luce e chiarezza, se fosse ascoltato e preso sul serio.

Ciò che si esprime nei lamenti di Geremia - inconsapevolmente, certo, non voluto, eppure inequivocabilmente - è la realtà del bambino su cui si è infierito con intenti pedagogici, vale a dire del bambino maltrattato. Questo bambino si rifiuta di credere che i genitori, che parlano d’amore e fedeltà, siano capaci di tanto spietato massacro: che sia questa la verità. E poiché non può credere a ciò che vede senza morirne, si convince del contrario: crede a ciò che viene detto, a ciò che gli è stato promesso, al contrario di quello che gli dice l’esperienza, alla parola vuota.

Dallo sforzo di distogliersi dai fatti, dall’orrore di fronte alla verità, sono nate e continuano ancora a nascere religioni e ideologie che promettono all’uomo la liberazione dalle sue sofferenze e lo aiutano a negare l’esperienza.

Così, per esempio, i regimi scaturiti dal marxismo-leninismo hanno contribuito per decenni a nascondere fatti che, grazie alla perestrojka, diventano improvvisamente e dolorosamente consapevoli e visibili. In assenza di questo nuovo punto di vista c’era l’incapacità di modificare minimamente quei fatti.

Per questo ho citato alcuni passi delle lamentazioni di Geremia. Similmente a quanto ho fatto con le opere di Kafka, ho voluto che qui parlasse il bambino maltrattato, tralasciando quindi le mascherature simboliche dei riferimenti storici, vale a dire la censura operata dalla rimozione. Ho voluto consentire al lettore d’accostarsi ai sentimenti del bambino tormentato, che ha un desiderio solo: e cioè che possa non essere vero ciò che deve subire e patire. È percosso dalle sofferenze, eppure si aggrappa al pensiero che la tortura sia solo una risposta alla sua colpa; che s’infierisca su di lui per amore. L’unica consolazione di cui dispone è la sua colpa!

Quanto maggiore la paura dei fatti rimossi, del ritorno di quanto è stato relegato nella rimozione, tanto più distruttivo e pericoloso l’infuriare del fanatismo: e non è rilevante che si manifesti poi sotto forma religiosa oppure politica. L’una forma può facilmente mutarsi nell’altra, come possiamo constatare anche nella nostra epoca, per esempio in Iran. Quel che conta è il diniego di fatti d’importanza vitale, diniego che è comune a entrambe le forme e costituisce la caratteristica d’ogni ortodossia. Nei commenti tradizionali alle lamentazioni di Geremia si rispecchia un atteggiamento da cui sono tuttora influenzati taluni metodi terapeutici. Asseriscono l’esistenza potenziale d’un atteggiamento ambivalente nel bambino rispetto ai genitori, e suggeriscono ai pazienti di accettare e imparare ad amare i lati buoni e quelli cattivi dei loro genitori, come se fossero le due facce d’una stessa persona che il bambino, nonostante tutto, ama. Affermano: solo quando il bambino è in grado di integrare gli aspetti buoni e quelli cattivi, solo quando impara «ad amare anche i lati cattivi dei genitori» allora può «maturare» e perdonare.

In questi loro sforzi di relativizzare a ogni costo il male, molti terapeuti ricordano il Dio della creazione che punì Adamo ed Èva perché, avendo colto la mela dall’albero della conoscenza, avevano imparato a distinguere il bene dal male. Già allora era meno spregevole fare il male che vederlo e denunciarlo chiaramente. Questa paura del peccato mortale si manifesta anche nelle enunciazioni e nelle attività di molte organizzazioni, come per esempio in quelle della Lega per la protezione del fanciullo, quando i maltrattamenti inflitti ai bambini sono bensì capiti, ma non condannati, e dove ci si impegna con particolare zelo, presso la vittima, perché dimostri comprensione, e perché giunga, eventualmente, anche al punto di nascondere o mascherare quelli che sono dei delitti.

Questi e simili concetti terapeutici, che si riscontrano poi anche in coloro che praticano le terapie familiari, si sottraggono alla constatazione che, nei fatti, la situazione è esattamente inversa, e cioè che il bambino —

esattamente come trovò modo di dire Geremia 2600 anni fa - ama anche i genitori più crudeli e brutali, e s’aggrappa a loro perché aspetta e spera nel miracolo, nel riscatto liberatorio. E deve pagare questa illusione con la pericolosa cecità che l’indurrà in seguito ad attenersi rigidamente alla pretesa di trattare a sua volta con crudeltà i propri figli: appunto perché non ha mai messo in discussione la propria tolleranza nei confronti dei propri genitori.

Però l’individuo adulto, che non è più un bambino, che abbia il coraggio di maturare nel senso di voler vedere la verità, deve essere in grado di respingere la crudeltà sofferta, inequivocabilmente e non ambiguamente, per non divenire egli stesso, in seguito, complice inconsapevole del male, aiutandolo così a trionfare. Ed è questa consapevolezza che fa evidentemente paura agli psicoanalisti, ai terapeuti familiari, ai teorici del sistema e a tanti assistenti sociali, perché mette in discussione quello che è stato il comportamento dei loro genitori. Tuttavia la consolazione di Geremia non può essere la nostra. Se conserviamo verso Dio o i genitori questo atteggiamento di infinita tolleranza, corriamo il pericolo di affidarci a individui che ci promettono solo salvezza e riscatto: e corriamo il pericolo di restare ciechi di fronte a ciò che poi realmente fanno.

L’atteso riscatto liberatorio continuerà a mancare finché indurremo i nostri figli all’autocondanna e non impareremo a evitarlo. Purtroppo avviene invece, quotidianamente, che il bambino sia incolpato e punito - talvolta pretendendo anche che sia Dio a volerlo - per impulsi e reazioni sane, del tutto naturali. Ogni bambino cui si siano imposte nei primi anni di vita sofferenze e paure prive di motivazioni fisiologiche, si trova poi immerso nella maledizione dei sensi di colpa. I suoi sentimenti rispecchiano ciò che gli è stato trasmesso: «Non può che dipendere da me se mi è capitato tutto questo, evidentemente in me c’è qualcosa che non va, io sono la causa delle mie pene».

Ci sono bambini che nei primi anni di vita sono sottoposti a interventi medici inutili e a ispezioni mediche dolorose. Non di rado questo avviene, fra l’altro, perché i medici non sono nella condizione di poter capire le cause effettive dei sintomi che riscontrano, e ricorrono quindi a ogni possibile e immaginabile rimedio tecnico.

