Col maresciallo Cruni e coi due agenti salì in un tassi, mentre il camion della Squadra Volante si muoveva rombando nel silenzio della piazza deserta.
Sulla stradetta di Trenno, faccia alla luna, Clark O' Brian giaceva adesso con un coltello dal manico giallastro piantato nel petto.
Un coltello, che quando il barone aveva inciampato nel cadavere, né lui né Matteo avevano veduto, perché non c'era.
Capitolo XIV
Nuvole
La luna era adesso coperta dalle nubi.
Dense, nere, che scorrevano per il cielo una sopra all'altra, sempre più fitte, sempre più veloci. Coprivano con furia, affannosamente, lembo dopo lembo, la volta azzurra. Si univano, si sovrapponevano, s'incastravano fra loro. Le stelle sparivano una a una. L'afa si stringeva contro la terra, la ravvolgeva, premendola.
Il piazzale era un gran lago di oscurità viscida.
Gli uomini balzarono dal camion rombante, che s'era fermato di colpo, con un ultimo scoppio interrotto. Si raggrupparono alla luce rossastra dei fari.
— Stop!
— Dove andiamo?
— Aspettare...
Non parlarono più. Per abitudine e perché mancava loro il fiato.
Il tassì entrò in quella oscurità, aprendovi un'altra chiazza di luce.
— Commissario!
— Sì.
— Tra poco si aprono le cateratte del cielo!
— Venite...
Andava avanti, seguito da Cruni e dai due agenti, che erano discesi con lui dalla macchina.
Avevano acceso le lampadine elettriche. Trovarono la stradetta.
— Adagio! Guardate ai margini, sotto le siepi...
Si alzò il vento. D'impeto, sorgendo come dalla terra. Sollevò nembi di polvere, squassò i rami; uno scoppio prolungato, poi il rugghio sordo della tempesta vicina.
Gli uomini respirarono. Il sudore si era agghiacciato attorno ai loro corpi, facendoli rabbrividire.
Il cadavere sbarrava il termine della stradetta.
Le luci delle lampadine conversero tutte sopra di esso.
De Vincenzi vide subito il manico giallastro del coltello.
Si chinò.
Sul corpo non c'era traccia di sangue. L'omino non gli aveva parlato di coltello. Aveva escluso anzi che il fantino fosse stato ucciso con violenza! Infatti, sangue non se ne vedeva... Ma in quanto alla violenza, una coltellata non è certo qualcosa di troppo cortese.
E perché la ferita non aveva sanguinato? Gli apparve come in una visione il corpo di Perry Hodburn largamente macchiato di sangue nero...
Ah! la candela... Curti Bo' — un nome da farsa! — aveva ancora insistito sulla candela. Una mania, la sua? Oppure realmente era quello un indizio capitale, la chiave del mistero? Quanti misteri! A meno che non fosse uno solo: la sparizione di Verità...
— Due uomini rimangano a piantonare il cadavere... Gli altri con me...
Alla porta della scuderia, De Vincenzi si fermò.
— Circondate il fabbricato. Tenete il collegamento con le lampadine... Se qualcuno tenta di fuggire... nel dannato caso che non vi riesca di fermarlo, vi ordino di far fuoco... Via!
Gli uomini si lanciarono a chiudere la scuderia in un cerchio di fuocherelli semoventi.
De Vincenzi, involontariamente, pensò che, se ci fosse stato l'omino coi suoi proverbi, avrebbe detto: si chiudono le stalle, quando sono usciti i buoi! Ma una delle ragioni per le quali aveva fatto circondare la scuderia, se non la sola, era appunto il dubbio che dentro vi si trovasse l'ineffabile Curti Bo', così abile nella scalata e nella discesa dei muri!
Batté con forza alla porta chiusa.
Il picchiotto — un piccolo zoccolo di cavallo — mandò un suono tinnente: bronzo contro bronzo.
Dovette ripetere i colpi.
Qualche voce nell'interno, poi s'illuminò una finestra sul davanti, bassa.
Si affacciò il custode e dietro di lui si vedeva la figura di una donna.
— Che c'è?
— Polizia... Venite ad aprire...
— A quest'ora?!... Vengo... Non bussate più ché svegliate i cavalli.
Era logico che in quel luogo i cavalli avessero più importanza degli uomini.
Il custode riconobbe De Vincenzi.
— Ma perché mai in piena notte!?... La Vergine è un soggetto nervoso...
Dall'androne veniva il caporale di scuderia e nel cortile si vedevano le facce assonnate dei garzoni.
— Oramai, il povero Perry è morto! Lei spera forse di trovar l'assassino qui dentro?
— Chi dorme nelle scuderie, oltre voi e vostra moglie?
— E va bene!... Non lo sa ancora?... Tutti i garzoni e gli uomini di scuderia... i tre allievi e dei quattro fantini che sono rimasti dopo la morte di Hodburn soltanto Clark O' Brian dorme qui...
— Conducetemi alla camera di O' Brian...
La porta era chiusa a chiave. Poiché nessuno rispose ai picchi e alle grida del custode, questi aprì col suo lasciapassare.
Una copia identica della camera di Perry. Qui non c'erano stampe, però, e neppure ritratti. Le pareti spoglie le davano l'aspetto di una stanzuccia di albergo, dove il fantino fosse stato di passaggio.
La finestra era spalancata. Il letto rifatto. Clark O' Brian vi si doveva essere gettato tutto vestito, perché le lenzuola portavano visibile l'impronta del corpo. La lampada sul comodino era accesa.
Il custode guardava la stanza vuota.
— Ma dove è andato a cacciarsi Clark?!... È rientrato alle dieci!
De Vincenzi non rispose. S'era avvicinato al comodino. Nessuna candela! Si chinò a osservare il ripiano. Sul legno il cerchio lasciato dalla cera era netto. Proprio come nella camera di Perry.
Ma perché l'omino gli aveva assicurato che la candela c'era e che lui si era ben guardato dal prenderla? Un coltello di più, la candela di meno.
De Vincenzi sospirò: una storia da mandare al manicomio!... Adesso, avrebbe interrogato, avrebbe visitato le scuderie — no! nessuna voglia di destare i cavalli, che sono nervosi e che avrebbero potuto soffrirne — con la sicurezza di non trovar nulla, naturalmente.
Si avvicinò alla finestra e osservò il davanzale. Orme e impronte quante se ne vedeva! L'assassino era passato di li. E di dove, dunque? La porta era chiusa a chiave dall'interno. E anche il cadavere — se Clark era stato ucciso lì dentro, come le tracce della candela volevano far credere (oh! dio, lui pure era ossessionato oramai da quel particolare! che cosa importava che avessero acceso una candela?) — doveva esser passato per la finestra, dal momento che era andato a finire sul viottolo, a più di cento metri di distanza.
Né facile, né comodo calare un cadavere da un muro e senza scala!
Ma perché ostinarsi a credere che Clark fosse stato ucciso nella sua camera?
Era necessario che si scuotesse di dosso la suggestione operata su di lui da Curti Bo'! Tanto più che nell'omino l'intenzione d'ingannarlo gli appariva adesso evidente.
Guardò l'orologio: le tre e tre quarti. Da quando aveva ricevuto le telefonate era trascorsa più di un'ora e mezzo.
Uscì dalla stanza, ne chiuse la porta e discese in cortile.
Il vento soffiava con rabbia, basso, a vortici. I lampi illuminavano a tratti l'esercito caracollante delle nuvole nere.
Attorno a sé vide i volti stupefatti degli uomini.
Il custode bestemmiava sordamente.
— Che avete?
— Clark O' Brian, perdio! — Dove è andato a cacciarsi?!
De Vincenzi si meravigliò di non vedere il barone. Aveva proprio creduto che quello, subito dopo la telefonata, si sarebbe precipitato a Trenno. E invece no: era rimasto al palazzo. A cercare Verità o ad aspettare che tornasse...
— Cruni, porta altri due agenti con te e va a prendere il cadavere...
— Il cadavere! — gridò il custode.
— Volete che lo lasci sulla strada, con l'acqua che sta per venire?!...
Già cadeva qualche goccia, grossa, pesante. Ma il custode che cosa ne sapeva del cadavere? Il suo grido aveva fatto agitare gli uomini e i ragazzi, che gli stavano attorno.
Quando videro arrivare il corpo, trasportato per le gambe e per la testa — il manico del coltello biancheggiò alla luce delle lampade — prima si avvicinarono spinti dalla curiosità, poi indietreggiarono, quasi fuggendo fuori dell'androne.
— Mettetelo in quella stanza...
Clark giacque sul pavimento, là dove a sera aveva fatto la giostra con l'incognito omino. Curti Bo' gli aveva dato due consigli e lui di uno non aveva evidentemente tenuto conto e del secondo non gli avevano lasciato il tempo di preoccuparsi...
De Vincenzi diede qualche ordine a Cruni.
— Rimani qui con quattro agenti. Ne porto via con me. due soltanto. Rimanda gli altri a San Fedele... Io tornerò domattina... Appena credi che l'ora sia decente, telefona al giudice istruttore... Del resto, alle sette verrà Sani, se non sarò tornato io...
La pioggia, oramai, cadeva a rovesci.
Il commissario e i due agenti arrivarono al tassi che grondavano.
— In piazza Crispi...
L'autista mise in moto la macchina e cominciò a lottare contro gli elementi scatenati dal temporale, sulla via del ritorno.
In quel momento, il barone seduto nel suo studio fissava Matteo, che gli stava dinanzi.
— Verità è fuggita!...
Matthew Scott aveva lo sguardo fisso, il volto contratto, la parrucca di sghimbescio sul cranio.
— Hanno ucciso Clark O' Brian!...
Una grande tristezza era nella voce del barone.
— Bisogna agire, Matteo!
Poi ripeté:
— Hanno ucciso Hodburn. Hanno ucciso O' Brian! Verità è fuggita!
La pendola batté quattro colpi.
Matteo ebbe un sussulto, poi scandì lentamente, con voce interrotta, quasi singhiozzante:
— È cominciato da quattro ore il nuovo giorno...
Il barone balzò in piedi.
— Taci! — sembrava soffocasse.
Matteo, guardando il Cristo, continuò:
— Tredici giugno millenovecentotrentasette...
Capitolo XV
Registrazioni
Alle 4 e 30, gli apparecchi dell'Osservatorio di Brera registravano: alt. Barom. ridotta a 00 C. 746.9; temper. centigrada 13.0; tensione del vapore acqueo mm. 13.4; umidità relativa (in centesime parti) 99,8; nebulos. relativa (in decimi) 10; prov. del vento N, NE; velocità del vento (in km. all'ora) 87; acqua caduta dal principio del temporale mm. 83.
Le strade erano torrenti, le piazze laghi; molte zone della città avevano le luci spente per guasti ai cavi o ai fili; le sirene dei pompieri ululavano da ogni punto, aumentando il terrore di quella notte da Apocalisse.
Il tassì di De Vincenzi giunse in piazza Crispi.
Un agente discese e con un salto raggiunse il portone del palazzo Verbena, cacciandosi contro il battente chiuso. Con le mani sul legno, sul muro, cercava. Dovette accendere la propria lampadina elettrica, per scoprire il bottone del campanello, nascosto in un fiore di bronzo. Dall'interno venne il suono saltellante, vigoroso, da campanaccio, della suoneria.
Passarono vari minuti. L'uomo non toglieva il dito dal bottone.
Tra lui e il tassì, l'acqua formava una cortina densa, vitrea.
De Vincenzi guardò l'orologio.
L'autista si volse per chiedere:
— Debbo attendere?
— Cerca di metterti al riparo!
L'altro bestemmiò. Al riparo da quell'ira di Dio!
— Quando verrà il portinaio, ti farò aprire e metterai il tassi nell'androne...
Il portinaio non venne. Fu Matteo che aprì il portello. L'autista abbandonò la macchina e si cacciò nel portone anche lui, dietro a De Vincenzi e agli agenti.
— Il portinaio?
Matteo abbassò la voce.
— Deve aver bevuto. Dorme...
De Vincenzi salì lo scalone dietro al maggiordomo. E dietro di lui gli agenti.
Il barone li attendeva sul pianerottolo.
— Commissario, se hanno ucciso anche Clark O' Brian...
— Come fa lei a sapere che si tratta di Clark O' Brian?...
— È l'unico fantino che dorma alle scuderie, dopo la morte di Hodburn... E lei mi ha parlato di un fantino...
— Lo hanno ucciso!
— Ma è tremendo!
Era grosso, enorme; aveva perduto la sua agilità e si muoveva pesantemente; gli anni gli erano caduti addosso tutti di colpo. Aveva gli occhi gonfi, le gote flaccide, il labbro pendente.
— Come... come?
— Una coltellata nel petto...
— Non è vero!
Il suo era stato un grido. Anche Matteo aveva trasalito e aveva fatto un passo verso il commissario.
De Vincenzi scrutava in volto il barone.
— Perché se ne meraviglia? Anche Hodburn è stato ucciso con una coltellata...
— Già...
Uno smarrimento folle era nei suoi occhi.
— È proprio sicuro, commissario, che Clark O' Brian sia stato ucciso con una coltellata? Lei viene dalla scuderia?
Era stato Matthew Scott a parlare con la sua voce rauca, bassa, che sembrava dovesse spezzarsi in un singhiozzo.
De Vincenzi si volse.
— Dov'è la servitù?
— Dorme.
— Avete cercato miss Verità in tutto il palazzo e le cameriere non si sono svegliate?!
— Vuole che mia figlia si possa trovare nelle stanze delle cameriere?! Del resto, Ida era sveglia, l'ho interrogata. È stata lei a dirmi quale abito indossava Verità ieri sera, quando è uscita...
Il barone sembrava essersi ripreso. Il suo accento era sardonico. Le parole fischiavano.
— E Virginia Carey?
— Che cosa c'entra Virginia? Non mi sono occupato di lei, naturalmente!
— Perché teme che sia accaduto qualcosa alla signorina Verità?
— Le sembra normale che a quest'ora non si trovi nella sua camera?
— Dov'è la sua camera?
Mise gli agenti di guardia sul pianerottolo.
— Andiamo...
Davanti a lui camminava Matthew Scott. Il vecchio aveva il passo lento e trascinava un poco la gamba destra. Oh! quasi impercettibilmente. Per le sale che stavano attraversando, sui tappeti dai colori vivi — o smorti, appassiti — ecco, i colori accesi, che urlavano, sembrava si alternassero di proposito con quelli teneri — De Vincenzi osservava il passo del vecchio. Tutto vestito di nero, Matteo. Perché mai alle quattro del mattino era vestito tutto di nero? Ipotesi... Già, tante ipotesi potevano farsi... A che scopo?
Si volse a guardare il barone, che gli camminava al fianco. Ancora in smoking... Sì, questo era naturale: egli non si era coricato. Che cosa avesse fatto fino a mezzanotte gl'importava poco; poi aveva cercato sua figlia. L'ansia di non trovarla gli aveva impedito di pensare a se stesso, al riposo... Aveva telefonato in Questura... Tutto perfettamente spiegabile... tranne, tuttavia, le sue scarpe che erano maledettamente impolverate. Sorrise: un buon detective da romanzo avrebbe fatto analizzare quella polvere... Ma anche le scarpe di Matteo erano impolverate...
Il vecchio maggiordomo diede un colpo con la palma al battente della porta e, traendosi da parte, disse:
— Questa è la camera di miss Verity...
La luce, accesa al soffitto, pioveva dal lampadario di ottone e cristallo. Nulla di strano che fosse accesa; tutte le lampade del primo piano del palazzo lo erano. Non avevano, forse, cercato la ragazza per ogni dove, affannosamente? Non tanto ansiosamente, però, da destare le cameriere, che dormivano; il guardaportone, che dormiva; Virginia Carey, che certamente si sarebbe disperata alla scomparsa di colei «che amava come una figlia».
Riflessi nello specchio, vide se stesso e dietro di sé il barone e sull'uscio Matteo. Fa sempre una certa impressione entrare in una camera e vedere se stesso avanzare. Si ha la sensazione, tanto più sgradita quanto più precisa, di veder materializzate con l'immagine le proprie azioni e, peggio ancora, la propria intenzione di azione.
Volse le spalle alla specchiera.
La camera era in ordine. Apparentemente, in ordine perfetto, Soltanto... ecco, sì, sul letto — che era rifatto, con la coltre di damasco verde — giaceva un abito rosso di fiamma... a piè del letto gli scarpini rossi... in terra, sul tappeto, un mantello di velluto nero...
Come appariva evidente che quegli indumenti erano stati gettati li, nell'ansia di toglierseli di dosso! Parlavano. La ragazza era entrata nella camera, si era mutata d'abito febbrilmente, era tornata a uscire. Questo dicevano l'abito rosso, le scarpine, il mantello...
De Vincenzi girò attorno lo sguardo.
L'armadio — un autentico armadio veneziano, laccato in verde tenero, dipinto con tante figure e tanti fiori, coroncine sottili di fiori — era aperto. Immenso, l'armadio conteneva una quantità enorme di vesti di ogni colore.
— Ida le ha detto quale abito ha indossato miss Verità, quando si è tolto quello con cui era uscita?
— Neppure Ida conosce tutti gli abiti di mia figlia. Può mancarne uno qualsiasi, che la cameriera non saprebbe dir quale.
— Alle nove, quando è uscita, miss Verità indossava quell'abito... e quel mantello... e quelle scarpe? — accennava con lo sguardo al letto.
— Sì.
— Non portava cappello?
— Assai spesso alla sera Verità non mette cappello... anche se non deve andare a teatro o in qualche ritrovo...
De Vincenzi fece lentamente il giro della camera. Davanti allo specchio, sul tappeto, vide una borsetta rossa, con la cerniera di brillanti e rubini. Si chinò a raccoglierla, l'aprì. Conteneva gli oggetti che doveva contenere. Qualcosa in più, tuttavia: denaro, molto denaro, troppo denaro da recarsi in giro così, indossando un abito rosso scollato e un mantello di velluto...
Se era fuggita — dopo essersi cambiata d'abito — perché aveva dimenticato di prendere con sé il denaro, evidentemente preparato per la fuga?
De Vincenzi sentì una strana ansia, come un senso di angoscia. afferrarlo alla gola.
Chiuse la borsetta e la pose sopra un piccolo tavolo. Naturalmente, quando fosse uscito da quella camera, avrebbe chiuso la porta a chiave e avrebbe portato la chiave con sè.
Continuò a ispezionare.
Entrò nella stanza da bagno. Tutto in ordine. No! Non c'era da pensare... Naturalmente, non c'era da pensare a una cosa simile.
