INTRODUZIONE

La verità dell’infanzia che molti di noi hanno sofferto è inconcepibile, vergognosa, dolorosa, non di rado mostruosa e sempre rimossa. Apprendere questa verità tutta in una volta, e assimilarla consapevolmente, è semplicemente impossibile, anche quando lo desideriamo ardentemente. La capacità dell’organismo umano di sopportare sofferenze è per il suo stesso bene limitata, e tutti i tentativi di ignorare questo limite e di porre violentemente fine alla rimozione comportano effetti solo negativi e spesso pericolosi, come del resto ogni altra forma di violenza.

Le conseguenze d’una esperienza traumatica, per esempio d’un maltrattamento subito, possono essere eliminate solo quando tutti gli aspetti traumatici di quest’esperienza siano rivissuti, articolati e condannati nel quadro d’una prudente e circospetta terapia rivelatrice.

Negli ultimi decenni si sono intrapresi svariati pericolosi tentativi per dissolvere in modo violento gli effetti dei traumi infantili, e sono tutti falliti perché dovevano necessariamente fallire. I trattamenti a base di LSD o di ipnosi, le procedure miranti all’isolato riaffiorare d’esperienze natali hanno non solo comportato l’impossibilità di assimilare la personale verità, ma anche - assai spesso - una più accentuata fuga verso nuovi meccanismi di rigetto, come il cercar riparo in un’ideologia astratta o in una setta o in altre forme di negazione della verità.

Molti giovani che, per curiosità o stato di necessità, abbiano sperimentato l’uso di droghe psichedeliche, hanno fatto esperienze estremamente paurose e nello stesso tempo scoraggianti e altamente fuorvianti, che hanno poi loro precluso, in seguito, l’accesso a una efficace terapia rivelatrice. In certe specifiche situazioni si sono trovati esposti — improvvisamente e senza preparazione — all’orrore della loro infanzia, per di più sotto forma d’immagini simboliche, senza riferimento con la realtà, e non hanno più voluto, a nessun costo, riesporsi di nuovo a quel genere di esperienze. E a ragione, a ben considerare.

Essi non sanno però che questa loro esperienza, anche quando è stata talvolta spacciata per terapia, era in verità il contrario: e cioè una forma di traumatizzazione che ha cementato il disorientamento dell’infanzia mediante espedienti simbolici, calando nella psiche, di questa infanzia, una versione impietrita, difficilmente dissolvibile.

Le conseguenze di simili esperienze sono assai spiacevoli, perché gli interessati preferiscono a questo punto affidarsi alla droga negatrice di vita, ai farmaci o alle false teorie piuttosto che alla verità. Non immaginano che nel quadro d’una lenta e cauta procedura potrebbero sicuramente sopportare la verità e che soltanto questa, alla lunga, può essere d’autentico sollievo.

Noi eleviamo alte mura per schermarci da fatti dolorosi, perché non abbiamo mai saputo della possibilità di vivere conoscendo la verità. «E perché dovremmo?», ci si potrebbe chiedere. «Quel che è stato, è stato. Che motivo c’è di tornarci su?». La risposta a questa domanda è alquanto complessa. Con questo libro e sulla base di vari esempi, tenterò di dimostrare perché non possiamo, né dobbiamo rinunciare, sia come individui, sia come società nel suo complesso, alla verità sulla nostra infanzia.

Al di là del muro che dovrebbe proteggerci dalla storia di questa infanzia c’è infatti - ancora e sempre - il bambino disprezzato che siamo stati, e che è stato allora abbandonato a se stesso e tradito. Sta aspettando che troviamo il coraggio di dargli retta. Vorrebbe essere protetto e capito, sottratto all’isolamento, alla solitudine e al mutismo. Ma questo bambino che da tanto tempo attende la nostra comprensione, il rispetto e la simpatia che gli dobbiamo, non ha solo dei bisogni da soddisfare. Ha in serbo per noi anche un regalo, un dono di cui abbiamo assoluta necessità per vivere autenticamente, un dono che non possiamo comperare da nessuna parte e che soltanto quel bambino può darci. E il dono della verità, che significa liberazione dal carcere degli atteggiamenti mentali distruttivi e delle menzogne radicate, e infine anche il dono della sicurezza conferitaci dalla riacquistata integrità. Quel bambino attende solo la nostra disponibilità ad avvicinarci a lui, per abbattere col suo aiuto le barriere. Molte persone non lo sanno. Soffrono di sintomatologie tormentose e chiedono consigli a medici che - similmente a loro - si sottraggono all’indispensabile verità. Seguono questi consigli, sottoponendosi per esempio a complicate quanto assolutamente inutili operazioni, o fanno soffrire gli altri. Oppure, ancora, ingurgitano sonniferi pur di non essere agitati da sogni che potrebbero ricordar loro il bambino che è in attesa oltre il muro. Però quel bambino, finché lo condanniamo al silenzio, non sa esprimersi altrimenti che nel linguaggio dell’insonnia, della sintomatologia fisica e della depressione. Pillole e droghe non sono d’aiuto, possono solo disorientare ulteriormente la persona adulta.

Molte persone non sanno nemmeno questo, ma molte altre ne sono invece da tempo consapevoli, eppure non sono capaci di uscirne. Alcuni avvertono che la rimozione dei traumi dell’infanzia avvelena loro l’esistenza; sanno che questa rimozione è stata in passato necessaria al bambino per garantirgli la sopravvivenza, perché altrimenti il piccolo organismo sarebbe morto di dolore. Alcuni cominciano a intuire che la conservazione della rimozione nell’adulto ha conseguenze devastanti. Però ritengono che bisogna rassegnarsi perché non conoscono alternative.

Non sanno che è senz’altro possibile dissolvere la rimozione dell’infanzia e imparare a sopportare la verità: in modo non pericoloso, nel corso d’un processo graduale. Non all’improvviso, non mediante interventi violenti, ma lentamente, tenendo conto delle resistenze che via via si manifestano, un passo dopo l’altro.

Neanche io l’ho saputo, per molto tempo. Gli studi e la pratica della psicoanalisi mi avevano messa nell’impossibilità di scoprire la realtà. Però da quando ho sperimentato anch’io il processo della lenta assimilazione di singoli aspetti della mia infanzia, sento il dovere di comunicare quest’informazione a chiunque soffra la separatezza dalle proprie radici. Per compiere questa opera ho dovuto attendere fino al momento in cui la terapia cui mi sono sottoposta è stata descritta e pubblicata in volume (cfr. J. Kon-rad Stettbacher, Wenn Leiden einen Sinn haben soll [Se si vuole che la sofferenza abbia un senso], Hoffmann und Campe, Am-burgo 1990).

Ora so, sulla base di specifici esempi, che questa descrizione della terapia primaria di Stettbacher ha potuto contribuire a smantellare almeno in parte certe condizioni di cecità, a dissolvere parzialmente le conseguenze d’antiche lesioni, a trovare aperture verso la verità e a stabilire quel contatto col bambino dentro di noi che è assolutamente necessario per riacquistare la perduta consapevolezza di se stessi.

Ciò che vale per la terapia del singolo, vale anche per l’evoluzione della coscienza collettiva. Anche in questo caso la mostruosa verità sulle cause e sulle conseguenze dei maltrattamenti inflitti ai bambini e sui focolai della violenza non può essere scoperta tutta d’un tratto, ma solo gradualmente. (Cfr.: A. Miller, La persecuzione del bambino, 1980; L’infanzia rimossa, 1990 e Der gemiedene Schlussel, 1988 [La chiave accantonata]).1 È un concetto che voglio chiarire con un esempio riferito al lavoro d’informazione cui io stessa mi sto dedicando.

Subito dopo la pubblicazione dei miei primi tre libri, all’inizio degli anni Ottanta, alcuni periodici e quotidiani mi hanno chiesto di scrivere degli articoli. Non appena facevo però sapere che intendevo parlare della violenza nell’ambito della famiglia, l’interesse alla mia collaborazione svaniva completamente. L’unica eccezione è rappresentata da una redattrice del settimanale «Brigitte» che, nel 1982, riuscì a imporre, anche contro le resistenze di alcuni colleghi, la pubblicazione di un mio articolo sugli abusi sessuali commessi ai danni dei bambini. L’articolo si intitolava: «Le figlie non tacciono più» ed è stato in seguito ripreso in una riedizione di I l bambino inascoltato. Riferiva del coraggio con cui alcune donne statunitensi avevano pubblicamente esposto le storie delle gravi violazioni sofferte nella loro infanzia: lo avevano fatto per non dover più a lungo vivere da sole con questo segreto terribile e devastatore, ma anche per sollecitare col loro esempio altre donne a contribuire all’abbattimento del muro di silenzio con cui la società si scherma dalla possibilità di conoscere cosa avviene nell’infanzia. Quelle donne avevano capito che la presunta protezione offerta dal muro ha effetti distruttivi su coloro che sono sopravvissuti ai maltrattamenti, e che - in termini quantitativi - questi sopravvissuti costituiscono più della metà dell’intera popolazione.

In quella epoca il tema degli abusi sessuali sui bambini era, in Germania, un assoluto tabù, e l’effetto dell’articolo fu simile al crollo d’una diga. Centinaia di donne, d’ogni condizione sociale, scrissero alla redazione e a me.

Raccontavano degli abusi brutali subiti nella loro infanzia e del muro di silenzio che le separava da 1 I titoli delle opere citate sono in italiano quando esistono le edizioni italiane, altrimenti sono quelli originali, eventualmente coll’aggiunta della traduzione, quando appare opportuna per una più chiara comprensione. (N.d.t.) 10

quelle esperienze e quindi da una rilevante parte della loro personalità. In tutte quelle lettere ricorreva, come un refrain, la stessa frase: «Questa è la prima volta che ne riferisco». E la maggior parte di quelle donne completava il concetto così: «L’autorizzo a rendere pubblica la mia storia, perché altre donne che l’abbiano vissuta sappiano di non essere sole; anch’io, fino a quando ho letto il suo articolo, avevo sempre pensato che fosse successo soltanto a me. Però la prego di non menzionare assolutamente il mio nome».

La maggior parte di quelle donne erano sposate, erano madri di più bambini, molte di loro avevano delle «terapie»

alle spalle, però non avevano osato parlare del trauma della loro infanzia né col marito, né coi terapeuti. Si erano trovate costrette a tacere così a lungo e così radicalmente l’esperienza che aveva improntato tutta la loro esistenza e che continuava a minacciarle nella fantasia avvelenando loro la vita, perché evidentemente non avevano trovato nel loro mondo quel testimone consapevole che avrebbe reso possibile una almeno parziale liberazione dall’isolamento prodotto dal loro «segreto»: sia pure soltanto, inizialmente, attraverso la mera possibilità di parlare delle sofferenze patite. Ognuna di quelle donne m’era apparsa allora come una bambina di fronte a un muro enorme, privo d’un sia pur minimo spiraglio che potesse offrire un brandello di speranza alla piccina prigioniera nella sua solitudine.

Da allora molte cose sono cambiate. La prima iniziativa è stata la creazione, a Berlino, dell’associazione di mutuo soccorso «Wildwasser» («Torrente»), e l’esempio è stato poi seguito dalla fondazione di molti altri gruppi simili, in tutto il paese. Queste associazioni continuano, certo, a scontrarsi ancora con resistenze, indifferenza e ignoranza, specie se dipendono dai contributi pubblici per poter svolgere la loro opera che mira a soccorrere altre cerchie di persone interessate. Però il muro del silenzio non è più compatto come qualche anno fa: quanto meno per ciò che concerne gli abusi sessuali commessi sulle bambine.

Senza l’aiuto venuto dal movimento delle donne, questa rapida evoluzione sarebbe stata quasi impensabile. È

soprattutto a questo movimento che si devono l’aperta denuncia della scandalosa prassi seguita da certi tribunali e il fatto di richiamare l’attenzione dell’opinione pubblica sulla solitudine delle vittime. Sono stati e sono modi per smascherare forme di crudeltà che

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erano apparse fino a quel momento del tutto «normali». Eppure nemmeno il movimento delle donne ha saputo togliersi subito tutte le bende dagli occhi: e del resto un diverso atteggiamento sarebbe stato quasi impensabile.

Anche per comprendere e assimilare una mostruosa verità sul nostro passato collettivo abbiamo bisogno di molto tempo, esattamente come avviene nella terapia individuale. Altrimenti sussiste il pericolo che la rimozione ne risulti ancor più accentuata. Avremo ancora a lungo bisogno di illusioni, di sostegni e di stampelle per continuare a esporci ad aspetti sempre nuovi e dolorosi della verità prima di arrivare al momento di poter accettare la verità sulla condizione del bambino in tutta la sua portata.

Per questa ragione, quando ha richiamato l’attenzione sullo scandaloso fenomeno costituito dall’abuso sessuale che si compie ai danni delle bambine, il movimento delle donne non ha potuto rinunciare ad alcune illusioni; ha soprattutto avuto bisogno di illudersi che le madri siano innocenti di questi delitti. Ho notato che le pubblicazioni femministe hanno esitato ad accettare i miei libri perché non ero disposta ad attribuire solo agli uomini la responsabilità degli abusi commessi sui bambini: ho insistito invece nell’affermare che entrambi i genitori fanno mancare al bambino maltrattato la protezione e l’amore che gli spettano, e che una madre attenta e affettuosa non consentirebbe il verifi-cafsi di certi abusi (cfr. : A. Miller, Der gemiedene Schlùssel [La chiave accantonata] e L’infanzia rimossa).

Nel frattempo, evidentemente, anche il movimento delle donne è però approdato a una fase del processo in cui si può smantellare l’illusione secondo cui i maschi soltanto eserciterebbero violenze sui bambini.

Una femminista mi ha inviato i risultati d’una sua ricerca, svolta su un gruppo di giovani che scontano in carcere pene loro in-flitte per aver aggredito e violentato delle donne per strada. Ha scoperto che benché la legge definisca questi individui responsabili di delitti di natura sessuale, la motivazione sessuale era sostanzialmente estranea a certi casi di stupro e di umiliazione di donne perfettamente sconosciute ai loro aggressori. Questi avevano invece agito per vendicarsi del loro stesso stato di inerme abbandono in occasione di violenze patite e poi rimosse in passato, e che avevano continuato a rimuovere a spese altrui.

La ricerca ha accertato che tutti questi stupratori erano stati violentati nella prima infanzia dalle loro madri: o con scoperte pratiche sessuali o mediante clisteri, oppure con entrambi questi mezzi. Pratiche perverse d’ogni genere erano servite a tenere continuamente in scacco il bambino, senza che potesse disporre d’una minima occasione per difendersi.

Ancora trenta anni fa i clisteri passavano per una pratica medica, benché fossero in sostanza degli stupri: una pratica cui si ricorreva per assoggettare al controllo degli adulti le naturali funzioni intestinali del bambino. Per smascherare e denunciare, oggi, il carattere violatore e distruttivo di questa pratica, è occorso che l’indagine fosse svolta da una ricercatrice matura e consapevole: questa donna, per fortuna, non si è trovata nella condizione di dover risparmiare sua madre, e non ha quindi avuto il bisogno di nascondere la verità.

Sono ben lungi dal voler giustificare un delitto adducendo come scusa il passato di chi lo ha commesso: l’azione delittuosa non è una necessità ineluttabile. L’interessato vi si potrebbe sottrarre se fosse disposto a liberarsi della rimozione che lo condiziona. Ma i più non sono disposti a compiere questo passo, e gli stupratori - una volta diventati padri anche loro - si trovano nella condizione di potersi vendicare impunemente delle loro madri: fra le quattro mura di casa, a danno di moglie e figli, e stavolta senza che intervenga la polizia.

I delitti di questi individui vanno qualificati per quello che sono: ma lo stesso vale per i delitti dei loro genitori, dei loro nonni e dei milioni di sfruttatori dell’infanzia delle passate generazioni di cui questi stupratori sono il prodotto. E anche la perversione delle loro madri era una conseguenza di questa fatale concatenazione d’eventi.

Perché il millenario crimine costituito dalle violenze inferte ai bambini cessi di produrre tanti danni -

ammantandosi di etichette dall’apparenza innocua come: tradizione, «lo si è sempre fatto», educazione, «per il tuo bene» - occorre garantire l’accesso all’intera verità. I capitoli che seguono cercano di offrire al lettore questo accesso, partendo da punti di vista sempre differenti, ma muovendosi attorno allo stesso specifico tema: e questo perché si possano scoprire nel muro del silenzio i varchi che danno la possibilità di lanciare liberamente un’occhiata a quello che accade al di là del muro.

«Che sarà mai questa occhiata?» si potrebbe obiettare, e: «Come può bastare?». Certo, un fuggevole sguardo non può sostituire la terapia. Però può destare la voglia di vedere cosa realmente accade al di là del muro, e soprattutto suscitare una sana curiosità sui vari, anche riposti, aspetti della vita.

Nel mio caso fu la pratica della pittura spontanea, che incominciai nel 1973, ad assolvere questa funzione. Senza questa esperienza non avrei affatto avuto il coraggio di espormi a una nuova terapia (cfr. A. Miller, Bilder einer Kindheit e L’infanzia rimossa).

Le persone che conoscono soltanto il muro del silenzio, vi si avvinghiano, si comportano come se potesse offrire loro riparo da ogni ansia. Però le persone che abbiano lanciato anche una sola volta un’occhiata oltre il muro, non se la sentono più di sopportare oltre l’esistenza di questa barriera insensata. Non riescono più a figurarsi di poter tornare a vivere come prima, rinunciando alla consapevolezza acquisita: perché hanno realizzato che ciò che prima chiamavano vita non era affatto vita. Il fatto di non essersene accorte per tanto tempo fa parte della loro tragedia e del loro destino. Ed è una tragedia che vorrebbero risparmiare agli altri, nella misura del possibile.

Vogliono far capire agli altri qual è la causa delle loro sofferenze, e che queste sofferenze si possono eliminare.

Vogliono far sapere agli altri che la vita — ogni vita — è troppo preziosa per essere sciupata, dissipata o gettata via. E che vale la pena di provare gli antichi dolori in modo da liberarsene: per sempre.

I • APERTURE E PROSPETTIVE

1 • L’INIZIATIVA DI ÈVA

Per cominciare, voglio raccontare la storia di una donna che mi ha scritto e che ha partecipato, senza saperlo, alla stesura di questo libro, in particolare del capitolo i, 5. Mi ha autorizzata, è vero, a utilizzare il contenuto della sua lettera, però non ne menzionerò il vero nome. Così ho deciso di chiamarla Èva.

Quello che ho appreso della storia di Èva assomiglia, almeno per la parte iniziale, alle molte altre storie di cui vengo quasi quotidianamente a conoscenza: maltrattamenti e disorientamenti nell’infanzia, accompagnati dalla durezza, dall’ignoranza e dall’indifferenza dei genitori, i quali definivano il trattamento che le infliggevano un’educazione timorata di Dio. E poi, da adulta, l’alcool, i tentativi di suicidio, due matrimoni naufragati, tre terapie fallite, occasionali e brevi soggiorni in cllniche, nuovo disorientamento prodotto da farmaci, cure disintossicanti: una catena ininterrotta di miserie. E, in mezzo a tutto questo, un bambino, una nuova vittima, perché una donna siffatta non può essere madre fino a quando non sia diventata madre della bambina abbandonata, maltrattata e ignorata che è lei stessa.

Infine, coll’aiuto d’una terapia rivelatrice, Èva è riuscita a salvarsi la vita e anche la sua condizione di madre, vale a dire l’avvenire del figlio.

Per quest’ultima parte, la storia si differenzia dalle molte altre che mi capita di leggere. Questa donna l’ha spuntata perché ha saputo far riaffiorare dalla rimozione quello che le era successo: passo dopo passo, nel corso di un lungo tragitto. Ci ha lavorato per anni, e - così mi ha scritto - rimarrà per tutta la vita disponibile ad accogliere altri aspetti del suo passato, episodi di cui potrebbe riacquistare coscienza e che saprà assimilare. Però le sono già bastati i primi anni di terapia per liberarsi dalla dipendenza dall’alcool, per rinunciare alla cecità e per proteggere suo figlio e se stessa. Non intende compromettere oltre queste due esistenze: e ora può riuscire nell’impresa. Perché la dipendenza dall’alcool era il prezzo delle illusioni senza le quali riteneva, prima, di non poter vivere. Ora può farlo.