Questi bambini sono poi spesso abbandonati a se stessi, senza una presenza consolatoria: si ritrovano soli perché i genitori hanno fiducia nei miracoli della tecnica. Un bambino così rimarrà segnato e continuerà a vivere in preda alla paura dell’ignoto, fino a quando non potrà sciogliere il nodo di questo disorientamento nel corso d’una terapia chiarificatrice, e a trovare la sua «liberazione» grazie al graduale dissolversi degli elementi traumatici.

• LA RINUNCIA ALL’IPOCRISIA

1 • L’ESPERIENZA LIBERATORIA DELLA DOLOROSA VERITÀ

II bambino maltrattato e abbandonato è completamente solo nel buio del turbamento e della paura, circondato da odio e arroganza, derubato dei suoi diritti e del suo linguaggio, ingannato nell’amore e nella fiducia, disprezzato, umiliato, irriso nel suo dolore, senza orientamento, senza riferimenti, cieco, esposto spieiatamente al potere degli adulti ignoranti, del tutto privo di difese.

Tutto il suo essere vorrebbe gridare l’ira accumulata, esprimere l’indignazione e invocare aiuto. Ma è appunto questo che non gli è permesso di fare. Gli si negano e gli si contestano tutte le reazioni di cui la natura lo ha dotato per salvarsi. Se non lo soccorre un testimone consapevole, il ricorso a queste reazioni non produrrebbe altro che un aggravamento delle pene del bambino, le prolungherebbe, tanto che infine potrebbe anche rimetterci la vita.

E quindi la sana reazione di protesta contro la disumanità deve essere repressa. Il bambino cerca di cancellare dalla memoria tutto quello che è successo, di eliminarlo, di bandire dal livello della coscienza - per sempre, spera - la bruciante indignazione, la rabbia, la paura, l’intollerabile dolore. Ciò che resta è un pesante senso di colpa, anche nei casi in cui non lo abbiano costretto a baciare la mano che lo ha colpito e a chiedere perdono: e questo, purtroppo, avviene molto più spesso di quanto comunemente si creda.

Nell’individuo adulto che è sopravvissuto a simili tormenti, culminati nella totale rimozione, il bambino tormentato continua a esistere: nel buio della paura, dell’oppressione, della minaccia. Se tutti i tentativi che questo bambino fa per indurre l’adulto a dar retta alla sua storia rimangono senza successo, cerca allora di procurarsi ascolto col linguaggio dei sintomi, rifugiandosi nelle droghe, nella psicosi, nella criminalità. E se nell’adulto infine, nonostante tutto, affiora ugualmente la sensazione delle cause vere delle sue sofferenze, e chiede agli esperti se queste sofferenze non possano essere connesse alle esperienze della sua infanzia, nella maggior parte dei casi lo si rassicura dicendogli che non è certo così, e che se per caso fosse invece proprio così, allora deve imparare a perdonare, perché è appunto il suo atteggiamento risentito a renderlo malato.

Così, per esempio, nel corso di certe diffuse terapie di gruppo, alle quali vengono sottoposti tossicodipendenti e loro familiari, si insiste sempre nel dire: riuscirai a guarire solo quando avrai perdonato ai tuoi genitori tutto quello che ti hanno fatto. Anche se entrambi i tuoi genitori erano degli alcolizzati, anche se hanno abusato di te, ti hanno disorientato, picchiato, anche se hanno preteso troppo da te e ti hanno sfruttato: devi perdonare loro tutto, altrimenti la tua malattia non potrà guarire. Esiste un intero assortimento di progetti che si autodefiniscono terapeutici, il cui concetto consiste nell’imparare — in una prima fase — ad esprimere le proprie sensazioni, e anche nel cercare di capire cosa è avvenuto durante l’infanzia. Poi però si pretende che ci si impegni immediatamente «nel lavoro del perdono», di cui si sostiene che è indispensabile per la guarigione. Molti giovani affetti da AIDS o schiavi delle droghe muoiono sforzandosi di perdonare tutto e tutti, senza sapere di dover morire per conservare intatta la rimozione della loro infanzia.

La maggior parte dei terapeuti teme questa verità. Agiscono sotto l’influsso di disorientanti interpretazioni di religioni occidentali e orientali, e predicano la necessità del perdono a colui che è stato in passato un bambino maltrattato. E così precipitano l’individuo, che è già fin dai primissimi anni di vita prigioniero del circolo vizioso della pedagogia, in un nuovo circolo vizioso che stavolta è definito terapeutico. Lo immergono in una trappola dalla quale, probabilmente, non saprà più trovare una via d’uscita. È la stessa trappola che, in passato, ha paralizzato le sue naturali reazioni di protesta e innescato così la malattia. I terapeuti, impantanati nelle pretese pedagogiche, non sono in grado d’aiutare il paziente a dissolvere le conseguenze dei traumi sofferti, e così gli offrono come surrogato la morale tradizionale.

Negli ultimi anni ho ricevuto e letto numerosi libri, di autori che non conosco, relativi a varie concezioni terapeutiche praticale negli Stati Uniti. Senza alcuna eccezione, tutti questi autori partono dalla premessa che il perdono è una condizione indispensabile per il «successo» della terapia. Questa presunzione appare a tutti così scontata che nessuno sente la necessità di veri-ficarla: che è poi proprio quello che sarebbe urgentemente necessario fare. Perché il perdono non dissolve il risentimento accumulato verso gli altri e verso se stessi, ma si limita a travisarlo in un modo assai pericoloso.

Conosco il caso d’una donna la cui madre, da bambina, aveva subito abusi sessuali da parte del padre e del fratello. Cresciuta nella scuola di un convento, quella madre aveva appreso a menadito la «benedizione del perdono», e onorava il padre e il fratello senza conservare per loro nemmeno una traccia di risentimento.

Però in seguito, quando sua figlia era ancora una lattante, l’ha spesso lasciata “in custodia” al nipote tredicenne. Di sera usciva pacifica e tranquilla col marito, andava al cinema, e intanto il baby-sitter nell’età della pubertà appagava sulla bambinella le sue esigenze sessuali.

Quando poi questa bambina, fattasi adulta, ha cercato l’aiuto della psicoanalisi, l’analista le ha spiegato che non doveva rimproverare la madre, perché tutto era avvenuto senza cattive intenzioni: la madre non poteva immaginare che il baby-sitter s’approfittava sistematicamente della bambina. E in effetti pare che la madre -

avendo rimosso e perdonato le sue stesse passate esperienze — fosse del tutto inconsapevole del pericolo.