La vasca era umida. Gli asciugatoi da bagno anche. Tutte le luci accese, persino quelle basse, che avevano il commutatore alla lampadina. Oh! dovevano aver certo frugato minuziosamente e si erano data la pena di accendere da per tutto... O forse era stata Verità a lasciare le luci accese, dopo essersi vestita? Ma, allora, perché aveva gettato gli abiti a miei modo?
Tornò nella stanza da letto. Nello specchio vide che i due uomini non si erano mossi.
— Qui non c'è più nulla da fare...
Uscì. I due lo seguivano. Chiuse la porta e si mise in tasca la chiave.
— Dove vuole andare, adesso?
Desiderava non dirlo. Ci sarebbe andato, senza che loro lo sapessero.
— Mi faccia telefonare... Dov'è il telefono?
— Dovunque. Quasi ogni stanza ha la presa... Vuole che le faccia portare l'apparecchio in questo salotto?
— No. Andiamo nel suo studio...
La lunga sfilata delle sale. Il pianerottolo coi due agenti, che si erano seduti sui gradini e che si alzarono di scatto.
— Avete visto nessuno?
— Nessuno, dottore.
— Rumori?
— Quello del vento.
Di fuori il temporale imperversava, senza dar segno di volersi placare. Il vento turbinava.
Con quel fracasso continuo, tutto boati e urli, con lo schiaffo della pioggia a torrenti contro le facciate, come sentire gli altri rumori?
Il telefono si trovava sopra un piccolo tavolo, in un angolo dello studio rosso e nero, tetro e maestoso come una cappella ardente.
— Sono il commissario De Vincenzi...
Parlava col commissario di notturna. Il camion della Squadra Volante non era ancora tornato. Inchiodato per la strada, forse, dal temporale.
— Mandami al palazzo Verbena... Sì, è vicinissimo, in piazza Crispi... il palazzo degli Omenoni... quanti agenti puoi... Sei uomini? Sta bene, basteranno...
— Ma che cosa vuoi fare... nel palazzo... con sei agenti?
De Vincenzi non rispose. Si era avvicinato al tavolo. Guardava il Cristo d'avorio. L'Order of the Golden Dawn... i Teosofi di Kempten... i Rosa Croce... Il barone era un mistico in buona fede? Un fanatico?
Rivide la stanza da bagno tutta luci bianche... l'abito rosso gettato sul letto... il mantello che faceva macchia in terra...
Egli aveva appena veduto la ragazza come in un lampo... un corpo flessuoso, i capelli neri che avevano bagliori di brage... Null'altro. Troppo poco per conoscerla... Troppo poco sopratutto per poter supporre qualcosa di concreto, di preciso, adesso che era scomparsa...
— Perché sei agenti?
— Ma per far visitare il palazzo dalle cantine ai solai... Miss Verità può essersi...
— Nascosta per gioco in qualche stanza? Come fanno i bimbi! Ma lei farnetica, commissario! Verità ha ventiquattro anni e la testa perfettamente a posto...
— Non ne dubito...
Adesso, avrebbe voluto salire al secondo piano, entrare nella camera di Virginia Carey... Ma voleva andarci solo. Avrebbe trovato la camera facilmente.
— Mandi il suo maggiordomo ad aprire il portone... Tra poco gli agenti saranno qui...
Il barone alzò le spalle e fece un gesto con la mano verso Matteo. Il vecchio uscì.
Passarono alcuni minuti. Le lancette della pendola segnavano le 5 meno 7. Dall'alto del palazzo venne un grido acuto, penetrante. Cosi forte da soverchiare l'urlo del vento e il rumore della pioggia.
De Vincenzi balzò.
Il barone disse: Oh! mio Dio!, con la rabbia di una bestemmia.
Si lanciarono e De Vincenzi urtò l'altro con violenza, per passare avanti.
Alle ore 4 e 53, gli apparecchi dell'Osservatorio di Brera registravano le seguenti variazioni: temperatura 11; umidità relativa M; velocità del vento 85; acqua caduta mm. 98.
Capitolo XVI
Versetti
La camera di Virginia Carey era al secondo piano, la prima appena terminate le scale, a destra. Tutte le altre camere di quell'ala destra del secondo piano erano disabitate. Dalla parte opposta del pianerottolo si stendeva l'ala sinistra con le stanze delle cameriere e di Matthew Scott.
Due porte sul pianerottolo celavano le scalette di legno, che conducevano alle soffitte con gli abbaini sul tetto.
Le soffitte non avevano illuminazione elettrica. Erano ingombre di valigie e bauli. Anche di mobili vecchi e di topi.
Virginia Carey era andata a letto alle nove. Sempre andava a letto a quell'ora. Non spegneva subito la luce, però, ché leggeva ogni sera qualche pagina della Bibbia. Lo faceva per abitudine e perché il libro santo le scopriva un mondo sconosciuto, pieno di sole, di lampi d'oro, di uva dai chicchi enormi.
Leggeva i versetti del Cantico e pensava a Verità.
«Io son bruna, ma bella, come le tende di Chedar, come i padiglioni di Salomone».
L'Ecclesiaste la faceva fremere. «Avanti che la fune d'argento si rompa e la secchia d'oro s'infranga, lo spirito ritorni a Dio che l'ha dato».
La vecchia vedeva se stessa dentro la bara, nell'abito grigio argenteo, col merletto pieghettato attorno ai polsi e al collo, come da tempo vestiva e non altrimenti. E sentiva una gran pena di dover lasciare Verità.
Forse — e fervidamente pregava Iddio che esaudisse il suo desiderio — prima che per lei fosse venuto il momento di distendersi nella bara, Verità le avrebbe detto quel che Ellen le aveva detto: "a Virginia Carey, io mi sposo, vuoi venire con me?". Sempre pensava a questo, leggendo la Bibbia, che insegna la santità del matrimonio.
Al pensiero, però, un poco rabbrividiva sotto le coltri, col libro nero fra le mani dalle grosse vene verdi. Se Ellen non si fosse maritata, non sarebbe morta.
Virginia amava Verità, perché aveva amata Ellen; perché l'aveva allevata da bimba; ma adesso la ragazza le era ignota. La sua anima le era ignota, cioè...
Quella sera aveva aperto il Vangelo di San Matteo. Pensava alla visita della polizia. Perché quel commissario era venuto al palazzo e aveva interrogato lei?
«E Gesù, veduti i loro pensieri, disse: Perché pensate cose malvagie nei vostri cuori?».
Giovane, quel commissario. Cortese. Con un lampo negli occhi pieno d'intelligenza... «Talvolta la polizia entra in una casa, per evitare che vi passi la morte»...
La morte stava, dunque, per entrare nel palazzo?
«Non fate provvisione né di oro, né di argento, né di moneta nelle vostre cinture...».
Gli sguardi di Virginia Carey andarono al canterano. Ella aveva i suoi risparmi in una calza di grossa lana. Avrebbe volentieri gettato la calza nel fuoco, purché non entrasse la morte... Ma se la morte non avesse minacciato la sua Verità, che cosa le sarebbe importato che fosse entrata?
Due picchi leggeri alla porta e la vecchia balzò a sedere sul letto. Distese le braccia dinanzi a sè e con le mani ossute, turgide di vene, si fece scudo. Non riusciva a parlare. Nessuno aveva mai bussato alla sua porta a quell'ora...
I picchi si ripeterono, più affrettati, sebbene sempre leggeri.
Poi una voce sommessa pronunciò:
— Sono io, Virginia...
La vecchia respirò. Era Verità. La sua Verità. Ma perché mai veniva a trovarla e a quell'ora?
— Entri... entri, miss Verity!
Verità entrò e richiuse in fretta la porta.
Era vestita di rosso ed era pallida, esangue; gli occhi le brillavano, ardendo.
Si accostò al letto.
— Che cosa è accaduto?!... Che cosa le è accaduto, figlia mia?...
Precipitosamente la ragazza cominciò:
— Virginia...
S'interruppe. Sembrò che un improvviso pensiero le impedisse di continuare. Si guardò attorno. —
Ah! Virginia...
— Figlia mia!...
— Questa notte... io lascio il palazzo... È necessario !...
La vecchia tacque. Fissava le labbra di Verità, che si muovevano appena per parlare.
— Tu verrai con me... Virginia!...
— Dove?... Dove andremo?...
Un gesto della mano.
— Lontano!
— Allora, abbiamo rinunciato...
— No! Non rinuncio, Virginia!... È per non rinunciare che fuggo...
La vecchia inghiotti con sforzo. Il pomo d'Adamo le corse sotto la pelle rugosa. Il suo collo esile, fascio di tendini e di muscoli incordati, era teso a reggere la piccola testa rotonda come una noce stretta dalla cuffia bianca.
— Pericolo! — pronunziò Virginia Carey.
— Sì... Ma non mi avranno!
— Oh! no!... — e guardò il canterano e poi la Bibbia nera, che giaceva sul lenzuolo, nel suo grembo.
— Si parte, allora... — stabilì.
— Uscirò, adesso, come le altre sere... per non dar sospetti... Mi spiano.
— Il basilisco uccide con lo sguardo e con l'alito... Un pallido sorriso errò sulle labbra della giovane. Ricordava le favole paurose, che Virginia le narrava da bimba. Il sorriso scomparve. Quelle fiabe l'avevano condotta a conoscere la realtà.
— Tornerò qui a mezzanotte... Tienti pronta... Verrò su a prenderti... Ci terremo nascoste nella tua camera, fin quando potremo uscire...
— Si fugge...
Ripeteva le parole, come per imporre a se stessa l'azione. Voleva ribadire nel cervello l'ineluttabile.
— Preparati...
Di nuovo guardò il canterano e la Bibbia.
— Sì, figlia mia...
Verità le sorrise.
— Virginia! c'era tremore e amore nella voce.
Agitò la mano, si volse, scivolò sino alla porta — come una fiamma! — scomparve.
Per qualche istante, per lunghissimi istanti, la vecchia continuò a fissare la porta.
Poi girò lo sguardo attorno. Le sue mani toccarono il libro nero. Le labbra si agitarono. Dicevano: — Si parte... Si fugge...
Scoprì il letto, gettò le gambe magre, esili come quelle di una bimba, bianche di carta, sulla sponda. Cercò le ciabatte. Fu in piedi.
Si vesti lentamente, mentre nel suo cervello due sole frasi battevano: si parte... si fugge...
Dall'armadio trasse un sacco di stoffa nera, ricamato a perline lucenti. Si adoperò con le dita ad aprire la cerniera di metallo, che resisteva. Da tanto tempo il sacco giaceva nell'armadio, da un numero infinito di anni.
Che cosa mettervi dentro?
La calza coi risparmi... Poi, alla rinfusa, quel che le capitò sotto mano. Lo aveva riempito e vide nel cassetto un ritratto con la cornice di pelle. Lo prese e lo baciò. Era un ritratto di donna. Poté farlo entrare nel sacco e ne richiuse la cerniera.
Adesso era pronta.
Sedette accanto al letto, col sacco ai piedi, e riprese a leggere i versetti. A ognuno di essi, il suo cervello martellava:... si parte... si fugge...
Qual era l'anima di Verità? Adesso le aveva ritrovata la sua anima di bimba. Avrebbe potuto ancora raccontarle le fiabe. Quella del basilisco... che insegue la fanciulla nel bosco...
Ogni tanto con la mano prendeva l'orologino d'oro che le pendeva sul petto e guardava le sfere.
Il tempo passò lentamente.
Quando le sfere segnarono mezzanotte meno qualche minuto, si alzò. Afferrò la borsa. Si tenne pronta. Ascoltava.
I minuti passarono. Dalle scale, dalla porta non veniva alcun rumore.
A un tratto depose la borsa in terra. Corse all'armadio. Ne trasse un cappellino nero, se lo mise sopra i radi capelli, Io annodò sotto il mento. Ecco, era pronta!
Si passò le mani sopra la veste argentea, riprese la borsa.
Nulla più le mancava.
Nessun rumore... La porta rimaneva chiusa... L'attesa si prolungò infinita. Le sfere dell'orologino segnarono la una, le due, le tre...
Virginia Carey attendeva. Adesso, il suo cervello ripeteva soltanto: Verità non viene!... Perché?
A un tratto un rombo spaventoso scoppiò sopra la sua testa. Poi ululò il vento; cadde lo scroscio della pioggia.
La luce della lampada si abbassò, tornò a brillare più vivida, palpitò come agitata dal vento.
La vecchia era caduta a ginocchi e si era coperta le orecchie con le mani.
Il temporale infuriava e lei aveva l'impressione di trovarsi al centro di esso, squassata dal vento, sommersa dalla pioggia.
Lentamente il suo cervello riprese a battere: si parte!... si fugge!...
Si alzò. Si guardò attorno. Nulla era mutato dentro la camera; gli elementi scatenati si accanivano al di fuori.
Perché Verità non veniva? Dov'era Verità?
E decise di andare a cercarla.
Afferrò la borsa, che aveva gettata al primo rombo del tuono. Fece per muoversi. Un passo verso la porta.
Di colpo s'immobilizzò. Il sangue le si era fatto di ghiaccio. Gli occhi fissi sul saliscendi lo avevano veduto muoversi lentamente.
Verità! Il saliscendi era adesso verticale. La porta si aprì lentamente, lentamente...
L'acqua a torrenti... il vento a turbine...
Non era Verità !
Un uomo campeggiava nel riquadro dell'uscio aperto.
Fu il miracolo — un miracolo inutile, del resto — e dalla gola chiusa le uscì un grido. Un grido disperato, altissimo, più forte del vento, dell'acqua a scroscio, del tuono...
L'uomo sulla soglia imprecò e alzò una mano.
Gli occhi sbarrati videro una canna nera, che mandava riflessi turchini. Il colpo secco non si udì neppure, perduto fra i rumori del temporale.
Prima cadde la borsa, poi Virginia Carey si abbatté sul pavimento.
Capitolo XVII
Tregenda
Una, due sale... De Vincenzi spalancava le porte, che battevano. Rovesciò una poltrona, urtò un tavolo. Sentiva alle spalle l'ansimo del barone.
Sul pianerottolo vide Matteo, che saliva correndo dal pianterreno.
I due agenti, smarriti, guardavano verso l'alto. La loro perplessità trepidante era soltanto comica, così baffuti e tracagnotti; ma l'atmosfera di tragedia mozzava il sorriso.
— Rimanete dove siete! — gridò De Vincenzi. — E afferrate chiunque discenda...
Quei due batterono le ciglia, annasparono con le mani, finirono col trarre la rivoltella.
— Non sparate in nessun caso, perdio!
Si era già lanciato verso il secondo piano. Il barone e Matteo lo seguivano.
Ai due lati della scala si aprivano i corridoi. Di fronte due porte chiuse. A sinistra, De Vincenzi vide tre figure bianche, terrorizzate, che si stringevano, tremando.
A destra il corridoio era vuoto.
Esitò, indeciso.
Una delle tre donne tese la mano; con la bocca ancora contorta dal terrore soffiò:
— Là... là...
La prima porta del corridoio di destra era spalancata.
Una grande macchia d'argento sul pavimento. Una più piccola macchia nera le era accanto. Il corpo della donna e il sacco chiuso.
De Vincenzi si fermò sulla soglia e sbarrò l'ingresso.
— Virginia Carey!
Si volse. Il barone e Matteo erano lividi.
— Sì. È Virginia Carey...
Aveva riconosciuto subito l'abito grigio, che sembrava d'argento.
Avanzò, si chinò. Un cadavere, ecco! La vecchia giaceva col volto contro terra, le braccia aperte a croce. La sollevò, riuscì a metterla supina.
Dovette cercare per trovare il foro, nel petto, al cuore. Non aveva quasi sanguinato.
Subito si alzò.
— L'assassino deve trovarsi ancora nel palazzo...
Guardò la camera. Vide l'armadio di quercia. Andò ad aprirlo. Qualche abito appeso. Li afferrò, gettandoli via via dietro di sé, in terra. L'armadio si mostrò vuoto.
Allora, uscì dalla stanza.
— L'assassino deve trovarsi ancora qui... — ripeté. — Non può essere disceso... Adesso lo cercheremo...
Parlava unicamente per fissare materialmente le proprie idee.
Guardava le porte che si aprivano sul corridoio. Le contò: quattro oltre quella della camera di Virginia Carey.
— Chi dorme in quelle stanze?
— Nessuno...
— E da quell'altra parte?
Fu Matteo che rispose:
— Io, la cuoca, le due cameriere. Tremava.
— Quelle due porte?
— Conducono alle soffitte.
Si diresse verso di esse, sul pianerottolo. Le esaminò. Tutte e due apparivano chiuse, ma erano semplicemente accostate. L'assassino poteva essersi nascosto in una soffitta... O in una delle cinque stanze vuote.
Dal basso venne il suono tinnente, a campanaccio, del campanello del portone.
Dovevano essere i sei agenti.
Gridò a quei due di guardia al primo piano che andassero ad aprire e facessero salire i compagni.
Ma i sei erano già per le scale. L'autista, riparato nell'androne, aveva loro aperto.
Quando gli uomini furono in alto, cominciò la battuta.
Camera dopo camera. E poi le soffitte.
De Vincenzi andava innanzi. Tre uomini lo seguivano. Gli altri sbarravano il pianerottolo.
Ogni metro di spazio fu esplorato, ogni angolo; ogni muro battuto per sentire se celasse un nascondiglio. Nelle soffitte cercarono alla luce delle lampadine portatili. I bauli furono aperti, le valigie rovesciate, i mobili vecchi rimossi.
Più le ricerche apparivano infruttuose, più De Vincenzi si accaniva.
Chi aveva ucciso Virginia Carey non poteva essersi volatizzato.
Osservò che gli abbaini erano aperti e davano su tetto. Ma come ammettere che un essere umano avesse resistito alla furia del vento e della pioggia, aggrappato alla stretta sporgenza del cornicione.
Alcune di quelle finestre a ghigliottina dovevano esser rimaste aperte da tempo immemorabile. Le soffitte del palazzo, spiegò Matteo, non erano mai state utilizzate; se non come ripostiglio dei bauli e delle valigie e di un po' di mobilio vecchio e in disuso, che era stato ammassato in sole due stanze, dacché ognuna di esse era vastissima. Così si spiegava lo stato d'abbandono in cui si trovavano le soffitte di quel palazzo pur di continuo rimodernato, regno ai topi, ai pipistrelli e ai venti, non fornite neppure dell'impianto elettrico.
Dopo due ore di ricerche, De Vincenzi tornò in basso coi suoi uomini.
Non avevano trovato nulla.