Il lavoro che si è addossata per cercare di capire la sua vera storia è stato, nei primi anni, assai difficile, perché si era a lungo rifiutata di credere che dei genitori - a causa dell’ignoranza della loro storia -

potessero tormentare ininterrottamente i figli senza che nessuno tentasse d’impedirlo. Tuttavia, non appena Èva ha preso confidenza con la verità, non appena è stata pronta a prendere sul serio questi segnali e a non sottrarvisi più con la fuga nell’alcool, i sintomi fisici, i sentimenti e i sogni non hanno più smesso di indicarle precisi dati di fatto.

Lo stupore di fronte all’inattesa svolta nella sua vita ha suscitato in lei il desiderio d’informare gli altri delle cognizioni acquisite nel corso della terapia, perché le è risultato sempre più evidente di non essere un caso isolato. Èva, in passato, aveva lavorato come giornalista, e quindi ha pensato di produrre dei programmi televisivi che rendessero chiara la situazione del bambino maltrattato, presentandola dal punto di vista di questo ultimo. Credeva di poter suscitare l’interesse dei responsabili delle redazioni, perché era convinta della validità universale delle cognizioni ormai acquisite. Ma è proprio a questo punto che sono insorte le difficoltà, come del resto so anch’io, per esperienza diretta. Èva ha sottovalutato le resistenze, la forza della rimozione che opera in ogni individuo. Anch’io, nei contatti che ho con esponenti dei mezzi di informazione, non faccio che scontrarmi con le conseguenze di questa rimozione, perfino nei casi in cui si sia esplicitamente sollecitato un mio contributo (cfr. L’infanzia rimossa, cap. i, 5). Piuttosto che correre un rischio, rinunciano a informazioni che sono d’importanza vitale per noi e per le future generazioni. S’attengono alle concezioni tradizionali, ostili alla vita, pur di non essere costretti a mettere in discussione i loro genitori.

Èva non aveva fatto i conti con questa realtà. Aveva sì sperimentato, nel corso della terapia, le massicce resistenze che essa stessa aveva opposto all’idea di dover prendere coscienza del comportamento violento dei suoi genitori. Sarebbe stata disposta a tutto - così aveva pensato - piuttosto che guardare in faccia e sopportare l’inconcepibile verità della sua infanzia e tollerare consapevolmente questa visione.

Ma poi la sicurezza datale dal l’esperienza, la constatazione della progressiva guarigione, la graduale liberazione dalla dipendenza dall’alcool subentrata a ogni nuovo frammento di verità che aveva osato riprovare e far affiorare a livello di coscienza, l’avevano infine portata al punto di dimenticare o quasi le passate resistenze. E questo l’ha indotta a credere nella disponibilità degli altri. Voleva essere messa nella condizione di poter dire agli alcolizzati, con l’aiuto della sua stessa storia, che c’è una via d’uscita, che non è affatto necessario continuare a distruggersi pur di restare ciechi. Perché il sapere non uccide, ma libera.

I colloqui che Èva ha avuto coi rappresentati dei media, quando è andata a esporre loro i suoi progetti, le hanno invece assai presto dimostrato che la sua speranza era solo un’illusione: ma non più una di quelle pericolose illusioni sulla sua infanzia che l’avevano precipitata nell’alcool. Perché adesso, a occhi aperti, era ormai capace di rettificare le illusioni, non era più costretta a subire l’atteggiamento di coloro che rifiutano la verità. E ha incontrato persone che hanno confermato le sue esperienze. Però nelle redazioni le è anche capitato - per esempio - di sentir dire che il tema dei maltrattamenti cui sono esposti i bambini era già stato affrontato l’anno precedente; e che di conseguenza occorreva far passare un altro anno ancora, perché «non si può tornare troppo spesso» sullo stesso argomento.

Èva ha avuto spesso l’impressione di sognare. Ha pensato: «Qui non si tratta d’un “tema” qualsiasi, come della finale di un ennesimo torneo di tennis o dell’esplorazione delle piramidi cui oggi ci si dedica con enorme profusione di mezzi tecnici. Perché non si spiega piuttosto che nell’antichità e nel primo medioevo la metà dei neonati era affidata a balie, e che, di questa metà, la metà ne moriva, tanto che le balie erano — proprio per questa ragione - chiamate “fucine d’angeli”? Come mai le ricerche sui faraoni sono considerate tanto più importanti dell’informazione che l’infanticidio risale alle radici della nostra cultura e che siamo ancora ben lungi dall’essere! sbarazzati di questo retaggio? Come mai solo poche ricerche specialistiche offrono queste informazioni e nemmeno queste poche trovano spazio sui giornali e alla televisione? Come mai uomini politici che pur rivestono cariche di rilevante responsabilità definiscono “megalomane” il progetto di istituire un centro professionale di assistenza e di consulenza per le donne che abbiano subito abusi di natura sessuale? Qui è in gioco il nostro futuro, è in ballo la possibilità di guardare alle origini della miseria umana e di superare concezioni medioevali; qui si tratta di dissolvere l’ignoranza che ha distrutto trenta anni della mia vita e che continua a distruggere tante altre vite. È

appunto questo che voglio impedire. È possibile che interessi a così poca gente? Mi sento responsabile, o quanto meno corresponsabile se - conoscendo la verità — non opero contro queste forme di distruzione. È possibile definire tutto questo un “tema” come tanti altri? Non ne va della base stessa della nostra esistenza? Non rischiamo di essere tutti distrutti dalla nostra ignoranza? Voglio dimostrarvi che la vostra riluttanza ad accogliere nuovo sapere non è un’innocua omissione, bensì una scelta (non importa se cosciente o meno) negatrice della consapevolezza e quindi, alla fin fine, della vita».

È da presumere che facciano esperienze analoghe anche altre persone che io chiamo testimoni consapevoli, persone che si adoperano perché si sappia la verità sull’infanzia (cfr. L’infanzia rimossa, pag. 140 e seguenti). Èva, comunque, non si è arresa subito. Si è anche detta disposta a illustrare pubblicamente alcune parti della sua storia per offrire riferimenti assai concreti, al fine di distogliere altri giovani dalla tentazione dell’alcool e delle droghe.

Gli interlocutori che ha trovato nelle redazioni si sono però limitati a rispondere che temevano che tutto questo potesse apparire lacrimevole: dopo tutto — ecco le obiezioni — ognuno di noi ha dovuto incassare dei colpi in vita sua, e non c’è richiesta di autocompassione e di comportamenti sacrificali. Nel sentir così riecheggiare il linguaggio dei suoi genitori, Èva ha infine rinunciato a rivolgersi ai media. Ha preso contatto con l’organizzazione EPPOCH (End Physical Punishment of Childrerì) che persegue obiettivi simili ai suoi e che si batte in Inghilterra per una nuova legislazione che risvegli le coscienze e chiarisca che i maltrattamenti inflitti ai bambini sono un grave delitto. Ha scritto anche a me e mi ha proposto di fondare in Svizzera e in Germania un analogo movimento civico.

Questo libro è la mia risposta alla sua lettera. Sono persuasa che l’avvio di movimenti d’opinione e di iniziative simili, da parte di Èva e di altre persone, potrà conseguire successi perché - nonostante la diffusa ignoranza —

nessuno potrà più, al giorno d’oggi, impedire a questi movimenti di proseguire nel lavoro d’informazione. Anche questo libro prova che queste iniziative possono sollecitare il prossimo a pronunciarsi e a parlare. Le varie parti di questo libro — benché debbano la loro nascita a spunti diversi — sono strettamente connesse fra di loro. Ruotano tutte attorno all’argomento che è accennato nell’esempio appena menzionato: il coraggio di cambiare scaturisce dal risentimento — fattosi ora consapevole ed elaborato a livello razionale

- contro ciò che era ed è distruttore di vita.

Lo spunto immediato per scrivere il capitolo mi è stato offerto dalla lettera di Èva, di una Èva indignata perché prestigiosi giornali tedeschi avevano arrogantemente sminuito come «lacrimevoli» le rivelazioni dei crimini sottaciuti e celati che si commettono ai danni dei bambini. La collera di questa lettrice contro F «idiozia della stampa» — così si è espressa — mi ha fatto capire che debbo prendere pubblica posizione su questo tema, rifacendomi, per documentare le mie affermazioni, ai fatti concreti che conosco.

Mi sono resa conto che non reagire a definizioni come «lacrimevole», solo perché mi spiego benissimo da quale mentalità scaturiscono, significherebbe sottrarsi alle proprie responsabilità. È ovvio che posso intuire le ragioni dell’ignoranza di un giornalista, se penso a lui come a un bambino schiaffeggiato, e posso immaginare come sia stato educato a non sentire e a non capire. Ma quale membro d’una società che può andare incontro alla sua fine a causa dell’impiego di simili tecniche distruttive, devo prendere posizione. Perché l’irrisione della compassione umana

- quando ci si trova di fronte ad autentiche crudeltà - può dissuadere coloro che sono stati a loro volta bambini maltrattati, e che hanno già cominciato a sentire e a capire, dal levare la loro voce e dal riferire le loro esperienze.

È un’irrisione che rafforza i muri di silenzio, i quali vanno invece abbattuti il più sollecitamente possibile.

2 • USCIRE DALLA PRIGIONE DEL DISORIENTAMENTO

La prima esperienza col muro del silenzio l’ho fatta da bambina. Mia madre si compiaceva di non rivolgermi la parola per giornate intere, solo per dimostrarmi in questo modo il suo potere assoluto e impormi l’ubbidienza. Aveva bisogno di questo potere per nascondere a se stessa e agli altri la propria insicurezza, e anche per sottrarsi al rapporto con una figlia che non aveva mai voluto. I bisogni, le domande, le profferte della bambina piccola s’infrangevano contro quel muro senza che mia madre dovesse rispondere a nessuno di questo sadismo, perché considerava il suo comportamento come una giusta — perché meritata — punizione delle mancanze che mi attribuiva, come un dovere d’impartirmi una «lezione».

Per quella bambina — rimasta a lungo senza fratelli, con un padre che non la prendeva mai sotto la sua protezione e che era raramente in casa — il dover sopportare il lungo e ostinato mutismo della madre era terribile. Ma ancor più tormentoso del silenzio era lo sforzo continuo, disperato della bambina di scoprire finalmente la causa di quella tortura. Similmente a quanto accade nella Colonia penale di Kafka, alla piccola non era infatti mai spiegata quale fosse la mancanza punita. Era un’omissione che conteneva un messaggio: se non sai nemmeno perché hai meritato la punizione, vuoi dire che non hai coscienza. Cerca, scava, sforzati fino a quando la coscienza ti dirà di che colpa ti sei macchiata. Solo allora potrai cercare di scusarti e, a seconda dell’umore della tiranna e se avrai fortuna, ti sarà forse perdonato.

Sapevo forse che la mia vita era incominciata in un regime totalitario? E come avrei potuto saperlo?

Non mi rendevo nemmeno conto che mi si trattava in modo sadico e crudele. Non avrei mai osato pensarlo. Piuttosto di mettere in discussione mia madre, ero disposta a dubitare della sensazione d’essere trattata in modo ingiusto e di essere disprezzata. S’aggiunga che non conoscevo altre madri, che non potevo fare dei paragoni, e dal momento che mia madre diceva di se stessa di sacrificarsi e di essere perfettamente consapevole dei suoi doveri, io volevo crederle. E dovevo anche crederle perché la conoscenza della verità m’avrebbe uccisa.

Dunque — pensavo — la colpa deve essere della mia cattiveria se la mamma non mi parla, se non risponde alle mie domande, se mi ignora quando la prego di darmi una spiegazione, se sfugge i miei sguardi e corrisponde con freddezza al mio amore. Se mamma mi odia, evidentemente merito questo odio: così pensa il bambino.

Il ricordo del senso d’isolamento di quei giorni, della solitudine della bambina che cerca disperatamente la ragione della punizione che le è stata imposta, è rimasto per quasi sessant’anni completamente rimosso in me. Ho tradito dunque, con la rimozione, la piccola bambina che voleva capire a ogni costo le assurdità del comportamento della madre, per poter finalmente cambiare la propria sorte, per indurre finalmente la madre - di cui aveva assoluto bisogno - a parlare. Ho dovuto tradirla perché nessuno mi ha aiutata a vedere e a sopportare la verità, perché nessuno mi ha aiutata a condannare le crudeltà. Ho continuato la solitaria ricerca d’una mia colpa anche nei labirinti delle concezioni astratte, che non facevano così male come i nudi fatti e che mi promettevano almeno un surrogato dell’orientamento perduto. I sentimenti provati nell’infanzia erano stati rimossi prima di poter affiorare a livello di consapevolezza, poiché la loro intensità avrebbe ucciso la piccina. Soltanto in questi ultimi anni, grazie alla terapia che mi ha consentito di revocare gradualmente la rimozione, mi sono potuta permettere di respirare per la prima volta, consapevolmente, le sofferenze, la disperazione e la rabbia impotente e giustificata della bambina ingannata. E soltanto a questo punto mi è divenuto evidente in tutta la sua portata il delitto commesso ai danni della bambina che sono stata. Un delitto che non si può paragonare con nessuna delle crudeltà che ho pur avuto modo di soffrire nell’arco della mia vita successiva.

Mi sono trovata anche in seguito, da adulta, di fronte al fenomeno del muro di silenzio, ma non vi sono più stata esposta in quella misura totalitaria. Ho potuto valutare il fenomeno, giudicarlo, condannarlo, non sono stata costretta a farmene disorientare, sono stata in grado di difendermi da accuse ingiuste, di cercare l’aiuto necessario, non ero più condannata alla cecità. Mi è capitato ancora, ripetutamente, di aver a che fare con persone che avevano - chi più e chi meno - ottuso la loro sensibilità, tanto da essere incapaci d’uno scambio sincero di sentimenti e di pensieri. E ho notato spesso che cercavano di compensare l’insicurezza emotiva che scaturiva da quella corazza con l’esercizio del potere. Scansare i fatti, barricarsi con l’aiuto del silenzio pareva essere il loro unico modo di proteggersi.

Eppure, quando ripenso a tutti questi incontri col muro di silenzio - incontri dolorosi, irritanti, indegni o anche solo spiacevoli -, nessuno è stato minaccioso e devastante come il silenzio di mia madre nel tempo in cui dipendevo totalmente da lei. Da adulta, quando mi sembrava importante, potevo opporre fatti e domande al mutismo, osservare criticamente il comportamento della persona con cui avevo a che fare, verificare i miei giudizi; oppure potevo anche rinunciare a questo o a quell’altro rapporto perché avevo modo di accedere ad altre persone che non si chiudevano nel silenzio, che non s’arrogavano il diritto di assumere simili atteggiamenti nei miei confronti. Ma da bambina non avevo questa scelta.

Non potevo dire: mi cerco un’altra madre, una donna aperta che mi rispetti, che mi parli, che mi spieghi il suo comportamento, che sappia quello che fa perché vive consapevolmente, e che non mi tratti continuamente come se fossi aria. Da bambina non ho avuto altra possibilità che subire quel silenzio, cercare in me la colpa, restar cieca di fronte all’ipocrisia e alle pretese tiranni-che di mia madre; e, in seguito, cercare di compensare la perdita della mia verità con le speculazioni filosofiche sull’«inconoscibi-lità della verità». Poiché la verità dei fatti era così brutale e inconcepibile, ho dovuto negarla. E ho dovuto pagare un prezzo molto alto per questo rimedio, un prezzo fatto di limitazione del mio grado di consapevolezza cui si sono sostituiti sensi di colpa.

Da quando conosco la mia verità, so che a innumerevoli altre persone sono capitate esperienze simili alle mie, anche quando non sono - o non sono ancora - capaci di ricordare i fatti. Ma alcune sono evidentemente in grado di farlo, perché le rivelazioni su casi di maltrattamenti di bambini si moltiplicano in ogni parte del mondo. Quelli che espongono le loro traversie ne trovano a volte conferma in certuni che, è vero, non hanno ancora

‘ìj«ssi stessi osato volgere lo sguardo all’indietro perché sono stati ‘•da ogni parte sconsigliati dal farlo, ma si sentono sollecitati ora, i proprio da queste rivelazioni, a confrontarsi con la storia della •loro infanzia. Però vanno anche spesso a sbattere contro una | barriera di quasi inconcepibile ignoranza, che proprio nelle cer-;> chic degli intellettuali è più difficile infrangere, perché questi si sono corazzati mediante le teorie contro il riaffiorare dei ricordi rimossi e sono barricati dietro questo scudo. Tutte le menzogne tradizionali, che non siano state ancora smascherate in quanto \ tali, si possono stilizzare sotto forma di teorie e di dottrine, che vengono poi trasmesse impunemente nelle università, almeno fino a quando gli studenti tollerano in silenzio e acriticamente la liquidazione della verità.

So di studenti che, volendo occuparsi, nelle loro tesi di laurea, del tema del maltrattamento dei bambini, hanno dovuto fare -durante i colloqui coi loro professori - esperienze per lo più sco-raggianti. I docenti consultati cambiavano rapidamente argomento, si defilavano, si mostravano imbarazzati o sarcastici, sconsigliavano di norma la scelta di questo tema. E quando gli studenti dimostravano di non volersi comunque arrendere, dovevano prepararsi ad affrontare - fra l’altro - anche forme di aperta ostilità. La capacità di tener testa a queste prepotenze dipendeva poi dalla loro storia personale che, in chi si occupi di questo argomento, ha un ruolo molto importante: non lo si può esaurire con le sole capacità intellettuali di cui uno disponga.

In un manoscritto che aspetta purtroppo da anni, presso una casa editrice, il momento della pubblicazione, Lloyd de Mause ha descritto il tragico destino d’un brillante scienziato, le cui pionieristiche ricerche sulla condizione dell’infanzia negli USA durante gli ultimi due secoli (cfr. Glenn Davis, Childhood and Hi-story in America, New York 1976) sono state irrise dalla sua facoltà universitaria e dalla stampa a tal punto da portarlo infine al suicidio. La disperazione indotta dall’indifferenza con cui le autorità - le figure paterne - ignoravano le prove che aveva raccolto è stata così devastante per lui da indurlo a togliersi la vita. Se fosse stato nella condizione di poter mettere in discussione suo padre, sarebbe anche stato capace di scoprire e comprendere la paura degli altri e avrebbe rinunciato alla loro approvazione senza arrivare al gesto estremo dell’autoannientamento.

Tuttavia negli anni Cinquanta tutto questo era assai più difficile di quanto lo sia oggi.

Questi o analoghi generi d’insofferenza e di angheria mostrano il ruolo distruttivo svolto dalla rimozione nella vita della persona adulta e nell’operato di molti intellettuali. È quasi inconcepibile che al mondo —

per quel che mi risulta — non esista ancora un’unica facoltà universitaria in cui si studino e s’insegnino le conseguenze delle lesioni psichiche inferte ai bambini. Ed è una situazione sconcertante ove si pensi che quasi ciascuno di noi è stato vittima di forme palesi o occulte di maltrattamento, spesso mascherate con la definizione innocua di «educazione». E che ciascuno di noi avrebbe tanto da raccontare da riempirne volumi se osasse consentire ai propri sentimenti di affiorare, se non fosse costretto a rispettare il muro di silenzio che ha dentro di sé.

Troppe, fin troppe persone hanno buone ragioni per non voler ricordare le tormentose esperienze dell’infanzia. Temono, dicendo la verità, la vendetta dei genitori, e s’attengono morbosamente al principio secondo cui le verità potrebbero essere molteplici, e non una soltanto. Sembra quasi che non riescano a concepire la cruda realtà dei fatti. E così si constata per l’ennesima volta: tutto è possibile quando la verità fa paura, quando non la si vuole vedere e si dispone d’un arsenale di pseudoargomenti dai quali farsi ingannare e tranquillizzare. Tuttavia questo non dovrebbe impedire ad altri di scorgere l’inganno.

