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Augusto De Angelis

Il commissario De Vincenzi Il mistero della “Vergine”

 

 

Capitolo I

 

Colloquio

 

Erano due curiosi esemplari della razza umana.

Il caffè d'angolo — sul quadrivio — lasciava i tavoli di ferro e le seggiole tutta la notte all'aria aperta, sul marciapiede larghissimo, a disposizione dei nottivaghi. Unica precauzione era quella che prendeva il cameriere alle due, quando le saracinesche si abbassavano, con l'aggrupparli contro il muro, tra una porta e l'altra. Del resto, c'era la ringhiera di legno che delimitava a mezzo cerchio, simbolica affermazione di possesso, il territorio di «Fulgenzio». Fulgenzio era il nome del proprietario ed egli lo aveva dato al suo locale.

Il quadrivio, assai vasto, sfociava trasversalmente, da una parte e dall'altra, in un viale largo, alberato, coi tappeti erbosi e le panchine nel centro.

Quei due si erano seduti a un tavolo di ferro. Alle quattro e mezzo del mattino, anche di giugno, col chiarore dell'alba, neppure gli operai delle fabbriche passavano ancora. Ma i grossi autobus sì, che tagliavano orizzontalmente il quadrivio e scorrevano con rombi e scoppi sull'asfalto verso la stazione. Qualche rarissimo passante camminava in fretta.

I due seduti parlavano. E chi li avesse uditi avrebbe trasecolato.

L'ometto piccino, dal volto di faina, vestito di grigio tortora, assai decente, col cappelluccio duro un poco di traverso sul cranio, fissava il compagno e diceva:

— La prima cosa necessaria, dunque, sarebbe quella di apprendere a fortificare la volontà!

L'altro era vecchio e maestoso. Vestito di nero, con un nero cappello a tese larghissime e la bianca barba fluente, teneva rivoltate sulle cosce le falde della giacca lunga, a coda. Aveva gli occhi immensi, glauchi, così chiari da dar fastidio e, quando parlava, la pelle del volto, che era Tresca rosea da bimbo, gli si colorava dolcemente.

— Niente affatto. La volontà è una forza spirituale. Essa tiene insieme i mondi nello spazio e determina la rivoluzione dei pianeti.

— Guarda, guarda... — mormorò l'ometto e quel suo faccino arguto, dagli occhi a succhiello, sembrò gli si appuntisse ancor di più, per il movimento che fece di gettare la testa in avanti. — Sicché le trote hanno una forza spirituale, che le tiene lontane dalla mia lenza... Eh! già!...

— Chi vi parla di trote?

— Naturalmente! Chiedo scusa...

— Nessuno di noi ha una volontà!

— Davvero?

— Gli uomini possono soltanto mettere in opera la loro ragione e il loro intelletto a guidare e condurre la Forza Volontaria Universale già esistente nella Natura!

— Ma va' là! — poi subito si riprese, vedendo il sussulto del vecchio. Dicevo che certo è cosi, sebbene incredibile, O, forse, lo è perché incredibile!

Seguì un silenzio. L'ometto accavallò le gambette e si gettò un poco all'indietro sulla seggiola, troppo alta per lui. Coi piedi sollevati da terra sembrava una scimmiettina vestita a festa. Aveva tra le mani un bastone di canna col manico d'osso, lungo e ricurvo, ingiallito, che terminava aguzzo come il suo naso. Se lo avvicinò alle labbra e cominciò a succhiarne la punta. Di sotto in su guardava la barba fluente che aveva ripreso a dissertare.

— La vita è universale ed è dovunque. Essa si identifica colla Volontà. Non è un prodotto dell'uomo, né può essere monopolizzata da lui. L'uomo ne riceve una certa quantità al momento del suo ingresso nel mondo. Tale quantità gli è fornita in prestito dalla Natura e alla Natura egli dovrà restituirla, quando uscirà dal mondo...

— Eh! sì...

In questo dire distaccò una mano dal bastone e l'abbassò sotto il tavolo per fare le corna. Era superstizioso e quell'uscire dal mondo non gli piaceva.

— E, adesso, voi partite di nuovo?

— Lascio la città, immane agglomerato di sozzure e di errori!

— Fate bene!... Oh! se fate bene!...

Aveva una voce armoniosa, l'omettino, piena, sonora; ma di quando in quando la elevava di tono, ed essa gli si lacerava in stridori inaspettati. Sembrava, allora, un'ocarina mal suonata. Fu con uno di questi stridori che, dopo una pausa, insinuò:

— Però! Ci venite assai spesso in questo agglomerato di sozzure!

— Non è la mia Volontà, che mi vi ci conduce, ma quella del Signore.

— Ogni settimana?

— Come lo sapete?

Gli occhi glauchi, smisurati, girarono lentamente e si abbassarono a fissare l'omuncolo.

— Come lo sapete? — ripeté il vecchio e la voce di solito soavemente enfatica, gli si era fatta dura, minacciosa.

— Ma io ho ucciso il sonno! Capite? Ho uccise il sonno!

— Capisco soltanto che voi mi avete spiato!