Ricominciò, allora, a cercare nelle stanze del secondo piano. Non una ne lasciò inesplorata, non facendo credito né alle due cameriere, né alla cuoca, né a Matteo.
Non trovò l'assassino e neppure la rivoltella con cui Virginia Carey era stata uccisa. Non rinvenne alcuna arma, anzi.
Il temporale era cessato. L'alba cominciava a penetrare con la sua luce livida attraverso le persiane chiuse.
Le tre donne, dopo essersi rivestite, si erano adesso gettate sui letti. Matteo e il barone, seduti sul pianerottolo, si voltavano a guardare De Vincenzi ogni volta che passava dinanzi a loro. Gli sguardi del barone erano obliqui, indecifrabili. Quelli di Matteo riflettevano la paura.
Gli agenti vagavano ora senza più cercare neppure, muovendosi come automi, fiaccati da quelle ricerche vane.
De Vincenzi solo resisteva, con uno sforzo di volontà che l'irretiva, impedendogli persino di sentire la stanchezza di quella notte da tregenda.
Non voleva, non poteva ammettere che l'assassino, dopo aver sparato contro Virginia Carey — e non era passato certo più di un minuto o due dal momento in cui la donna aveva gridato a quello in cui lui era giunto davanti alla porta della camera di lei, trovandovela cadavere — avesse potuto abbandonare il palazzo.
Rimanevano da visitare ancora il primo piano, il pianterreno e le cantine; ma come avrebbe potuto l'assassino discendere Io scalane e passare davanti ai due agenti, fermi al primo piano, senza esser visto?
Eppure, era l'unica ipotesi che avesse un senso. Tutte le altre cadevano nell'inverosimile, nel pazzesco.
L'assassino doveva essere disceso dal secondo piano, per rifugiarsi al pianterreno e guadagnare, subito o a suo comodo, la strada.
E poiché era difficile credere che gli agenti non lo avessero veduto o lo avessero lasciato passare, bisognava supporre che esistesse un passaggio segreto, una scala di servizio accuratamente mascherata.
Nulla di più probabile e logico, del resto, che un palazzo assai vasto e antico come quello avesse un'altra scala oltre lo scalone comune.
De Vincenzi tornò sul pianerottolo e si piantò davanti al barone e a Matthew Scott.
— Dove si trova la scala di servizio?
Il barone alzò le spalle.
— Non ha trovato nulla, lei?
— Dov'è la scala di servizio?
— Non c'è scala di servizio. Io non ho mai saputo che ve ne fosse una...
Matteo taceva.
De Vincenzi fissava i due uomini.
Adesso gli occhi del vecchio dicevano che la paura si era fatta terrore. Il barone rimaneva ermetico. Era disfatto in volto; ma aveva lo sguardo fermo e una piega di cattiva ironia gli increspava la bocca.
Qual era l'ansia spasmodica, che attanagliava i due?
E perché essi mentivano?
De Vincenzi avrebbe naturalmente supposto che uno dei due fosse l'assassino — pronto com'era ad accettare qualsiasi ipotesi, pur di non impazzire! — ma il barone si trovava con lui, quando Virginia Carey aveva gridato, e Matteo solo da pochi minuti era uscito dallo studio e lui, nel momento in cui raggiungeva il pianerottolo, lo aveva veduto coi suoi occhi risalire lo scalone dal basso.
I due agenti di guardia gli avevano confermato che il vecchio, uscito dalle sale del primo piano, era appena passato davanti a loro per discendere al portone, quando il grido aveva echeggiato.
Né l'uno, né l'altro aveva potuto materialmente uccidere la vecchia.
Che essi nascondessero qualcosa gli sembrava evidente; ma che fossero gli assassini era impossibile.
— Lei è proprio sicuro che il palazzo non ha una scala di servizio, una scala segreta?
— Io sono sicuro di non aver mai conosciuto un simile passaggio!
A De Vincenzi sembrò inutile insistere. Appena si fosse fatto giorno chiaro, avrebbe visitato il palazzo dalle cantine, avrebbe chiamato un ingegnere se necessario. La scala segreta sarebbe stata trovata... se esisteva!
Questo avrebbe spiegato il mistero della sparizione; ma non gli avrebbe certo fatto arrestare l'assassino!
— Barone, lei sa che oggi è il 13 giugno?
L'uomo sollevò gli occhi verso di lui e la smorfia sarcastica gli si accentuò.
— Io non credo che i morti ritornino!
— Quali morti, barone?
— Lei ha prestato fede alle lettere, che le ho mostrate! Sono una mistificazione!
— Ma lei teme egualmente che i morti della Vergine si vendichino!
L'uomo balzò in piedi.
— Che cosa dice? Chi le ha parlato della Vergine?
Accanto a loro si udì un gemito.
Matteo si era afflosciato sulla seggiola e De Vincenzi fece appena a tempo ad afferrarlo, per impedirgli di scivolare a terra.
Capitolo XVIII
Quadri
Matteo era stato deposto sul letto, nella sua camera.
Appena ripresi i sensi, s'era passate le mani sul capo e aveva cercato disperatamente con gli occhi la parrucca, che gli era caduta.
De Vincenzi avrebbe voluto approfittare dello stato di minor resistenza in cui si trovava, per interrogarlo. Il vecchio doveva certamente sapere assai più di quanto aveva detto. Ma, fosse finzione o realmente le sue condizioni glielo impedissero, Matteo non parlava. Soltanto i suoi occhi erano vivi e in essi lampeggiava quel terrore spasimante; il terrore di un pericolo vicino, oscuro, in agguato.
Aveva finito col chiuderli e adesso sembrava morto, ché anche il respiro gli si era fatto rado e l'ansimo del petto quasi impercettibile.
Un agente lo piantonava.
Il barone s'era rifugiato nel suo studio e aveva chiesto di rimanere solo.
De Vincenzi aveva messo altri due agenti nel salotto attiguo. Egli si era assicurato che quell'ala del primo piano terminava, dopo lo studio, con la camera da letto e il bagno del barone, e che questi, quindi, poteva uscire soltanto passando per quel salotto.
Naturalmente, lo scopo di De Vincenzi era di proteggergli la vita. Ma sapeva forse lui se questa fosse realmente minacciata e se le due lettere anonime erano da prendersi sul serio? A credere ad esse e a giudicare dal modo con cui i tre delitti erano stati compiuti, le ore del barone dovevano essere contate. Prima della mezzanotte la vendetta del morto lo avrebbe colpito. Nè la protezione della polizia avrebbe servito a salvarlo.
La vendetta del morto! L'anima che si vendica! Titoli da romanzo d'appendice. Tutta una storia da far dormire in piedi.
E quell'omino dal volto di faina, che si agitava fra quei morti, sorridendo sempre, e che presentava se stesso a ogni incontro: Curti Bo'... in due parole, le raccomando!
Se fosse riuscito a riacciuffarlo, quello lì!
De Vincenzi, prima di scendere al pianterreno ché le ricerche del passaggio segreto voleva farle con calma — risali nella camera di Virginia Carey.
Il volto della vecchia — grande adesso non più di quello di una bimba — esprimeva Io stupore terrorizzato. Che cosa o chi le era apparso, prima di morire? Che avesse veduto in volto il suo aggressore non era dubbio, dato che il proiettile l'aveva colpita al petto.
Per qualche istante, contemplò il cadavere. Povera! Un uccellino colpito al cuore!
Ma quale mai la ragione di quegli assassinii? Prima i due fantini, che avrebbero dovuto montare la Vergine: poi Virginia Carey, che aveva allevata Verità, dopo essere stata la cameriera di Ellen Mackenzie.
Un nesso! Quale nesso?
E Verità era scomparsa!
De Vincenzi si guardò in giro. Vide in terra In borsa nera ricamata con le perline e la raccolse.
Certo la vecchia si preparava a partire, quando l'avevano uccisa. Altrimenti, alle cinque del mattino, non sarebbe stata vestita e non avrebbe avuto nelle mani quella borsa.
L'apri e ne rovesciò il contenuto sul letto. Il ritratto nella cornice di pelle doveva essere della madre di Verità. La rassomiglianza appariva evidente.
Trovò la calza. Anche qui denaro. Molto denaro, come nella borsetta di Verità.
Le due donne stavano per fuggire, quando qualcuno era intervenuto e lo aveva impedito. Di una si era ritrovato il cadavere, dell'altra i vestiti...
La possibilità che anche la ragazza fosse stata uccisa e che iI suo cadavere giacesse forse sotto qualche pietra della cantina, gli apparve improvvisa e terrificante.
Discese e ordinò ai suoi uomini di cominciare le ricerche nel pianterreno.
Ancora nessuno era andato in basso, dal momento in cui i sei agenti mandati da San Fedele erano stati lanciati da De Vincenzi a frugare nelle soffitte e nelle stanze del secondo piano.
Il primo che mise piede nell'androne si trovò davanti il corpo di un uomo abbattuto sul piancito. Era l'autista del tassi. Il pover uomo giaceva di traverso, gli occhi chiusi, il respiro affannoso.
De Vincenzi vide che lo avevano colpito al capo, per di dietro. Sulla nuca i capelli erano intrisi di sangue. Il berretto gli aveva attutito il colpo e il cranio aveva resistito.
Lo fece caricare sul tassi, ch'era rimasto davanti al portone, e un agente si mise al volante. — Portalo all'Ospedale e consegna questo biglietto al medico di guardia.
Pregava il dottore di curare l'uomo e di venire poi al palazzo Verbena.
Oramai, aveva acquistato la sicurezza che esistesse un passaggio dal secondo piano al pianterreno. L'assassino di Virginia Carey vi si era tenuto nascosto fin quando gli agenti erano saliti; ritenendo poi l'androne libero, aveva fatto per fuggire e si era trovato dinanzi l'autista. Lo aveva abbattuto e aveva preso il largo.
Abbattuto con che cosa? Il particolare era trascurabile. Col calcio della rivoltella, forse, o con un bastone.
De Vincenzi entrò in portineria. Il portinaio dormiva nella camera attigua, che era la sua camera.
Lo trovò addormentato nel letto e per quanto lo scuotesse non riuscì a destarlo. Soltanto un narcotico aveva potuto ridurlo in quello stato.
Ma chi glielo aveva fatto bere e a quale scopo?
Adesso, De Vincenzi si limitava a constatare i fatti e a incasellarli nel cervello. La stanchezza e un vago senso d'oppressione gli impedivano di dedurre, d'intuire, di formulare ipotesi.
Tutto era così irreale, così allucinante!
Poiché il respiro dell'uomo addormentato appariva normale e il polso batteva regolarmente per quanto debole, non c'era da far altro che aspettare. Il medico sarebbe venuto tra poco.
Uscì nell'atrio. Gli agenti vagavano per il cortile, scendevano e salivano lo scalone. Si aggiravano, battendo i muri, chinandosi a osservare il pavimento, fermandosi a contemplare il soffitto.
Il passaggio segreto doveva esservi; ma non sarebbe stato certo cercandolo a quel modo che lo avrebbero trovato!
Alzò le spalle: e quando anche avesse scoperto quel passaggio? L'assassino era lontano e ben lontano! Ebbe un fremito. Lontano o vicino che fosse in quel momento, sarebbe tornato. Doveva tornare. I morti tornano e le anime si vendicano.
Un'ossessione, la sua!
E Verità?
La visione di un altro cadavere lo fece rabbrividire.
— Voialtri! Cercate l'ingresso alle cantine...
Gli uomini si agitarono.
Fu lui stesso che ne trovò la porta in cortile.
Era chiusa, ma in portineria aveva veduto il quadro delle chiavi. Prese quella che gli serviva.
Andò lui avanti. Al muro c'erano i commutatori. Le cantine s'illuminarono. La visita fu facile: erano locali vasti, rivestiti di cemento, ben tenuti. Nessun angolo buio, nessun nascondiglio. Scansie con le bottiglie allineate; damigiane; bariletti incatramati.
Quando riuscì nel cortile, diede un respiro. Se Dio vuole, cadaveri lì dentro non ce n'erano!
Tornò lentamente verso lo scalone.
E fu allora che nel modo più semplice scoprì il passaggio, di cui si era servito l'assassino per fuggire. Dal basso si vedeva il pianerottolo, con cui terminava la prima rampa. Per arrivare al primo piano, lo scalone si spezzava in due rampe.
Proprio sul muro di fronte, al termine della prima rampa, c'era un grande quadro antico. Un groviglio di corpi nudi, di gambe e braccia muscolose, una scena mitologica. De Vincenzi si fermò a guardare il quadro. Cercò di capirci qualche cosa. Lo faceva inconsciamente, per procurare un diversivo ai propri pensieri.
Gli sguardi gli andarono alla cornice, cominciarono ad analizzarla. Era una grande cornice dorata, con quattro enormi rosoni agli angoli.
Qualcosa nel rosone di destra, in basso, lo colpì. Fu più un'intuizione la sua, che altro. Il rosone non era come gli altri. Simmetrico, ma non eguale.
Fece la rampa di corsa.
Passò la mano sugli intagli, premette le sporgenze. Una molla scattò e il quadro girò sulle cerniere, rivelando il vuoto di un corridoio. Accese la sua lampadina e in fondo trovò una scaletta a spirale che saliva. La scaletta di una torre campanaria sembrava.
In alto la scaletta terminava davanti a un muro con una porta. Qui non c'erano trucchi, ma soltanto una maniglia rotonda da girare. La porta si apri all'infuori e De Vincenzi si trovò nel corridoio del secondo piano, davanti alle cinque porte chiuse, dietro l'ultima delle quali giaceva il cadavere di Virginia Carey.
Anche qui, la porta era mascherata esteriormente da un quadro.
Ebbene, adesso che aveva trovato? Sorrise.
Tutto molto semplice. Anche le anime dei defunti hanno bisogno di porte e di scale, per entrare e per andarsene...
Ma una cosa era certa: l'anima in questione doveva avere una bella conoscenza del palazzo per potervisi muovere a quel modo!
Capitolo XIX
Risveglio
Vladimiro Curti Bo' era sempre molto minuzioso nella cura della sua persona. Egli, a suo dire, non dormiva; ma non avrebbe rinunciato per nessuna ragione, grave che fosse, alle numerose e prolungate abluzioni mattutine, alle frizioni con le creme e i cosmetici, ai massaggi e alla ginnastica igienica.
Almeno un'ora veniva così impiegata da lui nel bagno attiguo alla sua cameretta, al primo piano, quasi un piano rialzato, di quel quadrivio, ch'era stato teatro del suo metafisico colloquio con l'Imperatore.
Cameretta come nessun'altra linda e modesta, dove nessun segno rimaneva mai a rivelare la personalità del suo abitatore. Quando Curti Bo' ne usciva, il piano del canterano era liscio e sgombro, il tavolo senza oggetto alcuno; neppure il comodino recava traccia di una qualsiasi presenza, che si fosse adagiata a riposare in quel lettuccio di ferro smaltato, ch'egli sempre lasciava coi lenzuoli assestati e con la coperta ben tesa. Tutti gli oggetti posseduti dall'omino venivano, senza dimenticanze, ogni volta riposti nei tiretti, che nessuno avrebbe potuto aprire, se non scassinandoli o servendosi di un grimaldello.
Possibilità, quest'ultima, del resto, che Curti Bo' doveva aver prevista, poiché egli sempre poneva davanti a ogni tiretto, perpendicolarmente, un invisibile filo nero, fissato contro il legno ai due capi. Se qualcuno avesse tentato l'effrazione, il filo avrebbe parlato.
Un'ora di toletta è lunga per un omino della grandezza di Curti Bo' — meno superficie, meno lavoro —, ma è pur vero ch'egli metteva a profitto il tempo, meditando. E di solito la piena delle sue meditazioni gli traboccava dalla bocca in parole.
Quella mattina, poi, i suoi discorsi, per quanto apparentemente scuciti, erano particolarmente gravi, a giudicare dalla concentrazione del suo volto da faina.
— Primo punto: anche questa volta l'Imperatore ha varcato tranquillamente la frontiera...
Guardava la vasca da bagno riempirsi e si massaggiava le guance e il mento, che aveva appena terminato di radere a contropelo.
— Consuetudine è seconda natura! A me piace la pelle glabra... È stato proprio nella notte in cui l'Imperatore si trovava a Milano, che hanno ucciso Perry Hodburn... ma questo non vuoi dir nulla!... Apparenza non vale sostanza... Ed è una marchiana bestialità che il rame lucidato sia oro...
Si chinò a sentir l'acqua del bagno con la mano e subito chiuse il rubinetto. Col gluc d'un bilanciere che scatta, lo scaldabagno si spense.
Aprì l'altro rubinetto e strizzò l'occhio al getto voluminoso dell'acqua fredda.
— Secondo punto: la signorina Verità ha cominciato ad aver paura. Quale importanza può avere questo fatto?
Mise un piede nell'acqua e lo ritrasse con una smorfia.
— Ahi! Un'importanza enorme! Il sintomo è la riprova della bontà del mio sistema... Sistema speculativo, che acquista valore dalla conferma dei fatti...
Tentò ancora l'acqua col piede ed entrò nella vasca.
Per qualche minuto tacque. S'immerse nel liquido, cominciò a batterne la superficie, si cosparse di sapone. Adesso, cantarellava.
«Oh! capitan, c'è un uomo in mezzo al mare...».
Si agitava, soffiava, saltava in piedi e poi ricadeva a sommergersi.
«Oh! capitan, non fatelo affogare...» … Sarò io che trarrò il pericolante in salvo... Bella figliola!... Che cosa ancora sarà accaduto questa notte? La risposta alla domanda se la diede, facendo un salto fuori dalla vasca.
— Ah! se il temporale non mi avesse obbligato a restarmene al riparo, in questo mio domicilio!
Si asciugò, fregandosi il corpo con veemenza.
— Bisognerà riguadagnare il tempo perduto!... Per quanto una sola cosa non sia possibile!... Ridar gli spiriti a un corpo, dal quale sieno stati fatti uscire?...
Misurò con l'occhio il pavimento, poi si gettò a terra sulla punta dei piedi e sulle mani e cominciò le flessioni delle braccia.
Teneva la bocca chiusa, adesso, e si muoveva con ritmo. Quando arrivò al ventiquattro, si rialzò.
— Domani ne farò ventisei...
Mentre si vestiva, riprese il soliloquio.
— Vladimiro, tu non hai da preoccuparti che di una cosa?... Il tuo scopo è uno solo e ogni deviazione ti porta lontano da esso... Vero è che oramai...