Le speculazioni concettuali al servizio della rimozione non conoscono limiti. E poiché sia il colpevole, sia la vittima sono interessati alla rimozione, senza conoscere il prezzo che pagano, potrà forse capitare fra qualche secolo che dei filosofi avanzino l’ipotesi che Hiroshima e Auschwitz non siano mai esistite.

Chi abbia invece fatto l’esperienza che la verità immagazzinata nell’organismo è reperibile nonché verificabile con stupefacente precisione, non s’accontenterà mai più di pretesti, di fughe o di «surrogati»

di verità.

Forte dell’esperienza della mia verità, guardo i muri di silenzio che sono stati eretti e li descrivo nei miei libri. E molta altra gente comincia a provare sollievo, a guardarsi a sua volta attorno e a domandarsi, anche se con qualche iniziale esitazione: «Posso davvero credere ai miei ricordi, al mio corpo, ai miei sensi? È proprio vero che non debbo più credere e asserire che il nero è bianco e il bianco è nero?»

Non ingannare più i propri sentimenti e le proprie emozioni, non consentire più a una qualche ideologia di distoglierci dalla

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verità dei fatti, significa già contribuire allo smantellamento del muro di silenzio distruttore di vita e spregiatore di valori umani, quel muro che, da bambini, abbiamo dovuto imparare a rispettare e che non ha fatto che produrre - in continuazione - modi di comportamento fastidiosi.

Il fascismo rende possibile ogni crimine poiché si arroga il diritto di distruggere vite senza dover renderne conto a nessuno. Stabilisce cos’è indegno di vivere, e distrugge cosa non gli fa comodo.

Individui che nell’infanzia abbiano appreso il solo linguaggio della violenza, l’accettano come se fosse l’unico possibile e normale: sia che divengano in seguito le vittime, o i complici di questo sistema.

Cresce però intanto il numero dei giovani che si battono per la vita e non per la sua distruzione.

Sceglieranno la verità dei fatti e non le menzogne ideologiche. Leveranno il loro monito contro l’educazione repressiva, la sottomissione e l’arbitrio brutale prima che sia troppo tardi. Sapranno cogliere i segni distruttori con maggior sensibilità di certi uomini politici che si presumono esperti, i quali continuano invece a tenere in grande considerazione le menzogne d’una educazione brutale e ipocrita solo perché è stata spacciata per giusta e necessaria da una lunga tradizione.

L’abbattimento del muro di silenzio che si oppone al tema del maltrattamento dei bambini segna solo l’inizio d’una evoluzione ormai da tempo necessaria. Costituisce solo la premessa per la liberazione della verità dal carcere delle concezioni ostili alla vita e delle menzogne istituzionalizzate. Tuttavia, perché la verità si diffonda, perché la verità possa essere impiegata al servizio della vita, occorre qualcosa di più d’una mera conoscenza statistica dei fatti. Così ci sono, per esempio, persone che sono perfettamente in grado di dire: «Da bambino ho preso un sacco di legnate.» Eppure sono ancora a mille miglia dalla loro verità, perché non sono capaci di provare coi sentimenti cosa questo significa. Manca loro la consapevolezza, la conoscenza emotiva di cosa ha comportato per loro la condizione d’essere bambini piccoli e indifesi strapazzati e malmenati da adulti infuriati. Parlano con leggerezza d’un «sacco di legnate», e così dicendo s’identificano nell’adulto incosciente, distruttore, violento che disprezza, violenta e distrugge il bambino senza voler rendersene conto, e che non vuole neanche minimamente preoccuparsi delle conseguenze delle lesioni che infligge. Nemmeno Adolf Hitler negava d’essere stato picchiato da bambino. Negava solo i traumi sofferti, rinnegava totalmente i suoi sentimenti ed è per questo che è diventato l’assassino di milioni di esseri umani. Non sarebbe arrivato a questo punto se fosse stato capace di sentire la sua verità dei fatti e di compiangere la sua condizione, se non avesse rimosso l’odio motivato per coloro che avevano causato la sua angoscia, se l’avesse invece capito e rivissuto consapevolmente nelle emozioni anziché pervertire quest’odio in una ideologia. Lo stesso dicasi per Stalin, Ceausescu e tutti gli altri bambini picchiati e umiliati che in seguito sarebbero diventati tiranni criminali.

Il riaffiorare della verità s’annuncia solo nel momento in cui avvenga un mutamento d’atteggiamento, quando la frase «un sacco di legnate» denunci se stessa per quello che è: testimonianza di disprezzo e di umiliazione del bambino. Solo quando una persona è pronta a provare i sentimenti del bambino picchiato che essa è stata in passato, e a rifiutare e a condannare l’irrisione e il cinismo dell’adulto, supera la soglia oltre la quale si perviene alla verità. E da questo momento non costituisce più un pericolo per il prossimo.

3 • LA LOTTA CONTRO LA MEMORIA IN PSICHIATRIA

Nel libro Der gemiedene Schlùssel (1988) [La chiave accantonata] mi sono estesamente occupata del tragico destino di Friedrich Nietzsche, e vorrei mostrare ora — sulla base di questo stesso esempio —

ciò che oggi ancora può accadere a una persona nel momento in cui — come è avvenuto nel caso di Nietzsche — crolli improvvisamente in lei l’intero edificio delle difese mentali. È un crollo non raro, perché la consapevolezza dei maltrattamenti subiti nell’infanzia, immagazzinata nell’organismo e nell’inconscio, non si può sempre reprimere per tutta la vita. Poiché anche gli esperti - compresi quelli cui spetta professionalmente il compito di aiutare il prossimo - hanno imparato non solo durante l’infanzia, ma poi anche durante i loro studi, a ignorare il dato di fatto e la verità dei maltrattamenti inflitti ai bambini, a quanto pare non hanno idea di avere a che fare esclusivamente, giorno per giorno nella loro prassi, con le conseguenze dei traumi subiti nell’infanzia.

La tragedia di Nietzsche non è certo un caso isolato. Chi non conosce situazioni simili? È la tragedia del bambino tormentato cui non è consentito di ribellarsi, cui sia vietato piangere, gridare, sfuriarsi: di vivere insomma; da cui ci si aspettano solo ubbidienza e un buon comportamento. Non gli resta altro da fare che sviluppare una brillante intelligenza, sempre che ne abbia le qualità. La vita gli sfugge, ma il pensiero lo aiuta a sopravvivere. Il corpo cerca d’esprimere la tremenda angoscia in altri modi che non siano il pianto e il grido, continua a manifestare nuovi sintomi nella speranza che qualcuno, finalmente, si faccia attento e formuli — forse — la domanda: «Che cosa ti precipita in tanta disperazione? Come mai, in un solo anno di scuola, ti sei ammalato cento e dieci volte?». Ma nessuno - nel caso di Nietzsche

-fece queste o altre domande. I medici continuarono, come sempre, a prescrivere le loro medicine. E

nessuno cui fosse venuta l’idea che i cronici mal di gola di Friedrich non fossero altro che il tentativo di surrogare quel grido che gli era vietato, che i continui attacchi di reumatismi si verificavano quando le tensioni muscolari diventavano insopportabili. E come potrebbero rilassarsi i muscoli quando scema in continuazione la speranza di poter in un qualche momento, anche per una sola volta, sfogare la rabbia e la paura che vi si sono accumulate?

Una volta diventato adulto, Nietzsche è nella condizione di non riuscire a trovare una compagna. Non c’è donna di cui si fidi, ed è comprensibile dopo le terribili esperienze fatte in passato con le donne della sua infanzia. Benché rimosse, queste esperienze sono immagazzinate nel suo organismo e nel suo animo. Lo scrivere lo aiuta a sopravvivere, ma non può sostituirgli la vita. Non può nemmeno aiutarlo a scoprire la verità. Dal momento che le forti emozioni gli sono rimaste bloccate fin da bambino nella sintomatologia fisica che si manifestava nella gola, nella testa e nei muscoli, non ha modo di provarle, esprimerle e capirle autenticamente. L’angoscia del bambino psichicamente e fisica-mente vessato sa parlare solo un linguaggio cifrato: ed ecco la filosofia di Nietzsche; però — tradotta in questo linguaggio in codice - la voce lieve, sommessa del bambino rimane nascosta nei libri, non sentita né da Nietzsche, né dagli altri, perché completamente distaccata dal brillante livello dell’elaborazione razionale. Infine, nell’uomo di 45 anni, l’antico dolore erompe e sommerge l’intelletto come un’ondata d’acqua dopo l’improvviso crollo d’una diga.

Un giorno del gennaio 1889, in una tranquilla strada di Torino, Nietzsche vede un cocchiere che maltratta brutalmente un cavallo. Si intromette di slancio per separarli, abbraccia il cavallo e piange amaramente, sopraffatto dall’antico risentimento e dalla tristezza. Però l’uomo che ha sempre dovuto reprimere e rimuovere i sentimenti del bambino picchiato non sa controllare tutte le emozioni che improvvisamente l’assalgono. Il labirinto dell’intelletto è invaso dall’ondata, e non c’è nient’altro che ne sostituisca ora le funzioni; e non c’è nessuno che lo aiuti a comprendere le sue emozioni e la sua afflizione per il bambino vessato che, riconosciuto sotto forma di cavallo, voleva salvare. Ormai il ponte sul quale raziocinio e sentimento possono incontrarsi non esiste più. Di conseguenza Nietzsche perde la ragione e sopravvive per altri undici anni in uno stato di totale dipendenza, prima dalla madre e poi dalla sorella.

Cosa è stato fatto per lui dopo quel crollo? Niente. E cosa accadrebbe se Nietzsche vivesse oggi?

Ancora niente d’efficace per aiutarlo. Si può presumere che gli psichiatri gli prescriverebbero massicce dosi dell’ultimo psicofarmaco lanciato sul mercato, per garantirsi che il paziente ingoi per bene le sofferenze accumulate nell’arco di quarantacinque anni e che si sono espresse nella malattia. Questo tipo di medici ha già fatto esperienze su altri uomini di genio: per esempio Hòlderlin, Munch, Van Gogh.

Anche nei loro casi sono riusciti, sempre, a soffocare le sofferenze e, con le sofferenze, la verità.

E qualora fosse richiesto l’intervento di psicoterapeuti, potrebbe ricominciare il risaputo gioco a base di parole vuote. La psicoterapia può offrire un campionario completo di teorie: gli archetipi, l’inconscio collettivo, i mandala del tantrismo, la storiella del neonato crudele, il complesso d’Edipo, la paura della castrazione e via di questo passo, il tutto con assoluta convinzione e naturalmente anche con grande insistenza. La psicoterapia ha bisogno di tutte queste armi — oltre che dei farmaci, degli elettroshock e delle cure a base d’insulina — per assicurarsi che il bambino rinchiuso nel paziente non cominci a parlare, perché non osi raccontare la sua storia. E se per caso il paziente dovesse mettersi a gridare lo stesso, per disperazione e per protesta contro tante sciocchezze, lo si definirà uno psicotico; il che significa - detto in altre parole - un individuo incapace di sottomettersi a ciò che si definisce psicoterapia. E da quel momento si ricorrerà soltanto alle medicine.

Questa è, oggi, la prassi corrente che gli psichiatri definiscono orgogliosamente «progredita». «In passato», dicono, «occorreva legare gli psicopatici, metter loro le camicie di forza, bisognava ricorrere alla violenza per tenerli tranquilli; oggi otteniamo la tranquillità senza dover impiegare la violenza: non è meraviglioso?».

I medici, ricorrendo ai farmaci e alle teorie, sono nella condizione di poter cementare il disorientamento dei pazienti in modo tale da non esserne più disturbati. Dicono al paziente che gridare non gli fa bene, che ha bisogno di tranquillità; in realtà sono i medici che hanno bisogno di soffocare il grido del paziente, perché ricorderebbe loro il loro stesso dolore, quello che sono riusciti vittoriosamente a reprimere con le teorie. Ed eccoli quindi apparire in camice bianco, per domare la furia della bestia.

Umiliano le loro vittime, le rendono inermi, e queste vittime rimarranno umiliate e inermi fino alla fine della loro esistenza, perché sono state derubate di ciò che restava delle loro emozioni, perché s’è sbarrata per sempre in loro la strada che conduce alla verità. Anche gli psicoterapeuti si sono sentiti autorizzati, da Freud, Jung, Adler e dai loro numerosi successori, a reprimere la verità. Anche quei maestri hanno dovuto rimuovere la loro infanzia, come noi tutti; però non si sono accontentati - come Nietzsche - di acrobazie intellettuali, e nemmeno del disorientamento prodotto nei lettori o del loro stesso autodisorientamento. No, hanno fatto di più, nel senso che hanno fondato scuole in cui si pratica il disorientamento dei futuri terapeuti. In queste scuole, in questi istituti hanno spacciato agli allievi le loro teorie come se fossero scoperte medico-scientifiche. In questo modo i maestri hanno quindi venduto i prodotti del loro fallimento - le più astruse teorie che li hanno aiutati a rinnegare la verità — come prodotti d’un successo, come se le teorie contenessero la verità.

I loro successori ammaestrerebbero l’odierno Nietzsche parlandogli della malvagità innata nella creatura umana e della necessità di domarla. Hanno bisogno di queste idee per celare a se stessi e agli altri la conoscenza delle terribili condizioni in cui la maggior parte degli esseri umani si affaccia alla vita e che li rende malati e malvagi.

Ma è possibile che Friedrich Nietzsche - che era diventato docente universitario di filosofia già all’età di 25 anni e che aveva osato smascherare spieiatamente come nessuno prima di lui le ipocrisie insite nella nostra cultura - non fosse in grado di scoprire gli abusi dei suoi «soccorritori»? È di fatto senz’altro possibile. Se vivesse oggi, ingoierebbe probabilmente con diligenza le sue pillole, direbbe «tante grazie»

e s’aspetterebbe aiuto proprio da quei signori che non solo non saprebbero metterlo nella condizione di affrontare la sua verità, ma che hanno anche un personale interesse a impedirgli di farlo. Per questo motivo essi ricorrerebbero anche a farmaci pericolosi pur di cancellare definitivamente la sua memoria, quella memoria che potrebbe ancora serbare in sé il potenziale per guarire.

Non gli sarebbe facile accorgersi di quello che gli accade. E come potrebbe, del resto? Ha un disperato bisogno d’aiuto, e loro dicono di poterlo aiutare. E lui quindi pensa: «Mi danno l’impressione di sapere quello che succede dentro di me e, con trenta anni d’esperienza clinica alle spalle, bisogna proprio supporre che lo sappiano meglio di altri. Evidentemente ci sono delle resistenze in me che m’impediscono di cogliere un senso reale nelle loro parole. Devo dunque reprimere queste resistenze perché loro possano aiutarmi».

È questo che pensano, anche al giorno d’ oggi, molti pazienti. Come potrebbero sapere, del resto, che trenta o quaranta anni di lavoro nelle cliniche hanno rappresentato per certi medici e psichiatri null’altro che la stessa, continua fuga dalla verità che per Nietzsche fu lo sviluppo della sua filosofia? Usando il loro potere, questi uomini e queste donne hanno combattuto giorno dopo giorno contro il minimo riaffiorare di storie d’infanzia. Ed è una battaglia avvenuta non senza l’impiego della violenza. Non hanno esitato a usare insulina ed elettroshock, e quindi a distruggere l’organismo dei pazienti, solo al fine di sopprimerne le storie. Come avrebbero potuto, in queste condizioni, imparare che cosa c’è all’origine della miseria umana? O meglio: nelle loro cliniche avrebbero potuto disporre delle chiavi per arrivarci, se solo avessero osato toccarle, ma hanno avuto paura di queste chiavi più del diavolo. Col diavolo si può arrivare a un accomodamento. Non s’opporrebbe certo all’idea di avallare l’elettroshock.

Invece con la tua verità sei solo, e trovi di rado un appoggio se intendi confrontarti con essa. Per questo gli psichiatri si sono ben guardati, per trenta o quaranta anni, dal toccare quelle chiavi, e hanno deciso di non sapere come insorgono le psicosi.

Ciò nonostante questi medici si comportano come se sapessero tutto (perché sanno quali sono le dosi

«giuste» di pillole che «devono» prescrivere), e questo comportamento fa impressione. Quindi è da presumere che conseguirebbe il suo effetto anche sull’odierno Nietzsche. Il loro modo di parlare risulterebbe assai familiare al suo orecchio: «La deve smettere di lamentarsi continuamente, cerchi piuttosto di dimenticare. Non dovrebbe agitarsi, infuriarsi. La collera è pericolosa, causa mal di testa; cerchi di dominarsi e di controllarsi. Ciascuno di noi ha dovuto subire delle ingiustizie in una qualche occasione: è del tutto normale. Ma i suoi genitori erano animati dalle migliori intenzioni: se hanno sbagliato, è umano. Deve perdonarli: solo col perdono può guarire».

Come ci si può aspettare che un Nietzsche o chiunque altro s’accorga che queste opinioni generalmente considerate ancora valide in tutto il mondo - sono non solo documentabilmente sbagliate e persine pericolose, ma che si può anche già dimostrare il contrario di ciò che affermano?

Per accorgersene, l’individuo dovrebbe essere messo nella condizione di fare esperienza coi sentimenti ridestati. Questi soltanto gli consentirebbero l’accesso alla sua infanzia, con tutte le relative conseguenze: la riesperienza del dolore rimosso, la presa di coscienza, la liberazione, la consapevolezza e infine la pace che seguirebbe Yappagamento, l’appagamento dei suoi naturali bisogni. Una simile esperienza autorizzerebbe l’odierno Nietzsche a gettare le pillole nel cestino e a dire: «Oggi so che non diventiamo liberi se dimentichiamo, banalizziamo e perdoniamo le crudeltà e le brutalità patite nell’infanzia; al contrario, il perdonare i delitti m’ha impedito fin da bambino di sentire e di accorgermi del male che in realtà mi si faceva. Voglio battermi contro l’oblio, contro la soppressione della memoria che si pratica nelle nostre cliniche. Voglio liberare i ricordi che sono bloccati dentro di me. Voglio ricordare cosa ho rimosso e voglio sapere perché l’ho fatto, poiché intendo riandare alle mie origini. Non consentirò più a nessuno di distogliermi da questo proposito, di disorientarmi e di ottundermi coi farmaci, di rincretinirmi con l’ausilio di teorie. La malattia che mi ha colpito mi ha aiutato a sentire la voce del bambino che è dentro di me, quel bambino che ho tanto a lungo condannato al silenzio; ora voglio ascoltare soltanto questa voce, perché ho appreso da lei più che da tutti i libri che ho letto. Voglio ritrovare la mia vita, quella che ho smarrito in passato, e la ritroverò se saprò dire esattamente e abbastanza esaurientemente che cosa è stato fatto di me e come lo si è fatto. Io voglio spalancare le porte del passato, anziché mantenerle sbarrate come fate voi e come pretendete che facciano i vostri malati.

Certi pazienti sostengono che è solo la mancanza di tempo che v’impedisce di stare a sentirli. Pochi soltanto realizzano che voi non volete affatto stare a sentirli, che lo stare a sentire vi fa paura. È

quest’inconsapevole paura di fronte alla vostra storia, profondamente rimossa, che vi precipita nella follia di voler continuamente sopprimere la memoria dei vostri pazienti con l’elettroshock purché il bambino, che è nel paziente e anche in voi, non osi parlare.

«Però i pazienti hanno il diritto di decidere essi stessi che comportamento assumere rispetto al loro passato. Non avete il diritto di derubarli del loro passato e della loro memoria, perché questa è violenza.

Non avete il diritto di sacrificarli per rafforzare le vostre difese. E non saranno più sacrificati non appena i pazienti saranno disposti a guardare bene in faccia i loro “soccorritori” e a confrontarsi con la realtà.