Tanto che quando la bambina aveva manifestato sintomi di disturbo nella assunzione degli alimenti, aveva consultato svariati medici, preoccupata: e i medici le avevano assicurato che i disturbi «dipendevano dai denti». E così tutte le rotelline del meccanismo del perdono si sono dimostrate perfettamente funzionanti: però a spese della verità e infine anche delle condizioni di vita di tutte le persone coinvolte.

Nel libro The Obsidian Mirrar (Seal Press, 1988), Louise Wise-child descrive come sia riuscita - nel corso degli studi che ha fatto per diventare fisioterapista, con l’aiuto del lavoro fisico e della sistematica annotazione di queste esperienze a decifrare i messaggi e i segnali del suo corpo, a rivivere sensazioni passate e a liberare così lentamente la sua infanzia dalle incrostazioni della rimozione. Un po’ per volta ha riscoperto singoli episodi che aveva completamente bandito dal livello di coscienza: il nonno aveva sessualmente abusato di lei quando aveva quattro anni, poco dopo uno zio perverso l’aveva brutalmente violentata, e infine era stata stuprata dal patrigno. Tuttavia, poiché la riacquistata consapevolezza non è di per sé bastata per dissolvere in lei i modelli autodistruttivi, ha cercato l’aiuto d’una terapeuta che l’accompagnasse a compiere l’ulteriore, terribile viaggio verso la scoperta della verità. Ignorando le ormai evidenti violenze che Louise aveva subito, un giorno la terapeuta le ha detto: «Se non perdonerà sua madre, non riuscirà mai a perdonare se stessa». Anziché aiutare la paziente - come sarebbe stato compito della terapia - a sbarazzarsi dei sentimenti di colpa che le erano stati addossati, l’ha caricata d’una nuova, aggiuntiva pretesa che non ha potuto che cementare quei sensi di colpa. Ma i modelli distruttivi non si possono dissolvere ricorrendo all’atto religioso del perdono.

Per quale ragione quella donna, che pure aveva amorevolmente assistito per trenta anni la madre, doveva anche perdonarle i delitti che aveva commesso, quando questa madre da parte sua non aveva mai fatto il benché minimo tentativo di capire il male arrecato alla figlia? La Louise bambina, schiacciata sotto il peso dello zio stupratore, impietrita dall’orrore e dalla paura, aveva visto - in uno specchio - la madre affacciarsi alla porta. Aveva sperato d’essere tratta in salvo, e invece la madre aveva girato i tacchi ed era sparita. E

quando Louise era ormai una donna adulta, si è sentita spiegare dalla madre che quest’ultima era riuscita a sopportare la paura che le incuteva quello zio solo grazie alla presenza in casa dei figli. E quando la figlia ha cercato in seguito di portare il discorso sullo stupro subito dal patrigno, la madre le ha fatto sapere di non volerla mai più vedere. È per me inconcepibile che nemmeno di fronte a un caso così palese sia emersa in tutta la sua evidenza l’assurdità insita nella pretesa del perdono: una pretesa insensata al punto da compromettere necessariamente l’eventuale successo della terapia. Cosa si ottiene dunque in questo modo, se non la tranquillità della terapeuta?

L’esempio dimostra quanto si può distruggere con questo unico principio: che è fondamentalmente falso, disorientante, però radicato profondamente nella tradizione proprio perché ci è tanto familiare fin dai primissimi anni di vita. Il principio di pretendere il perdono maschera invece un grave abuso di potere, esercitato per nascondere l’impotenza e la paura dei terapeuti.

II paziente è persuaso che il terapeuta faccia certe asserzioni sulla base d’una sicura esperienza, e crede alla sua autorità. Non sa, né ha praticamente modo di capire, che questa asserzione esprime invece solo ed esclusivamente la paura che un bambino maltrattato - il terapeuta - ha dei suoi genitori. Non può capire perché è proprio la sollecitazione al perdono a smuovere in lui, a sua volta, antiche paure che lo costringono a credere nell’autorità rappresentata dal terapeuta. Come si può pensare che un paziente, in queste condizioni, possa liberarsi dei suoi sensi di colpa? Gli sono invece espressamente rafforzati.

È la predica del perdono che smaschera l’intento pedagogico d’una «terapia». Smaschera anche l’impotenza dei predicatori del perdono, che si autodefiniscono abusivamente terapeuti quando dovrebbero invece qualificarsi, più esattamente, come sacerdoti. Il risultato finale è il protrarsi della cecità acquisita nell’

infanzia e che potrebbe essere eliminata, ma solo nel corso d’una autentica terapia. Si insiste nel ripetere al paziente, fino a quando se ne convince e fino a quando anche il terapeuta ne è soddisfatto: «È il tuo odio che ti rende malato; devi dimenticare e perdonare per guarire». E invece non è stato il risentimento, è stata proprio questa «morale» propinata con tanta insistenza a precipitare il paziente, durante l’infanzia, nella muta disperazione e a farlo infine ammalare: perché lo ha separato dai suoi sentimenti e dai suoi bisogni.

Nella terapia che io stessa ho seguito secondo il metodo elaborato da J. Konrad Stettbacher (cfr. Wenn Leiden einen Sinn haben soli [Se si vuole che la sofferenza abbia un senso], Hoffmann und Campe, Amburgo 1990), ho appreso che quello che mi ha infine ridato la libertà è stato proprio il contrario del perdono, e cioè la ribellione contro i maltrattamenti subiti, la consapevolezza e la condanna delle opinioni e delle azioni distruttrici di vita dei miei genitori e la capacità di esprimere i miei bisogni. Bisogni che, durante l’infanzia, erano stati ignorati in nome della buona educazione, e che io stessa avevo a mia volta imparato, per decenni, a ignorare: per essere «buona e tollerante» come mi avevano voluta i miei genitori. Oggi invece lo so: ho sempre provato il bisogno di denunciare e di combattere le opinioni e i comportamenti distruttori di vita, ovunque li incontrassi, e di non tollerarli affatto. Però riesco a farlo, ora ed efficacemente, soltanto dopo aver riesperito quanto mi era stato a suo tempo imposto e inflitto. Le pretese morali e religiose di perdonare mi avevano appunto impedito di fare questa scoperta: rivivere le sofferenze patite.

La pretesa del perdono non ha nulla a che fare con un’efficace terapia, né con la vita, e a molte persone in cerca d’aiuto si sbarrano, con questa pretesa, le vie d’accesso alla liberazione. I terapeuti si fanno guidare dalla loro stessa paura — la paura che il bambino maltrattato ha della vendetta dei genitori — e dalla speranza che con il buon comportamento si possa dopo tutto, un giorno, conquistare l’amore dei genitori. Ma i pazienti sono costretti a pagare questa illusoria speranza del terapeuta a prezzi altissimi.