Era arrivato al nodo della cravatta e davanti allo specchio si concentrò nella bisogna. La cravatta cremisina era la sua passione. I colori hanno indubbiamente influenza sullo spirito. A lui il cremisino recava un diffuso senso di tenerezza. In alcuni atteggiamenti egli era languido, a causa appunto di quell'ornamento paradossale.
— Oramai la vicenda ti appassiona in se stessa!... E poi... e poi... Il terzo punto: un problema di chimica... Il quarto: la parrucca che copre un cranio... Accidenti!
Si era punto con la spilla della cravatta.
— Ho sempre pensato che il vecchio sia al centro del problema...
Era vestito. Tornò nella camera, dopo aver tutto rimesso a posto nel bagno. Dal primo tiretto del canterano trasse, col portafogli, gli oggetti numerosi che portava sempre con sè e se li distribuì per le tasche. Chiuse i tiretti, fece sparire esternamente ogni oggetto, tese gli invisibili fili neri, che fermava ai capi con un'ombra di mastice.
Depose il cappelluccio sul cranio e, afferrato iI bastone, si mise a fare qualche lontananza davanti allo specchio.
Aveva una sincera ammirazione per se stesso e gli occhi gli brillarono.
Ma un pensiero improvviso gli fece oscurare il volto, che un poco gli si contrasse.
— Preoccupati della frontiera, Vladimiro!... Tutti questi cadaveri conducono soltanto al cimitero ...Terra d'avello non dà grano!
Rimase qualche istante assorto, poi si scosse.
— Al lavoro!... Sbroglieremo la matassa e coi fili fileremo giubbetto caldo...
Si guardò attorno, andò ad accostare le persiane e chiuse a chiave la porta della camera, che dava sul ballatoio.
Per le scale zufolava l'aria dell'uomo in mezzo al mare. Sul portone, abbracciando i viali gli alberi i tappeti verdi con un rapido sguardo di possesso, mormorò... non fatelo affogare!... e si mosse rapido.
Erano le otto del mattino. La domenica rendeva le strade deserte. Il temporale della notte aveva rinfrescato l'aria. Camminare a quell'ora, con quella frescura, era una gioia. L'omino se la godeva e procedeva arzillo, col sorriso sulle labbra.
Quando fu in via Andrea del Sarto, si fermò davanti a una porticina a vetri smerigliati, accanto alla quale una grande targa di marmo recava a lettere d'oro: Istituto Farmacologico della R. Università. Premette il bottone del campanello e un uomo in camice gli aprì. Lo fece entrare. La porticina si richiuse.
Rimase nell'interno di quel vasto fabbricato bianco, che sembrava un ospedale, oltre mezz'ora. Quando ne uscì appariva smarrito. Il sorriso era scomparso dal suo volto.
— Diavolo!... Lo stoppino acceso consuma la cera, ma la cera non fa fumo... e se manda un odore esso non basta!... La mia ipotesi se ne è andata a Patrasso!... Dove trovarne un'altra, che si regga in piedi?...
S'era fermato sul marciapiede e, toltosi il cappello, si passava la palma sul cranio.
— Affrettare i tempi!... E pensare che sarà proprio il commissario a impedirmi di agire!... Si rimise il cappello. Un tassi passava. Gli fece cenno e, quando vi si fu seduto ed ebbe fatto sbattere lo sportello, ordinò al conducente:
— Corso del Littorio... Ti fermerò io...
Scese dal tassi a metà del corso e si diresse a piedi verso piazza Crispi. Entrò nel caffè sotto i portici e sedette a un tavolo, davanti alla vetriata. Vedeva dinanzi a sé il portone del palazzo Verbena. Il portone era chiuso. I suoi pensieri continuavano a caracollare. Agire avrebbe voluto; ma non poteva far altro che attendere. Eppure, gli era necessario entrare lì dentro? Se almeno si fosse mostrato il guardaportone azzurro cielo? Ma il portone continuava a rimaner chiuso. Dopo mezz'ora, vide aprirsi il portello e uscirne alcuni uomini. Li contò: erano sette.
— Ahi? O mi sbaglio o i defunti sono adesso più di due?... E uno se ne trova lì dentro?... Madonna aiutami, Cristo proteggimi?... Se l'hanno fatta al barone, sono fritto?...
Il gruppo degli uomini si diresse compatto per via Caserotte, verso San Fedele.
— Cameriere?... Un altro caffè...
E addentò la seconda brioche. Sentiva imperioso il bisogno di rifocillarsi. La giornata sarebbe stata dura.
Mangiava e non perdeva di vista il portone. Si era fatto dare un giornale e lo teneva aperto, cercando di coprirsi il più possibile. Non voleva esser notato. Sapeva che i suoi pregi fisici non passavano facilmente inosservati.
Alle nove vide arrivare a piedi due signori e subitò li classificò: giudice istruttore e cancelliere. Il morto c'era!
Alle dieci fu il sibilo di una sirena, che lo fece sobbalzare. L'autolettiga si fermò davanti al portone, che finalmente venne spalancato. La lettiga entrò nell'atrio.
L'omino gettò una moneta sul tavolo e usci dal caffè.
Il cameriere lo riafferrò sotto i portici.
— Che c'è?
— Queste sono due lire!... Lei ha mangiato quattro brioches!... Due caffè e quattro brioches fanno cinque e venti!
— Ladri! imprecò Curti Bo'. — Vampiri del pubblico!
Alzò il bastone. Il cameriere fece un passo addietro. Si apprestava ad afferrare una seggiola per difendersi. Ma Curti Bo' abbassò il bastone e portò l'altra mano al taschino del panciotto.
— Eccovi il denaro... Avvertirò l'accertatore del fisco, perché tenga d'occhio il locale...
Si allontanò in fretta, voltando per via Ornenoni. Il cameriere gli rise dietro.
L'omino, quando fu per sbucare in piazza Belgioioso, fece dietro front e, quasi di corsa, tornò al portone.
L'autolettiga usciva dall'atrio, fiancheggiata da un milite. L'omino si mise a correre, per passare. Avvenne l'urto. Curti Bo' scivolò, il bastone andò a finire fra le gambe del milite, che cadde, trascinandolo con sé.
Si sentì un piccolo grido — come il guaire di un cucciolo — e una sonora bestemmia. Il milite voleva alzarsi e non ci riusciva. L'altro si agitava frenetico, aggrappandoglisi alla giubba. Per qualche istante i due corpi rotolarono avvinghiati. Finalmente, il milite riuscì ad afferrare l'omino per il collo e lo lanciò lontano.
Curti. Bo' si rialzò di balzo e corse a raccogliere il cappello.
— Maledetto imbecille?... Ma siete cieco o ubriaco?
— Oh! Oh! Oh?... — fece con somma dignità Vladimiro. — Lei non sa con chi parla?... Non contento di avermi travolto, unisce ora al danno l'ingiuria?... Farò rapporto al suo capitano...
— Ma va' al diavolo... — urlò il milite, saltando sul predellino dell'autolettiga e sedendosi poi accanto all'autista.
L'autolettiga si allontanò veloce, lanciando il fischio della sirena.
Un paio di passanti si erano fermati e guardavano curiosamente quel buffo tipo che sembrava preoccupatissimo del proprio cappello.
— Un autentico borsalino!... E quello screanzato voleva ancora aver ragione lui!... Farò rapporto...
Si avvicinò ai due curiosi.
— Vogliono favorirmi i loro nomi?... Dovranno testimoniare... Hanno veduto, vero?...
I due alzarono le spalle e si allontanarono.
— Pavidi!... gridò con sdegno Curti Bo' e, fatto un ultimo gesto di minaccia, si allontanò lui pure in senso opposto.
Quando fu al principio di via San Paolo, si fermò. Trasse di tasca un foglio e lo aprì. Lesse stampato in grassetto: BASSA DI ENTRATA... e poi scritto a penna: all'Obitorio. Scorse rapidamente le linee a stampa e trovò il nome che cercava, inserito a penna in uno spazio punteggiato: Virginia Carey, di San Francisco.
— Hanno ammazzato la governante!
Lentamente ripiegò il foglio, che aveva estratto con destrezza dalla tasca del milite, durante il corpo a corpo, e rimase pensieroso.
Quel nuovo assassinio gli sconvolgeva singolarmente le idee.
Capitolo XX
Collera
L'assassinio di Clark O' Brian, succedutosi a ventiquattro ore di distanza da quello di Perry Hodburn, procurò a Fred Drake una crisi di acuta collera, a cui segui un grande abbattimento.
In verità l'allenatore si era sentito come preso in un vortice d'aria. Aveva starnazzato per le scuderie nel modo più folle, andando a battere contro gli usci delle stalle e poi contro quelli dei locali accessori e finalmente, precipitatosi nella sua stanza, sedeva adesso davanti al tavolo.
Era capitato alla scuderia all'ora solita e oramai la pendola sopra la sua testa segnava le 11. Da mezz'ora lui si era agitato inutilmente, preso da uno strano delirio ai centri motori. Arrivando, non aveva veduto anima viva al paddock: né cavalli, né uomini. All'ora del lavoro antimeridiano! Furente si era precipitato nell'androne della scuderia, per trovarsi davanti a un poliziotto, che gli aveva troncato netto lo slancio, chiedendogli con un accento che poteva anche sembrare esotico, ma che era soltanto insulare, chi egli fosse e che cosa volesse. Fred non lo aveva preso per il collo, contentandosi di guardarlo in modo tanto furibondo, che l'altro aveva creduto prudente rompere di qualche passo.
— Chi sono e che voglio, eh?! E voi chi siete, pezzo di bestione matricolato? I miei uomini non lavorano, i cavalli rimangono chiusi nei boxes, e in mi trovo fra i piedi un estraneo, che mi domanda chi sono?! Sono Fred Drake, perdio!, e questa è la mattina in cui faccio piazza pulita, qui dentro!
Se egli avesse detto: sono il padrone delle scuderie o fors'anche sono l'allenatore, il poliziotto gli avrebbe probabilmente tenuto testa, forte del suo diritto di rappresentante autorizzato della legge; ma ricevendo in pieno volto il nome per lui vuoto di senso o pieno di un arcano senso sconosciuto di Fred Drake, l'uomo s'era ritratto senza parlare, contentandosi di continuare a guardarlo col più idiota degli stupori impresso sulla faccia.
Fred si era gettato allora nel cortile e aveva afferrato per il petto il caporale di scuderia, accorso al clamore della sua irruzione.
— Perché i cavalli non sono al paddock? Che cosa fate voialtri, branco di abbruttiti?
Qualche altro garzone si avvicinava e gli allievi fantini, cogli stivaloni e i frustini, mostravano i musetti scimmieschi dall'alto della passerella dei locali accessori.
— Ma... ma... — aveva potuto finalmente balbettare il caporale, terrorizzato dalla furia epilettica dell'allenatore. — Non lo sa che hanno ammazzato anche Clark O' Brian!?...
Fred aveva dato un ultimo scrollone al disgraziato per poco non mandandolo in terra; ma subito tutta la collera gli era crollata di colpo.
Il suo cervello aveva assorbito e decifrato il senso dell'annunzio: Clark O' Brian ucciso!
Ucciso anche lui, dopo Perry Hodburn!
E allora s'era dato a correre per il cortile, era entrato nel box della Vergine, aveva salito la scaletta, urtandosi contro la porta della camera del fantino, che era stata chiusa e suggellata dal giudice.
Aveva finito col trovarsi di nuovo nell'androne e poi nel suo ufficio, dove adesso sedeva, in preda a una specie di smarrimento sonnambulico.
Il poliziotto, lasciato di guardia nelle scuderie dal vice commissario Sani, il quale aveva sostituito De Vincenzi nelle prime indagini fatte alla mattina dal giudice istruttore — il commissario aveva la sua gatta da pelare al palazzo Verbena — avendo appreso dagli uomini chi fosse quell'energumeno, si credeva ora in dovere di rispettare il giustificato turbamento dell'allenatore.
Fred pensava alla Vergine. Una maledizione si stava abbattendo attorno alla cavalla! No, certo! Lui non l'avrebbe affidata a Clark O' Brian, per il Gran Premio... Il fantino era buono, ma non aveva alcuna delle doti necessarie a combattere una competizione d'importanza. Ma perché glielo avevano ucciso?
Quale pazzo furioso, assetato di sangue, s'era messo a vagare per San Siro, rivolgendo la sua rabbia sanguinaria contro la scuderia del barone?
A questa teoria del pazzo sanguinario, Drake ebbe uno strano sorriso, che sarebbe apparso sinistro a chi avesse potuto vederlo.
E qualcuno lo vide, infatti, poiché proprio in quel momento la porta si aprì e un omettino vestito di grigio tortora, tutto pulitino e assestatello, il cappello a meloncino sul cranio, entrò e avanzò con cautela, protendendo dinanzi a sé il bastone dal manico arguto!
Il sorriso sparì. Gli occhi di Drake fiammeggiarono di luci omicide.
L'omino doveva, però, sentirsi immunizzato perché raggiunse il tavolo e, quivi giunto, si tolse il cappello e fece un inchino.
— Buon giorno, mister Drake! Brucia la paglia, come l'esca! E i cadaveri si ammucchiano per le vie!...
L'allenatore taceva. Evidentemente, doveva mancargli il fiato. Tanta sicurezza lo sbalordiva.
— Tre defunti sono molti, nel giro di un giorno! Tre defunti, m'intendo, in una sola casata... chè i fantini e la governante portavano i colori del barone Verbena, no?
L'omino depose il cappello sul tavolo, andò a prendersi una seggiola e sedette di fronte all'allenatore allibito.
— Ella si ricorda di me, mister Drake? Mi lusingo di sì... Io sono Curti Bo'... in due parole: Curti... Bo'...
Bastò questo per sgelare il silenzio di Fred.
— Oh! se mi ricordo di lei! Tanto me ne ricordo, che so di doverle qualche cosa... E adesso potrò finalmente assestarle quella pedata nel di dietro, ch'ella si è abbondantemente guadagnata...
Inconsciamente, l'omino si agitò sulla seggiola, quasi avesse voluto meglio sentirsi protetta la parte minacciata.
— Oh! — fece scandalizzato. — Lei mi amareggia, mister Drake! Realmente sconvolge il buon concetto che mi son fatto della sua intelligenza!... Un colpo di piede nel mio di dietro non farebbe risuscitare i trapassati e sopratutto non impedirebbe il trapasso a coloro che restano?... La morte violenta sta in agguato in ogni angolo, qui e al palazzo... Striscia sulle pareti... s'insinua tra gli interstizi.... È nell'aria... è nella luce...
Fece un breve gargarismo per spezzare l'acuto a cui la sua voce era giunta e concluse, abbassandola sino al soffio cavernoso:
— … Nella luce delle candele, sopratutto!...
L'altro lo aveva ascoltato col volto chiuso, duro, non molto piacevole a guardarsi, del resto, il volto di Fred Drake in quel momento. Gli occhi lo illuminavano sinistramente, sotto le ciglia cespugliose, così folte e dense, che sembravano essersi unite e che gli tagliavano nettamente la fronte sormontata da quel suo berretto alla marinara con la nappa rossa dal resto della faccia convulsamente livida.
L'inquietante atteggiamento dell'allenatore dovette colpire anche l'omino, che strinse il bastone dalla parte del puntale, come a farsene clava, e cominciò ad agitarsi sulla seggiola, pronto a fuggire.
— Perché lei è tornato qui? — chiese con voce fredda, tagliente, Fred Drake.
— Andiamo, via!... Ma la ragione è elementare! Non c'è stato, forse, stanotte un altro assassinio?
— Lei s'interessa agli assassinii, eh? È un poliziotto dilettante, lei?... O un amatore di sensazioni violente?... Oppure semplicemente un maledetto ficcanaso a cui io farò passare la voglia di occuparsi di quel che non lo riguarda?
L'omino sentì sempre più avvicinarsi la minaccia e il pericolo. La voce e gli occhi dell'inglese dicevano chiaramente che non scherzava e che avrebbe volentieri aggiunto un cadavere alla serie di quelli già pronti per Musocco2.
Che brutto carattere, perdio! Chi avrebbe potuto supporre una simile reazione in quell'educatore di nobili animali? Certo tutti quei delitti dovevano aver tristamente influito sul suo sistema nervoso!
— Lei si trova da molto tempo in Italia, mister Drake? La domanda fu fatta con voce cortese, piena di soavità. L'allenatore dalla sorpresa ebbe un sussulto. Quelle parole, tanto innocenti quanto imprevedibili, lo avevano letteralmente fulminato.
L'omino comprese di aver guadagnato un punto. Si trattava di non perdere terreno nuovamente.
— Ha sentito il temporale di questa notte? Una vera bufera!... È così che accadono le peggiori catastrofi. I fiumi straripano, i tetti crollano, i massi si scardinano dalle montagne e formano le valanghe. Dove si trovava lei, mister Drake, all'ora del temporale?
Era troppo. Fred Drake balzò.
— Razza di cretino, lei si sta prendendo gioco di me?!
Curti Bo' non si fece cogliere di sorpresa. Un salto e fu fuori campo. L'allenatore, che si era proiettato per afferrarlo, rimase con la pancia e il petto sul tavolo, le mani tese verso la seggiola, ch'era schizzata lontana assieme all'amino. Questi, che già da quando aveva cominciato a preoccuparsi dell'atteggiamento assunto dal suo interlocutore aveva ripreso dal tavolo il proprio cappello, se Io mise sul capo con un gesto pieno di fierezza.
— Adesso lei esagera, caro signore! E ha torto! Avrei voluto farle qualche proposta vantaggiosa per lei. Ma oramai più nulla!... Marameo!
E, portata la mano al naso, accompagnò la parola schernitrice con il gesto. Quindi girò sui tacchi e si avviò, petto sporgente, spalle aperte, verso la porta.
Drake non riusciva a raddrizzarsi. Gli occhi gli schizzavano dall'orbita. Ma che specie di pazzo era mai quello?
Curti Bo' uscì nell'androne e, quando ebbe sbattuta la porta dietro di sé, tirò un breve sospiro di sollievo: sapeva perfettamente di averla scampata bella.
Per darsi un contegno davanti al poliziotto, che s'era messo ad osservarlo, cominciò a zufolare la sua aria preferita, quella del naufrago in mezzo al mar; ma non appena ebbe traversato lo spiazzo e si fu messo per la stradetta, fra le siepi, lo zufolio gli morì sulle labbra.
— Ah! è così, dunque!... Ho fatto bene a venir fin qui giù... C'è del nuovo... oh! se c'è del nuovo... Occorre affrettarsi...
Infatti, sul piazzale dell'Ippodromo, per affrettarsi, disdegnò il tranvai e prese un tassi.