«Dite di non aver mai sentito affermare queste cose nelle università? Disgraziatamente No. E quindi è giunta l’ora di imparare altrove, e cioè in voi stessi».

Questo Nietzsche immaginario dei nostri giorni, anche lui un uomo brillante e di successo che però soffre di depressioni fin dall’infanzia, aggiungerebbe forse anche: «Allora, da bambino, non avevo altra scelta che consentire alle donne di spadroneggiare a mie spese. Però oggi non sono più indifeso. Il giustificato risentimento che è riaffiorato in me mi rende sveglio e attento. Ora riesco a scoprire le menzogne, perché ho smesso di perdonare, di implorare, di crucciarmi e di sentirmi io stesso colpevole di ciò che mi hanno fatto i miei persecutori. Ho cominciato a prospettarmi situazioni concrete e ad analizzarle. Nella mente sono andato a ritrovare la casa in cui ho trascorso l’infanzia, e anche la mia scuola. E vi ho visto la mia famiglia come si è realmente comportata con me, e non come in seguito ha preteso d’aver fatto. E stato terribile, ma quella che ho visto era la realtà. A scuola ho ritrovato i maestri tronfi e ignoranti che sarebbero stati ben felici di picchiarci, ma che parlavano continuamente del loro dovere di educare noi bambini cattivi. Ora so di che pasta erano fatti, non ho più bisogno di coltivare illusioni. Sto percorrendo la strada che consente di rinunciare alle illusioni. Passo dopo passo. Ho il coraggio di guardare in faccia i medici, i cosiddetti soccorritori, e di scoprire la funzione delle loro menzogne. Tutto questo fa sì che io possa percepire anche l’esistenza dell’amore e della sincerità, quando li incontro: cosa di cui, prima, non ero capace. Non penso più, oggi, che tutte le donne sono streghe. So che è stata la mia personale miseria a espormi all’arbitrio di alcune streghe: le donne che mi hanno tormentato durante l’infanzia. Però soltanto quando ho avuto modo di provare il mio personale, intimo terrore, senza banalizzarlo più come facevo prima, ho potuto comprendere che non tutto il mondo è \ fatto come lo era la mia famiglia. Ho imparato che ci sono genitori amorevoli e bambini amorevoli, anche se sono ancora troppo rari per poter guardare con speranza al futuro dell’umanità.

«Oggi ritengo che maltrattare i bambini, così come sono stato maltrattato io, è il peggiore dei delitti: è delittuoso punirli, proibire loro di piangere, di parlare, di difendersi, di insorgere contro la crudeltà e perfino di giudicarla tale. È un delitto addestrarli e ammaestrarli al punto da renderli ciechi, muti e apatici, ed è un delitto negare in seguito, per di più, d’averlo fatto. Non è il caso di stupirsi se bambini simili, da adulti, preferiscono infliggere elettroshock agli altri piuttosto che confrontarsi con la propria miseria rimossa.

«Il maltrattamento dei bambini è il delitto più ignobile, più spregevole che l’umanità commetta ai danni dell’umanità, perché danneggia sotto il profilo caratteriale le future generazioni, perché rimane inosservato ed è negato non appena qualcuno lo menziona. “Non vorrà per caso accusare i genitori?” ci si sente chiedere in tono minaccioso. “Sì, certo che lo faccio, se commettono dei delitti”, è la mia risposta. Per quale ragione i genitori dovrebbero disporre d’una assoluta impunità rispetto ai loro delitti?

È ovvio che anche loro hanno il diritto d’infuriarsi e di risentirsi, ma non quello di sfogare i loro risentimenti sui loro figli. Non i risentimenti in quanto tali, ma le azioni lesive e distruttive devono essere risolutamente e pubblicamente vietate.

«Se voi, psicologi e psichiatri, la smetteste di sfuggire la realtà costituita dai maltrattamenti inflitti ai bambini e dalle malattie psichiche che insorgono come loro conseguenze, se osaste impiegare le chiavi di cui pur disponete nelle vostre cliniche - quelle che i vostri pazienti vi porgono quotidianamente -, e le usaste per aprire le vostre porte, vi destereste a nuova vita. E soltanto allora sareste nella condizione di poter aiutare gli altri a vivere. Così come siete oggi, invece, costituite un pericolo, perché distruggete indisturbati le funzioni dell’organismo umano, le sue facoltà di difendersi, e perché questa vostra opera distruttiva non è quasi notata. Per questo avete la coscienza tranquilla e sostenete perfino che è vostro dovere fare quello che fate. Io cercherò aiuto in chi sappia, per personale esperienza, quanto è dannoso predicare il perdono e l’oblio. È appunto questo che i vostri pazienti hanno fatto per tutta la loro vita, restando così, proprio per questo, degli “spostati”.

«Le vostre teorie contraddicono la realtà che io ho scoperto con l’aiuto dei miei sentimenti. Poiché siete stati addestrati a non sentire, e non volete modificare questa vostra impostazione, siete incapaci di cogliere queste contraddizioni. Io non intendo sorbirmi le vostre teorie, non sarò più il bambino che si può facilmente prendere in giro. Ora sono nella condizione di poter intensamente sentire come un bambino e di poter però anche pensare come un adulto, e questa combinazione di sentimenti e di riflessioni mi consente di sopportare la mia verità, di vivere, di parlare, d’indignarmi e di non diventare la vittima delle distruzioni compiute dai cosiddetti esperti. Anziché cercare d’ammaestrare me, aprite le vostre porte. La vostra paura non è una giustificazione dell’opera di distruzione che fate, e non vi libera nemmeno dalla responsabilità che vi siete assunti con la vostra professione. Occorre provare la paura per dissolverla, e comunque non è lecito sfogarla sottoponendo altre persone a trattamenti che le danneggiano.

«Se avete paura di confrontarvi dentro di voi coi vostri genitori, se avete paura di metterli in discussione e di respirare le vostre sofferenze, siete ovviamente padroni di continuare a coltivare le vostre teorie e le vostre filosofie: ma solo per uso personale. Perché se le applicate sui vostri pazienti, è inevitabile che commettiate dei delitti. Ed esattamente come non può farlo la paura, nemmeno l’ignoranza vi libera dalle vostre responsabilità. Altri impugneranno le chiavi che voi non avete toccato, e vi confronteranno coscientemente con ciò che avete fatto. È quindi ora che impariate la lezione».

Se questo Nietzsche immaginario e altre simili vittime potessero oggi sentire, pensare e parlare, non si troverebbero nella condizione di dover ricorrere alle droghe, al suicidio, alle cure disintossicanti e ai crimini, perché il confronto con la verità della nostra infanzia ci libera dai modelli distruttivi e autodistruttivi. Però, per poterci confrontare con questa dolorosa realtà, abbiamo bisogno dell’appoggio di persone che sappiano che ciò che un tempo era considerato un peccato, e cioè la critica dei nostri genitori, è in sostanza l’unica possibilità che abbiamo per guarire. Il nostro organismo non si lascia prendere in giro. Rispetta solo la verità dei nostri sentimenti e dei nostri pensieri, e solo con loro è disposto a cooperare nel lungo periodo. Purtroppo avviene in continuazione che si scoraggino i giovani dall’essere sinceri, e che li si minacci con ciò che chiamiamo la morale. Prima sono le famiglie a farlo, poi le religioni e infine anche la psichiatria. Il vero Nietzsche ha scritto: «Tutti noi abbiamo paura della verità»; e ha scritto anche: «Errore non è cecità, errore è viltà; ogni progresso, ogni passo innanzi nel cammino verso la conoscenza è frutto del coraggio». Io ritengo che la cecità è la conseguenza della paura di fronte ai fatti, della paura di poter sfogare i risentimenti; eppure soltanto l’esperienza e l’espressione del giustificato risentimento rendono l’uomo coraggioso. Tragicamente Nietzsche, nei cinquantasei anni della sua vita, non ha incontrato una sola persona che l’incoraggiasse a «sopportare la verità», a esaudire cioè un suo intenso desiderio. Nella solitudine in cui si è trovato, la paura ha sovrastato il desiderio. Oggi, cento anni dopo, gli sarebbe forse più facile trovare un testimone consapevole, capace d’aiutarlo a fare i passi decisivi incontro alla verità. Ma forse no. Forse potranno farlo solo i Nietzsche di domani, però anche loro avranno bisogno del nostro appoggio. Non dobbiamo permettere che continuino a vegetare per anni e decenni nella loro solitudine, nella disperazione e nel disorientamento, o addirittura nell’«obnubilamento mentale», a causa della nostra ignoranza, della nostra paura e della nostra riluttanza a imparare dai fatti.

Quando avevo già scritto questo capitolo, mi è giunta la lettera con cui una lettrice statunitense mi ha inviato copia di un articolo - a sentir lei «allarmante» - pubblicato nel giugno del 1989 da un quotidiano locale di Washington. Lo riprendo qui, per estratti, poiché rispecchia una tendenza che constato ora in molti paesi, e poiché costituisce un eccellente esempio di ciò che ho cercato di dimostrare nelle pagine precedenti.

Occorre dimenticare i traumi e non continuare a riviverli. A queste conclusioni giunge uno studio svolto sui sopravvissuti all’

olocausto.

Gli ebrei sfuggiti alla tragedia dell’olocausto che meglio degli altri si sono riadattati alla vita dopo la seconda guerra mondiale, sono quelli che sono stati capaci di rimuovere nell’inconscio i loro traumi con tanta efficacia da poterne rendere immuni oggi perfino i loro sogni: è questa la conclusione cui perviene una ricerca svolta in Israele.

«I risultati hanno dimostrato che certe moderne tecniche di trattamento delle sindromi di stress post-traumatici - di cui soffrono anche i reduci dalla guerra in Vietnam - possono in realtà peggiorare i disturbi, anziché guarirli», ha detto Peretz Lavie, docente di psicologia al Technion-Israel Institute of Technology di Haifa, dove la ricerca è stata svolta.

(…) -

Lavie ha spiegato che l’indagine fatta su un gruppo di sopravvissuti all’olocausto ha accertato che sono psichicamente più sani e più saldi coloro che hanno imparato a eliminare i ricordi anche dai loro sogni. Questo - ha spiegato - è un meccanismo di difesa contro i terribili ricordi della persecuzione degli ebrei da parte dei nazisti durante la seconda guerra mondiale. (…)

«I risultati della nostra indagine indicano che è meglio reprimere certi traumi. È meglio dimenticarli anziché continuare a esporsi ad essi, per anni, nel corso d’una terapia».

Lavie e Manna Kaminer, una sua collega, hanno verificato su ventitré sopravvissuti all’olocausto gli effetti nel lungo periodo dei traumi psichici, annotando i sogni che le persone sottoposte all’esame ricordavano subito dopo essere state destate da una fase di sonno profondo.

Del gruppo facevano parte undici superstiti dell’olocausto di cui i test avevano accertato che si erano riadattati assai bene alla vita dopo la guerra. Gli altri dodici invece, oltre a essere afflitti da un senso di generale insoddisfazione, soffrivano ancora le conseguenze emotive dell’olocausto, con i relativi problemi psichici e spirituali.

Ognuna delle persone prese in esame ha dormito per quattro successive notti nel laboratorio, dove le sue funzioni organiche - battito cardiaco, ritmo del respiro e attività cerebrali - erano tenute sotto costante controllo.

Quando gli individui esaminati raggiungevano la fase di sonno definita REM (una fase in cui la rapida motilità dei bulbi oculari indica che si è in presenza di sogni intensi), venivano svegliati e invitati a raccontare i loro sogni.

Precedenti ricerche avevano dimostrato che la maggior parte delle persone svegliate durante una fase REM del sonno sono in grado — nell’ottanta per cento dei casi — di ricordare i loro sogni.

«Solo il trenta per cento dei meglio adattati riusciva a ricordare i sogni», ha detto Lavie. «Quando li svegliavamo, negavano addirittura d’aver sognato. Erano delusi perché non riuscivano a ricordarsi d’aver sognato, e questo perché erano autenticamente interessati ad aiutarci nella nostra ricerca».

Questo gruppo, ha spiegato Lavie, «non soffriva d’alcun genere di disturbo del sonno», e godeva anzi, prima e dopo il momento del risveglio, d’un sonno pacifico e non turbato.

I superstiti dell’olocausto peggio riadattati riuscivano invece a rammentare i loro sogni nel sessanta per cento dei casi, e

«palesavano tutti, nel loro modo di dormire, la presenza di disturbi causati da stress post-traumatico», ha spiegato Lavie.

«Si svegliavano ripetutamente, s’agitavano per la difficoltà di riaddormentarsi, e mostravano nel sonno movimenti d’inquietudine. Ricordavano i loro sogni in percentuale doppia rispetto a quelli bene riadattati. (…)! sogni dei male riadattati erano contrassegnati da sensazioni di paura e da regressione: erano tutti immersi in se stessi». (…) Ulteriori test - così ha spiegato Lavie - avrebbero dimostrato che quelli bene riadattati sono riusciti a risolvere il problema costituito dalle esperienze dell’olocausto evitando di ricordarle: «Hanno come messo sotto chiave i loro ricordi e questo li pone nella condizione di continuare a vivere. È questo meccanismo che li ha resi capaci di sopravvivere, di adattarsi e di adeguarsi alla realtà».

Questo meccanismo di difesa comprendeva perfino quella che nella ricerca è stata definita una «massiccia repressione dei sogni»; una repressione che protegge contro l’inconscio riaffiorare di ricordi spaventosi. Visti i risultati di questa indagine - ha spiegato Lavie — si raccomanda di insegnare un simile modo di «mettere sotto chiave i ricordi» anche ai reduci dal Vietnam e da altre guerre i quali soffrano i traumi emotivi risalenti a quelle esperienze.

Al giorno d’oggi, per lo più, questi disturbi da stress si affrontano costringendo i pazienti a ricordare i loro traumi e a riviverne le emozioni. Ma è una procedura che si può paragonare alla riapertura e alla successiva cauterizzazione d’una ferita.

Lavie è invece del parere che sia meglio suggellare la ferita con cicatrici psichiche e insegnare al paziente che soffre d’una sindrome di stress post-traumatico a dimenticare.

«Noi siamo del parere che in certi casi la rimozione sia la chiave della guarigione», ha detto Lavie. «L’andare continuamente a rivangare il trauma è una sciocchezza alla quale si dovrebbe por fine. Occorre invece trattare il paziente nella dimensione dell’hic et nunc, distogliendone l’attenzione dalle esperienze passate». (…) È noto che gli uomini e le donne che hanno aiutato Hitler ad assassinare milioni di persone non hanno bisogno d’assistenza psichiatrica. Nel Reich di Hitler si erano eccellentemente adattati alle condizioni di allora, e si sono calati anche in seguito, senza problemi, nella nuova situazione. Hanno guadagnato tanti soldi, hanno messo su famiglia, hanno maltrattato i loro figli senza provare il benché minimo senso di colpa.

Non erano turbati da sogni e non hanno mai realizzato che, nel compiere quello che credevano fosse un loro dovere, facevano del male. Hitler e i suoi simili erano anche fieri della loro capacità di dimenticare i traumi che essi stessi avevano sofferto.

Però noi non intendiamo più pagare, in avvenire, il prezzo della dimenticanza. Ed è particolarmente tragico che questi di-40

struttivi concetti di guarigione mediante la rimozione dei ricordi siano raccomandati proprio alle vittime dell’olocausto.

Non è vero che stati morbosi post-traumatici possano guarire cancellando la memoria, però è vero che molte persone cercano di guarire dimenticando. Lo fanno o a spese del loro stesso organismo, oppure a spese altrui, dei loro figli, dei pazienti, degli studenti o anche dei soldati che poi saranno mandati a morire perché i loro comandanti si rifiutano di ricordare.

Questo meccanismo di riproduzione della violenza funzionerà però solo per il tempo in cui i bambini, i pazienti, gli studenti e i soldati gli permetteranno di funzionare. E cioè per tutto il tempo in cui essi non avranno il coraggio di guardare in faccia i loro padri e le loro madri, di metterne in discussione gli schemi mentali, e di esprimere i loro dubbi sulla validità di questi schemi, che sono pericolosi anche se si tramandano da molte generazioni.

4 • IL GIOCO DELLA MOSCACIECA E LA FUGA DAI FATTI IN PSICOANALISI Ogni volta che ho smascherato - scrivendone - un qualche rispettatissimo edificio di menzogne (per esempio quello della pedagogia in La persecuzione del bambino, e quello della psicoanalisi in // bambino inascoltato], ci sono state reazioni indignate. E non è il caso di stupirsi. Per l’ex bambino e per l’odierno paziente è molto doloroso doversi accorgere d’essere stati ingannati per decenni da persone che si amavano e di cui si aveva fiducia, e d’essere stati usati, anzi sacrificati, per esorcizzare le loro paure. Molti hanno quindi preferito non confrontarsi con esperienze dolorose e insistere nell’ignorare i dati di fatto da me svelati. Hanno continuato a difendere gli edifici di menzogne incardinati nella società, e con tanta maggiore veemenza e con tanto maggiore zelo, quanto più traballanti ne erano le fondamenta. Studiosi anche stimati e rispettati si sono semplicemente rifiutati di capire cose che un bambino non turbato può invece comprendere senza difficoltà.

Questo impegno nella difesa della menzogna è abbondantemente documentato da tanta carta stampata cui si da il nome di «recensioni».

Però ci sono anche state - e continuano a esserci - singole persone abbastanza libere di riflettere sui fatti che espongo nei miei libri, e di verificarli. Questo capitolo è dedicato a loro, perché si sofferma su considerazioni di cui io stessa avrei avuto urgente necessità trenta anni fa. Vorrei fare tutto quello che mi è possibile per impedire che questi lettori - lettori che vogliono, come volevo io a suo tempo, imparare a conoscere la verità, e che però hanno ancora paura delle sofferenze della loro infanzia - divengano vittime della psicoanalisi.

Da quando sono stati pubblicati i miei primi libri, non ho potuto fare a meno di constatare con sempre maggiore evidenza che la prassi della psicoanalisi consiste in un continuo sottrarsi dell’analista alla storia dolorosa della propria infanzia a spese del paziente. E la teoria psicoanalitica gli consente questo modo di sottrarsi, soccorrendolo con una dottrina appositamente escogitata per questo scopo. È una dottrina che tende a garantire che le autentiche storie del paziente e dello stesso analista, a proposito dei maltrattamenti e degli stati d’abbandono patiti nell’infanzia, non possano essere raccontate. Pur che non siano svelati i misfatti dei genitori, non si consente al paziente di scoprire cosa ha determinato il suo modello di comportamento autodistruttivo: non gli si permette di capire - per esempio - perché è diventato schiavo delle droghe, perché provoca incidenti o perché si convince a sottoporsi a interventi chirurgici inutili. Eppure, senza il confronto con la propria infanzia, il paziente non potrà mai liberarsi del modello autolesivo.

Fino al 1988 - anno in cui ne sono uscita - la Società di psicoanalisi mi ha inviato gli elaborati presentati al suo comitato scientifico dai candidati all’abilitazione che ambivano a diventare membri dell’associazione. In tutti i casi clinici descritti si poteva rilevare come e in quale modo si fosse impedito ai pazienti di capire il male che era stato loro fatto durante l’infanzia, benché questo male risultasse in maniera evidentissima dall’esposizione del materiale. Simili trattamenti, detti analisi, sono insensati e non di rado dannosi.

Le esperienze che ho fatto personalmente mi hanno infine aiutata a comprendere che la psicoanalisi non integrerà mai nelle sue concezioni le nuove conoscenze acquisite sull’infanzia, perché non può farlo a causa della sua stessa essenza. La sua esistenza si basa infatti sulla negazione di fatti concreti cui sfugge asserragliandosi in un edificio fatto di costrutti astratti e suggestivi. E di conseguenza si sottrae non per caso, ma necessariamente alla verità. Quello della psicoanalisi è un sistema ben funzionante per la repressione della verità sull’infanzia, verità che è a sua volta temuta dall’intera società. Non per nulla la psicoanalisi gode, specialmente fra gli intellettuali, di un’alta considerazione. Le teorie di Freud sono siffatte che vi si possono connettere elucubrazioni mentali all’infinito.