Sottoposti a una «terapia» a base di informazioni false, non riescono a trovare la strada della liberazione.

Se mi rifiuto di perdonare, rinuncio a tutte le illusioni. Senza queste illusioni, il bambino maltrattato non può sopravvivere, è vero. Però un terapeuta adulto deve essere capace di farlo. E il paziente dovrebbe chiedergli: «Perché dovrei perdonare, visto che niente me lo impone? I miei genitori si rifiutano di capire, di sapere cosa mi hanno fatto, e quindi perché dovrei sforzarmi io - per esempio coll’aiuto della psicoanalisi e dell’analisi transazionale di capire i miei genitori e la loro infanzia, e di perdonarli? A che serve tutto questo? Chi se ne avvantaggia? Non aiuta i miei genitori a vedere e a capire la verità, e impedisce a me di esperire i sentimenti che mi aprirebbero l’accesso alla verità. Sotto la campana di vetro del perdono i sentimenti non possono liberamente manifestarsi: il meccanismo del perdono non glielo consente». Simili considerazioni non sono purtroppo ammesse nelle pratiche terapeutiche in cui il perdono abbia il valore di legge assoluta. L’unico compromesso consentito consiste nel distinguere fra perdono falso e perdono giusto. Ma il cosiddetto «perdono giusto» è in ogni caso considerato un obiettivo terapeutico irrinunciabile e non lo si mette mai in discussione.

Ho chiesto a molti terapeuti perché ritengono che si debba perdonare per guarire: non ho mai ottenuto una risposta. Evidentemente non hanno mai messo in questione la loro pretesa perché la ritengono altrettanto ovvia quanto i comportamenti in mezzo ai quali sono cresciuti. Io non riesco a figurarmi che una comunità, la quale non usi maltrattare i suoi bambini, che li protegga amorevolmente e li rispetti, possa sviluppare un’ideologia del perdono in funzione di inconcepibili crudeltà. Questa ideologia è inscindibilmente connessa al comandamento «Non devi accorgerti», e inoltre con la ripetizione delle crudeltà patite a scapito della generazione successiva, la quale si trova così a pagare l’alto prezzo del perdono dei genitori. È la paura della vendetta dei genitori che informa la nostra «morale».

Si può porre fine a questa fatale ideologia solo nell’ambito di una terapia che scopra lentamente la realtà, e che sia priva di ipocrite pretese educative e morali. Perché soltanto coll’aiuto delle loro verità i sopravvissuti ai maltrattamenti possono liberarsi delle conseguenze di questi traumi. Lo sforzo richiesto dal perdono rende impossibile questo processo liberatorio. Una terapia efficace non deve né può essere una prosecuzione dell’educazione, bensì una scoperta delle lesioni da questa prodotte, di cui può dissolvere le conseguenze. Deve consentire al paziente l’accesso ai suoi sentimenti, per tutta la durata della sua vita, perché solo questo accesso lo può aiutare a orientarsi e ad avere una chiara consapevolezza di sé. Appelli moralistici possono soltanto sbarrare questa porta.

Il bambino può scusare l’adulto nei limiti in cui questi sia capace di ammettere e di riconoscere come tali le sue mancanze. Ma la pretesa di perdono che riscontro un po’ ovunque è solo un meccanismo che compromette necessariamente la riuscita della terapia. È l’espressione della nostra cultura, nella quale i maltrattamenti inflitti all’infanzia sono una quotidiana realtà e che per questa ragione sono minimizzati dalla maggior parte degli adulti. Il perdono comporta, secondo me, una distorsione della realtà; ha effetti negativi, e non soltanto per la singola persona, perché tende a mascherare col suo meccanismo atteggiamenti e comportamenti generalmente distruttivi. Si tira una tenda davanti a ciò che è accaduto, e così lo si rende irriconoscibile.

La possibilità d’una inversione di tendenza dipende dall’esistenza di un sufficiente numero di testimoni coscienti e informati, capaci di costituire una «rete di salvezza» per la crescente consapevolezza dei bambini maltrattati, affinchè questi non cadano nell’oscurità dell’oblio da cui riemergerebbero poi malati o con tendenze criminali. Trattenuti dalla «rete» dei testimoni consapevoli, questi bambini possono crescere come individui consapevoli che vivano con e non contro il loro passato e che per questo possono impegnarsi per un avvenire più umano.

Ci sono persone che non partecipano alla fuga di massa dalla propria storia, che si oppongono al comandamento di non voltarsi indietro, che osano guardarsi alle spalle e non si fanno distogliere da questo proposito da alcun genere d’arroganza. Fra queste figura J. Konrad Stettbacher che, con l’esposizione della sua terapia, consente a molti sopravvissuti ai maltrattamenti subiti nell’infanzia di confrontarsi col loro passato. Nell’introduzione a questa esposizione, pubblicata in Germania nella primavera del 1990 col titolo

«Se si vuole che la sofferenza abbia un senso», ho scritto quanto segue: La pubblicazione di questo libro costituisce una poderosa sfida a tutte le scuole terapeutiche esistenti. La terapia di Stettbacher dimostra che è possibile dissolvere in modo non pericoloso e non disorientante la rimozione dell’infanzia.

Quanta inutile sofferenza sarebbe stata risparmiata a me, ai miei figli e ai figli dei miei figli se avessi letto questo libro da giovane e fossi già allora potuta approdare alla consapevolezza della mia infanzia! E quante peripezie avrei potuto risparmiare a me stessa e ai miei pazienti se mi fosse capitato fra le mani almeno dopo i miei studi e dopo la fuorviante preparazione all’esercizio della psicoanalisi cui mi sono sottoposta. Ma allora la terapia di Stettbacher non esisteva ancora. L’autore ha dovuto prima soffrirla in prima persona, verificarla, concettualizzarla e infine descriverla: ed è soltanto ora accessibile al pubblico.

Pur soffrendo per quanto è capitato a me, mi consola il fatto che questo libro aiuterà tanta altra gente a orientarsi prima di procedere alle scelte decisive costituite dal matrimonio e dalla procreazione dei figli. E aiuterà anche persone più anziane a trovare vie d’uscita dalle loro trappole, vie non distruttive e che apriranno loro possibilità finora impensate di accesso al loro mondo interiore.