Una volta seduto, però, fosse la visione immediata del tassametro, sospirò e, toltosi il cappello, si grattò la nuca:
— Questa storia minaccia d'inghiottire tutte le mie economie!... Se Dio guardi, l'Imperatore non si fa cogliere, dovrò trascorrere la mia vecchiaia, chiedendo la carità sui gradini d'un sacro tempio!...
Capitolo XXI
Sottintesi
Fu soltanto alle dodici circa, dopo essere entrato nel palazzo alle tre del mattino, che De Vincenzi ne uscì.
Aveva trascorso quelle nove ore in una tensione di nervi e di spirito, che lo aveva spossato. Le scale del palazzo coi quadri a sorpresa... i corridoi popolati di ombre e di figure allucinanti... Sul pavimento della camera il cadavere di Virginia Carey, così esile, gracile... fragile, nel suo abito grigio luminoso, come la spoglia argentea di una larva... L'affannoso agitarsi suo e degli agenti per le soffitte, alla ricerca di un assassino introvabile, la cui presenza minacciosa era dovunque, immanente come incubo...
Il ricordo di quelle ore gli martellava il cervello.
Di Verità nessuna traccia, nessuna possibilità di supporne ragionevolmente la sorte. San Fedele aveva avvertito tutti i commissariati, la sorveglianza alle stazioni era stata subito disposta, i connotati della ragazza correvano lungo i fili telefonici e telegrafici.
Che fosse stata uccisa, come Io era stata Virginia Carey, era possibile e, dato il ritmo e la tragicità degli avvenimenti, probabile; ma non nel palazzo o altrimenti il suo cadavere doveva esser stato trasportato altrove, il che non era agevole da ammettere.
Certo, invece, l'assassino si era impadronito di Verità e l'aveva condotta chi sa dove, per poi tornare a uccidere la vecchia...
Ma qual era, giusto Cielo!, la ragione di tutto questo?
Un simile desiderio di sterminio non poteva essere giustificato che dalla pazzia o da una sete di vendetta davvero inumana!
Se realmente era il morto di trent'anni addietro che si vendicava, perché non aveva ucciso il barone, senza infierire a quel modo contro tutti coloro che lo circondavano e che in un certo senso gli appartenevano?
Quale nesso immaginare e ammettere che potesse esistere fra l'assassinio di Hodburn e di O' Brian, quello di Virginia Carey e la scomparsa di Verità. Né Virginia, né Verità avevano avuto nulla a che fare con la goletta tragica a ogni modo. E neppure i due fantini, troppo giovani entrambi... Oh! allora?
Le ultime ore di permanenza al palazzo, De Vincenzi le aveva impiegate nelle pratiche consuete a ogni inchiesta. Erano venuti il medico, il giudice istruttore, gli uomini dell'Obitorio. Il cadavere era stato portato via. Verbali, rapporti, sopraluoghi, interrogatorii.
Non ne era uscito nulla di nuovo.
Il barone aveva continuato nel suo atteggiamento di sarcastico disprezzo. Solo la scomparsa di sua figlia sembrava agisse su di lui, sino a farlo vibrare visibilmente. Ma erano moti passeggeri, ch'egli subito reprimeva. Appariva chiaro a ogni modo che di quella scomparsa egli non sapeva darsi ragione e che da essa prevedeva i peggiori pericoli.
Matthew Scott non si era rimesso dal malore, che gli aveva tolto la favella. Il forte choc nervoso, aveva concluso il dottore, doveva paralizzarlo. De Vincenzi inclinava a credere che il vecchio simulasse per non essere costretto a parlare.
Più che mai in lui prendeva corpo la convinzione che la ragione di tutto quanto accadeva dovesse ricercarsi nel lontano passato del barone e di Matteo e forse nell'incendio della Vergine...
Uscì lentamente dal portone, assorto in quei suoi pensieri, e non vide l'omino dall'abito tortora e dal bastone col manico di corno.
Ma Vladimiro Curti Bo' vide lui che usciva e mandò un respiro di sollievo: finalmente!
Attese che il commissario fosse scomparso in fondo a via Caserotte, verso San Fedele, e poi abbandonò la colonna dietro cui si teneva nascosto e mosse con franchezza verso il portone sormontato dalle cariatidi.
Zufolava a quel suo modo basso e dolce e faceva girare il bastone fra le dita della destra. Uno zerbinotto che si avviasse a un incontro galante, sembrava. E infatti del maturo e impenitente donnaiolo, il piccolo Curti Bo' aveva tutta l'apparenza.
Varcò la soglia e, senza degnar neppure di uno sguardo la portineria, imboccò lo scalone. Sul primo pianerottolo, un agente sbarrava il passaggio. Lo sbarrava, s'intende, per modo di dire, ché l'omino aveva dinanzi a sè quanto spazio voleva per passare.
E passò, infatti, sorridendo all'agente che lo fissava perplesso e lasciando cadere con noncuranza:
— Oh! ci mancava questo! Un delitto in estate è doppiamente atroce!
— Ebbene? — fece l'uomo, quando se lo vide al fianco, che continuava a salire.
— Il giudice istruttore, lui, se la cava! Manda me a redigere i verbali!
E, crollando la testa, Vladimiro aggredì coi suoi passettini la seconda rampa.
Dopo quell'incontro, tutto andò liscio sino al salotto, che precedeva lo studio del barone. Qui l'omino fu fermato — e fermato, questa volta, con decisione — da un altro agente. Ma lui era preparato anche a questo. Come non pensare che De Vincenzi avesse preso le sue precauzioni e avesse messo una guardia a ogni punto nevralgico del palazzo?
— Dove va, lei?
Vladimiro si tolse il cappello e andò a deporlo assieme al bastone sopra un piccolo tavolo. Poi tornò verso l'agente. Si fregava lentamente le mani e un sorriso pieno di mistero e anche un pochino di fatuità gli aleggiava sulle labbra. A un tratto, però, il sorriso sparì e lui si volse a dare un'occhiata al copricapo. Ah! che dolore separarsi da un così fedele amico!... Poteva anche darsi che non lo avesse riveduto mai più! E sarebbe stato il secondo che perdeva in ventiquattr'ore! Sospirò e riprese a camminare verso l'agente, che lo fissava a occhi spalancati.
— Dove va, lei?
— Zitto!... — fece l'omino, portando il dito alle labbra. — Non gridi tanto! Quella porta è chiusa; ma si può benissimo sentire attraverso una porta chiusa... Vuole che il barone sappia chi sono, prima ancora che io abbia potuto esaminarlo?... Dica, vuole questo?
— Esaminarlo?
Il tono di severità assunto da Vladimiro aveva impressionato l'agente, che adesso parlava a voce bassa.
— Già! esaminarlo! Come diavolo vuole che possa fare il mio rapporto all'egregio De Vincenzi, se non esamino il soggetto?
— Ah! è il commissario De Vincenzi, che la manda?
— Naturalmente! Oh! chi vuole che sia?
E si diresse verso la porta dello studio. Quando fu con la mano sulla maniglia, si volse:
— È un soggetto quieto, almeno? — chiese con apprensione.
L'agente si strinse nelle spalle e dovette fare uno sforzo per non ridergli in faccia. Ma chi diavolo era quell'esserino pauroso? Il commissario lo aveva mandato a compiere un esame! Impedirgli di entrare? Sarebbe stato assumersi una responsabilità inutile. Si limitò a chiedere:
— Ma lei chi è, insomma?
Vladimiro, senza allontanarsi dalla porta, si sollevò sui tacchi e fissò l'agente con ineffabile stupore:
— Non mi conosce?... Gabinetto Scientifico!
E, voltatosi, girò la maniglia e aprì. Entrò quasi di balzo nello studio e richiuse la porta dietro di sé.
L'agente tornò ad adagiarsi in una poltrona.
Vladimiro esplorò tutto lo studio con una sola occhiata. Si teneva addossato ai battenti, con la destra nella tasca della giacca.
Lo studio era vuoto. La porta di fondo spalancata. Il barone doveva trovarsi nella sua camera o nel bagno.
L'omino riprese fiato. Si sentiva come un pugile pronto all'attacco, che non trovi più l'avversario davanti a sé. Ricondurre a posto i propri muscoli lanciati a vuoto non è un esercizio piacevole. E qualcuno afferma che sia debilitante. Sopratutto poi se i muscoli, come nel caso di Curti Bo', sono i nervi.
Adesso, strisciava lungo la parete, si avvicinava alla porta della camera da letto. Dal momento che gli era stato risparmiato il primo urto allo scoperto, poteva mutar piano. Cogliere il barone di sorpresa gli avrebbe procurato qualche vantaggio.
All'altezza del tavolo, di fianco al Cristo d'argento che lo sovrastava dallo zoccolo, si fermò un istante ad osservare. I cassetti del tavolo erano aperti. Parte delle carte che contenevano stavano ora divise e ordinate sul piano lucido. Un pacchetto di lettere era legato con un nastro nero.
L'omino ebbe un sorriso. Ricominciò ad avanzare verso la porta, muovendo i suoi passettini cautelosi sul tappeto soffice. Doveva sentir la mancanza del bastone lasciato nel salotto, perché agitava la destra, facendo girare a vuoto l'indice e il medio.
Si fermò ad ascoltare; ma dalla stanza vicina non veniva alcun rumore. Quando se ne fu assicurato, fece una smorfia e mosse più rapidamente verso la porta.
Stava per raggiungerla e si vide dinanzi il barone. Era comparso sulla soglia silenzioso e di colpo. Spianava una piccola rivoltella nera dinanzi a sé. Ma la vista dell'omino dovette sorprenderlo, perché mandò un leggero grido e abbassò il braccio.
— Voi!
— Chi altri aspettava, signor barone?
Anche a Vladimiro la sorpresa aveva procurato un sussulto; ma adesso si sentiva più sicuro, ché il timore di non trovar nessuno in quelle camere lo aveva sconvolto.
— Maledetto cretino!
C'era soltanto rabbia e dispetto nella voce. Il barone guardava l'intruso come avrebbe guardato un accattone insistente e fastidioso. A un tratto, un bagliore gli si accese negli occhi e fece un passo verso di lui.
— Ma insomma!... Chi siete, voi? E che cosa realmente volete da me?
Lo fissava, scrutandolo. Vladimiro sorrise.
— No, no... Completamente fuori di strada!... Non c'entro nulla, io, con tutta questa ridda di cadaveri!... Se ci sedessimo e parlassimo un poco tranquillamente? Sono venuto per questo!
Per tutta risposta, il barone avanzò ancora e lo afferrò per un braccio, scuotendolo con violenza.
— Una buona dose di legnate, ecco che cosa sono pronto a darvi! Così imparerete a occuparvi dei fatti degli altri!
E lo trascinava verso la porta del salotto.
L'omino si fece malmenare per qualche istante, poi agì con rapidità. Sparò due calci all'indietro negli stinchi del barone e si liberò dalla presa. Con una piroetta si trovò di fronte a Verbena.
— Imbecille! E le banche svizzere? Crede che la storia sia finita? La teosofia non serve a niente, se mi ci metto io!
Riprese fiato e si rassettò irosamente la giacca scomposta e quella sua cravatta cremisina.
Di sotto in su guardava il barone, che alle su parole si era fatto livido.
— È contento, adesso?... Le banche svizzere, sicuro!... È questo soltanto che mi interessa!... Ne vuole di più?... Senza contare che, forse, io solo posso salvarle la pelle!... Chi ha ammazzato i due fantini e la governante sa da che parte muoversi per popolare i cimiteri e io non darei due soldi della sua vita!
Il barone tremava.
— Ma chi siete? — balbettò.
— Ecco! Adesso, s'incomincia a ragionare...
Vide due poltrone accanto alla finestra e andò a sedere in una di esse.
— Venga qui, discorreremo con calma...
Ma il barone non fece in tempo a muoversi, ché nel salotto si sentì lo scoppio di una voce incollerita.
— Che sciocchezze sono queste!... Al diavolo la consegna e la polizia! Io sono l'allenatore e ho bisogno di parlare immediatamente col barone...
Allora Verbena assisté quanto di più strano avrebbe potuto immaginare.
L'omino, quasi con un sol balzo, dalla poltrona gli schizzò accanto e gli soffiò:
— Non dica per nessuna ragione ch'io sono qui!... Pensi ai denari svizzeri!... Segreto per segreto?
E di nuovo saltò fino alla porta del salotto e si cacciò dietro la tenda pesante.
Giusto a tempo: il battente si aprì e Fred Drake entrò deciso, dirigendosi verso Verbena.
— Hanno ammazzato anche Clark O' Brian!... È orribile?... La storia comincia a diventare troppo lugubre... Non ho nessuna intenzione di servire anche io da vittima! Sono venuto a dirvi che me ne vado!
Parlava con voce vibrante, in inglese, e non si era tolto il berretto dal capo.
Verbena lo guardò qualche istante, senza rispondere. Poi lentamente andò a sedere al tavolo. Lo sguardo gli si era fatto atono. Egli sembrava oramai insensibile a quanto accadeva.
— Avete capito? Evidentemente, c'è qualcuno che non vuole che la Vergine corra... Per quanto il metodo impiegato mi sembri troppo tragico, per credere che questo qualcuno voglia soltanto impedire la vittoria del cavallo... Ci deve essere qualche altra cosa sotto; ma io non ho nessuna voglia di conoscere a mie spese le intenzioni dell'assassino... E me ne vado. Questa sera stessa tornerò in Inghilterra!
Il barone lo fissava sempre. Volse un istante gli occhi alla tenda dietro cui si era nascosto l'omino, poi disse lentamente:
— Drake... Verità è scomparsa...
— Che cosa?!...
Aveva quasi gridato.
— Da ieri sera mia figlia è scomparsa... Forse, hanno ucciso anche lei! Non è con la Vergine che l'hanno... è con me!...
Un lungo silenzio seguì.
Fred Drake taceva, mordendosi i baffi. Con le palpebre semichiuse, le ciglia corrugate, fissava il barone.
— Drake, perché avete voluto chiamare Vergine la cavalla?
La domanda era stata fatta a voce bassa, rauca, carica di significato.
Rispose una breve risata stridente.
— Che c'entra? Poi con grande candore:
— È un nome!... Non darete adesso la colpa di tutto quello che accade ad un nome!...
— È un nome che porta sventura, Drake!
— Perché?
Un altro silenzio.
Poi il barone si alzò.
— È vero!... Voi non potete sapere...
— Che cosa? — la voce di Drake s'era fatta aggressiva. — Che cosa?... Se mi diceste una buona volta...
Si era avvicinato al tavolo e fissava il barone negli occhi, con intensità.
L'altro alzò le spalle.
— Volete che vi dica quel che non so?... Non vi ho detto che Verità è scomparsa?... Se avessi potuto prevederlo!...
Fece qualche passo per la camera. Poi si volse.
— Allora... ve ne andate?... Sapete che non è possibile. La polizia non lo permetterà. Fino a quando non abbiano arrestato l'assassino, nessuno di noi potrà andarsene!... È meglio che affrontiamo la situazione così com'è... Cercate un altro fantino... fate correre la... la Vergine... È tutto quello che possiamo fare!...
— Credete?
Si diresse verso la porta.
— Ci penserò. Ma vorrei ancora parlare con voi, stasera... Verrete alle scuderie?
— Sì, Drake, verrò.
L'allenatore uscì.
Il barone attese di averlo sentito traversare il salotto, poi corse al tavolo, frugò nel cassetto, riunì alcuni fogli, prese il pacchetto delle lettere, fece per avviarsi nella camera da letto.
Un pensiero improvviso lo fermò. Lasciò tutto sul tavolo e si diresse alla tenda.
La sollevò e mandò una sorda bestemmia. L'omino era scomparso.
Capitolo XXII
Coincidenze
Nella città, le pendole, gli orologi, le sveglie, i cronometri, i rari cucù segnarono, sia pure con qualche minuto di differenza la ventiquattresima ora del giorno.
La domenica 13 giugno era trascorsa.
Le lettere del «morto di trent'anni addietro» avevano mentito. Il barone Verbena del Santo viveva ancora. Tre cadaveri riposavano dentro le casse di piombo chiusi nel frigorifero dell'Obitorio a 12 centigradi sotto zero; ma non il suo.
Tre corpi senza più vita, visibili, tangibili, che non erano un mistero anche se racchiudevano il terribile mistero della morte e l'altro assai meno pauroso della ragione e della causa materiale che li aveva fatti trapassare.
Ma un quarto corpo si era volatizzato.
La scomparsa di Verità rimaneva inspiegabile.
Questo era il mistero.
E poi se ne addensavano altri. Minori, forse. Ma insistenti, fastidiosi. Che ronzavano come mosche azzurre attorno ai tre cadaveri.
L'onnipresenza saltabeccante dell'omino dall'abito tortora e dalla cravatta cremisina era uno di questi.
De Vincenzi, chiuso nella sua squallida stanza di San Fedele, col paralume della lampada tutto abbassato, non vedendo dinanzi a sé che il cerchio vivido della luce sul tavolo, pensava appunto all'omino, più che agli altri.
Forse, colui avrebbe potuto dargli la chiave dell'enigma.
Lui stesso era un enigma, in ogni modo.
Se almeno avesse potuto ricordare dove lo aveva incontrato, prima che a Trenno, quel giorno che passeggiava su per i muri!
Quel giorno? Il giorno prima. Sì, il sabato. E la domenica era chiusa e cominciava col lunedì un'altra settimana.
De Vincenzi prese una matita e cominciò a scrivere sopra un foglio:
«Perché hanno ucciso Perry Hodburn?
«Perché hanno ucciso Clark O' Brian?
«Perché hanno ucciso Virginia Carey?
«Perché Fred Drake ha chiamato Vergine la cavalla?
«Perché si son trovate tracce di una candela?
«Perché Verità è scomparsa?
Il gioco dei perché!
Poi sarebbe venuto quello dei come.
Avrebbe potuto far anche quello dei quando.
«Quando avrebbero ucciso il barone Verbena del Santo?»
S'era fermato con la matita in mano. La posò. Prese il ricevitore del telefono.
— Chiamami il palazzo Verbena.
Il barone aveva chiuso la valigia. Una piccola valigia di cuoio giallo. Aveva girato la chiavetta nelle serrature e se la stava mettendo nel taschino.
In quel momento le due sfere della pendola sul caminetto si sovrapposero e segnarono le 12. Poiché la pendola cominciò a battere i colpi, egli si volse a guardarla.
Sorrise. Ma era un po' una smorfia quel sorriso.
Fece qualche passo per lo studio. Si fermò davanti al Cristo d'avorio.