Nei miei ultimi due libri (L’infanzia rimossa, Der gemiedene Schlùssel [La chiave accantonata]) ho esaurientemente esposto le ragioni per cui sono del parere che la dottrina psicoanalitica e le mie conoscenze si escludono a vicenda (benché vi siano anche psicoanalisti che, sul momento, lo contestino), e ho spiegato perché - oggi - non me la sento in nessun caso di suggerire a qualcuno d’addestrarsi all’esercizio della psicoanalisi. Mi guarderei bene dal consigliare persone in cerca d’aiuto di sottoporsi a un’analisi, anche solo a titolo di «soluzione transitoria», perché i danni che ne deriverebbero potrebbero diventare irreversibili. Questa convinzione mi ha infine indotta a uscire, nel 1988, dalle Società psicoanalitiche elvetica e internazionale. Ciò nonostante — purtroppo — non posso impedire che si continui ancora, occasionalmente, a qualificarmi come una psicoanalista.

Alla decisione di far pubblicare senza modifiche le riedizioni dei miei primi tre libri - fatta eccezione per l’aggiunta d’un nuovo capitolo intitolato «La situazione nel 1990» — ha contribuito la sensazione che una loro versione riveduta e corretta sarebbe equivalsa a una alterazione dei fatti. Ho quindi fatto una scelta di assoluta trasparenza. È un dato di fatto che ho scritto quei tre libri quando ero ancora membro delle Società psicoanalitiche ed è altrettanto oggettivamente vero che non c’è stato alcun componente di queste Società che si sia concretamente confrontato coi miei libri e con le opinioni che vi sono espresse.

E questo mi ha dato da pensare. I miei colleghi si sono sottratti al problema, oppure lo hanno banalizzato ovvero negato. Le risposte che ho avuto sono consistite, nei migliori dei casi, in imbarazzati richiami e in ammaestramenti attinti al catechismo freudiano; non ho mai riscontrato un interesse non prevenuto per la causa che rappresento, per non parlare di una critica costruttiva o d’una seria analisi e verifica delle tesi che ho esposto sulle teorie freudiane e sulle loro pratiche conseguenze. Evidentemente non c’era una base comune su cui discutere. E anche la paura è rimasta inespressa. Però, da quel momento, coloro che volevano essere ammessi alla Società psicoanalitica sapevano già di non dover menzionare più il mio nome se non volevano essere bocciati e respinti.

Inizialmente non ho capito come mai le mie ricerche suscitassero negli altri tanta paura. La risposta è venuta solo in seguito. Da quando però mi sono chiaramente accorta di trovarmi sulla strada della verità, non mi sono lasciata intimidire dal carattere elusivo delle reazioni. Ho continuato a cercare, finché sono approdata al punto in cui ora sono. E questa collocazione è chiaramente desumibile dai miei libri più recenti.

Certe reazioni al lavoro di ricerca che ho svolto sui maltrattamenti cui sono esposti i bambini ricordano l’atteggiamento di certi gruppi religiosi dogmatici. Ma a me non interessa affatto discutere di concetti fideistici. Io ho inteso controbattere i dogmi incardinati mediante i fatti, sino a quando ho finalmente compreso che questa è un’impresa vana finché l’interlocutore non vuole vedere perché ha paura dei fatti.

«Non è forse capitato a tutti noi, da bambini, di ricevere uno schiaffo perché avevamo fatto disperare i nostri poveri genitori? Non era del tutto normale? E come si pretende che un bambino impari se non attraverso l’educazione? Non è il caso di drammatizzare cose assolutamente normali, continuando a scriverci su. Senza quegli schiaffi non ci saremmo mai affermati nella vita come lo siamo adesso»: è noto che la maggior parte delle persone si esprime in questi termini. Però mi sono stupita nel sentir fare simili affermazioni anche da parte di analisti non appena accennavo al tema del maltrattamento infantile nell’educazione tradizionale. Sembravano davvero cadere dalle nuvole. Pensavo che dovessero essere informati meglio di persone che svolgono altri mestieri, visto che passano otto ore al giorno ad ascoltare quelle che sono le vittime dei maltrattamenti inflitti all’infanzia. Ma allora non avevo ancora il coraggio di ammettere quel che sostanzialmente già sapevo, e per esperienza diretta: e cioè con quale accanimento e con quanto successo si dissuadono queste vittime dal raccontare, sentire e provare la loro vera storia. E questo, pur con terminologie differenti, vale in ugual misura per gli ambienti di destra come per quelli di sinistra della psicoanalisi.

Le reazioni sfuggenti e allarmate dei miei ex colleghi non riguardano la mia persona, bensì la causa che rappresento, anche se a volte sostengono il contrario. Quando ho messo radicalmente in discussione Freud, approfondendo il tema che Freud aveva voluto rendere tabù e quindi seppellire una volta per tutte (cfr. Il bambino inascoltato), ho evidentemente suscitato delle paure. Tentativi analoghi erano già stati intrapresi da altri prima di me, anche se in modo meno radicale. E avevano suscitato reazioni clamorosamente simili. Allorché, negli anni Trenta, l’allievo prediletto di Freud, Sandor Ferenczi, aveva osato riferire sull’argomento dei maltrattamenti ai bambini durante un congresso, Freud aveva preso le distanze da lui, tutti gli «amici» lo avevano abbandonato e gli alti papaveri della Società psicoanalitica, come Ernest Jones e altri, non hanno esitato a diffamarlo neanche dopo la morte. Lo hanno sbrigativamente definito uno psicotico, benché Michael Balint potesse testimoniare che non lo era. Non so tuttavia se e cosa Balint abbia fatto per spazzare via queste infami menzogne.

Una sorte simile - ostilità e isolamento - toccò da trenta a quaranta anni dopo, negli Stati Uniti, all’analista Robert Fliess. Anche lui fece del tema reietto e vietato nella cerchia degli analisti l’argomento d’un suo libro (Symbol, Dream and Psychosis, 1973, Int. Univ. Press). Ed è estremamente deplorevole che quest’opera assai istruttiva non abbia ancora trovato un editore in Europa.

La lotta contro gli analisti «infedeli» ha una lunga storia, cominciata nel 1897 col tradimento della verità compiuto da Freud (cfr. // bambino inascoltato). Unicamente per il fatto di non aver voluto sopportare la verità sulla sua infanzia e confrontarsi con essa, Freud ha indirettamente autorizzato i suoi allievi - anzi, li ha in un certo senso addirittura impegnati - a bloccare, ovunque e comunque affiori, la verità sui maltrattamenti inflitti ai bambini. Le conseguenze sono state devastanti, perché quello che era stato, alle sue origini, solo un personale tentativo di fuga, è stato ben presto e ovunque venduto e comprato come una verità scientifica. Vi hanno partecipato più generazioni di allievi e seguaci di Freud, uomini e donne, tutti supinamente fedeli al maestro, ammirati e spauriti, abbagliati e acritici. Armati dell’autorità loro conferita dai bianchi camici del medico e dalle cattedre universitarie, sono stati a loro volta in grado di imporre tanta soggezione ai pazienti che questi, anche loro abbagliati e sedotti dalla presunta competenza dei loro interlocutori, hanno raramente messo in discussione l’apparato di potere costituito dalla psicoanalisi e dalle sue distruttive interpretazioni. E così è loro sfuggita la fondamentale capacità di vedere come le teorie psicoanalitiche - sia quelle esclusivamente freudiane, sia quelle freudiano-marxiste - costituiscano esclusivamente un vallo difensivo: / ‘apparato di difesa contro la nuda paura delle sofferenze dell’infanzia.

La paura delle esperienze rimosse dell’infanzia ha i suoi plausibili motivi ed è senz’altro legittima. Però voler vincere questa paura a spese altrui è un tentativo di soluzione distruttivo. Ha effetti addirittura catastrofici quando un medico non si accontenti d’ingannare se stesso fuggendo la paura con le costruzioni teoriche, ma inganni anche i suoi pazienti, e fondi addirittura

scuole dogmatiche per convertire alla sua fede altri gruppi di «soccorritori», spacciando il tutto, per di più, per una verità scientifica.

Non solo i fondatori di queste scuole, ma anche legioni di loro pazienti hanno pagato con forme di depressione e con altre sintomatologie questi tentativi di soluzione consistenti nell’appro-dare al totale diniego delle sofferenze mediante costruzioni teoriche. Migliaia di vittime di maltrattamenti infantili si sono sottoposte alle analisi di freudiani, reichiani, junghiani e adleriani per farsi somministrare — a seconda dei gusti e delle proprie vicissitudini — teorie assortite ma erette tutte per la stessa ragione, oppure prediche, o ancora sagge sentenze d’una qualche lontana religione orientale. E hanno via via acriticamente accolto le interpretazioni disorientanti e distruttive. In questo modo si sono fatti distogliere dai loro traumi infantili, e chi ne conservava ugualmente qualche traccia, si è lasciato convincere a cancellare le proprie percezioni. Ogni perplessità è stata loro interpretata come una forma di riluttanza a guarire, con tanta insistenza fino a quando hanno imparato a rinunciarci. E in questo modo hanno consentito ai maestri di rafforzare la loro stessa cecità, acquisita fin dai tempi dell’infanzia.

Mi è stato riferito un caso che spiega in modo evidentissimo il meccanismo di questa procedura. Una donna di quaranta anni vede coi propri occhi il marito che abusa sessualmente della figlia dodicenne. Preoccupata per le conseguenze psichiche dell’episodio, manda la bambina dalla analista presso la quale è a sua volta, e da otto anni ormai, in terapia. Dopo il primo colloquio, la figlia torna a casa in lacrime e dichiara: «Non voglio più tornare da quella donna. Mi ha detto che non è grave se “invento” certe cose; i bambini, a sentir lei, inventano molte storie, e questo è normale; però ora vuole che io scopra con lei perché voglio creare delle difficoltà a papa. Ho paura di lei».

Sono anni che sento ripetere, continuamente, simili affermazioni fatte da analisti. E ricordo ancora perfettamente i discorsi dei miei colleghi e dei miei insegnanti durante gli studi che ho seguito per diventare analista. Se tuttavia riferisco di questo episodio e non di altri, è perché in questo caso la reazione della bambina è stata così inequivocabile. La piccola dodicenne è stata ancora capace di reagire adeguatamente quando si è tentato di spacciarle per fantasie quelle che erano state sue precise constatazioni ed esperienze. La madre invece, da giovane, non ce l’aveva fatta a preservare la propria verità. E dopo otto anni di terapia era ridotta anche lei, come la sua analista, al rango di prodotto d’un più o meno raffinato lavaggio del cervello. Entrambe, la madre e l’analista, non si accorgeranno mai — oppure solo a prezzo di grande fatica - che il principio fondamentale della psicoanalisi è tuttora invariato: «Qualunque cosa ti abbiano fatto i genitori, la colpa è sempre stata tua; il nostro compito consiste nello spiegarti la tua colpa».

La maggior parte dei pazienti sono indifesi di fronte a questo messaggio, già insito nei metodi d’educazione.

Quindi assecondano e partecipano per decenni al gioco della mosca cieca. In questo modo diventano, infine, alleati e complici nella lotta contro la verità che ha avuto il suo inizio con Freud. E i loro insegnanti, maestri e «soccorritori» scorgono in questa disciplinata e supina devozione il segno d’essere sulla strada giusta. E

non possono farne a meno, perché non dispongono di altri segnali.

Da quando mi sono distaccata dalla psicoanalisi e da quando sottolineo l’importanza della riesperienza emozionale per il successo d’una terapia, capita che mi si attribuiscano simpatie per metodi terapeutici che considero invece pericolosi perché permeati d’intenti pedagogici ovvero manipolatori. Non posso difendermi singolarmente contro queste false asserzioni, tanto più che spesso ne vengo a sapere solo per caso. Dal momento però che la paura della verità costituita dai maltrattamenti subiti nell’infanzia pervade quasi tutte le forme di terapia che conosco, cerco di dimostrare tutto questo nei miei libri, con insistenza e ricorrendo a esempi concreti, e di prendere quindi radicale distanza dalle tecniche che mirano al perdono e alla conciliazione.

Per potermi fare un quadro immediato delle potenzialità tera-peutiche insite in certi metodi sui quali mi si è ripetutamente chiesto d’esprimermi, ho visitato alcuni centri di assistenza negli Stati Uniti. Fra questi ce n’era uno che asseriva di guarire l’autismo ricorrendo alla «terapia dell’abbraccio». In questa terapia la madre, sollecitata dai terapeuti, comincia col trattenere il figlio fra le braccia con la forza-, al fine di stabilire, al di là delle iniziali riluttanze del bambino, un primo contatto emozionale che dovrebbe poi condurre, nell’ulteriore sviluppo della terapia, alla capacità di contatti affettivi e sociali (cfr. L’infanzia rimossa, pag. 50). Con questa

«terapia dell’abbraccio» si suggerisce al bambino che l’uso attuale della violenza — esattamente come quello passato — non è animato da cattive intenzioni. La violenza è impiegata per il suo bene, e il bambino è premiato ed amato per la tolleranza che dimostra. Gli si insegna che l’uso della forza è necessario per farlo guarire, ed è quindi, alla fin fine, un fattore benefico. Ritengo che sia quasi impossibile realizzare una più perfetta confusione, una alterazione più mistificante delle facoltà percettive.

Ho seguito per un giorno intero quanto avveniva in quel centro, e ho anche osservato le videoregistrazioni delle riprese in primo piano dei bambini che erano «trattenuti». E ho capito in modo sempre più chiaro che quei bambini avevano alle spalle gravi storie di sofferenze, storie che tuttavia restavano del tutto inarticolate nel corso della terapia di cui pure si asseriva fosse coronata da successo. Quando poi, durante i colloqui con una terapeuta e con le madri, ho indagato sul passato dei singoli bambini, ho appreso fatti che hanno completamente confermato le mie supposizioni. Eppure nessuno è stato disposto a prendere sul serio questi fatti e a elaborarne liberamente le conseguenze. In tutti i colloqui non ho fatto altro che scontrarmi con paure e rifiuti, ogni qual volta affermavo che la mera esternazione della rabbia accumulata non sarebbe bastata, alla lunga, per dissolvere i traumi pregressi, almeno finché questi restavano, in quanto tali, ignorati. La mia personale impressione è stata che quei bambini fossero indotti - mediante un equivoco impiego della forza - a sfogare le loro sensazioni, ma che s’impedisse loro di esperire gli specifici sentimenti connessi a traumi passati, e questo perché la storia dei traumi faceva paura alle madri e alla terapeuta.

Per concludere: non si consente ai bambini di scoprire le cause primarie della loro disperazione, e li si induce a rimuovere an-cor più profondamente quello che sanno in funzione della riconciliazione con la madre e al fine di non perdere più, a nessun costo, 1’ affetto che la madre pare ora finalmente disposta a concedere. Il carattere pedagogico di questa terapia si ravvisa chiaramente nell’estorsione dei sentimenti infantili, nel ricatto esercitato approfittando del bisogno che il bambino ha di amore, della sua grande capacità di adattarsi e soprattutto di superare prove inaudite in cambio d’una anche minima speranza d’amore: una situazione, questa, che ho descritto in // dramma del bambino dotato. Il bambino autista è tale perché ha perduto anche questa minima speranza. Nella terapia dell’«abbraccio» la si risveglia giorno dopo giorno, e il bambino mostra con sollecitudine di che prestazioni è capace quando è sorretto da questa speranza. Va tuttavia tenuto presente che il dispiegarsi completo della personalità non deve essere confuso con le buone prestazioni scolastiche: al bambino non basta la speranza, ha bisogno della certezza che i genitori sopportino la sua verità, che non vi si sottraggano per paura e non la manipolino mai per i loro fini. Ed è una certezza alla quale il paziente - nella terapia dell’abbraccio - non approda.

Ho espresso pubblicamente - nel libro L’infanzia rimossa - le mie riserve sugli aspetti manipolatori, e per il mio modo di sentire addirittura ricattatori della terapia dell’abbraccio. E l’ho fatto prima di sapere dell’esistenza del libro // piccolo tiranno che smaschera inequivocabilmente gli atteggiamenti pedagogici di questa forma di terapia. Non è mai successo che i moderni profeti degli intenti pedagogici -

ossessionati (come in passato il dottor Schreber) dalla lotta col «piccolo tiranno» e affascinati dall’abile linguaggio della pedagogia nera’ - abbiano capito i miei libri, sempre che li abbiano letti. E la sostanziale ignoranza del mio atteggiamento può portare a conseguenze grottesche, tanto che i miei moniti sono potuti essere stravolti nel loro contrario: in piena approvazione.

La mia personale liberazione dalle ansie è stata possibile solo dopo che ho capito che la paura della verità e l’ignoranza della persona o delle persone che s’offrono d’aiutarti non sono un destino ineluttabile, bensì una scelta dell’adulto che, contrariamente al bambino, ha la possibilità di rinunciare alla rimozione. Ci si può decidere di dissolvere il rifiuto mentale e la cecità che si sono determinati come effetto dell’«educazione» del bambino. Solo da quando ho saputo con certezza, per esperienza personale e diretta, che la cecità psichica, che le tendenze distruttive e autodistruttive sono dissolvibili, (da quando ho rinunciato a voler comprendere i responsabili dei miei mali, soltanto allora ho osato guardare attentamente i loro misfatti e condannarli. Ho anche capito che è del tutto inutile voler comprendere la persona che ti trovi di fronte finché questa si rifiuta di comprendere se stessa. Ed è questo appunto che avevo tentato di fare per quasi tutta la mia vita: da bambina, da donna, da psicoanalista e - in parte - anche da autrice dei miei primi tre libri.

Da quando affermo e scrivo senza più peli sulla lingua che i maltrattamenti inflitti ai bambini sono il peggior crimine che l’umanità commette ai danni dell’umanità, perché danneggia sotto il profilo caratteriale le future generazioni e perché resta ignorato grazie alla rimozione delle vittime (terapeuti compresi), mi si rimprovera d’essere dura e spietata. Si chiede spesso come si può pretendere di vietare la collera ai genitori. In queste «argomentazioni» non si distingue tuttavia - e purtroppo - fra il sentimento, che non danneggia nessuno, e il suo esplicarsi in azioni. Ma è ovvio che anche i genitori devono potersi consentire dei sentimenti. Ma non deve essere loro in nessun caso consentito di picchiare impunemente i loro figli, di schiaffeggiarli o di umiliarli in altri modi, perché così facendo infieriscono su un organismo in formazione e lo danneggiano per la vita, commettendo quindi un delitto. I genitori che possono provare i loro sentimenti, ma che siano anche consapevoli della portata di questi sentimenti e intuiscano che le loro esplosioni di collera sono bensì innescate dal comportamento del bambino ma originariamente non causate da lui, corrono anche minor rischio di sfogare la loro ira spacciandola per un atto pedagogico. Comunque sia, è ora e tempo che i genitori non si avvalgano più del diritto di commettere impunemente dei delitti. E qui parlo consapevolmente di «colpa» e di «vittime», e non di

«cause» ed «effetti» come qualcuno invece mi suggerisce. Perché i bambini sono sacrificati da esseri umani, e cioè dai genitori, e non da robot. E questi esseri umani non hanno il diritto di comportarsi come robot devastatori e di insistere nella loro ignoranza, anche se le opinioni tradizionali e perfino certi comandamenti morali e religiosi li sostengono in questo atteggiamento quando predicano alle vittime la necessità del perdono. Verrà il giorno in cui l’effetto distruttore di vita di questi comandamenti sarà chiaramente riconosciuto.