I lettori apprenderanno, grazie a questo libro, che - contrariamente alle asserzioni di Freud - ci si può senz’altro inoltrare nella realtà dell’infanzia; e inoltre che questo non deve avvenire ricorrendo a mezzi artificiosi, e quindi pericolosi (come per esempio LSD, ipnosi, brusche riesperienze della fase natale e simili), bensì lentamente, con assoluto rispetto delle difese naturali, passo dopo passo, ma muovendo con coerenza incontro all’obiettivo: ritrovare con l’aiuto dei sentimenti la verità dei traumi sofferti. Perché l’essere umano traumatizzato è nella condizione di riandare alla storia delle sue ferite e di dissolverne le conseguenze.

Questa è una scoperta rivoluzionaria che avrà conseguenze di vasta portata. Una volta pubblicato questo libro, non sarà quasi più possibile distogliere ulteriormente le vittime dei maltrattamenti infantili dalla loro autentica storia, ricorrendo a teorie astruse, a simbologie equivo-che, a meditazioni o addirittura a farmaci: con la sola eccezione forse di certi singoli casi in cui la situazione reale del bambino sia stata così inconcepibile da continuare a esporre 1’ adulto al gioco della mosca cieca costituito dalle teorie. Ma coloro che vogliono conoscere la loro verità, sapranno d’ora in poi che questo è assolutamente possibile, La rimozione ci ha aiutati, nell’infanzia, a sopravvivere alle crudeltà; ma nell’età adulta il meccanismo della rimozione ci impedisce di vivere consapevolmente e responsabilmente. La maggior parte delle persone non sa d’essere stata traumatizzata nell’infanzia, e ignora il fatto che sono proprio questi traumi che impediscono di rispettare e di proteggere la vita altrui. Per questo infieriscono a loro volta sui figli e danno a quelle che sono palesi forme di maltrattamento del bambino definizioni quali «temprare il carattere», educazione o socializzazione. La rimozione delle prime esperienze, che ha aiutato il bambino a sopravvivere, presenta ora il conto all’adulto sotto forma del comandamento «Non devi accorgerti», al quale questi si attiene rigorosamente.

Tuttavia non è indispensabile continuare a pagare questo conto, se sappiamo che esiste una strada per riacquistare la consapevolezza perduta. D’ora in poi nessun terapeuta serio potrà più permettersi d’ignorare questa scoperta.

La strada che Stettbacher indica per la sistematica revoca della rimozione offre l’accesso a una concezione completamente nuova - depurata d’ogni anche minima traccia d’intenti pedagogici — delle possibilità di aiuto e di auto-aiuto, e nello stesso tempo a una nuova visione dell’uomo, a un’antropologia dalle prospettive finora insospettate. Perché quando vi sarà un numero sufficiente di terapeuti che abbiano compreso il meccanismo dei maltrattamenti infantili attingendo alle proprie esperienze, il circolo vizioso della distruzione e dell’autodistruzione degli esseri umani potrà essere infranto.

Poiché ho sperimentato questa terapia su me stessa, e ne ho potuto constatare gli effetti stupefacenti, globali - sul fisico, nella sfera delle emozioni e in quella mentale -, mi sento di raccomandarla senza riserve a ogni persona sofferente e in cerca d’aiuto. Il poterlo oggi fare costituisce per me motivo di grande sollievo, perché è dalla pubblicazione dei miei primi libri, dieci anni fa, che mi si chiedono indirizzi di terapeuti che operino in modo conforme alle cognizioni che ho acquisito. Nonostante la miglior buona volontà, non avevo potuto esaudire queste richieste, perché evidentemente i miei libri contraddicevano e contraddicono tutto ciò che i terapeuti ancora oggi apprendono e praticano.

Soltanto nella concezione di J. Konrad Stettbacher ho trovato una terapia che tiene completamente conto dei dati di fatto costituiti dai maltrattamenti infantili, che non consente a nulla e a nessuno di corrompere questa sua fondamentale acquisizione, che non si lascia disorientare o abbagliare da alcun timore, che non abbellisce nulla, non maschera nulla, non predica il perdono e non si fa in alcun modo distogliere dalla funzione di difendere il bambino. La contrapposizione rispetto alle opinioni e ai comportamenti tradizionali emerge da ogni pagina del libro, anche se Stettbacher - contrariamente a me - rinuncia a ogni forma di polemica.

Comprensibilmente, la richiesta di terapeuti capaci di riaccompagnare senza paura il paziente fino alle prime, spaventose esperienze della vita — perché hanno già esplorato e conosciuto i propri remoti spaventi - è molto grande. Ma di fronte a questa richiesta, la disponibilità di terapeuti preparati è - per quel che ne so e per il momento - ancora assai limitata. Però l’addestramento è già cominciato, e in tempi prevedibili la situazione cambierà. Il libro può comunque di per sé già aiutare a sfruttare il tempo d’attesa per un lavoro di preparazione e a non rinunciare alle assolutamente realistiche speranze di scoprire la propria verità. Dal momento che la terapia lascia aperte molte possibilità dì applicazione creativa, la sua descrizione aiuterà indubbiamente il singolo a fare, nell’ambito delle sue possibilità, delle nuove scoperte: a patto che sia disposto a confrontarsi con la verità, qualunque cosa essa gli riservi.

Il diffondersi dell’applicazione del metodo messo a punto da Stettbacher metterà necessariamente anche la pratica della medicina generica a confronto con la verità dei fatti. Così è per esempio ormai scientificamente dimostrato che il pianto causato da sofferenza, tristezza e paura non produce solo lacrime, ma anche e contemporaneamente l’eliminazione degli ormoni da stress, tanto da determinare nell’organismo uno stato di generale rilassamento.

Tutto questo non si può ancora assolutamente considerare una terapia. Tuttavia sarebbe già una conquista importante, che dovrebbe trovare applicazione nel trattamento praticato dalla medicina generica. E invece finora accade il contrario. Ai pazienti, si prescrivono tranquillanti, perché stiano quieti, perché si guardino bene dall’accedere alle cause dei loro sintomi. Il problema costituito dalla pedagogia della salute consiste, secondo me, soprattutto nel dato di fatto che la maggior parte degli interessati - le istituzioni e gli specialisti - non vuole a nessun costo sapere perché le persone si ammalano. Questo rifiuto fa sì che innumerevoli malati cronici

«popolino» per decenni le cliniche e le prigioni, e che lo stato sborsi milioni e miliardi per conservare un segreto.

Non si vuole assolutamente che le vittime sappiano che è sicuramente possibile aiutarle a comprendere il linguaggio della loro infanzia, per attenuare o addirittura dissolvere le loro sofferenze.