Sempre più la sua voce suonava infiammata.

— Oh! — e sollevò il bastone verso il cielo, che oramai era tutto chiaro, azzurro, e cominciava a sfolgorare. — Come potete supporre una simile cosa! Non può certo essere stata la Volontà Universale a suggerirvela. Oh! no! Io non vi spio. Soltanto, come vi ho detto, non mi corico neppure più io, alla notte!... E allora, fin quando è buio, passeggio per la mia cameretta... lì, vedete?, sopra a questo caffè... E appena l'alba tocca il cielo con le sue dita di rosa... scendo in istrada... quaggiù... e mi aggiro fra le aiuole...

Gli occhi glauchi si volsero a guardare il viale.

— È un modo di dire! Io adoro le immagini. So benissimo che qui le aiuole non esistono... ma soltanto praticelli che di giorno i bimbetti, acconciamente sollevati sull'erba dalle mani sagaci delle balie, irrorano dei loro spruzzettini.

— L'Adepto crea in sé le sue immagini., l'uomo comune, invece, vive tra le creature dell'immaginazione altrui... Ma voi non mi avete detto ancora come fate a sapere che io vengo a Milano ogni settimana...

— Perché non dormo!... Perché mi aggiro per questi viali e ogni sabato vi vedo arrivare che non è ancora l'alba e sostare sulle dure seggiole di questo caffè, a tali ore gratuito ma inospitale... E poiché costantemente voi, alle sei meno un quarto, vi alzate e vi allontanate con maestà... la vostra figura è senza dubbio maestosa... da quella parte, verso la stazione... ecco la ragione per la quale ho dedotto che è alle sei o poco dopo le sei che voi partite... Orbene se, per far l'ora del treno, avete ritenuto opportuno fermarvi all'aria aperta, mi è apparso chiaro che non avete una casa in città... e, se non avete una casa, come non dedurne anche che arrivate qui dal di fuori, per una breve sosta settimanale?...

— La potenza dell'immaginazione è ancora assai poco nota all'umanità, altrimenti si baderebbe di più a quel che si pensa... Ma voi non vi siete ingannato. Ogni venerdì io arrivo a Milano e ogni sabato ne parto... Con gioia! Non potrei vivere in questo luogo di depravazione e di ignoranza... Il primo e il più importante passo che deve fare se desidera ottenere la possanza dello spirito, è quello di diventare naturale... Io vivo là dove si può essere naturali...

Per qualche istante, l'omettino continuò a succhiare l'osso del bastone.

— Lontano?

— Uhm!

— In campagna?

— Uhm!

Si era schiarita la voce e sputò.

L'ometto trasalì, ma subito riprese a meditare.

— Sarei molto curioso di conoscere il luogo dove si può essere naturali!

L'uomo dal cappello a vaste tese e dalla candida barba fluente si alzò con ponderata lentezza.

— È ora ch'io vada a prendere il mio treno... — pronunciò solennemente.

L'omettino era anche lui saltato giù dalla seggiola. Col cappello e sui tacchi, arrivava sì e no allo sterno dell'altro.

— Permettete che mi presenti... C'incontreremo ancora... in questo caffè... E il nome è una etichetta sociale, che può essere utile talvolta... Io mi chiamo Vladimiro Curti Bo'... In due parole: Curti... Bo'...

L'uomo a cui Vladimiro aveva voluto fornire le proprie generalità, contemplò per qualche istante la creatura vile che gli arrivava alla pancia e poi e lasciò cadere sul capo:

— E io sono l'Imperatore.

Quindi prese ad allontanarsi per la piazza, verso stazione.

L'omettino rimase dov'era. La parola Imperatore lo aveva reso immobile, come se gli si fosse rotta la carica nel pancino.

Ma quando l'imponente figura del vecchio fu scomparsa, giù per via Plinio, la marionetta tornò ad animarsi. Si toccò il tubino, aggiustandoselo sul cranio, si tirò le punte del panciotto, diede un colpettino alla cravatta, che aveva a fiocco e di un assurdo rosso cremisino, quindi avanzò.

Tenendo il bastone a bilancia, si avviò anch'egli per via Plinio, nella scia dell'Imperatore, muovendosi a passettini calcolati, con circospezione.

 

 

Capitolo II

 

Perry

 

Fred Drake arrivò alla scuderia alle 10, all'ora solita, cioè. Lasciata la sua piccola Renault sul piazzale dell'ippodromo, avanzò per la stradetta che tagliava i campi. Quando fu alla stecconata del «tondino», si fermò a guardare il lavoro dei cavalli.

La Vergine gli passò davanti al galoppo. Drake bestemmiò. Aveva corrugato le ciglia bianche cespugliose e i baffetti bianchi, a spazzolino, gli si erano rizzati. Da una settimana aveva dato l'ordine che il crack fosse meritato dal suo fantino. E, invece, sulla groppa della cavalla c'era quella scimmiettina risecchita del garzone!