Sandor Ferenczi, Robert Fliess o anche Heinz Kohut avevano sì cominciato a scoprire la verità sul fenomeno dei maltrattamenti inflitti ai bambini, ma non sono stati capaci di arrivare al fondo della verità perché sono rimasti, fino alla loro fine, degli analisti. Privi delle chiavi d’accesso alla verità costituita dalla loro stessa infanzia, non sono riusciti a trovare una via d’uscita dall’oscurità, dal labirinto delle teorie analitiche. Hanno aspettato invano che i loro colleghi si decidessero a confermare un fatto ovvio, e cioè le conseguenze delle rimozioni dei traumi infantili che avevano scoperto nei loro pazienti. Sono stati invece resi fortemente insicuri dal rifiuto dei colleghi e si sono sentiti isolati, perché è mancata loro l’esperienza del confronto diretto con la loro stessa infanzia. Se avessero trovato la strada che portava alla loro infanzia e quindi alla verità, non si sarebbero sentiti isolati. Perché vivere con la propria verità significa essere in compagnia di se stessi, e questa condizione è il contrario dell’isolamento. Ci si sente isolati quando si è separati da se stessi e si vive in perpetua fuga dalla verità. Ed è una perdita che non può essere sostituita nemmeno da centinaia d’amici e di ammirati seguaci.

Io non mi sento più isolata da quando ho coscientemente rivissuto il quasi inconcepibile isolamento della mia infanzia. Non mi considero nemmeno un’eretica reietta e amareggiata, e mi sento invece libera e viva da quando mi sono tolta i paraocchi che mi erano diventati insopportabili e che m’impedivano di vivere. Da bambina ne avevo avuto l’assoluto bisogno per sopravvivere, perché sarei morta non una, ma più volte di dolore e di orrore se avessi visto e provato — come oggi — in tutta la loro portata l’atteggiamento dei miei genitori, il modo in cui si comportavano con me e quali ne erano le conseguenze. Ora però, da adulta, posso sopportare la verità. E so anche sopportare la dolorosa verità di aver reso inconsapevolmente partecipi del mio autoinganno una parte dei miei lettori, a causa della speranza che ho coltivato per qualche tempo di poter cambiare la psicoanalisi e di smuovere dalle loro posizioni gli altri analisti. Però ho palesemente manifestato, ai miei pazienti di allora, i dubbi che avevo, nel momento in cui - nel 1980 - ho chiuso il mio ambulatorio per cercare di approdare alla chiarezza: prima scrivendo, e poi attraverso la terapia. Purtroppo alcuni di loro erano ancora convinti della possibilità di un cambiamento all’interno della scuola psicoanalitica.

La conseguenza della verità cui sono arrivata è che ora devo essere chiara e netta il più possibile. Voglio battermi affinché il mondo non continui a essere ulteriormente e incontrastatamente dominato da una cecità devastatrice. E lo posso fare nel migliore dei modi operando nei settori con cui ho confidenza, perché è in essi che ho fatto le mie esperienze. Vi è compresa anche la terapia che ho avuto modo di conoscere come paziente. Ho fatto esperienza con questa terapia nell’arco di pochi anni, dopo essermi per decenni vanamente sforzata, e non senza derivarne dei danni, di uscire dal labirinto psicoanalitico.

Perché sostengo che sono stati sforzi vani? Non potrei invece affermare di aver abbandonato il terreno della psicoanalisi - sia pure senza rendermene conto - fin dal libro // dramma del bambino dotato, quando (eravamo nel 1979) scrivevo nell’introduzione la frase decisamente contraria ai principi della psicoanalisi: «L’esperienza ci insegna che nella lotta contro i disturbi psichici c’è una sola via che alla lunga si rivela fruttuosa: quella che passa per la riscoperta emotiva e l’accettazione della storia unica e irripetibile della nostra infanzia nella sua verità»?

Tuttavia questa prima frase del mio primo libro esprimeva allora solo l’esperienza che avevo fatto coi miei pazienti. Perché nel 1979 non disponevo ancora degli strumenti adeguati per realizzare ciò che avevo desiderato tutta la vita, e cioè trovare la mia verità. Non disponevo inoltre allora d’un testimone consapevole della mia passata esperienza. E dal momento che mi ero messa a cercare quegli strumenti nella psicoanalisi, ho perso un’infinità di tempo. E mi ci è voluto dell’altro tempo, molto tempo, anche quando poi, alla fine, li ho trovati fuori della psicoanalisi. Perché il percorso che va dalla comprensione razionale alla ribellione, alla comprensione emozionale del bambino e del linguaggio del suo corpo non si può abbreviare con l’ausilio di costrutti mentali. Ma se non percorriamo per intero questo tragitto, per intelligenti, accorti e anche mentalmente brillanti che siamo, continueremo a restare impotenti e ciechi alla mercé di paludate menzogne.

La vicenda personale di Friedrich Nietzsche dimostra chiaramente l’impotenza d’un intelletto eccelso che si rifiuta, con tutti i mezzi di cui dispone, di accogliere emotivamente e a livello di coscienza ciò che l’organismo ha immagazzinato come conseguenza delle prime, tormentose esperienze di vita. Nietzsche costruisce un gigantesco apparato mentale in cui non fa che combattere contro la semplice verità costituita da un bambino gravemente maltrattato, costantemente ingannato e di cui si è pesantemente abusato. Soffre fin da bambino di gravi forme reumati-che, di continui mali di testa e di gola, senza che nessuno capisca questi sintomi per quello che sono: invocazioni d’aiuto. E per non dover in nessun caso respirare quello che ha sofferto nell’infanzia, perché non c’è nessuno che lo assista e lo aiuti a farlo, a quarantacinque anni perde infine la ragione.

La medicina dispone di consolidate etichette per definire queste fughe autolesioniste. Eppure il crollo di Nietzsche a Torino non fu una necessità ineluttabile. Non è affatto detto che dovesse avvenire e non sarebbe accaduto se una sola persona, un «testimone consapevole», lo avesse aiutato a non sottrarsi più alla sua infanzia e a prendere finalmente sul serio le sofferenze del bambino ingannato. Ma per tutta la sua vita Nietzsche non ha incontrato una persona simile, e appunto per questo la sua esistenza è dovuta culminare in una così tragica fine: la fine di un uomo che cercava la sua verità e nello stesso tempo la temeva, e che nella sua sconfinata solitudine, senza l’appoggio di nessuno, è infine caduto vittima non della verità, ma della paura della verità. Un’unica persona che non si fosse lasciata spaventare dalla verità sull’infanzia sarebbe bastata a preservarlo dalla distruzione della sua esistenza.

È di per sé già abbastanza difficile riconoscere chiaramente le menzogne per quello che sono, quando a insistere sulla menzogna sia soltanto una persona da cui ci aspettiamo aiuto. Il rispetto al quale siamo stati educati e il nostro stesso stato di bisogno ci impediscono di smascherare questa persona. Quanto più difficile sarà allora scoprire le bugie che tutti attorno a noi giudicano verità solo perché sono essi stessi vittime di queste menzogne? È in questo modo che coloro che sono stati a suo tempo vittime del disorientamento divengono in seguito manipolatori di coscienze e sostegni del potere vigente nella società.

Il settimanale «Paris Match» ha riferito nel 1989 d’un recente sondaggio svolto fra studenti ginnasiali, nel corso del quale il 78 per cento degli interpellati ha definito necessario e giusto il ricorso alle botte nella loro educazione. E questo mi ha confermata in ciò che vado sostenendo, e cioè che la generalizzata approvazione delle punizioni corporali e dei metodi d’educazione violenti non è ormai acqua passata, come i miei critici vorrebbero far credere. Ma, a parte questo, il sondaggio dimostra con spa-54

ventosa evidenza quanto precocemente, fin dalla giovane età, le menzogne sperimentate e apprese si trasformino in opinioni e convinzioni. Dal momento che corrispondono al parere dominante, è per molti difficile scorgerne il carattere distruttivo e bugiardo, specialmente in assenza di adeguate informazioni. I ginnasiali allevati con le botte considerano ovvio e normale ciò che conoscono per esperienza diretta, e giusto quanto è stato loro detto: e cioè che coi bambini ci vogliono le botte. Non vanno a indagare cosa c’è dietro questa opinione, perché i bambini che sono stati picchiati hanno paura di mettere in discussione i loro genitori. Fanno dunque propri i punti di vista ignoranti e devastatori dei loro genitori, e non sanno che esistono genitori che amano i loro figli e non li picchiano mai, e i cui figli crescono non per diventare dei tiranni e dei malfattori, bensì individui più felici e più consapevoli, capaci di aiutare il prossimo senza volergli arrecare nessun danno. E che esistono anche persone che, benché traumatizzate nella loro infanzia, sono però riuscite a dissolvere le conseguenze accecanti di queste lesioni, e sono quindi in grado di condannare chiaramente i comportamenti distruttivi nei confronti dei bambini.

La conoscenza di questo fenomeno è così decisiva per la sopravvivenza del nostro pianeta, che si vorrebbe che tutti i giornali ne riferissero, quotidianamente, per mettere l’umanità in guardia dai pericolosi e falsi profeti. Si vorrebbe che suonassero le campane di tutte le chiese per ammonire i credenti a non rinunciare ai loro diritti democratici e a non mettersi nelle mani di potenziali, devastanti tiranni che per tali inequivocabilmente si tradiscono quando dichiarano di approvare l’uso della violenza nell’educazione. Perché oggi è possibile saperlo e verificare questa nozione in ogni singolo caso: chi sostenga che le torture subite nell’infanzia gli sono state utili per una buona educazione non dovrebbe mai poter disporre di potere sui suoi simili o su interi popoli, perché potrebbe facilmente diventare un tiranno devastatore.

Rinunciare ai nostri diritti democratici a favore di futuri tiranni e dittatori perché si spacciano, sul momento, per «padri forti» che ci rammentano i nostri, equivale a un suicidio collettivo. Noi disponiamo ormai dei criteri necessari per riconoscere in tempo il pericolo. Anche se fin da bambini aspettiamo il grande salvatore che ci strappi dalla condizione di bisogno in cui ci troviamo (cfr. capitolo il, 3), da adulti siamo nella condizione di sapere come questo salvatore non debba essere in nessun caso. Perché è più che probabile che un individuo il quale rimuova e neghi totalmente i maltrattamenti subiti costituisca un pericolo per gli altri, pericolo tanto più grande quanto maggiore è il potere di cui dispone. Lo si può continuamente verificare, nei minimi dettagli, con esempi tratti dalle vite di Stalin, Hitler e d’innumerevoli loro seguaci. Non si trova un’eccezione fra di loro, non uno che non sia diventato un persecutore degli altri e che non abbia propagandato come giusta la propria passata persecuzione sofferta.

5 • I MURI DI SILENZIO NELLA STAMPA

Nel corso di tutti i tentativi che ho intrapreso per rendere l’opinione pubblica partecipe di nuovi, positivi strumenti di conoscenza, ho incontrato le maggiori resistenze - proprio come Èva - nel mondo dei media.

Posso sì pubblicare indisturbata queste nozioni nei miei libri, perché le paure degli editori e il loro interesse a vendere si bilanciano; ma ci sono anche altre persone che hanno da dire cose importanti e che non hanno altro modo di farlo se non ricorrendo ai giornali. Dipendono, esattamente come i lettori, dalla disponibilità di questi ultimi a non censurare importanti informazioni.

La paura e il disorientamento che hanno origine nelle sofferenze della propria infanzia permeano l’intera società. Fungono da sostegno del muro di silenzio contro il quale vanno a sbattere tutte quelle persone che hanno appena cominciato a confrontarsi con la loro infanzia. Tuttavia negli ultimi anni si sono manifestati in questo muro alcuni segni di cedimento, fenditure e brecce che assumono per alcuni una grande rilevanza. Il merito che il muro di silenzio si stia sfaldando va attribuito a quelle persone che hanno osato affrontare una terapia rivelatrice e comunicare agli altri le nozioni così acquisite.

Negli ultimi anni non mi sono limitata a prendere posizione coi miei libri, ma sono intervenuta anche sui giornali quando mi è parso necessario reagire alle distorsioni della verità. E ora desidero prospettare queste reazioni anche qui, ai miei lettori, perché vedano che non sono soli con le loro esperienze, e anche che la rassegnata e muta sopportazione dell’ignoranza altrui non è più un’inevitabile necessità. Certo, conoscenze acquisite con dolore e lacrime non si possono facilmente spartire con coloro che considerino la loro condizione di irrigidimento e di povertà emozionale come l’unica forma di vita. Gli altri però, quelli che non possono né vogliono ulteriormente sopportare il loro irrigidimento, sono grati d’ogni autentico contributo che sia reso loro accessibile da parte di coloro che abbiano intrapreso il viaggio nel territorio nascosto, scansato eppure così ricco d’influssi costituito dall’infanzia. Per loro queste informazioni sono un incoraggiamento, perché vi trovano la conferma di essere — pur fra lacrime e sofferenze — sulla strada che porta alla verità.

In aggiunta al desiderio che ho di assecondare, con estratti dalle mie lettere, quelli che sono in cerca della verità e che combattono contro l’arroganza dell’insipienza, ho un’altra ragione per pubblicare le lettere che seguono. Voglio cioè dimostrare che anche quando conosciamo le cause del rifiuto di accogliere la verità, questo non deve impedirci di denunciare e di condannare le conseguenze distruttive di tale atteggiamento, ovunque ci capiti di riscontrarlo. Ai tempi in cui scrivevo il Dramma non avevo ancora colto con chiarezza questo aspetto della situazione; ed è appunto questo il motivo per cui il mio atteggiamento d’allora - incline a capire e a perdonare tutto - è stato così generosamente lodato. Tuttavia per cambiare qualcosa, per fermare la barbarie cui sono esposti i bambini e che si basa su una tradizione millenaria, non basta - come allora invece pensavo - limitarsi a dimostrarla. La costernazione che m’aspettavo di riscontrare come reazione alle mie rivelazioni, in molte persone non si verifica affatto, poiché si sottraggono per principio ai loro sentimenti e li contestano radicalmente. Fino a quando persone che rivestano funzioni di elevata responsabilità nei confronti del prossimo (medici, terapeuti, giornalisti) negheranno o banalizzeranno questa barbarie, occorre anche dimostrare questo dato di fatto e il modo in cui esso si esplica. Entrambi vanno condannati. Proprio in questo consiste una parte del lavoro d’informazione che svolgo per spiegare il fenomeno costituito dalle violenze sull’infanzia.

Anziché filosofare in astratto su «strutture sociali», mi riferisco a fatti concreti, tratti dalla vita d’ogni giorno, e che chiunque che non abbia paura di confrontarsi coi fatti può verificare. Chi intende sottrarsi a ogni costo a questo confronto, reagisce non di rado al suo stato d’impotenza scaricandosi sugli altri.

Anche questa reazione va spiegata e denunciata, affinché i colpi inferii per impotenza non feriscano e intimidiscano gli altri, e ne distruggano l’opera d’informazione cui si dedicano.

La repressione della verità sui delitti che si commettono ai danni dei bambini è a sua volta un delitto, perché cerca d’impedire la salvaguardia dei bambini e, con essa, del nostro avvenire. Per quelli che a un recensore sono apparsi, nei miei ultimi libri, «suoni stridenti», io ho un’altra definizione: è la decisione attentamente riflettuta e perfettamente consapevole che ho preso di negare compassione e comprensione a coloro che non s’accontentano più di rifugiarsi per paura nell’ignoranza, ma che prendono parte attiva all’opera di sminuire d’importanza questo peggiore dei delitti, di mascherarlo, di giustificarlo e quindi di conservarlo.

Quando è apparsa su un quotidiano una recensione dei miei ultimi due libri in cui si contestava l’indispensabilità delle misure psicoigieniche da me auspicate, ho scritto al giornalista autore dell’articolo una lettera che qui riporto in forma sintetica.

Lei vive in un paese nel quale i due terzi delle persone interpellate dal periodico «Genitori» ritengono giusto e necessario il ricorso alle punizioni corporali nei confronti di bambini indifesi; il che significa che milioni di bambini vivono in una condizione di continuo pericolo perché i loro genitori non hanno ancora imparato a considerarlo come tale. Anche lei dovrebbe sapere che, nonostante le notizie quotidianamente riportate dai giornali su casi di bambini maltrattati, esistono ben poche pubblicazioni scientifiche su questo tema, e che, quando appaiono, sono poco lette poiché trattano un argomento che la generalità delle persone preferisce per lo più evitare. A questo punto compare il libro L’infanzia rimossa, d’una autrice che, nonostante la paura che ancora circonda questo tema, è fortunatamente letta da molte persone. L’autrice descrive in questa opera come certi genitori infieriscano sui bambini, perché lo fanno, quali conseguenze questo fatto comporti e come questa tragedia possa essere evitata. Molte lettere di lettori dimostrano che queste informazioni sono d’aiuto. Nel momento in cui lei si trova questo libro fra le mani, le si offre dunque l’occasione di venire incontro alle esigenze dei lettori. E

invece cosa fa lei di questa opportunità?

Pubblica una recensione del libro articolata in modo tale da far capire che una psicoanalista un tempo assai sensibile deve aver evidentemente perso la ragione e il senso della responsabilità, perché ora istiga all’odio, e sfonda anche porte aperte, essendo evidentemente afflitta, anzi abbagliata - a causa di maltrattamenti da lei stessa subiti nell’infanzia - da fantasie sanguinarie, tanto da vedere crudeltà anche li dove non si ci sono affatto.

Non è facile riuscire a immaginare una più grottesca distorsione dei dati di fatto. Io ho preso la decisione Ai provare cosa significhi essere figlia di genitori incoscienti, e di riferirne. Continuo e insisto nel farlo, per richiamare l’attenzione dei genitori e della società sulle pene dei bambini, affinché mutino le concezioni e il comportamento degli adulti. Che ora lei abbia deciso di non appoggiare la mia iniziativa e di sottrarre ai suoi lettori delle importanti informazioni è deplorevole per ragioni di politica sociale, e a me personalmente del tutto incomprensibile.

Nove anni fa // dramma del bambino dotato ebbe le esplicite lodi del suo giornale, probabilmente perché quel libro prospettava i maltrattamenti inflitti ai bambini come una tragedia ineluttabile. Non richiedeva quindi che si assumesse una posizione sull’argomento. Ora che sono riuscita a dimostrare che e come questa tragedia e evitabile, le affermazioni dei miei libri sono sottaciute. Quello che vi si legge non è forse già tutto negli scritti di Adalbert von Chamisso?1 No, purtroppo No. Altrimenti oggi il nostro mondo sarebbe diverso da come invece è. E

non abbiamo nemmeno più molto tempo da perdere in attesa del momento in cui saremo disposti ad aprire gli occhi sulle nuove cognizioni di cui già disponiamo. Lei auspica forse che la percentuale dei genitori che in Germania picchiano i bambini non si riduca affatto? Mi riesce difficile crederlo. Tuttavia, dopo aver letto la sua recensione, è una domanda che occorre necessariamente farsi.

Il recensore s’è scusato per le sue «non volute» calunnie, e io ho scritto al giornale - che l’ha pubblicata -

la lettera che segue.

Nel quadro dell’analisi che è stata fatta dei miei libri Der gemiedene Schlùssel [La chiave accantonata] e L’infanzia rimossa, sorge, a causa di una citazione abbreviata, un’impressione fuorviante. Il passo in questione di L’infanzia rimossa, a pag. 130, dice: «L’odio rimosso e inconsapevole ha effetti distruttivi, mentre l’odio esperito non è un veleno, ma una delle vie per uscire dalla trappola delle distorsioni, delle ipocrisie e delle tendenze distruttive». Dal contesto emerge che la consapevole riesperienza dell’odio nella terapia protegge dalle tendenze cieche a esternare, sfogare, scaricare questo odio. Si sottolinea insomma la fondamentale differenza che c’è fra l’esperire una sensazione e lo sfogarla in un’azione che, in determinate circostanze, può portare alla distruzione di vite umane.

Questa distinzione costituisce l’asse portante del mio libro, che senza di essa non può nemmeno essere compreso.