Tutto questo sarebbe possibile se ci fosse il coraggio di confrontarsi coi fatti: e cioè con la rimozione dei maltrattamenti subiti nel ‘infanzia e con le loro conseguenze. Tuttavia, nella letteratura specializzata, questo coraggio è del tutto assente. Vi si trovano invece, sempre, appelli alla buona volontà, ogni genere di consigli non impegnativi e non verificabili, e soprattutto la predica del dover perdonare le crudeltà subite nell’infanzia. E

quando tutto questo non serve, allora interviene lo stato, costretto a pagare le cure e l’assistenza degli invalidi e degli ammalati cronici che potrebbero guarire con l’aiuto della verità.

È ormai dimostrato che la rimozione, per quanto sia stata necessaria al bambino, non deve essere affatto anche il destino dell’adulto. Lo stato di dipendenza del bambino piccolo dai suoi genitori, la fiducia che ha in loro, il suo bisogno di amare e di essere amato non conoscono limiti. Sfruttare questa dipendenza, abusare della fiducia, ingannare e disorientare il bisogno d’amore e spacciare tutto questo per educazione è un comportamento delittuoso che si compie ogni giorno e ogni ora: per pigrizia, ignoranza e rifiuto di sottrarsi a questa ignoranza. Il fatto che, per lo più, questi delitti siano commessi inconsapevolmente non ne mitiga purtroppo le fatali conseguenze, che consistono in questo: il corpo, l’organismo del bambino maltrattato ha registrato la verità, ma la coscienza si rifiuta di prenderne atto. Mediante la rimozione delle sofferenze e delle circostanze che la producono, l’organismo infantile si sottrae alla morte cui andrebbe incontro ove soffrisse consapevolmente l’esperienza del trauma. La conseguenza è il circolo vizioso della rimozione: la storia vera, relegata nell’organismo, produce sintomi perché vuole essere finalmente riconosciuta e presa sul serio. Tuttavia la coscienza si rifiuta, come nell’infanzia, di accettarla, perché è appunto allora, nell’infanzia, che ha imparato la funzione salvifica della rimozione e perché oggi nessuno le dice che l’individuo adulto non ne morirebbe, che la conoscenza della verità l’aiuterebbe anzi a guarire.

Il pericoloso messaggio della «pedagogia nera» - non devi accorgerti del male che ti si fa — riaffiora nei trattamenti praticati da medici, psichiatri e terapeuti, trattamenti che influenzano il più radicalmente possibile — mediante il ricorso ai farmaci e alle teorie - la memoria del paziente, affinché non possa mai trovare le cause dei suoi mali: che risiedono, quasi esclusivamente nei maltrattamenti psichici e fisici subiti, nello stato d’abbandono

dell’infanzia.

Oggi sappiamo che l’AIDS e varie forme di cancro procedono di pari passo con una forte diminuzione della difesa immunitaria e che questa «rassegnazione» fisica è preceduta dalla perdita della speranza da parte dell’individuo malato. È stupefacente che quasi nessuno faccia il passo che queste scoperte pure suggeriscono. L’individuo può riacquistare speranza se si da finalmente retta ai suoi segnali d’allarme.

Quando sia finalmente e consapevolmente presa in considerazione la sua storia rimossa e nascosta, anche il sistema immunitario può rigenerarsi. Ma chi può dare l’aiuto necessario quando anche coloro che dovrebbero aiutare hanno paura delle loro storie? E così, tutti insieme - pazienti, medici e autorità

— partecipiamo al gioco della mosca cieca, perché pochi soltanto hanno finora fatto l’esperienza che l’ammissione emozionale della verità è l’indispensabile premessa della guarigione. Nel lungo periodo l’individuo può «funzionare», anche fisicamente, solo se è consapevole della sua verità. La morale tradizionale e ipocrita, le interpretazioni distruttive delle religioni, gli equivoci dell’educazione rendono difficile questa esperienza e ostacolano il coraggio d’affrontarla. Di queste nostre esitazioni e cecità s’approfitta inoltre — indubbiamente — anche l’industria farmaceutica. Però a noi sono stati donati un’unica vita e un unico corpo, che non si fanno prendere in giro e chiedono risolutamente di non essere ingannati.

Il giorno in cui il mistero della nostra infanzia non sarà più un mistero, lo stato potrà utilizzare in altro modo i miliardi che oggi spende per conservare la cecità degli uomini negli ospedali, nelle cllniche psichiatriche e nelle prigioni. E appare quasi mostruoso che questo avvenga, oggi, con pretese di scientificità. I mezzi finanziari disponibili potrebbero essere impiegati per aiutare la gente a liberarsi delle rimozioni che causano le malattie, a comprendere gli avvenimenti dell’infanzia e a evitarne le conseguenze, tanto da consentire di vivere una vita cosciente e responsabile. Perché le persone che sanno e provano cosa è accaduto nella loro infanzia, non vorranno mai danneggiare se stesse o il prossi-128

mo. Proteggeranno la vita e non la distruggeranno, perché la nostra missione biologica è quella di vivere e di proteggere la vita. Non abbiamo alcun motivo d’essere fieri della tradizione dell’infanticidio e delle torture inflitte ai bambini, perché è a questa tradizione che dobbiamo, purtroppo, il nostro cinismo e la nostra indifferenza di fronte alle sofferenze dei bambini: come ho spiegato e dimostrato in questo libro sulla base di vari esempi. Le dobbiamo anche la cecità di fronte al fatto che noi, con questa crudeltà -

avvalorata dalla tradizione, appunto - stiamo distruggendo le future generazioni e, alla fin fine, la stessa umanità. È dunque venuta l’ora di avere il coraggio di orientarci sui fatti e sull’esperienza che da questi fatti scaturisce, rifiutando quella eredità devastante anche se è finora apparsa tanto luminosa.

2 • PER LA DIFESA DELLA VITA «NATA» E «VISSUTA»

Nonostante le molte aperture verso la verità che si sono rese inaspettatamente possibili durante il 1989, questo anno si è chiuso in Germania con un avvenimento sconcertante e assai grave. Molte chiese cattoliche hanno suonato le campane per 15 minuti, per spiegare ai fedeli che l’aborto sarebbe un grave peccato. E questo — nel momento in cui ci rallegriamo per l’abbattimento del muro di Berlino e per la crescente apertura mentale della giovane generazione — ci riporta al medioevo, a un’epoca cioè in cui molte odierne nozioni erano ancora sconosciute e che non aveva nemmeno alcun interesse ad acquisire questo sapere. Le campane non sono mai state suonate per dissuadere la gente dal maltrattare i bambini; non sono state suonate quando Hitler organizzava deportazioni di massa in tutta Europa e quando Stalin faceva uccidere milioni di persone (e questo benché le chiese, fuori dai confini sovietici, non avessero bisogno di temere Stalin); non sono state suonate nemmeno quando Ceausescu tormentava il suo popolo e strappava i figli ai genitori per addestrarli a diventare uomini della

