VIII
Rivière era uscito per camminare un poco e ingannare il malessere che, di nuovo, s’impossessava di lui. Quell’uomo che non viveva che per l’azione, un’azione drammatica, sentiva stranamente il dramma spostarsi, divenire personale. Pensò che intorno al chiosco della banda cittadina i piccolo-borghesi vivevano una vita apparentemente silenziosa, ma qualche volta pesante anch’essa di drammi: la malattia, l’amore, i lutti, e che forse... Il suo male gli insegnava molte cose: “Sono cose che aprono certe finestre”, pensava.
Poi, verso le undici di sera, respirando meglio, si diresse verso il suo ufficio. S’apriva un varco pesantemente, con le spalle, nella folla che stagnava dinanzi agli ingressi dei cinematografi. Alzò gli occhi verso le stelle, che splendevano sulla via angusta, quasi annullate dalla pubblicità luminosa, e pensò: “Questa sera, con i miei corrieri in volo, io sono responsabile d’un cielo intero. Quella stella è un segnale che mi cerca tra questa folla e mi trova: per questo io mi sento un po’ estraneo, un po’ solitario.”
Una frase musicale gli tornò alla memoria: qualche nota d’una sonata che il giorno prima aveva ascoltato in compagnia d’amici. I suoi amici non avevano capito. “Quest’arte ci annoia e annoia anche lei; tutta la differenza è nel fatto che lei non lo dice.”
“Forse...” aveva risposto.
E come questa sera, s’era sentito solitario, ma subito aveva scoperto la ricchezza di una simile solitudine. Il messaggio di quella musica veniva a lui, a lui solo tra i mediocri, con la dolcezza d’un segreto. Così quel segno di stella. Qualcuno gli parlava, al di sopra di tante spalle, un linguaggio ch’egli solo intendeva.
Sul marciapiede lo urtavano; pensò ancora: “Non mi irriterò. Io sono come il padre d’un bimbo malato, il quale cammina nella folla a piccoli passi e reca in sé il grande silenzio della sua casa.”
Alzò gli occhi sugli uomini. Cercò di riconoscere tra loro quelli che portavano in giro a piccoli passi la loro invenzione o il loro amore, e pensava all’isolamento dei guardiani dei fari.
Il silenzio degli uffici gli piacque. Li attraversava lentamente, uno dopo l’altro, e il suo passo risuonava solo. Le macchine per scrivere dormivano sotto le tele incerate. I grandi armadi erano chiusi sugli incartamenti disposti in bell’ordine. Dieci anni di esperienze e di lavoro. Gli venne l’idea che stava visitando i sotterranei d’una banca; là dove pesano le ricchezze. Pensò che ognuno di quei registri accumulava qualcosa di meglio che l’oro: una forza viva, ma addormentata, come l’oro delle banche.
In qualche luogo avrebbe trovato l’unico segretario di servizio. In qualche luogo un uomo lavorava per far sì che la vita fosse continua, che la volontà fosse continua; e così di scalo in scalo, perché, da Tolosa a Buenos Aires, la catena non si rompesse.
“E quell’uomo non conosce la sua grandezza.”
In qualche luogo lottavano i corrieri. Il volo notturno durava come una malattia: bisognava vegliare. Era necessario assistere quegli uomini che, con le mani, con le ginocchia, petto contro petto, affrontavano l’ombra e non conoscevano, non conoscevano più se non cose mobili, invisibili, dal caos delle quali bisognava uscire, a forza di braccia, come da un mare. Che terribili confessioni, talvolta: “Ho illuminato le mie mani per vederle...!” Velluto di mani rivelato, solo, in quel bagno rosso di fotografo; quel che rimane del mondo che bisogna salvare.
Rivière spinse la porta dell’ufficio dello sfruttamento. Una sola lampadina accesa creava in un angolo una plaga di luce. Il crepitio d’una sola macchina per scrivere dava un senso a quel silenzio, senza colmarlo. A volte il campanello del telefono tremolava: allora il segretario di turno si alzava e s’avviava verso quel richiamo ripetuto, ostinato, triste. Il segretario di turno staccava il ricevitore e l’invisibile angoscia si placava: una conversazione assai dolce in un angolo d’ombra. Poi, impassibile, l’uomo tornava al suo scrittoio, col volto chiuso, dalla solitudine e dal sonno, su un indecifrabile segreto. Che minaccia può portare un richiamo che venga dalla notte esterna, quando due corrieri sono in volo? Rivière pensava ai telegrammi che toccano le famiglie sotto le lampade serali; poi alla disgrazia che, per qualche secondo quasi eterno, rimane un segreto nel volto del padre. Onda, all’inizio, senza forza, tanto lontana dal grido che l’ha provocata, tanto calma. E, ogni volta, egli ne sentiva la debole eco in quella suoneria discreta. E, ogni volta, i movimenti dell’uomo che tornava dall’ombra verso la lampada, come un nuotatore, dopo un tuffo, torna alla superficie, quei movimenti che la solitudine rendeva appunto lenti come quelli d’un nuotatore nell’acqua, gli parevano più pesanti e segreti.
“Stia. Rispondo io.”
Rivière staccò il ricevitore, e udì il ronzio del mondo.
“Pronto. Rivière.”
Un debole tumulto, poi una voce: “Le passo il posto radiotelegrafico.”
Un nuovo tumulto, quello prodotto dalle spine inserite nel quadro delle comunicazioni, poi un’altra voce: “Parla il posto radiotelegrafico. Comunichiamo telegrammi.”
Rivière prendeva nota scuotendo il capo.
“Bene... Bene...”
Niente d’importante. Comunicazioni normali di servizio. Rio de Janeiro chiedeva un’informazione, Montevideo parlava del tempo e Mendoza di materiali. I rumori familiari della casa.
“E i corrieri?”
“Il tempo è brutto. Non udiamo gli aeroplani.”
“Bene.”
Rivière pensò che qui la notte era pura, le stelle splendevano, ma i radiotelegrafisti scoprivano in lei il soffio degli uragani lontani.
“A fra poco.”
Rivière s’alzava, il segretario gli si avvicinò.
“Le note di servizio per la firma, signore...”
“Bene.”
Rivière scopriva d’avere una grande amicizia per quell’uomo, che, anch’egli, aumentava il peso della notte. “Un compagno di lotta”, pensava Rivière. “E non saprà mai quanto questa veglia comune ci unisca.”