Tralasciando l’uso del corsivo nel riportare il termine «odio esperito», omettendo di menzionare il contesto (in fase di terapia), e con l’aggiunta della strana parola «esaltare», sorge l’impressione che l’autrice inciti irresponsabilmente a sfogare l’odio. Una simile interpretazione contrasta con tutto ciò che ho sempre scritto e sostenuto, visto che ho ripetuta-mente sottolineato il pericolo di appagare l’odio accumulato, con riferimento specifico al caso di Adolf Hitler. Io non «esalto» l’odio e non incoraggio nemmeno a sfogarlo sui genitori. Nel libro Der gemiedene Schlùssel [La chiave accantonata] ho spiegato esattamente, sulla base dell’esempio di Abramo e Isacco, perché non possa né debba essere questa la via d’uscita. E che esistono invece vie d’uscita umane ma anche efficaci.

Verso la fine del 1989 un noto settimanale ha pubblicato quella che è stata spacciata per una recensione dei miei ultimi libri. Vi si sosteneva che avevo ormai già detto, nel Dramma, tutto quello che c’era da dire sui «poveri bambini», e che di conseguenza non c’era altro da aggiungere. I miei libri successivi altro non sarebbero che l’inutile ripetizione degli stessi concetti, e che non sarebbe il caso d’aspettarsi altro da me neanche in avvenire.

Ho cercato di richiamare l’attenzione della redazione sul fatto che questo «parere» non era avvalorato né motivato con una sola parola, e che si ignorava del tutto il contenuto dei miei libri più recenti. A sentire i redattori, questo modo di procedere sarebbe del tutto normale. Nessuno si è mostrato stupito. La mia lettera - che qui riproduco e che è stata anche pubblicata dal settimanale — entra nei particolari: II titolo della vostra «recensione» - L’infanzia risaputa - implica un’asserzione che è contraddetta dal contenuto dell’articolo. Se le cose stessero effettivamente così, e cioè se quello che occorre sapere sulle cause e sugli effetti dei maltrattamenti inflitti ai bambini - argomento dei miei ultimi due libri - fosse da tempo già noto in Germania, se la consapevolezza di questo fenomeno non fosse invece ancora rimossa, il vostro recensore non avrebbe cercato lo spunto per irridere pubblicamente questo tema. Il fatto che lo abbia trovato, dimostra il contrario di quello che asserisce.

L’articolo suscita l’impressione d’uno che si tappi le orecchie per non sapere qualcosa che non vuole a nessun costo sentirsi dire. Il recensore ha palesemente avuto bisogno di più d’un anno solo per decidersi a leggere almeno ciò che è scritto sul risvolto di copertina del libro, per poi non andare oltre la metà della prima frase di quel testo, dove si legge: «Come nei suoi primi libri, anche qui Alice Miller si occupa essenzialmente di fatti». È bastata evidentemente questa prima frase per suscitare nel recensore un notevole disorientamento, dal momento che scrive: «Anche qui Alice Miller si occupa, ancora una volta… già, di che cosa? Diciamo allora che il lettore informato non ha più nemmeno bisogno di sfogliare questi libri…». Ecco com’è facile cavarsela per un recensore disorientato: evitare semplicemente di leggere i miei libri.

Il modo in cui il vostro giornale ha trattato, con tanto sarcasmo, il tema e le vittime dei maltrattamenti inflitti ai bambini, è riprovevole e terribile.

Ciò che costituisce un dono per l’uno, può essere una punizione per un altro. Persone che vogliono dissolvere le loro rimozioni, trovano nei miei libri informazioni che possono essere loro utili, mentre certi recensori, che devono leggere questi libri per ragioni esclusivamente professionali, ne sono evidentemente sconcertati. Si ritrovano improvvisamente e senza preparazione di fronte alle sofferenze della loro stessa infanzia e si precipitano ad afferrare la prima arma che capita loro sotto mano per opporsi all’antico sgomento, al disorientamento che ora li assale, e per tornare così a sentirsi «forti». Si sottraggono quindi a priori all’effetto che questi libri potrebbero fare su di loro, e si rifugiano nelle strutture consolidate del sapere tradizionale che appaiono loro ferme e irremovibili. In uno dei numerosi casi che mi sono capitati, mi è parso sensato reagire, ed ecco quello che ho scritto al recensore: 1 - II fatto che i maltrattamenti inflitti ai bambini portano a effetti distruttivi e autodistruttivi, e quindi alla miseria che pervade il mondo, non è una mia «teoria», bensì — purtroppo - una realtà oggettiva. Le sarei grato se riuscisse a offrirmi una fondata confutazione di questa asserzione. Perché finora non ne ho riscontrata alcuna.

2 — Non è inoltre affatto vero che sia un mio problema la circostanza per cui gli esperti non scorgano questo pericolo; è semmai il problema di questi esperti, perché manifestano, così facendo, la loro debolezza e offrono la prova della loro cecità. Continueranno ancora a lungo a rifugiarsi nelle fortezze dei loro impraticabili pseudoconcetti, anche quando altri saranno già impegnati nel confronto con questi fatti spiacevoli, per eliminare almeno un po’ di miseria dal mondo. Grazie a questo confronto con i fatti, altri studiosi riconosceranno le peggiori specie di travisamenti teorici - fra gli altri quello freudiano - per quello che sono: tentativi di sottrarsi alla paura che scaturisce dalla storia della propria infanzia.

Se la recensione che ho menzionato sopra si limitava alla scortesia e alla presunzione intellettuale, un’altra è arrivata perfino a una serie di ingiurie appena mascherate. Se ho reagito ugualmente, l’ho fatto solo perché - come mi era già spesso capitato — mi sono trovata di fronte alla solita confusione fra i concetti di azione e di emozione. Ecco quanto ho scritto:

Nella recensione dei miei libri lei cita correttamente una frase da L’infanzia rimossa che dice: «Se la legge vietasse di sfogare sui figli la collera accumulata nei confronti dei propri genitori, si dovrebbero cercare - e si troverebbero anche - altre vie d’uscita dalla trappola». Il suo commento è stato: «Come se si potesse vietare la collera con una legge». Da questa sconcertante conclusione emerge che lei non coglie evidentemente la differenza che c’è fra emozione e azione, vale a dire fra il sentimento della collera e lo sfogo, ovvero l’appagamento di questo sentimento su innocenti sostituti (i bambini). Eppure questa differenza è fondamentale quanto quella fra una buona terapia e una violenza esercitata su un bambino, oppure - per esempio - fra la Colonia penale di Kafka e i crematori di Hitler.

E desidero chiarire: perché qui mi trovo dinnanzi a una grave confusione di concetti. È ovvio che non si possono né si devono vietare a nessuno i sentimenti. Però lo sfogo della collera non è un sentimento, bensì un’azione. Se lo sfogo si rivolge verso altre persone adulte non è detto che si debba necessariamente proibire (fatta eccezione per il ricorso alle lesioni fisiche), perché l’adulto aggredito ha la fondamentale possibilità di capire l’abuso che si compie nei suoi confronti, e perché può far valere il diritto di difendersi contro l’arroganza. Lo sfogo della collera su bambini indifesi, assoggettati all’arbitrio dell’adulto, può invece e deve essere legalmente vietato, perché si tratta d’un delitto che comporta conseguenze per tutta la vita. Il divieto legale dei maltrattamenti fisici esiste già, in linea di massima, mentre i maltrattamenti psichici sono tuttora acriticamente tollerati e mascherati con pretese pedagogiche. Il fatto che singoli giornalisti e alcune associazioni che si definiscono progressiste evitino d’intervenire pubblicamente affinchè si arrivi al divieto legalizzato, non fa che aggravare le sofferenze, anzi perfino la condizione di pericolo mortale cui molti bambini sono continuamente esposti.

Nella replica a un articolo che definiva «del tutto irrilevante» l’accenno all’«infanzia di Hitler», ho scritto quanto segue:

Migliaia di storici si sono già arrovellati (ed è da presumere che non la smetteranno di arrovellarsi ancora) sul problema di come Adolf Hitler, da adulto, sia potuto diventare cancelliere del Reich nella repubblica di Weimar. E

lei ha ragione nel sostenere che Niklas Radstròm, nel suo dramma Hitler ‘s Childhood [L’infanzia di Hitler], non ha analizzato affatto questo problema. In compenso ha fatto qualcosa che - per quel che ne so - nessun altro autore prima di lui aveva osato: ha deciso di collocarsi, consapevolmente e con assoluta coerenza, dalla parte di un bambino gravemente traumatizzato, per dirigere dal punto di vista di questo bambino lo sguardo sulla nostra società adulta e vedere che immagine offre di sé. E sono davvero tante le cose che emergono, a volerle guardare così. Ammettiamo pure che si sia rifatto alle mie ricerche: ma senza una propria, intima immedesimazione col bambino non sarebbe mai riuscito a produrre un testo così efficace.

Purtroppo le cose stanno così: abbiamo paura di occuparci del problema costituito dall’infanzia. Non è certo cosa da tutti, e dobbiamo essere grati a chi si addossa, anche per noi, le emozioni e le tensioni psi-chiche insite in questo lavoro. Perché la conoscenza dell’infanzia è un fattore ineludibile se si vogliono davvero capire l’individuo adulto e la vita nel suo complesso. È un avvenimento importante, secondo me, e non solo per la storia del teatro, il fatto che Radstròm sia stato capace di compiere questo passo decisivo rinunciando consapevolmente a teorie impraticabili. La prospettiva del bambino, qual è mostrata in questo caso sulla scena, può infatti contribuire all’approfondimento delle nostre conoscenze e delle nostre riflessioni anche in ambito politico. Il titolo di Radstròm era ed è L’infanzia di Hitler, ed egli intendeva riferirsi - come ha ripetutamente sottolineato - soltanto a quest’unica infanzia. L’aggiunta al titolo della locuzione «Per esempio» non è addebitabile a Radstròm, né tanto meno a me. È stata una scelta dettata da specifiche considerazioni fatte dalla compagnia teatrale che ha messo in scena il dramma a Zurigo: considerazioni che posso capire, ma che non condivido. La scelta fatta dall’ensemble è riconoscibile anche nell’allestimento, che prospetta sì un’infanzia difficile, ma non quasi inconcepibile e intollerabile nella sua brutale spietatezza, come è invece avvenuto nella messa in scena svedese. Se Adolf Hitler avesse fatto - anche solo in parte, anche solo in pochi momenti — un’esperienza con genitori comprensivi e simpatici quali quelli che si vedono in scena a Zurigo, non sarebbe diventato il peggior criminale della storia.

Avrebbe avuto l’occasione di immagazzinare in sé dell’altro oltre alla brutalità, e cioè, per esempio, sentimenti di compassione per il prossimo. E invece Hitler non ha mai fatto un’esperienza del genere. Lo desumo dall’inflessibilità del suo comportamento, che non ammetteva eccezioni né pietà nella sua furia distruttrice, e che si è concretizzato fra l’altro nella «soluzione finale» e nella legge sull’eutanasia. Aveva immagazzinato solo violenza, spietatezza e odio. Ed è stata questa esperienza totalizzante e precocemente immagazzinata di fungere da cane bastonato presso i propri genitori a fare di lui ciò che è poi diventato: la totale incarnazione del male.

Questa che ho appena citato è una lettera che ho scritto nel 1986; allora non sapevo di altri tentativi di descrivere la società con gli occhi del bambino conservando con coerenza questa prospettiva. Nel frattempo ho letto Stili wie die Nacht, Memoiren eines Kindes [Tranquillo come la notte - Memorie di un bambino] di Manfred Bieler, un libro uscito nel 1989, e sono certa che alla pubblicazione di questo libro debba essere attribuita una grande importanza. Io quanto meno non conosco nulla di simile. Ciò che Radstròm cercava di rappresentare immedesimandosi in un destino altrui, emerge in Bieler dalla sofferta verità della propria sorte. Ha dato la mano al bambino che egli stesso è stato e lo ha accompagnato attraverso gli inferni dimenticati. Ha scosso le convenzioni degli adulti che negano al bambino il diritto alle sensazioni e ai sentimenti, irridendoli, e ne ha reso consapevole testimonianza. Ha potuto farlo perché sua nonna, in qualche circostanza, lo aveva protetto dai genitori, assumendosi così il ruolo della testimone soccorrevole. In una specifica circostanza, quando il piccolo Manfred Bieler era stato maltrattato dal padre, la nonna era intervenuta e aveva a sua volta schiaffeggiato il padre. In questo modo aveva mostrato al bambino che lo si stava trattando ingiustamente e che questo comportamento era condannato da un altro adulto: che non era cioè del tutto privo di diritti e che poteva sperare in un aiuto. Molti bambini maltrattati non hanno mai fatto quest’esperienza, non sanno quindi che avrebbero meritato un aiuto e che lo avrebbero anche potuto avere se qualcuno, nel loro ambiente, fosse stato meno spieiato e ignorante. La nonna ha invece dimostrato a Bieler, con il suo intervento, che egli era un bambino meritevole di affetto e che gli voleva bene. Tutto questo ha consentito all’autore di confrontarsi con le sofferenze della sua infanzia, di non negarle completamente, di riferirne. Persone che non abbiano avuto, durante l’infanzia, l’assistenza d’un testimone soccorrevole, non potrebbero farlo.

Avrebbero invece il bisogno, oggi, d’un testimone consapevole che, nel corso d’una terapia, agevoli loro l’accesso alla loro storia. Purtroppo molte «terapie» non fanno altro che ammutolire definitivamente la storia del bambino.

Talune reazioni al libro di Bieler rispecchiano il cinismo con cui si procede all’annientamento dell’animo infantile. Critici che si ritengono «competenti» oppongono a questo libro la stessa ir-risione che certi genitori riservano da sempre alle parole del bambino. Se questi critici avessero il ricordo vivo di ciò che di simile hanno sofferto, disporrebbero oggi anche della necessaria sensibilità per lo stato di bisogno di altri bambini. Il loro modo di negare totalmente, di irridere o di contestare questo bisogno è la conseguenza della loro stessa totale rimozione, alla quale non intendono in alcun caso rinunciare.

Ci vorrà indubbiamente ancora molto tempo perché si sviluppi in tutti noi la sensibilità necessaria per cogliere le tendenze ostili alla vita e distruttrici di vita. Eppure senza questa sensibilità siamo esposti ad azioni cieche e devastatrici di cui si sottovalutano facilmente i pericoli, perché le si spaccia per innocui giochi mentali, mascherando così la loro natura distruttiva. La repressione della verità nelle sue svariate forme deve essere combattuta anche perché le persone in passato maltrattate possano divenire consapevoli di questa repressione - da loro ritenuta normale - e non si abusi quindi di loro facendone ciechi consumatori delle menzogne stampate.

La paura di fronte al tema del maltrattamento dei bambini e i tentativi di sottrarsi a questa paura -

riconoscibili in molte recensioni dei miei libri - sono senz’altro comprensibili, perché condizionati dalle proprie esperienze rimosse. Tuttavia i ricordi che affiorano durante la lettura potrebbero anche essere d’aiuto se esistesse la disponibilità a confrontarsi con quelle esperienze. Purtroppo il timore suscitato dal solo tema «infanzia» pare essere molto più grande di questa disponibilità: e corrisponde al peso dei fatti ai quali ci si sottrae. E purtroppo questo timore non è affatto analizzato ed elaborato, bensì rimosso con tutti i mezzi possibili. Gli uni affermano che il tema dei maltrattamenti infiliti all’infanzia è un mio problema personale, di portata tale da in-durmi a vedere crudeltà ovunque; altri sostengono addirittura -

sfrontatamente e con la stessa sicurezza di coloro che le rifiutano e le negano - che si tratta di «nozioni da tempo note». Altri ancora negano alle mie prove valore scientifico, perché queste prove sarebbero

«troppo semplici» e «troppo convincenti». E poiché non si è abituati alla semplicità, ecco che insorgono le paure. Un recensore sincero ha addirittura scritto: «Quello che risulta problematico nelle enunciazioni di Alice Miller è che sono “maledettamente logiche”. Nei suoi ultimi due libri formula le sue teorie con una chiarezza e una capacità di suggestione tali che il lettore le segue quasi senza accorgersene». In questo modo la forza persuasiva dei fatti è dunque esplicitamente registrata come pericolosa, e quindi definita «problematica». Perché da un confronto coi fatti ci sarebbe evidentemente molto da temere. Da sempre la paura dinnanzi ai fatti trova modo di placarsi ricorrendo al fascino dei concetti e delle speculazioni che li velino e li nascondano. E, inversamente, la cruda verità dei fatti può scatenare paure.

Tuttavia anche la verità potrebbe aiutare a dissolvere queste paure, se non la si negasse e si fosse disposti a guardarla in faccia.

Una novità da registrare è questa: i tentativi della stampa di reprimere la verità sulle condizioni dell’infanzia non rimangono più inconfutati. Qui e là si fanno avanti testimoni consapevoli che correggono pubblicamente questi pareri distruttivi, sorpassati eppure ancora tanto diffusi. Per questo sarebbe errato e ingiusto sostenere che tutti i bambini un tempo maltrattati debbano restare inconsapevoli per tutta la loro vita. Ci sono incontestabili prove del fenomeno contrario: e cioè quello di persone che, grazie a un testimone soccorrevole, sono potute approdare nella loro infanzia oppure in seguito alla consapevolezza dell’ ingiustizia sperimentata e che quindi dispongono della capacità di compatire gli altri. Definire «lagnose» queste persone - come talvolta si legge - è un atteggiamento che fornisce informazioni sulla passata condizione di chi vi ricorre: e cioè che nessuno ha voluto mai prendere sul serio le lacrime del bambino e che il famigerato «vedi di controllarti» ne ha tirannicamente segnato l’infanzia. Tuttavia quando ignari recensori presumono di tiranneggiare secondo questo principio il loro piccolo regno, devono aspettarsi delle proteste, perché non fanno altro che palesare le loro tendenze distruttive a coloro che non sono o non sono più ignari.

Una lettrice che, grazie a un testimone soccorrevole, può ricordare con indignazione e giustificato risentimento la sua terribile infanzia - segnata ancora da concezioni pedagogiche prussiane negli anni Cinquanta - mi ha mandato la copia d’una lettera alla quale il settimanale cui l’aveva inviata per la pubblicazione

ha risposto solo col silenzio. Desidero menzionarla qui, perché parla per molti di coloro che mi hanno scritto:

«Quale bambino non avrebbe motivo di piangere a causa dei suoi genitori?». Questa è una citazione da Così parlò Zarathustra di Nietzsche. Nel quadro di un sondaggio statistico, il 60 per cento degli uomini e il 70 per cento delle donne interpellate hanno ammesso di aver picchiato i loro figli. Parecchi giornali hanno recentemente riferito quanti sono oggi i bambini (trecentomila, senza calcolare la parte sommersa del fenomeno) che hanno subito violenze di natura sessuale. Non così il vostro giornale che, alla ben nota, prussiana e tedesca maniera, si limita a cacciare più profondamente in gola il bavaglio al bambino che si lamenta («lagnoso» è la parola prediletta dai recensori arroganti e insensibili), gli rifila un paio di sberle (e intanto, di sfuggita, comunica che Alice Miller non avrebbe più nulla da aggiungere al suo ormai a tutti «noto sapere»), e si erige con squallida crudeltà e pochezza intellettuale a difensore del più grave e pericoloso tabù, a paladino cioè di tutti coloro che negano quei delitti compiuti ai danni dei bambini per i quali si usa la banalizzante definizione di «maltrattamenti».

Dalle lettere dei lettori imparo ogni giorno che il mondo, oggi, non è più come era ai tempi della mia infanzia, che ci sono cioè persone in grado d’opporsi anche pubblicamente all’irrisio-ne, all’ignoranza e alla menzogna. La stessa lettera che ho riportato dimostra anche che non si può più parlare di una generalizzata

«maniera» tedesca. Anche in Germania si riscontrano ormai entrambi gli atteggiamenti: quello di chi ancora ciecamente distrugge, e però anche quello dei testimoni consapevoli, illuminati dei maltrattamenti inflitti ai bambini, i quali s’adoperano anche in quel paese - come ovunque e per la prima volta nella storia dell’umanità - perché emerga finalmente tutta la verità su queste violenze, sulle loro cause e sulle loro conseguenze.