«Securitate» che poi sparavano a loro volta sui bambini. Invece hanno suonato ora, per un intero quarto d’ora, per ottenere che siano messi al mondo ancor più bambini indesiderati! E allora ci si domanda, sbalorditi: ma è possibile che gli ideatori di questa azione siano davvero così ingenui? Possibile che non sappiano che il cento per cento, senza eccezione, dei bambini gravemente maltrattati erano e sono bambini indesiderati? Possibile che non sappiano quali conseguenze questo può comportare? Non sanno che i genitori si vendicano, proprio coi maltrattamenti cui li sottopongono, dei bambini che non avrebbero voluto? Le persone responsabili, di fronte a questa informazione, non dovrebbero invece fare di tutto perché siano messi al mondo solo quei bambini che sono davvero desiderati, attesi e amati? Soltanto così potremmo por fine all’insorgere e all’imperversare del male del mondo. Costringere una donna che non vuole essere madre ad assumersi questo ruolo è un delitto contro la collettività umana, poiché è possibile che il figlio di questa donna si vendichi un giorno in modo criminale, esattamente come molti altri potenti tiranni che minacciano la nostra esistenza. Noi siamo tenuti a difendere la vita nata, sempre e ovunque, e questo principio non deve mai essere sacrificato a un’idea astratta.

Solo poche persone sono capaci di pensare in termini concreti e realistici. Agli altri non rimane quindi che la fede.

Nella loro condizione di passiva debolezza si affidano alle «reliquie» e aspettano che qualcuno più forte di loro porti la salvezza e il riscatto che aspettano. Per questo chi, di fronte ai più deboli, pretende di essere un’autorità forte e consapevole e sostiene di agire per il loro bene, ha il dovere d’informarsi sui fatti d’importanza decisiva. Se non lo fa, se trascura o ignora questo dovere, e spaccia invece la sua documentabile carenza d’informazioni e le sue idee astratte sulla «vita» come umanitarie e volute da Dio, agisce distruttivamente, perché abusa della debolezza e della fiducia dei fedeli e li disorienta in modo pericoloso. Inoltre, con la dissuasione dall’aborto, si va anche oltre: perché in questo caso ci troviamo di fronte a un più o meno consapevole avallo della crudeltà verso i bambini e a una attiva partecipazione al processo di produzione di esistenze indesiderate, che possono poi facilmente diventare un pericolo per la collettività.

Di fronte alla intransigenza con cui i sacerdoti cattolici - uomini per loro volontà senza figli - combattono contro l’aborto, occorre chiedersi quali sono le loro motivazioni. Vogliono forse dimostrare che la vita non vissuta — per certi versi simile alla loro, forse - è più importante e preziosa di quella vissuta? (E questo è stato indubbiamente il concetto ispiratore - anche se loro l’hanno sicuramente formulato diversamente - dei genitori dei pervicaci antiabortisti.) O intendono forse imporre ad altri la sorte che è loro toccata? Entrambe le spiegazioni sono possibili, ed entrambe implicano pericoli se inducono, nel buio della propria rimozione, ad azioni distruttive e cieche.

Non sorprende che proprio vittime e assertori della violenza e della durezza nell’educazione ribadiscano a ogni occasione il loro grande amore per il bambino non nato, vale a dire per l’embrione della vita. Si può sì guardare all’aborto come al simbolo più forte dell’uccisione dell’animo, ovvero della mutuazione psichica che l’umanità pratica da millenni sui bambini quando li picchia e li umilia. Però combattere il male solo a livello simbolico distoglie dalla realtà, alla quale invece non dobbiamo assolutamente più a lungo sottrarci. Ed è la realtà dei bambini picchiati e umiliati che - in conseguenza di questi traumi negati e non risolti - diventano in seguito un pericolo evidente e palese, oppure mascherato dall’ipocrisia, per la società. Sono i bambini già nati che - con o senza l’aiuto delle Chiese - devono poter vivere fra adulti ai quali sia inequivocabilmente vietato, per legge, di picchiare i minori. Finché non esiste una legge simile, la «difesa della vita non nata» non costituisce soltanto un’irrisione ai sentimenti di umanità, ma anche un contributo alla distruzione del nostro pianeta.

In Europa ci sono soltanto pochi paesi in cui sia espressamente vietato ai genitori di picchiare i loro figli: la Svezia, la Danimarca, la Norvegia, la Finlandia e da poco anche l’Austria. Ma i maggiori paesi europei — come la Francia, la Gran Bretagna e la Germania federale continuano a rifiutarsi di varare una simile legislazione. E nelle loro argomentazioni s’avvalgono dell’ormai logoro linguaggio pedagogico secondo il quale è «nell’interesse bel bambino» che non vi sia una simile legge. Si sostiene fra l’altro perfino che i maltrattamenti aumenterebbero se i genitori rischiassero una denuncia. In L’infanzia rimossa ho esaurientemente analizzato i motivi e le ragioni di queste argomentazioni, sulla base di un documento elaborato dalle categorie che sono professionalmente tenute alla difesa del bambino (cap. i, 7), e non intendo soffermarmici ulteriormente. Vorrei piuttosto richiamare l’attenzione sul fatto che l’ormai decennale esperienza fatta in Svezia documenta l’esatto contrario di queste asserzioni. Il divieto d’infliggere punizioni corporali, introdotto dieci anni fa, ha messo in moto un processo irreversibile, che distingue ora chiaramente la Svezia dagli altri grandi paesi europei. È a questa legge che si deve se le lesioni inflitte a un bambino sono considerate dalla coscienza della popolazione svedese per quello che in effetti sono: e cioè un delitto, un’azione criminosa. Questo non significa che una forma di criminalità sia potuta essere eliminata mediante il solo divieto sancito con una legge; però dimostra che solo una piccola minoranza consente ancora, per ignoranza, che si commettano fatti criminosi. Così in Svezia c’è per esempio una piccola setta religiosa che proclama la necessità di infliggere punizioni corporali ai bambini, traendo le sue argomentazioni dalla Bibbia. Ma presso la grande maggioranza della popolazione non troverà mai dei seguaci, perché con le sue pretese questa setta si prospetta agli occhi delle persone consapevoli come un fattore di violenza e di distruzione.