No! Non doveva pensare al passato. Non c'era alcuna ragione ch'egli pensasse al passato. Tre persone erano state uccise nello spazio di due giorni. Ma questo era il presente.
Avrebbe voluto sopprimere anche il presente; ma non poteva. Non poteva, perché Verità era scomparsa. Era soltanto scomparsa. Se Verità non fosse scomparsa anche se fosse morta — egli avrebbe potuto partire, lasciando il passato dietro di sé, per sempre. Lo aveva fatto un'altra volta: era partito e man mano che si era allontanato aveva sentito spezzarsi i legami e se stesso diventare libero. Spazio e tempo. Egli li aveva sempre concepiti materiali. Un tratto di mondo da percorrere. Un tratto di ore, allineate, da far cadere, una dopo l'altra, come i numeretti d'un segnalatore, che abbattuti divengono neri, scompaiono. Tic... tic... tic... e le ore muoiono.
Sogghignò alla parola. I morti non tornano. Le anime non sopravvivono al corpo. Così le ore. Una volta trascorse, non ritornano. Perché dovrebbe rimanere il ricordo di esse?
Guardò la valigia.
Ebbene, anche se Verità era scomparsa, anche se ella poteva ricomparire, sarebbe partito.
Aveva preparato questa sua partenza da mesi e mesi. Era il 13 giugno che aveva fissato. Le lettere non dicevano forse che il 13 giugno si compivano i trent'anni? Tutti avrebbero creduto che la vendetta lo avesse raggiunto... Quale vendetta?
Rise, questa volta; ma la risata gli si spezzò in un singhiozzo.
Strinse i pugni.
Matthew Scott era caduto schiantato come una femminuccia!
Avevano ucciso Virginia Carey nella sua camera, mentre anche lei si preparava a fuggire...
Questa uccisione della vecchia non la capiva. Così la scomparsa di Verità. Per questo aveva fatto trascorrere la domenica, senza mettere in atto il suo proposito.
Avrebbe voluto che Verità fosse tornata. Non arrischiava forse tutto, lasciando dietro di sé sua figlia?
Era l'unica che sapeva!
L'unica?
Il volto contratto, lo sguardo duro, le labbra serrate fino a scomparire e a segnare da una guancia all'altra una linea diritta come un taglio, il barone guardò la tenda pesante, che copriva la porta di comunicazione col salotto.
L'omuncolo! Le banche svizzere. Chi era quella specie di nano e come poteva sapere?... Certo una imprudenza di Swan La prima volta non gli si era forse presentato come inviato dall'Imperatore?
Bestemmiò a bassa voce, fra i denti, e fece qualche passo agitato per la stanza.
In quel momento il telefono trillò.
Verbena ebbe un sussulto e fissò qualche istante l'apparecchio, sul piccolo tavolo, nell'angolo, prima di comprendere che cosa significasse quel suono. Finalmente, si avvicinò al telefono e afferrò il ricevitore.
— Sono io!... Ma no!... Assolutamente nulla...
— ...
— … Se lei proprio lo vuole!... Ma le faccio osservare che è passata la mezzanotte...
— …
— Rimandiamo il colloquio a domattina... Quel che è avvenuto la notte scorsa ha messo a dura prova i miei nervi...
— …
— Oh, appunto per ciò! Occorre ritrovare Verità. Commissario!
— …
— Naturalmente! Sì, lo immaginavo e la ringrazio... Quattro uomini, ha detto? Oh! non credo che tenteranno nulla contro di me... almeno questa notte!...
— ...
— Più che mai, commissario... Sia certo che non do alcuna importanza a quelle lettere!...
Rise nel microfono e depose il ricevitore.
Bestemmiò ancora.
Quattro uomini sorvegliavano la casa!
Se almeno Matthew Scott avesse avuto la forza di aiutarlo... Ma no!... Era impossibile partire in quelle condizioni...
La sua fuga avrebbe avuto il solo effetto di farlo arrestare alla frontiera. E allora...
Riprese a camminare. Parlava da solo a voce alta. Ogni suo periodo era punteggiato da una bestemmia o da una parolaccia, genere gangster. Quando si dimenticava, il barone ritrovava il gergo di Cisco e delle isole.
Andò al tavolo e premette il bottone di un campanello. Poi sollevò il dito e attese qualche secondo per premere di nuovo, a intermittenza.
Il suono trillò in alto, al secondo piano, nella camera di Matteo.
Il vecchio doveva attendere quel segnale, perché stava seduto sul letto. Al primo trillo si drizzò sulle gambe, che lo reggevano malamente. Si accomodò la parrucca rossigna, tirandosela dietro le orecchie e alla fronte.
Quando camminò, sembrava ubriaco. Ma già nel corridoio si sentiva più solido e procedeva diritto. Era ancora tutto vestito di nero. Durante il suo malore nessuno aveva pensato a svestirlo e lui meno degli altri. Era troppo occupato a non parlare.
Il barone lo lasciò qualche minuto in piedi in mezzo allo studio. L'aveva guardato e si era rimesso ad agitarsi su e giù, come una belva in gabbia.
Il vecchio finì col mettersi a sedere.
— Hai incontrato qualcuno per le scale?
Matteo fece di no con la testa.
— Ci sono quattro agenti a sorvegliare il palazzo! Hanno paura che uccidano anche me!
E sogghignò. Il vecchio ebbe un brivido.
— Anche tu hai paura!
Il volto di Matteo era cadaverico. La parrucca gli stava di traverso.
— Ma non possiamo andarcene! Adesso, è impossibile. L'ho detto anche a Fred Drake..
— Come?! — aveva sussultato.
— Non sono un cretino e non bevo!...
L'idea del bere lo fece pensare al guardaportone.
— Che fa Antonio?
— Io sono rimasto sempre nella mia camera...
— Già. Lo avranno interrogato... Avrà detto che eri stato tu a farlo bere...
Alzò le spalle.
— A Fred Drake ho consigliato di far correre la Vergine domenica... Dopo il Gran Premio può darsi ci lascino un po' di respiro... In ogni modo ce ne andremo...
— Miss Verità?... E perché Virginia?... Chi?... Chi?... — aveva la voce tremante.
— Se lo sapessi?... — ruggì il barone.
Ricominciò a passeggiare.
Vide la valigetta gialla e andò a prenderla. La cassaforte era contro la parete di fondo, in un mobile di mogano. Ve la rinchiuse. Lo scatto secco dello sportello diede un altro sussulto a Matteo.
— Non c'è da far altro che aspettare... S'era seduto al tavolo. Tamburellava con le dita sul legno.
— C'è da fare anche un'altra cosa... Se Drake trova un fantino che valga Hodburn, la... cavalla partirà a un quarto e le quote degli altri saranno alte... Si lisciò il pizzetto grigio e si passò la mano sulle guance e sulla fronte. Appariva calmo, adesso. L'idea che aveva avuta gli sorrideva.
Matteo mormorò:
— Bisogna arrivarci vivi a domenica!...
Ma il barone aveva preso un foglio di carta e aveva cominciato ad allineare cifre.
Capitolo XXIII
Notturnino
Da «Fulgenzio» l'una di notte poteva dirsi l'ora del gran lavoro.
Il locale era pieno come un uovo. E ancora la trita similitudine non rendeva la realtà. I consumatori notturni straripavano dalle porte sul marciapiede dove i tavoli erano tutti occupati, sotto le lampade a palloncino gialle e rosse.
Tutto attorno una doppia fila di auto e di tassi. Anche qualche carrozzella preistorica, col brumista in berretto a visiera e naso fiorito.
Dentro, la gente beveva e mangiava. Qualcuno si muoveva tenendo il piatto degli spaghetti sotto il mento.
Nella seconda sala funzionavano i biliardini a buche, coi premi da lotteria di beneficenza.
Una fanciulletta trentenne, oltraggiosamente dipinta, spingeva le palle verso i giocatori e contava i punti delle buche. Aveva il naso incredibilmente sottile e lungo e gli occhi di velluto.
I giovanotti coi pantaloni larghi e la giacca attillata alle anche si mescolavano alle donnine dalle sottane strette, corte al ginocchio o spaccate ai lati.
I clienti di «Fulgenzio» erano nottivaghi e ognuno per suo conto faceva macchia. Il quadro era ricco di toni accesi e d'imprevisto. Poteva recar la firma di Zuloaga.
Talvolta, l'irruzione del pattuglione, che arrivava silenzioso sulle biciclette o col rumore a scoppi del camion, turbava quell'atmosfera fumosa, carica, del vapore pesante delle marmitte che bollivano sotto l'occhio dei clienti, sorvegliate da una matrona dalla carne bianca e gelatinosa, che sembrava uscita anche lei ancora umida da una di quelle marmitte.
Quella notte, alla una, Vladimiro entrò da «Fulgenzio».
L'omino fendette la ressa, tenendo il bastone davanti a sé.
Coloro che lo notavano, rimanevano con la bocca aperta e gli occhi spalancati a contemplare i fenomeno. A qualcuno la sorpresa faceva andare tutto per traverso. Le donne prima mandavano un oh! e poi si passavano le palme sulle anche, e sull'alto delle cosce, quasi si preparassero a prenderlo tra le mani per avvicinarselo al viso e guardarselo meglio.
Lui passava diritto, col cappello all'indietro, il volto da faina che sorrideva, gli occhietti lucidi.
Arrivò al banco e ordinò con voce acuta un caffè. Poi cambiò idea e chiese un marsalino. Mentre il cameriere stava per versarglielo, gli fermò la bottiglia con la punta del bastone e volle un'amarena al frutto. Gli si era fatto attorno un cerchio. Nella sala le conversazioni si erano arrestate.
L'omino sorbiva con delizia il liquido violaceo. Quando il bicchiere fu vuoto, si fece saltare in bocca le ciliegine. Sembrava non veder nessuno attorno a sé e non sarebbe stato più calmo e indifferente, se si fosse trovato solo nel locale.
Un paio di giovanotti appoggiati al banco della cassa chiesero alla padrona se lo conosceva. Ridevano e motteggiavano a voce bassa. La donna si tolse dalla sua immobilità d'idolo, agitò la testa aureolata da una corona di riccioli neri, corrugò le ciglia diritte e sottili, strinse le labbra rosse. Poi picchiò con le dita inanellate sul banco. Aveva una testa da statua greca ed era di una bellezza matura e possente.
— È un cavaliere — disse una voce stranamente arrochita, che non sembrava sua, una voce volgare, mentre lei era di una nobiltà da museo. — Dev'essere impiegato al Municipio...
Vladimiro aveva finito di succhiare le ciliegine e s'era messo a lanciare gli ossi in aria. Lo faceva con gravità da diplomatico.
— Quello lì è uscito in permesso da Mombello!3 — fece un giovanotto.
— È un numero del Luna Park... — trillò una donna. — Vedrete che adesso si produce e poi fa il giro col piattino...
Un individuo alto e grosso, che fino allora non aveva fatto che mangiar wursten, si allontanò dalle marmitte e avanzò diritto verso l'omino. Aveva il volto tondo, col naso a pallottola troppo piccolo e le guance che sembravano gonfiate per burla.
— Mi scusi! Lei porta una cravatta davvero straordinaria!... Nessun altro la porta come la sua! ...
— Perché lo fa?
C'era molta serietà nella voce dell'individuo e una grande cortesia.
Vladimiro si volse, come morso da un aspide.
Attorno la gente teneva il fiato. Lo spettacolo era di quelli che si pagano.
— E perché non dovrei farlo? — gridò l'omino con un acuto da soprano.
— Oh! le ragioni per non farlo sono infinite... rispose con gravità il giovanottone, facendosi ancor più serio, quasi discutesse un problema vitale. — Mentre io non ne vedo una sola per portarla...
Vladimiro si toccò il nodo della cravatta cremisina, come se avesse voluto assicurarsi che c'era sempre.
— Una pennellata di colore... — mormorò con compiacenza. — Può servire a rompere la monotonia della vita...
Trasse una moneta dal taschino e andò a deporla sul banco, davanti all'idolo. Poi si volse al giovanotto.
— A chi veglia tutto si rivela!... Buona notte!
— Un momento! — fece l'altro, mettendoglisi accanto. — Non vuoi dirmelo il perché di codesta sua stranezza?...
Uscirono assieme; l'omino avanti e il giovanotto che scostava le persone, per stargli al fianco.
Tutti li guardavano, non sapendo come sarebbe andata a finire. Anche il giovanottone doveva essere un po' tocco o aveva bevuto. Li videro scendere dal marciapiede e avviarsi in mezzo al quadrivio.
Vladimiro attese d'esser lontano dalla gente e poi sussurrò:
— Hai trovato? — Era facile!... Bastava non perdere la filatura... Via Guercino... è la prima traversa a destra di via Bramante... numero 22... C'è un cancello e poi un cortile... È una casetta bassa...
L'omino si toccò il cappello e fece:
— A rivederla!
Poi si allontanò rapido, agitando il bastone per far segno a un tassi che passava. Saltò nella macchina, che ripartì in direzione di Corso Buenos Aires.
Il giovanottone tornò sorridendo verso il caffè e, senza rispondere alle domande dei curiosi, riprese a mangiar wursten.
L'oscurità di via Guercino era rotta da tre lampade a filamento di carbone, che mandavano una luce rossa.
A mezza via, sulla destra, la linea delle case si spezzava. O, per essere precisi, essa continuava con un muricciolo basso, che reggeva un'inferriata. In mezzo il cancelletto per entrare. Si vedeva qualche metro di vuoto e poi una casetta a due piani, che a quel modo si teneva dietro le altre, quasi avesse voluto nascondersi.
L'omino tentò il cancello. Era chiuso, ma vide che ad aprirlo bastava cacciar la mano tra i ferri e far girare la maniglia interna. Fu precisamente quello che fece. Il cancelletto si aprì senza molto rumore. Arrugginito, ma non troppo.
Il cortiletto, lungo in larghezza e stretto in profondità, aveva un tappeto di erbacce, che coprivano le pietre.
Tre gradini conducevano al portoncino.
Tutte le finestre chiuse e senza luce.
L'omino si fermò. Contemplò la facciata. Si volse a guardare la strada. Deserta, certo, e lo sarebbe stata fino all'alba. Ma c'era poco da fare... A meno che... Per un rischio, era un rischio!... Un proiettile di rivoltella è di difficile digestione. Anche una coltellata in pieno petto o tra le scapole. Di solito uno rimane dove si trova e vengono gli altri a portarlo via. Ma questa, in fondo, poteva esser la ragione per la quale l'abitatore della casetta ci avrebbe pensato due volte prima di spedirlo al Creatore. Un cadavere — anche di un metro e cinquanta come il suo — è sempre ingombrante.
Vladimiro, ricevuta l'indicazione dal suo informatore, si era precipitato fin lì, senza un programma ben chiaro. Avrebbe veduto e si sarebbe regolato. Adesso si rendeva conto che c'era ben poco da vedere.
Da via Bramante vennero i canti di una compagnia di avvinazzati, che avevano celebrato la domenica. Le voci roche si perdettero giù per la piazza Lega Lombarda, verso l'Arena.
Fu di nuovo il silenzio.
L'omino non s'era mosso. Sembrava inchiodato alla terra. Soltanto il capo gli girava lentamente dalla facciata al cancello e dal cancello alla facciata.
L'orologio della chiesa di via Giannone batté due colpi. Allora, egli si scosse. Passò il bastone di mano e con la destra libera si aggiustò il cappello sulla fronte. Poi recò la mano alla tasca posteriore dei pantaloni e avanzò diritto verso la porta della casetta.
Salì i tre gradini e avvicinò gli occhi alla serratura. L'esame lo dovette soddisfare, perché emise un leggero tortoreggiamento gorgogliante. Quindi estrasse la mano dalla tasca e con essa un mazzetto di grimaldelli. Non ne provò che due e col terzo fece scattare la molla. La porta si aprì.
Entrò con un saltino rapido e spinse il battente dietro di se, accostandolo, in modo che dal di fuori la porta sembrasse chiusa.
Si trovava nell'oscurità e vi rimase per qualche istante.
Respirava rapido, cercando di soffocare il rumore. Il cuore gli batteva a martello.
È la paura! disse dentro di sé. Si può essere coraggiosi e aver paura...
Cominciò a contare: uno, due, tre... Sapeva che quella ginnastica riesce quasi sempre a mettere al passo il cervello. Arrivò fino a sessanta. Il cuore gli batteva più lentamente. Soltanto, lui sudava. Il caldo lì dentro era asfissiante.
Accese la lampadina che aveva estratta dalla tasca della giacca. L'ispezione fu rapida. Vide un ingresso quadrato, con pochi mobili e davanti a sé la scala stretta. Spense la lampadina e, nell'oscurità, procedette a una curiosa operazione. Per compierla s'era seduto in terra e si era tolto il cappello.
Quando si rialzò, chi avesse potuto vederlo lo avrebbe preso per un curioso animale vestito da uomo. Il volto gli era diventato una specie di muso cilindriforme.
In realtà, egli non aveva fatto che mettersi una maschera antigas.
Non sarà con la candela che tu riuscirai a farmela! pensava. Dentro la maschera rideva, sentenziando: dove manca l'inganno, finisce il danno!
Accese di nuovo la lampadina e cominciò a salire la scala. Si muoveva con sicurezza, senza far rumore, leggero e veloce.
Nel corridoio del primo piano trovò tre porte chiuse. La scala riprendeva a qualche metro di distanza, in senso inverso, per salire al secondo piano.
Vattelapesca! Era nel soliloquio muto, tanto eloquente e colorito, quanto lo era nel suo eloquio abituale. E, sempre mentalmente, sospirò. Che fatica guadagnarsi di che vivere in vecchiaia!
Si avvicinò, una dopo l'altra, alle tre porte, ascoltando a ognuna con l'orecchio contro il legno. Non sentì nulla. Il battito del proprio cuore e null'altro. Se ci fosse stato qualcuno, in quelle camere, se ne sarebbe percepito per lo meno il respiro.
Adesso, si trattava di salire al secondo piano.
Il chiodo penetra! A levarlo ti voglio!
Ma fece con eguale rapidità la seconda rampa.
Anche qui tre porte. La casa era quale la sua facciata faceva immaginare: piccola e simmetrica.
Alla seconda porta, sentì un respiro. Forte, regolare, pesante.
È un uomo. Soltanto un uomo maturo e di complessione robusta dormendo respira a questo modo.
Passò alla terza porta. Qui la respirazione che udiva era intermittente. Debole e stranamente simile a un lamento, in certi momenti; si faceva poi affrettata, ansimante, spezzata.