1 • IL SACRIFICIO DEL BAMBINO COME «TRADIZIONE»

Le statistiche dimostrano che al giorno d’oggi vivono al mondo almeno settantaquattro milioni di donne che sono state sottoposte a clitoridectomia prima del matrimonio. Si tratta d’una antica tradizione contro la quale insorgono ormai anche le donne dell’Africa. Eppure a queste proteste reagiscono con indignazione e minacce non solo certi uomini, ma anche donne che approvano questa usanza. Perché ci sono donne che si comportano in questa maniera? Non sono forse vittime di un’usanza basata sulla disumana pretesa che la donna non provi piacere dall’atto sessuale? Non sarebbe più logico che le donne africane d’oggi s’impegnassero per proteggere le loro figlie dalla mutilazione, dalla sofferenza brutale e dai pericoli d’infezione che provocano la morte di parecchie di loro? Sarebbe indubbiamente logico, se non operasse anche qui la legge della rimozione della collera. E la collera rimossa si sfoga inconsciamente sulla successiva generazione.

L’asportazione della clitoride d’una bambina di dodici anni è eseguita — con o anche senza anestesia — da donne adulte, vittime a suo tempo della stessa procedura e che non hanno però registrato la loro situazione a livello di consapevolezza. Hanno salvato se stesse rimuovendo dalla coscienza sia le sofferenze, sia la collera e il desiderio di vendetta, e idealizzando invece addirittura quest’usanza. Quando erano ancora ragazzine non si erano potute difendere e avevano dovuto rimuovere i loro sentimenti: ed è comprensibile. Oggi però, come conseguenza di quella rimozione, affermano che la clitoridectomia è giusta, necessaria e innocua. Non riescono a ricordare le sofferenze rimosse, non si sono mai rammaricate della perdita subita, l’hanno considerata come un evento naturale, e di conseguenza pretendono lo stesso dalle loro figlie senza nemmeno voler sapere quale danno arrecano loro in questo modo.

Di fronte a un tribunale europeo, chiamato a giudicare sulle circostanze d’una simile castrazione culminata nella morte della vittima, la madre si è difesa affermando che sua figlia, senza quella operazione, non avrebbe trovato marito al rientro in patria. Di conseguenza l’intervento sarebbe stato assolutamente necessario. La madre, interrogata davanti alle telecamere, non sembrava nemmeno sospettare di essersi comportata in quel modo per ragioni assai diverse.

All’orecchio d’un europeo suona più o meno assurdo che sia stata approvata per secoli e che sia oggi ancora praticata una simile, grave mutilazione delle bambine. Attenzione, però: l’europeo, nella sua infanzia, ha imparato a credere a ogni altra possibile menzogna, fatta eccezione solo per questa. Può così credere, per esempio, che da un sistema d’educazione che miri a creare un ubbidiente robot possa scaturire un essere umano sensibile ed equilibrato.

Un lettore non prevenuto potrebbe chiedersi: ma che se ne fa il buon Dio dell’asportazione della clitoride di milioni di piccole bambine? Sarebbe spiegabile, ma non meno crudele, se a pretendere questa mutilazione fosse il padre della bambina: forse ha soddisfatto in passato la sua libidine su di lei e non vuole concedere al futuro marito l’analogo piacere. O forse, quando fa soffrire sua figlia - una donna anche lei -, si vendica di sua madre infierendo su una sostituta dell’immagine materna. Ma che cosa c’entra Dio in tutto questo? Perché si tira in ballo la volontà di Dio per giustificare questo regolamento di conti? Dio sta forse solo a rappresentare gli interessi degli uomini? È difficile immaginare una spiegazione diversa.

E poi: perché mai i comandamenti divini dovrebbero imporre simili crudeltà? E come mai gli uomini adorano divinità così crudeli? A noi, che non siamo stati circoncisi o privati della clitoride - almeno non fisicamente , tutto questo appare assolutamente incomprensibile.

Esistono svariate ragioni per spiegare tali forme di violenza -ammantate di pretesti religiosi - che s’infliggono ai bambini indifesi: la causa scatenante non è solo la vendetta dell’adulto per la sofferenza patita in passato e poi rimossa nell’inconscio. Un altro fattore è l’ubbidienza acritica da sempre riservata ai genitori, e poi c’è la convinzione, ereditata da questi ultimi, secondo cui la circoncisione avrebbe effetti positivi: tutte concause, queste, che consentono alla mutilazione di sopravvivere come una tradizione degna d’essere conservata.

Ciò nonostante, in questi ultimi anni, è capitato finalmente che anche giovani ebrei statunitensi, pur essendo religiosi praticanti, abbiano rifiutato radicalmente la circoncisione perché ne hanno capita la crudeltà: lo ha riferito nel 1987 il periodico «Mothering».

In L’infanzia rimossa ho estesamente citato lo studioso del comportamento Desmond Morris, il quale ha dimostrato che nessuna delle cosiddette argomentazioni mediche addotte per giustificare la circoncisione regge alle verifiche critiche.” Le sue considerazioni sono state avallate da ricerche svolte negli Stati Uniti e in Inghilterra. Spesso si è trattato solo d’una specie di moda dalla quale hanno tratto profitto soprattutto i medici che hanno sfruttato l’ignoranza e la credulità della popolazione. Da quando le casse di malattia hanno smesso di pagare la circoncisione, questa «usanza» ha rapidamente perso il suo fascino, e salta all’occhio che non s’è nemmeno più parlato, o quasi, di presunte esigenze igieniche o sanitarie.

La tentazione cui è esposto colui che è stato un bambino violentato, di sfogare dopo decenni i comprensibili ma micidiali sentimenti di vendetta che ha rimosso in passato, infierendo a sua volta su bambini o altre persone indifese, è così grande che non la si può quasi contrastare con argomentazioni di natura morale, specialmente se anche le religioni sono disposte a praticare e addirittura a santificare simili forme di sacrifici umani. Soltanto la presa di coscienza del risentimento di per sé giustificabile e dell’altrettanto giustificabile sete di vendetta può impedire nuovi delitti e infrangere il circolo vizioso dell’ignoranza. Soltanto quando la donna mutilata sarà in grado di non doversi più sottrarre al triste e indegno dato di fatto di essere stata sacrificata dai genitori a un insensato rituale religioso, non vorrà più infliggere a sua figlia la stessa sofferenza. Saprà chi ha meritato il suo risentimento, e non farà più pagare alla bambina innocente il delitto che è stato in passato commesso su di lei.

Anche se il terrificante rituale della clitoridectomia non è praticato dalla nostra cultura, innumerevoli individui hanno dovuto subire da bambini un’altra amputazione: quella della sensibilità, che è stata loro crudelmente mutilata mediante violenze e imposizioni pedagogiche.

La millenaria tradizione delle violenze inflitte all’infanzia e dell’infanticidio non si può superare dall’oggi al domani. La parola «tradizione» continua ad avere effetti suggestivi.

Nella Svizzera neutrale, che non ha mai combattuto una guerra di conquista, il cui esercito esiste esclusivamente per scopi difensivi, si è votato nel 1989 - di fronte alle tendenze al disarmo verificatesi in Europa - sull’opportunità o meno di eliminare completamente l’esercito. Un anziano signore, interpellato per strada durante un sondaggio d’opinioni, ha dichiarato che l’esercito doveva essere in ogni caso mantenuto: e precisamente «perché è una tradizione». Avrebbe anche potuto addurre motivazioni diverse. Per esempio: non si può mai sapere, uno dei paesi confinanti potrebbe cambiare atteggiamento in avvenire, e noi non vogliamo dipendere dalle intenzioni dei nostri potenti vicini perché l’indipendenza di cui godiamo è troppo importante per assumerci questo rischio. Ma quel signore non ha detto queste cose. Ha detto solo che l’esercito, che pure è un’istituzione tanto dispendiosa, va conservato per tradizione. E la persona che lo ha interpellato, palesemente, non si è affatto stupita della risposta.

Molte persone la pensano allo stesso modo a proposito dei metodi di correzione cui sono sottoposti i bambini. Sono una tradizione, e così bisogna continuare a picchiarli, a esperii a crudeltà rituali. Solo perché lo pretendeva una tradizione, anche le bambine cinesi dovevano patire atroci sofferenze imposte per ottenere la deformazione dei loro piedi. Solo perché uccidere il prossimo è una tradizione, ci impegniamo da millenni nelle guerre.

Oggi però siamo giunti a una svolta. Non possiamo più approvare tradizioni solo in quanto tali; non possiamo più continuare a dedicarci ai tradizionali giochi bellici senza diventare finalmente consapevoli delle conseguenze - e in tutta la loro portata -d’una simile attività distruttrice. E dobbiamo renderci conto che anche l’infanticidio faceva parte delle nostre tradizioni: e la nostra cecità rispetto a questa tradizione si traduce nella prassi. Non ci rimane altro da fare che divenire coscienti degli aspetti crudeli insiti nei valori che ci sono stati tramandati per evitare di trasmetterli alle future generazioni.

2 • Salvatori e costruttori paranoidi di regimi totalitari ADOLF HITLER

1

DALL’UCCISIONE DELL’ANIMO DEL BAMBINO ALLO STERMINIO DI INTERI POPOLI È una fortuna dei governanti che la gente non pensi. (Adolf Hitler, citato da Joachim Fest) È possibile che nella Germania d’oggi vi sia ancora chi si rifiuti di capire che senza i maltrattamenti inflitti ai bambini, senza l’educazione all’ubbidienza cieca mediante il ricorso alla violenza, non sarebbe esistito un Hitler e non vi sarebbe stato nessun suo seguace? E quindi nemmeno milioni di persone massacrate?

È da presumere che ogni persona raziocinante si sia chiesta almeno una volta in questo dopoguerra: come è stato possibile che un individuo abbia concepito un così gigantesco meccanismo di morte e abbia trovato milioni di persone disposte ad aiutarlo nel farlo funzionare?

Perché il mostro Adolf Hitler, assassino di milioni di persone, il campione del massacro e della follia organizzata, non è venuto al mondo come mostro. Non è stato inviato su questa terra dal demonio, come i più pensano, né è stato spedito dal ciclo per «mettere ordine» in Germania, costruire autostrade e sollevare il paese dalla crisi economica, come taluni ancora oggi pensano. Non è nemmeno venuto al mondo con «istinti distruttivi innati», perché questi non esistono. La nostra missione biologica consiste nel conservare la vita e non nel distruggerla. La propensione alla distruzione non è mai originariamente insita nell’individuo, le tendenze ereditarie non sono né «buone» né «cattive». Il modo in cui si esplicano dipende dal carattere che si forma nel corso della vita e la cui specie è determinata dalle esperienze individua-1 Parti di questo capitolo sono state pubblicate nell’aprile del 1989 in un numero speciale del settimanale «Der Spiegel».

li, soprattutto nell’infanzia e nella giovinezza, e dalle più tarde scelte dell’adulto.

Hitler è venuto al mondo innocente, come ogni altro bambino, ha ricevuto dai suoi genitori - come molti altri bambini di quei tempi - un’educazione distruttiva, e più tardi è stato egli stesso a fare di sé un mostro. Era un sopravvissuto al meccanismo d’annientamento al quale, nella Germania sul volgere del secolo, si dava nome di

«educazione» e che io definisco il campo di concentramento segreto, riservato ai bambini, quello che si vorrebbe che non fosse mai scoperto.

Come questa forma occulta di orrore sia diventata poi nel Reich di Hitler un orrore palese, l’ho dettagliatamente descritto nel libro La persecuzione del bambino e poi anche in altre mie pubblicazioni, come per esempio L’infanzia rimossa e Der gemiedene Schlùssel [La chiave accantonata]. In questi testi si può anche trovare la puntuale dimostrazione di tutto ciò cui mi limiterò soltanto ad accennare nelle pagine che seguono.

Ogni bambino maltrattato deve completamente rimuovere le violenze, gli stati d’abbandono e i disorientamenti patiti: deve farlo per non morire, perché l’organismo infantile non è in grado di reggere l’intera gamma delle sofferenze. Soltanto alla persona adulta si prospettano poi altre opportunità di confrontarsi coi propri sentimenti.

Se non approfitta di queste possibilità, la funzione della rimozione, che in passato gli ha salvato la vita, può trasformarsi in uno strumento pericoloso, distruttivo e autodistruttivo. Nel corso dell’esistenza di certi despoti, quali sono stati Hitler e Stalin, le fantasie di vendetta un tempo represse possono tradursi in azioni distruttive di indescrivibile portata. Questo fenomeno non avviene nel mondo animale, perché nessun animale è ammaestrato dai suoi genitori a rinnegare totalmente la sua natura per diventare un «animale come si deve». Soltanto gli esseri umani sanno agire in modo così devastante. Le storie infantili dei criminali di guerra nazisti, ma anche di certi volontari che hanno operato durante la guerra nel Vietnam, hanno puntualmente confermato che l’inconscia programmazione alla distruzione è sempre cominciata con la brutale educazione all’ubbidienza e col totale disprezzo del bambino.

Rudolf Hòss, il comandante di Auschwitz, ha per esempio descritto molto acutamente la sua infanzia, senza tuttavia cogliervi le radici della sua disumanità (cfr. R. Hòss, Kommandant in Auschwitz, Mùnchen 1963).

In particolare, mi si inculcava continuamente che era mio dovere esaudire all’istante i desideri ovvero ubbidire agli ordini dei miei genitori, degli insegnanti, dei sacerdoti, ecc.: di tutti gli adulti insomma, persone di servizio comprese, senza che nulla dovesse distogliermi dal farlo. Qualunque cosa essi dicessero, era giusta: e questi principi educativi mi sono entrati nel sangue.

Reprimere gli slanci, le emozioni e i sentimenti del bambino significa ucciderne l’animo. Hòss aveva sperimentato da piccolo, sulla propria pelle, cosa significa uccidere, e l’aveva così perfettamente imparato. Si è poi limitato ad aspettare la trentina trent’anni necessari perché il regime nazista gli offrisse l’occasione di applicare a sua volta ciò che aveva appreso.

Esattamente allo stesso modo sono stati funzionalmente impostati migliaia di suoi contemporanei. Anziché smascherare e condannare l’operato delittuoso dei genitori, lo si era sempre lodato e difeso. Se ci fosse stata già allora la consapevolezza dell’assurdità e della pericolosità insite nella brutalità pedagogica, mostri come Hòss non sarebbero stati possibili. È assai semplice: non sarebbe esistita allora in Germania la disponibilità all’ubbidienza cieca e non si sarebbe sentita l’esigenza d’un uomo dello stampo di Hitler.

I giovani dell’Europa centrale e orientale che alla fine degli anni Ottanta sono scesi nelle strade per protestare contro le menzogne dei loro regimi e per chiedere più libertà, hanno indubbiamente conosciuto nella loro infanzia delle alternative all’ubbidienza cieca e all’ipocrisia. Lo dimostrano anche nel modo in cui si comportano: sono capaci di battersi per i loro diritti senza pregiudicare la loro causa con azioni distruttive cieche e incontrollate, come avevano fatto i terroristi degli anni Sessanta, la cui educazione era ancora completamente permeata dallo spirito della «pedagogia nera». Esattamente come i loro genitori, i terroristi avevano scelto la violenza bruta come mezzo per perseguire presunti obiettivi umanitari. I giovani dimostranti degli anni Ottanta sono nella condizione di poter smascherare il terrore dello stalinismo, il suo carattere ostile alla vita, menzognero e vuoto - tutte cose alle quali i loro genitori e i loro nonni s’erano ancora perfettamente adeguati -perché è stato loro consentito di sperimentare da bambini un po’ di libertà e di franchezza in più rispetto alle generazioni precedenti. Per soffrire coscientemente l’il libertà, occorre sapere che cosa sono la libertà e il rispetto della vita.

Chi non l’ha mai appreso, chi durante l’infanzia ha conosciuto ed è stato esposto solo alla violenza estrema, alla brutalità e all’ipocrisia, senza incontrare mai nemmeno un solo testimone soccorrevole, non va per le strade a dimostrare per la libertà. Pretende invece l’ordine imposto con la violenza, esattamente come ha imparato da bambino: ordine e pulizia sono necessari, a ogni costo, soprattutto a costo della vita. Le vittime d’una simile educazione sono ansiose di praticare sugli altri quello che è stato in-flitto a loro. E se non hanno figli, oppure se questi figli si sottraggono alla loro vendetta, si mettono a marciare in favore di nuove forme di fascismo. Il fascismo ha, in sostanza, sempre lo stesso obiettivo: distruggere la verità e la libertà. Coloro che sono stati maltrattati da bambini e negano recisamente le sofferenze patite, s’avvalgono di etichette e di slogan via via conformi ai tempi che corrono, e trovano l’approvazione dei loro simili perché contribuiscono a nascondere anche la verità degli altri. Arde in loro quella perversa smania di distruggere la vita altrui che hanno osservato da piccoli nei loro genitori. Sono ansiosi di passare dall’altra parte della barricata, di disporre anche loro del potere, e di spacciarlo - esattamente come hanno fatto Stalin, Hitler, Ceausescu e altri - per una forma di redenzione del prossimo. Questa ansia dalle radici antiche, risalente ai tempi dell’infanzia, informa di sé le loro «opinioni»

politiche e i loro discorsi, che appunto per questo sono quasi inattaccabili da parte di controargo-mentazioni razionali, di natura politica. La ragione è inerme di fronte a simili manie persecutorie finché ne ignori o ne travisi le radici che stanno nelle reali minacce risalenti all’infanzia. L’inconscia coazione a vendicare lesioni rimosse è più forte d’ogni ragione. Lo hanno dimostrato le vicende di tutti i tiranni e, nel passato più recente, quelle di uomini come Stalin e Hitler. Da parte di un individuo disorientato, che agisca in uno stato di panico permanente, non ci si può aspettare che capisca altre argomentazioni. Però occorre difendersi da individui simili.

È l’accesso alla verità che ci consentirà d’impedire a personaggi siffatti, smaniosi di imporre l’ordine mediante la violenza, di attuare i loro piani di distruzione. Non appena la società non ignorerà più quello che già si sa ed è già dimostrato sul meccanismo che - nell’infanzia - innesca la brutalità, la violenza e il disprezzo del prossimo, e non ne banalizzerà più i pericoli, il fascismo sarà spacciato, perché una simile società non gli offrirà più occasioni di manifestarsi.

Non basta smascherare lo stalinismo o il nazismo come menzogne. Fino a quando non si capirà quali circostanze hanno determinato il loro successo, queste o altre simili menzogne, adattate o abbellite in funzione dello spirito dei tempi, potranno sopravvivere o ritornare in vita, perché il fascismo è un atteggiamento in cui affiora la storia nascosta delle propensioni distruttive. Nella sua essenza profonda non è determinato né da circostanze economiche, né da quelle politiche. Per molto tempo il successo di Hitler è stato «spiegato» con la catastrofica situazione economica della repubblica di Weimar. Se questa fosse una spiegazione plausibile, sarebbe del tutto incomprensibile l’atteggiamento dei tanti cittadini sovietici che oggi, pur in presenza d’una situazione economica difficilissima, approvano la politica di Gorbaciov e dicono: «Finalmente, finalmente possiamo vedere e dire la verità! Non la si può pagare col denaro, non la si può acquistare, ma alla lunga non si può vivere senza la verità. E

come l’aria, indispensabile per respirare».

Non basta guardare quanto avviene in superficie e descriverlo. Occorre comprendere il meccanismo produttore dei disorientamenti paranoidi nell’infanzia e renderlo inefficace. Una chiara legislazione che condanni inequivocabilmente il maltrattamento dei bambini sarebbe una risolutiva misura di profilassi (cfr. cap.

ni, 2).

L’accesso alla verità della nostra stessa storia ci consente anche di capire chiaramente come quello che alcuni individui disorientati e inclini alla violenza si propongono di realizzare — per seducente che possa apparire ai molti che abbiano patito una sorte simile — non sia in sostanza altro che l’inferno al quale essi stessi si sono un tempo sottratti: l’inferno del cinismo, dell’arroganza, della brutalità, delle tendenze distruttive e della stupidità.