Del tutto diversa è la situazione nei grandi paesi europei, dove soltanto una minoranza si impegna contro i maltrattamenti dei bambini, mentre la maggior parte della popolazione è convinta, sulla base di una lunga e radicata tradizione, che questa sia la strada per allevare meglio i figli. Peter Newel, il fondatore dell’organizzazione EPPOCH, riferisce nel suo libro Children Are Peo-ple Too (Londra 1989) che in Svezia, dall’epoca dell’introduzione del divieto di picchiare i bambini, si è registrata un’unica condanna: quella di un padre, a una lieve pena pecuniaria. Anche se si dovrebbe integrare questa informazione con altri dati, è comunque del tutto logico che un delitto si verifichi con minore frequenza quando è proibito che non quando è consentito. Perché uomini investiti di cariche di responsabilità si sottraggono a questa semplice logica, perfino duecento anni dopo la proclamazione dei diritti dell’uomo? Perché non è vietato picchiare un bambino indifeso, quando è invece esplicitamente perseguibile chi produca lesioni a una persona adulta che è invece già in grado di difendersi? Di quanti altri argomenti abbiamo ancora bisogno per condannare inequivocabilmente una prassi disumana?

Anche se la maggior parte delle persone che hanno posti di responsabilità non sanno e non vogliono sapere che il loro rifiuto di accogliere una legge simile contribuisce alla crescita della criminalità, del terrorismo, delle tossicodipendenze, di numerose malattie mentali e al permanere dell’ignoranza, devono considerare quanto meno l’indubitabile dato di fatto che i bambini sono esseri umani e hanno il diritto di non essere picchiati: esattamente come ogni persona adulta. È da supporre quindi che le iniziative legislative di Peter Newel finiranno con l’avere risonanza anche in Francia e in Germania, tanto da contribuire finalmente a eliminare l’irresponsabile ignoranza e la complicità con cui si compie il più grave delitto dell’umanità.

Io condivido la concezione di Newel, secondo la quale la modifica della legislazione su questa materia assumerebbe un’importanza epocale. Libererà finalmente le vittime dei maltrattamenti inflitti ai minori da una tormentosa, paralizzante e auto colpevolizzante paura che ne fa poi a loro volta, più tardi, dei persecutori. Nel momento in cui la legge condannerà inequivocabilmente gli atti criminali delle generazioni passate, aprirà gli occhi alle generazioni future e le aiuterà a non continuare a ripetere ciecamente la colpa degli avi. Si inciderà in questo modo, modificandolo, già sul comportamento dei genitori di oggi.

Soltanto il giorno in cui la legge condannerà inequivocabilmente il maltrattamento dei bambini -

infliggendo per esempio pene pecuniarie - potremo aspettarci una svolta anche a livello di pubblica coscienza. Anche se non saranno completamente eliminati i delitti in quanto tali, si elimineranno in ogni caso dalla concezione della gente quelle riserve mentali per effetto delle quali questo delitto può ancora essere definito «educazione», «socializzazione» e così via. Una simile legge determinerebbe un’importante cesura, segnerebbe l’avvio di un processo umanitario che creerebbe le necessarie premesse per una radicale svolta nel nostro modo di pensare.

L’orrore costituito da personaggi come Hitler e Stalin, dalle loro imprese e ideologie che - quando ero giovane - dilagavano per tutta Europa come una peste, mi hanno insegnato a realizzare quale prezzo la gente paga o fa pagare agli altri per la propria cecità: un prezzo che, visto il numero delle vittime della cecità, non è più ammissibile. La gioventù d’oggi ha potuto imparare lo stesso dall’esempio costituito da Ceausescu: e soprattutto che i dittatori che abbiano per lungo tempo rinsaldato il loro potere coll’aiuto degli odierni mezzi tecnologici, non si possono poi quasi mai scalzare senza grandi sacrifici. Soltanto grazie alle favorevoli condizioni create dal coraggio di Gorbaciov di guardare in faccia la realtà dei fatti, i rumeni sono riusciti a liberarsi di un’impalcatura statale assurda e devastatrice che doveva preservare -

senza riuscirvi - un unico folle dalle paure risalenti alla

sua infanzia.

Il nostro compito, oggi, consiste nel mettere le mani avanti e nel non affidare più l’avvenire dei nostri figli al caso. E questo potrà avvenire soltanto se riusciremo a capire e a evitare le cause scatenanti di situazioni come quella che il popolo rumeno ha dovuto sopportare per vent’anni. Dobbiamo ricorrere a tutti i mezzi disponibili affinché situazioni simili non possano più verificar-si: e considerato ciò che oggi già sappiamo, non c’è alcuna necessità che si verifichino. Quando sarà stato completamente abbattuto il muro di silenzio che circonda l’infanzia, quando la gente potrà desumere dalla stampa e dalla letteratura specializzata, oppure nel corso di terapie rivelatrici e quindi sulla base delle proprie passate esperienze, quale sia il folle meccanismo che fa insorgere fantasie e manie di vendetta, e varerà una legge che vieti il maltrattamento dei bambini, le persone smetteranno di rendersi complici della violenza che scaturisce dall’ignoranza.

Allora sarà finalmente visibile a tutta la collettività che l’essere umano viene al mondo come una persona altamente sensibile e che impara fin dagli inizi a distinguere il bene dal male; e lo impara con una prontezza e con una pregnanza che non si ripeteranno più nella sua esistenza successiva. Soltanto allora la gente vedrà, con spavento, cosa questi piccoli esseri straordinariamente sensibili hanno tanto duraturamente appreso quando sono stati spesso trattati dai nostri genitori, dai nostri antenati, come se fossero materia inerte da plasmare per farne oggetti utili. Gli adulti hanno battuto questi piccoli esseri umani come se fossero del metallo da forgiare, e lo hanno fatto fino a trame degli ubbidienti robot di cui potersi servire: e hanno però anche prodotto, in questo modo, dei futuri tiranni e criminali. I risultati di questa procedura pedagogica che siano riusciti, nonostante il trattamento distruttivo subito, a salvare una piccola parte delle loro innate potenzialità, hanno poi continuato a sostenere per tutta la vita che le botte non hanno arrecato loro danno alcuno: perché non sono in grado di sapere fino a che punto questa violenza li ha mutilati. Molti non sanno oggi ancora quante possibilità di vita hanno perduto quando il loro animo — e quindi anche la loro capacità di percezione — è stato mutilato. Solo i figli dei figli di queste persone, cresciuti più liberamente, comprenderanno questo fenomeno in tutte le sue articolazioni e implicazioni, e vorranno e potranno evitare futuri delitti grazie alla acquisita coscienza dei delitti passati. Faranno anche di tutto per opporsi alla cecità — informando, spiegando —, ben consapevoli che è proprio questa cecità che può portare fino ai massimi livelli di potere degli ignoranti irresponsabili.