Si sollevò. Con la lampadina rivolta verso la serratura, guardò attentamente. La chiave si trovava nella toppa, all'esterno. Si tolse un foglio di carta dalla tasca e lo passò di taglio nell'interstizio. II foglio prima poté scorrere e poi si fermò, trattenuto da un impedimento. La serratura era chiusa a chiave.
Lodevole precauzione. Ma egli teme soltanto che la persona che c'è dentro possa fuggire. Non pensa neppure che possano venire dal di fuori a liberarla.
Si allontanò dalla porta. Rifece il corridoio, ridiscese le due rampe.
Più nulla da fare qui, per ora! Meglio tagliar la corda e di corsa. Intanto si toglieva la maschera.
Richiuse la porta d'ingresso col grimaldello. Così nessuna traccia della mia visitina. Traversò il cortiletto dalle male erbe e si trovò fuori del cancello.
Quando voltò per via Bramante, prese a zufolare la sua aria favorita. O capitan, c'è un uomo in mezzo al mare!...
Si trattava appunto d'impedire che il naufrago, fosse costretto a bere tutta l'acqua!
Compito severo, concluse, compito maledettamente severo!
Capitolo XXIV
Cy H
Il guardaportone azzurro e oro stava di nuovo al suo posto, sotto la protezione delle sei cariatidi monumentali.
Era mattina.
Egli aveva strappato irosamente il foglio del grande calendario appeso alla parete della portineria, dietro il tavolo. Due notti e un giorno perduti a dormire! Aveva guardato sul foglio l'enorme 13 rosso. Tutte le domeniche di quel calendario avevano il numero in rosso. Adesso, si vedeva un 14 nero. Lunedì. Ancora cinque numeri neri da strappare, prima di arrivare a un altro numero rosso.
Antonio aveva i baffi dignitosamente arricciati; ma i suoi occhi erano gonfi e torbidi. Non si smaltisce facilmente una buona dose di sonnifero. Lui credeva ancora però che fosse stato il vino bianco di Matteo a fargli quell'effetto. Doveva averne bevuto almeno un fiasco!
Che cosa gli avrebbe detto il padrone? Purché si fosse limitato soltanto a dire!
L'Isotta-Fraschini carrozzata a spider comparve dal fondo della piazza e venne a fermarsi davanti al portone.
L'autista fece un cenno di saluto.
Antonio s'era sentito mancare.
— A quest'ora?!
— Mi ha telefonato di venir subito...
Il barone usciva alle otto del mattino!
Attese che comparisse col cuore in gola. Adesso sì, che la tempesta sarebbe scoppiata! Covare una sbornia per trentasei ore!
Ma il barone traversò l'atrio e salì in auto, senza guardarlo neppure.
— A Trenno — ordinò.
L'auto scomparve.
Antonio mandò un sospiro di sollievo.
I due agenti inviati da De Vincenzi a sorvegliare il palazzo — avevano dato il cambio ai quattro della notte — guardarono la macchina allontanarsi e si consultarono con agitazione.
Ciccì! famme 'o piacere, si chisto esce int' automobili, dimme tu comme facimme nuie a farle 'a surveglianza?!
Era impossibile, infatti, che potessero fargli 'a surveglianza, seguendo l'auto a piedi.
Dalla scuderia di Trenno il cadavere del secondo fantino se ne era andato in lettiga, con gli onori del fischio della sirena, come il primo.
Le due camerette avevano le porte sulla passerella chiuse e suggellate.
Gli uomini di scuderia e i fantini erano tornati ad accudire alle mansioni abituali.
Soltanto, ancora un po' sconvolti, quando traversavano il primo cortile, evitavano di guardare in alto, verso i locali accessori. In loro era lo spavento che la serie dei morti continuasse e che ognuno d'essi fosse marcato con un numero d'ordine.
Alle sette avevano veduto arrivare Fred Drake.
Straordinario! Da che lo conoscevano era la prima volta che si mostrava a quell'ora. Neppure nelle giornate di gran premio!
In compenso aveva un umore esecrabile. Gli ordini avevano esploso come schioppettate. Pulizia a tutti i boxes! Verifica del frumento, dell'avena e della biada! E alle 10 in punto i cavalli al paddock! La Vergine aveva bisogno di una settimana bene impiegata, se doveva correre il Gran Premio.
Avrebbe assistito lui al lavoro!
Poi si era rinchiuso nel suo ufficio, a cui naturalmente nessuno aveva osato avvicinarsi.
Recidivo nell'insonnia, Curti Bo' saltò dal letto all'alba. Col suo pigiamino scozzese, dove tutti i colori dell'iride s'eran dati convegno, egli prima di procedere alla toletta, rimase lungamente alla finestra, a guardare il quadrivio.
Quando si tolse dalla contemplazione meditativa, concluse a voce alta:
— Giornata carica! Oggi il mio passivo aumenterà!...
E sedette al tavolo ad allineare cifre sul quadernino delle spese quotidiane.
Sospirava. Chiuse il quaderno e si alzò. Erano quasi le otto. Occorreva far presto.
Il suo pensiero ebbe una deviazione e l'omino sorrise.
— Simpatico commissario! Meriterebbe che io andassi da lui e gli dicessi: eccomi qui! sono pronto a raccontarle molte cose e anche a dirle dove potrebbe trovare miss Verity... Sì, lui lo meriterebbe, ma io non lo farò! È troppo presto. Mi rovinerei. Sarebbe la miseria più nera per Vladimiro Curti Bo'...
Cominciò le abluzioni e i massaggi. Ma quando si gettò a terra per le flessioni, ridusse i movimenti appena a diciotto: il tempo incalzava.
Per andare da casa sua a via Andrea del Sarto, non prese alcun mezzo di locomozione. Camminava veloce, con quella sua cadenza ritmata al ragtime, come se si accompagnasse all'aria di un fox trott.
Il caldo era già soffocante, alle nove del mattino, ma lui sembrava non sentirlo.
Giunse davanti all'Istituto Farmacologico, e fece quasi di corsa i pochi gradini. La porta a vetri si aprì, l'infermiere lo condusse, attraverso il giardino e la terrazza, nei corridoi del padiglione. Il professore lo ricevette con un grugnito.
— Lei?!
Era alto, magro, curvo alle spalle a cagione della sua altezza eccessiva, che il camice bianco interminabile rendeva ancor più apparente.
Vladimiro, quando gli fu vicino, sembrò una bertuccia, che stesse per dar la scalata a un palo.
— Io, di nuovo! Mi perdoni...
Si guardava attorno. Vide un tavolo e una seggiola. Saltò prima sulla seggiola, poi sul tavolo e fu all'altezza del volto del professore.
— Così, è meglio, no? Siamo allo stesso piano!
Il professore sorrise.
L'omino s'era levato il cappello.
— Che cosa vuole, insomma?
— Ricorda la mia visita di ieri?
— Crede che sia facile dimenticarsi di lei?
— Ma io accennavo allo scopo della mia visita...
— Vada avanti!...
— Ieri io le parlai di C10 H14, N2...
— Ricordo...
— E di C17, H25 NO3...
— Ebbene?
— Lei mi escluse che, mescolati alla cera, potessero riuscire letali o per lo meno letargici, quando la cera si fosse consumata per combustione...
— Ma sicuro! Né la nicotina, né l'atropina...
Vladimiro sollevò le mani e con esse bastone e cappello.
— Crede che io voglia e possa discutere con lei di tali questioni! Lei è il Vangelo in fatto di veleni e io non sono né ateo... né imbecille!... Siamo d'accordo: il mio quesito non reggeva... Ma, adesso, gliene pongo un altro. Se alla cera di una candela fosse stato mescolato in fortissima dose il Cy H?
Il professore ebbe un sussulto.
— Ma vuol spiegarmi...
— Mi perdoni! Può darsi che io voglia commettere un omicidio con tale mezzo... e, in tal caso, lei sarà il primo a rivelare questo nostro colloquio e a farmi arrestare e condannare...
Sorrise.
— Dovranno mettere tutti scelti tiratori nel plotone di esecuzione, tanto il bersaglio è piccolo!... Ma fin quando io non abbia dato corpo al mio progetto, non c'è materia di condanna, le pare? E neppure di timore per suo conto!... Io mi istruisco... Farmi una coltura tossicologica è sempre stato il mio sogno... Sia cortese e mi aiuti! Le pare che con il Cy H mescolato alla cera si possa far prima cadere in letargo un uomo e poi ucciderlo?
Il professore rimase per qualche istante a fissare l'omuncolo ritto sul tavolo. Poi alzò le spalle e si diresse a una scansia. Prese un grosso volume rilegato e lo depose davanti a sé, sulla tavoletta della scansia. Lo aprì; lo sfogliò; lesse scorrendo un paio di pagine.
Poi si volse.
— Sì, è possibile!... L'inalazione dei vapori dell'acido prussico produce fenomeni gravissimi, spesso mortali... È a uno di questi terribili accidenti che viene attribuita la morte del celebre chimico Schéele... — Avvicinò il libro agli occhi e lesse: — «Nel caso osservato da Regnault si trattava di uno studente che fu in punto di morte per aver respirato dei vapori, che sfuggivano da un vaso in cui era stato preparato acido prussico. Questo giovane restò parecchie ore in un coma quasi assoluto...»
L'omino si cacciò il cappello in testa e batté le mani.
— Coma assoluto?... Insensibilità!... Apparenza di morte!... Grazie, professore.
Con un solo salto, senza valersi della seggiola, balzò a terra.
— È quel che mi occorre?... Grazie!
Rapido, si avvicinò al professore, afferrò il volume che questi aveva tra le mani e ne lesse il titolo impresso sul dorso.
— Tardieu... Étude medico-legale sur l'empoisonnement... Bene!... A rivederla!
Il professore continuava a guardare alla porta e già da qualche minuto Vladimiro Curti Bo' era scomparso.
Capitolo XXV
Corruzione
Il direttore del Piccolo Credito prese il biglietto di visita, che gli porgeva il commesso e lesse il nome: Vladimiro Curti Bo'.
Fece un gesto d'indifferenza e restituì il biglietto al commesso.
— Fatelo ricevere dal cavalier Bianchini... — Ha insistito per esser ricevuto da lei, commendatore... Dice che non vuol parlare con altri!...
— Ma perché?... Non sono forse libero di ricevere soltanto chi voglio? Andate!
Il commesso si avviò alla porta. Ma non l'aveva raggiunta che essa si aprì. L'omino da lui lasciato in anticamera avanzava sorridente, il cappello duro stretto contro il petto, il bastone dal manico di osso sotto il braccio.
— Chiedo scusa?... Ho immaginato ch'ella volesse vedermi, prima di ricevermi... Nulla meglio di un esame diretto può consentire il giudizio esatto... Eccomi qui...
Il direttore era un uomo tutto nervi, dalla folta capigliatura grigia sempre scomposta, dallo sguardo vacillante dietro gli occhiali d'oro.
Al vedersi comparire davanti a quel modo un intruso fu preso da un accesso di collera furibonda.
Si alzò in piedi di balzo e con le mani puntate sul tavolo volle gridare tutta la sua indignazione; ma riuscì ad emettere soltanto qualche suono inarticolato e poi fu preso da un violento accesso di tosse. Rosso in volto, con gli occhi pieni di lacrime, si scuoteva a sussulti, tenendosi la gola con la mano.
— Presto! Un bicchier d'acqua!... Si muova, lei! Vladimiro investiva il commesso, che era rimasto interdetto, vera immagine della perplessità.
— Ma non vede che soffoca!... Attacchi di tal genere sono pericolosissimi!
Vide una bottiglia d'acqua e un bicchiere sopra un tavolo, dietro la scrivania del direttore, e si precipitò a riempire il bicchiere. Si avvicinò all'uomo che tossiva e che era ricaduto a sedere e gli batté la mano sulla schiena.
— Beva! Beva!... A piccoli sorsi... Così...
Il direttore bevve, sembrò calmarsi, si tolse gli occhiali e si asciugò gli occhi col fazzoletto. Ansava sempre.
— Ora è passato!... constatò con soddisfazione Vladimiro e, preso il bicchiere vuoto dalla scrivania, andò a riportarlo al suo posto.
Tranquillamente, tornò indietro e sedette di fronte al direttore.
— Tosse nervosa!... Nulla di grave... Anche i bambini vanno facilmente soggetti a simili attacchi... Mia madre mi diceva: guarda in alto!
Aveva deposto il cappello e il bastone sopra una altra seggiola, accanto a sé. Guardava il direttore che a poco a poco si rimetteva, riprendeva a respirare regolarmente, e con piccoli cenni del capo approvava.
— Ecco!... Tutto è passato... Oh! non si preoccupi di me! Parleremo quando lei vorrà....
Si volse e vide il commesso sempre fermo in mezzo alla stanza. Lo fulminò con una occhiata. — Non c'è bisogno di altro!
Il commesso, in preda a uno stupore senza limiti, retrocesse fino alla porta e poi scomparve.
Il direttore s'era rimesso gli occhiali. Mandò un gran sospiro e poi contemplò l'omino, come se lo avesse veduto soltanto allora. Gli occhi gli si spalancarono. Batté un pugno sul tavolo.
— Ma perdio!
— No!... Vuol farsi prendere da un altro accesso?...
— Insomma! Ha una bella faccia tosta, lei! Mi vuol dire chi è e che cosa vuole?
— Son qui per questo!... Mi chiamo Curti Bo'... in due parole: Curti Bo'... Non le hanno dato il mio biglietto? E in quanto a volere, io non desidero che una informazione... Ma è di grande importanza... delicatissima... di quelle che in una banca possono dare soltanto i direttori... Lei, cioè!
— Ah, sì? E lei crede che io sia disposto...
La mano di Vladimiro si levò, per interromperlo.
— Aspetti!... Mi ascolti... Io credo appunto che lei sarà disposto a farlo, quando avrà dato un'occhiata a questo foglio...
Trasse dalla tasca interna della giacca un foglio di grande formato, piegato in quattro, e lo tese aperto dinanzi agli occhi del direttore. Questi lo afferrò e si mise a leggerlo. A mano a mano che andava avanti nella lettura, sul suo volto l'irritazione lasciava il posto a una concentrazione preoccupata.
Terminato che ebbe, lo rilesse. Quindi lentamente lo ripiegò e lo porse all'omino.
— Ebbene? Che cosa vuol sapere?
— Lei ha letto il nome... Ha depositi nella sua banca, quel signore, vero?
L'altro non disse né di sì, né di no. Aspettava.
— Proprio così!... Io ho bisogno di conoscere i prelievi fatti in questi ultimi tempi... diciamo da sei mesi a questa parte... gli eventuali versamenti compiuti, ma dubito che ve ne siano stati... Tutto il movimento, insomma, del deposito intestato a quel nome... con le date...
— Null'altro? — fece il direttore sarcasticamente.
— Compito ingrato! — sospirò Vladimiro. — Intendo dire il mio...
— E se io le chiedessi un'ordinanza del giudice, per fornirle tali informazioni assolutamente segrete?
— Oh certo! Lei potrebbe chiedermela!... Ma mi farebbe perdere un tempo prezioso... tanto più prezioso per quanto le sue informazioni potrebbero giungermi a uomo morto!. Capisce? A uomo morto!
— Non capisco che cosa voglia dire! — esclamò il direttore, con molta dignità. Aveva ritrovato tutta la sua freddezza e un'ombra di malignità vendicativa gli brillava nello sguardo.
— C'è una tragedia in corso... Cerchi di capirmi... Una tragedia di quelle di un tempo con un paio di morti a ogni atto... Può darsi che uno di tali morti sia proprio quella persona nominata nel foglio che lei ha letto... se io non arrivo in tempo... Vede che non le canto la canzoncina del dover civile... il dovere che ogni cittadino ha di contribuire alla tutela dell'erario... e non le suono neppure l'arietta del sentimento...
— Comincio a credere che lei sia pazzo! Il caldo può anche fare questo effetto!
Per la prima volta l'omino apparve interdetto.
— Dunque, lei non è disposto a...
— Io sono disposto soltanto a farla gettare fuori della banca, se lei non se ne va all'istante... — e tese la mano verso i bottoni dei campanelli.
Vladimiro discese dalla seggiola. Afferrò il cappello e il bastone e fece qualche passo verso la porta.
Si fermò di colpo e si volse.
— Lei ha un pessimo carattere per fare il direttore di banca. Atroce carattere e nessuna intelligenza. La compiango!
E uscì, senza aspettare che il direttore gli offrisse lo spettacolo di un altro dei suoi attacchi di tosse. Ma il direttore stava invece fregandosi le mani e mormorava con gioia feroce: — Figurati se aiuto il fisco, io!
Curti Bo' fece i corridoi, camminando diritto, il cappello a raggiera sul cranio, il bastone in manovra con la sinistra. Non volse un solo sguardo ai commessi, disdegnò l'ascensore, che un lift tutto bianco gli indicava, e infilò lo scalone, tenendosi proprio in mezzo alla guida rossa, soffice come un praticello erboso.
Lo scalone sbucava nella grande sala degli sportelli. Quando vi si trovò, Vladimiro, invece di camminare verso l'uscita, si confuse con la folla affaccendata. Cercò lo sportello dei «conti correnti», lo scrutò attentamente.
Attese di vederlo libero e poi si avvicinò. L'impiegato, un giovane biondo col volto coperto di lentiggini, dovette cacciare la testa attraverso lo sportello, per parlargli.
— Desidererei fare un deposito...
— Saggio divisamento! — fece il biondo, che era filosofo e che sopratutto nel caso specifico non riusciva a prendere sul serio quello strano cliente.
— Desidererei depositare duemila lire...
— Meglio ancora. Ma non può dirsi un grosso conto corrente quello che lei vuole aprire...
— Non voglio aprire un conto corrente, io...
— Oh! Allora? Se è un deposito vincolato...
— Neppure.
— E che cosa, dunque?
— Voglio soltanto abbandonare duemila lire nelle sue mani.
— Nelle mie mani?!
— Ma sì...
Parlava a bassa voce, così piano, che la testa bionda doveva sporgersi e chinarsi sempre di più, per comprendere le parole.
— Non capisco! Si spieghi.
— Non mi posso spiegare, parlandole qui. Tra poco verrà gente...
Un lampo di comprensione passò nelle pupille dell'impiegato. Egli sorrise con grazia.
— Bene... Bene, caro signore...
— No! Non dica: bene, caro signore... Io non sono pazzo!
Mise la mano nella tasca e ne trasse il portafogli. Da esso estirpò con gesto rapido due fogli da mille.
— Questo è il denaro.
Il biondo aveva sgranato gli occhi.
— Quando ho detto abbandonare, intendevo donare... Io dono a lei questi due biglietti azzurri con la sicurezza di non rivederli mai più...
— Ma che dice?!
— Non faccio che annunciarle un fatto molto piacevole per lei... Qui, però, non è possibile parlare... — Si rimise nella tasca della giacca il portafogli e fece sparire in quella dei pantaloni le duemila lire. — Io so di essere riuscito a interessarla... a destare la sua curiosità... Sono certo che non si dimenticherà di me... Mi chiamo Vladimiro Curti Bo'... in due parole: Curti Bo'... Lei uscirà dalla Banca alle dodici e mezzo... Alle dodici e tre quarti io mi troverò nel caffè qui di fronte... L'aspetterò e le darò le duemila lire... Non manchi!...
Abbassò ancor di più la voce, sino al sussurro.
— Mi occorre un'informazione e sono pronto a pagargliela la somma folle di duemila lire...
Si allontanò dallo sportello e si perdette fra la gente.
Capitolo XXVI
«Imperatore»
«Swan - Gland - Venez - Rosenkreutz».
«Scott - 4242 - F. T. - Milano Aujourd'hui lundi pourquoi venir? Dangereux Swan».
«Swan - Gland - Je vous attend - Rosenkreutz».
Questa volta l'omino non parlava tra sè, non si passava la mano sul cranio e non sorrideva.
— Perché hanno ucciso Virginia Carey?
Erano le otto di sera e Vladimiro, fermo sul portone di casa sua, guardava perplesso il crepuscolo farsi di fuoco dietro i tetti delle case, verso porta Venezia. Il quadrivio era pieno di movimento. Dalle panchine dei viali sciamavano bimbi, balie e governanti.
Certo, egli sapeva che era l'ora del pasto serotino e che tra poco avrebbe dovuto sedere al suo tavolo consueto, nella trattoria toscana di piazzale Bacone, dove era solito andare da più di tre anni, da quando cioè era stato scacciato, per colpa del piccone demolitore, da quell'altra trattoria, toscana anch'essa, di via Tre Alberghi. Vero è che da quando si era dato alla sorveglianza del barone Verbena del Santo, gli era capitato assai spesso di non aver più orario dei pasti e del sonno e non gli era ignoto che avrebbe potuto saltare quel pasto e nutrirsi poi di spaghetti e salsicce, alle due di notte, da «Fulgenzio».
Ma le abitudini sono abitudini e Vladimiro adesso, se non si passava la mano sul cranio non parlava tra sé e non sorrideva, pensava. Con velocità. E con disordine. Il suo pensiero saltabeccava farnetico.
«Il più intelligente criminale può qualche volta commettere gli atti più stupidi... Egli lo fa, perché è intellettualmente incapace di comprendere la psicologia degli esseri normali che lo circondano... È assolutamente certo che l'assassino di Perry Hodburn, di Clark O' Brian e di Virginia Carey finirà col commettere un atto stupido, che lo perderà... Ma quando? Non ho tempo di attendere, io!... Per me si tratta di non permettere che mi mandino ad patres il barone, prima che lo abbia pescato con la mano nel sacco... Già! e il sacco lo tiene l'Imperatore!... E l'Imperatore non torna che giovedì... e oggi siamo ancora a lunedì...».
Il volto gli si illuminò e Vladimiro saltellò sulla soglia del portoncino.
«E se l'assassino fosse proprio il barone?... In fondo nulla mi dimostra che miss Verity sia tenuta prigioniera... Un'evasione davanti al pericolo... E la vecchia è stata assassinata... Oh! perbacco, questo è il punto cruciale... Quando conoscerò la ragione per la quale è stata uccisa Virginia Carey potrò fare qualche seria comunicazione al mio amico commissario...».
Guardò l'orologio. Alle nove aveva appuntamento con l'impiegato lentigginoso, che s'era lasciato corrompere dalla vista dei due fogli azzurri. Gli avrebbe consegnato l'estratto conto della partita Verbena del Santo. Indispensabile per lui! La prova delle fughe del denaro con le date. Ogni data avrebbe dovuto corrispondere a un viaggio dell'Imperatore. La data, insomma, di molti venerdì: Teodoro Timoteo Swan lasciava il palazzo del barone il venerdì notte e partiva per la Svizzera il sabato mattina, alle sei o all'incirca alle sei. La colonia dei teosofi... La vita è universale ed è dovunque... La Volontà... L'agglomerato di sozzure...
Vladimiro contemplò un mucchio di foglie d'insalata e di verze, contro il marciapiede di fronte... Un mucchio di sozzure, quelle, che il mercato mattutino della frutta e verdura aveva rigurgitato dai banchi e aveva abbandonato, segno simbolico, all'attesa degli spazzini notturni, coi loro carrelli a coperchio e le pompe dai getti poderosi.
L'omino si scosse, agitò il bastone davanti a sé.
«Bacco, baccone, baccaccio !... E quel suo trasporto clandestino di fogli da mille non è una sozzura?!... Ne ha di belle l'Imperatore...».
Questa volta aveva parlato ad alta voce. Riprendeva le sue abitudini. E si diresse a passettini rapidi, facendo roteare il bastone, alla trattoria toscana, dove mangiava a sei lire, vino compreso, e dove, quella sera, non fece per nulla ammattire il cameriere con la scelta delle vivande e con l'enunciazione dei suoi proverbi.
Alle nove e venti minuti, in piazza della Scala, fermo sotto la luce bianca di una lampada ad arco, consultava con rapidità febbrile l'estratto conto. Le date corrispondevano. Aveva tra le mani una delle prove meglio convincenti per accusare barone Verbena del Santo di imboscamento all'estero di qualcosa come dieci o quindici milioni.
Piegò il foglio e sospirò.
— La mia vecchiaia è assicurata... forse! Dire, però, che per una volta che metto le mani sopra una frode all'erario che può fruttarmi un premio di qualche decina di mila lire... mi trovo in mezzo a una ridda di cadaveri!
Era sceso dal salvagente e tagliava la piazza verso la Galleria. Dovette fare un salto da scimmia, per non essere travolto da un'auto. Aveva evitato la morte di misura. Per poco non andava a fare il cadavere anche lui!
Rimase immobile per qualche minuto. Poi il cuore tornò a battergli. Imboccò la Galleria e andò a sedere ai tavolini esterni di un caffè.
Il suo cervello aveva ripreso a lavorare.
«Ho pagato duemila lire questo foglio... duemila lire mie!... Vediamo di fare in modo che nessuno mi ammazzi il barone, prima che l'Imperatore sia tornato e prima che... Dovrò lottare fino a giovedì per Io meno... Ci riuscirò?... E se l'Imperatore non tornasse neppure giovedì?!... L'uomo dal pizzo grigio è astuto e la scomparsa di sua figlia può indurlo a precipitare gli avvenimenti...».
Ebbe un sussulto e quasi rovesciò dal tavolino il vassoio con la chicchera del caffè.
— Per Giove Pluvio! — Egli era classico nei ricordi, così com'era puritano in morale. — Precipitare!... E se Swan tornasse prima?...
Gettò una moneta da due lire sul vassoio, si alzò e corse a precipizio verso la piazza. Poco dopo sedeva sul velluto di un tranvai, diretto alla stazione.
L'orario sui grandi quadri fu facile da consultare. C'era un diretto in arrivo da Domodossola alle 22 e 10 e un direttissimo alle 23 e 55.
Vladimiro si disse che entrambi avrebbero fatto al caso dell'Imperatore e andò ad appostarsi al principio della banchina dinanzi a cui si sarebbe fermato il primo treno. E rifletteva.
«Questa è una storia, che va guardata dal suo punto giusto. Ma il diavolo mi porti, se io so quale mai possa essere il punto giusto!»
Il volto dell'Imperatore era sempre fresco e roseo, un volto di bimbo, ma due rughe gli segnavano la fronte dalla radice del naso a quella dei capelli. Rivolto verso il barone, Swan lo fissava con quei suoi occhi glauchi, immensi, troppo chiari, che rispecchiavano adesso una concentrata e preoccupala attenzione.
— Perché vi ho fatto venire, Swan? Ma per la ragione molto semplice che non potevo esser io a venire da voi! Tutta quest'ira di Dio, che si è abbattuta su di me... attorno a me... ha richiamato l'attenzione della polizia...
— Ah! — fece il grosso uomo e un poco impallidì. Il barone alzò le spalle e tese la mano, per riordinare i fogli che aveva dinanzi.
— Nulla di grave, ancora...
— Che volete dire? — chiese con voce vibrante l'Imperatore. — Che volete dire?
— Quel che dico, Swan... Nessuno ancora sospetta di me... né di voi...
S'interruppe e una nube passò nei suoi occhi.
— Per lo meno, nessuno della polizia... Essi son tutti alla ricerca dell'assassino dei due fantini e della governante...
Il vecchio si alzò. Aveva preso una delle sue pose sacerdotali e cominciò con voce profonda.
— L'assassinio non è mai stato nei nostri patti, signor barone! Iddio non perdona agli assassini... Quando voi mi induceste ad aiutarvi e voleste... Con un gesto rapido della mano, il barone lo fece tacere.
— Basta con le sciocchezze, Swan!... Basta, per dio!... Che credi, vecchio idiota, che sia stato io ad ammazzare tutta quella gente? E sia stato proprio io a far sparire mia figlia?... Che c'entra tutto questo con me e con te?... E sappi una volta per tutte, che io non ti ho indotto a nulla!... Vuoi che ti ricordi quel che eri e quel che facevi, quando t'ho conosciuto?!...
Aveva parlato con voce fredda, senza alcun accento di sdegno, ma con una leggera sfumatura di disprezzo. Quando tacque, continuò a fissare Swan e aveva lampi di fredda crudeltà negli occhi. Fece seguire un lungo silenzio, poi intimò col suo tono consueto, tornando al voi:
— Sedete.
L'Imperatore scrollò il capo zazzeruto e sedette, tirandosi accuratamente le falde della palandrana sulle ginocchia.
— Perché vi ho fatto venire? Per parecchie ragioni. Prima di tutto i conti.
Diede un'occhiata ai fogli.
— Quanto avete depositato fino ad oggi al «Crèdit Municipal» di Ginevra?
L'Imperatore trasse dalla tasca del petto un portafogli e da questo un cartoncino.
— Duecentoventicinquemila franchi svizzeri.
Il barone assentì col capo.
— È giusto. E alla Banca di Zurigo?
— Cinquecentosessantamila...
Swan dava un'occhiata al cartoncino prima di rispondere e le cifre che enunciava sembravano quelle di un bollettino di vittoria, tanto egli le pronunciava con enfasi.
Il barone depose il foglio.
— Quanto a Londra?
— Ventiduemila sterline...
— Avete le ricevute di tutti questi versamenti?
— Naturalmente — e il vecchio le estrasse dal portafogli e gliele porse.
Il barone le osservò attentamente, una a una. — Fin qui tutto fila ottimamente, Swan... La colonia... — e un sorriso leggermente sardonico gli apparve sulle labbra — ... la colonia è sempre in ordine? Nulla che ne turbi la pacifica esistenza?
— Se è per chiedermi notizie della colonia che mi avete fatto anticipare il mio viaggio consueto, comincio a credere che non vi siate mai reso conto dei pericoli che io corro ad attraversare la frontiera!
— Correte qualche pericolo, Swan? Davvero? — e rise silenziosamente, con dolcezza.
L'altro lo guardò stupefatto.
Il silenzio che seguì fu rotto improvvisamente da un colpo secco di rivoltella, partito di dietro alle spalle del barone, dal fondo della camera.
L'Imperatore mandò un lieve lamento e si afflosciò sulla seggiola, scivolando lentamente a terra, dove giacque supino, enorme ventruto e tutto nero, tranne il volto illividito dalla morte e la zazzera bianca.
Il barone, balzato in piedi, guardava terrorizzato l'ombra dalla quale il colpo era partito.
Capitolo XXVII
Rompicapi
L'omino consultò l'orologio. Le undici e mezzo.
Da tre quarti d'ora l'Imperatore era entrato nel palazzo degli Omenoni. Arrivato col diretto delle 22 e 10, aveva preso un tassi. Non portava valigia, come non ne aveva mai portata del resto nei suoi viaggi a Milano, tutte le volte che Curti Bo' lo aveva veduto e pedinato.
Tre quarti d'ora non erano molti e non erano pochi. Segnavano uno spazio di tempo, che non significava nulla e che poteva prolungarsi fino alla mattina seguente. L'Imperatore, quando veniva a Milano, pernottava al palazzo. Vladimiro lo aveva scoperto facilmente e la prima volta che gli aveva parlato si era accompagnato a lui per la strada, alle quattro del mattino, dopo avergli fatto la posta tutta la notte davanti al portone di piazza Crispi. Ed erano finiti a sedere sulle ospitali seggiole di «Fulgenzio». Questo era avvenuto proprio il giorno in cui avevano scoperto cadavere di Perry Hodburn, il primo cadavere della serie.
Adesso che lo aveva veduto arrivare, l'omino non era disposto a lasciar presa. Doveva riacciuffarlo all'uscita e seguirlo fino alla frontiera. Alla frontiera lo avrebbe fatto arrestare e il suo compito sarebbe terminato. La vecchiaia assicurata. Di tutti i cadaveri poteva infischiarsi, lui! Non era affar suo. Tutt'al più avrebbe dato una mano all'ottimo De Vincenzi, mettendolo a parte di quanto aveva scoperto fino allora. Se lo meritava! Un simpatico commissario, quel De Vincenzi.
L'omino sospirò e cambiò spalla, ché la destra, appoggiata alla colonna, gli si era indolenzita. Una attesa ancora di ore e ore! Forse fino a mattina, dacché poteva darsi benissimo che l'imperatore non ripartisse quella stessa notte.
Il portone del palazzo era chiuso e Vladimiro lo fissava. A un tratto, vide aprirsi il portello e uscirne Matteo. Il vecchio agitava le braccia e le mani come un forsennato e appena fuori si mise a correre verso piazza San Fedele. Non aveva cappello e la parrucca gli stava per sbieco sopra un orecchio.
— Oh! che diavolo è accaduto ancora?!
Si distaccò dalla colonna e fece qualche passo verso il palazzo.
— Oh! Oh! — ripeteva. Si toccò la cravatta, agitò il bastone.
Uno strano senso d'angoscia lo invadeva. Sentiva il presentimento della catastrofe.
Fendette l'aria col bastone, come per aprirsi un varco, e si lanciò decisamente avanti.
Il portello era rimasto aperto e lui si trovò nell'androne blandamente illuminato dalla luce rossigna del grande fanale appeso all'arco. Matteo doveva essere disceso a precipizio, perché non aveva neppure accesa la luce. Ma l'omino sembrava non aver più esitazioni, chè cominciò a salire, inoltrandosi sempre più nel buio. Stava per raggiungere il primo pianerottolo, quando ebbe l'impressione di una presenza umana accanto a sé. Rabbrividì e istintivamente alzò il bastone. Si era immobilizzato.
Lo tratteneva il pensiero che il buio fosse una protezione per lui e che, se avesse continuato a salire, al secondo pianerottolo avrebbe certamente trovato la luce. Per qualche istante rimase così, trattenendo il fiato. Nulla attorno a lui si muoveva. Non il più piccolo fruscio. Nulla. Doveva essersi sbagliato. Riprese animo e si mosse. Poi si fermò di nuovo: fiutava l'aria. Odore di tabacco. Forte e acre, mescolato al sentore di qualche acqua di Colonia o di lavanda. Un odore umano e maschile. Lo avrebbe giurato: un uomo era passato accanto a lui e adesso o aveva disceso le scale o forse si trovava ancora rincantucciato nell'oscurità, come lui immobile.
Ma non c'era nulla da fare. Certo, egli aveva in tasca la lampadina elettrica e avrebbe potuto rompere di colpo le tenebre e frugarle e scoprire colui che vi si nascondeva. Ma sarebbe stato un gioco pericoloso e per nulla affatto tale da giustificare il pericolo a cui si sarebbe esposto. Se quell'individuo voleva nascondersi, era certamente pronto a difendere in ogni modo il segreto della propria identità. Meglio non occuparsene. Tanto più che ignorava ancora quel che avrebbe trovato in alto.
Il partito più saggio, oramai, era di raggiungere al più presto il primo piano. Se Matteo non c'era, avrebbe sicuramente trovato le cameriere, il barone, l'Imperatore, che aveva veduto entrare nel palazzo e che non ne era uscito.
Prese lo slancio e ricominciò a salire. Trovò l'altra rampa e vide in alto il chiarore della lampada di ferro battuto, contro il soffitto. Maledetto palazzo baronale. Tutte le luci sembravano fatte per la veglia ai morti.
Al primo piano non trovò nessuno. Ma le porte delle sale erano aperte, d'infilata fino allo studio del barone e le lampade accese.
Avanzò con decisione, rapido, saltellante, reso audace dall'assenza di ostacoli umani e pur sempre attanagliato da quell'angoscia, ad ogni istante più forte e più precisa.
Nello studio la catastrofe, infatti, lo attendeva.
L'Imperatore giaceva sul pavimento, lugubre macchia nera contro i colori vivaci del tappeto persiano, con le falde del suo robbone che ne ingrandivano il corpo, distese come le ali di un uccellaccio abbattuto. E in mezzo al petto una brutta macchia rossa e gli occhi glauchi aperti contro il soffitto.
Al di là del tavolo, immoto, il barone fissava il Cristo d'avorio e non sembrava essersi neppure avveduto dell'intruso, che adesso, dopo un primo sussulto di atterrito stupore, s'era tolto il cappello e si asciugava la fronte madida.
Vladimiro cercava di riflettere in fretta e non ci riusciva. Quella nuova tragedia voleva dire per lui la rovina irrimediabile. Una ridda di immagini gli danzava davanti agli occhi. E, tra un'immagine e l'altra, quei suoi due fogli da mille, ultimi spesi, che non avrebbe riveduti mai più.
Ma perché mai quel maledetto barone aveva voluto uccidere il suo complice proprio in quel momento, quando lui stava per smascherarli tutti e due e raccogliere finalmente il giusto premio alle sue fatiche?!
— Perché ha fatto questo! — mormorò con un lamento. — Perché lo ha fatto!
E intanto continuava ad asciugarsi il sudore freddo.
lI barone, sempre impietrito, non si muoveva.
Dallo scalone venne lo scalpiccio di gente che saliva e qualche voce. Certo, Matteo era andato ad avvertire la polizia.
L'omino si volse e attese. Che gliene importava, oramai di trovarsi faccia a faccia con De Vincenzi!? La sua impresa era fallita, irrimediabilmente; tanto valeva affrontare la situazione e rivelare la propria identità.