Perry Hodburn se ne infischiava dei suoi ordini! Doveva aver preso un'altra sbornia, alla notte, e adesso dormiva! Un grande fantino Perry, 1800 vittorie in dieci anni, un vero record. Ma, by Jove, gli avrebbe insegnato lui ad ubbidire. L'allenatore e padrone, dopo Dio, nella scuderia!

Drake batté col frustino sulla stecconata e si diresse verso i fabbricati. Nel costeggiare la pista, per quanto fosse fuori di sé, sostò ancora qualche minuto a guardare i cavalli. La Vergine doveva essere il suo capolavoro. Nessuno la conosceva. Un soggetto di gran classe, che lui aveva acquistato in Inghilterra. Non apparteneva a nessuna delle grandi famiglie celebri. La madre era fattrice in America, ma non aveva ancora fatto parlare di sé. Quando Fred Drake era tornato sul continente con quel suo acquisto e aveva detto al barone di aver pagato la cavalla duemila ghinee — lui faceva sempre i conti in ghinee, per snobismo, perché voleva ricordare al padrone d'essere un inglese puro sangue — il barone s'era messo a tempestare per lo studio, gridando ch'era matto, che voleva rovinarlo, che certo una buona parte di quella somma gli era rimasta nelle tasche!... Una cavalla sconosciuta, che non aveva una genealogia di gran classe, che non aveva neppure una genealogia, anzi! Duemila ghinee!... Una due anni, che non aveva mai corso, né in un Derby e neppure sulla pista d'un ippodromo di provincia. Un'incognita, un'innominata, una bastarda!...

Fred Drake aveva lasciato che il vecchio si fosse sfogato e poi gli aveva detto:

— Barone, lei dovrà chiedermi scusa per le ingiurie fatte alla cavalla! Il mio acquisto è un crack e sarà il grande vincitore del 1937!... La prima corsa in cui si produrrà voglio che sia il Gran Premio di Milano e lo vincerà! Glielo dice Fred Drake e ringrazi Iddio che Fred sa compatire e non manda al diavolo lei e la sua scuderia, come dovrebbe!

Con queste parole era uscito dallo studio, sbattendo la porta, e aveva abbandonato il palazzo, senza voltarsi.

Naturalmente, il barone gli aveva chiesto scusa e proprio sul terreno da lui scelto, nel suo regno, davanti al box della cavalla.

— Ebbene, come la chiamerà?

— La Vergine.

— Eh! Ma è matto!?

E il barone s'era fatto pallido, pallido come un cencio. Al ricordo di quel pallore, Drake sogghignò perversamente.

Non era matto, lui. Aveva detto Vergine e Vergine sarebbe stata. Nessuna spiegazione da dare. La cavalla doveva vincere e vincere con quel nome.

Aveva voluto Perry Hodburn per prima monta, quell'anno, appunto perché corresse sulla Vergine le 500.000 lire del Milano.

E adesso Perry Hodburn si ubriacava e dormiva, invece di far lavorare la cavalla! A otto giorni dal Gran Premio!...

Bestemmiò di nuovo e, agitando il frustino, varcò la porta della scuderia e, traversato l'androne, andò a piantarsi in mezzo al cortile.

— Hodburn! — gridò e il suo fu un grido da Giudizio Universale.

Quei quattro o cinque garzoni, ch'erano nei boxes e in giro per i cortili, accorsero.

— Andatemi a chiamare Perry!...

Il più svelto di tutti fu un omaccione sbracato, in zoccoli. Salì la scaletta e corse per la passerella, che univa i posteggi ai locali accessori dove dormivano gli uomini. Hodburn aveva voluto una camera in alto, l'ultima della fila di camerette, sotto il tetto. Lui, rompendo la tradizione dei fantini di gran classe, dormiva in scuderia con gli altri fantini e con gli allievi.

— Perry! — chiamò l'omaccione e spinse la porta. Campato in mezzo al cortile, col berretto tondo da marinaio per traverso, Fred Drake guardava la porta aperta sul ballatoio esterno, aspettando di veder comparire il volto grinzoso di Perry Hodburn. Ma fu invece quello rotondo e schiacciato del caporale di scuderia a riapparire. Ed era stravolto.

— Dorme, eh? Ubriaco come la giustizia! Afferralo così com'è e buttalo fuori!

L'uomo, appoggiato alla ringhiera di legno, fissava l'allenatore, sporgendosi, e cercava di parlare, senza che gli uscisse suono dalla gola.

— Ebbene, by Jove!?

Gli altri garzoni si avvicinavano.

— Perry... Perry... — riuscì a emettere quello lassù — … è morto!

— Che dici!?

Fred Drake si lanciò, seguito dagli uomini. Appena dentro alla cameretta, vide che Perry Hodburn era morto davvero.

Vestito ancora col suo abito grigio a quadratoni, il fantino di Epsom e di Ascot, d'Auteuil e di Longchamp, colui che aveva vinto 1800 corse sugli ippodromi di tutto il mondo e aveva montato almeno 10.000 volte da quando era nato, giaceva riverso sulla branda, con gli occhi chiusi, il volto placido, come se dormisse.

Piantato in mezzo al petto aveva un coltello dal manico di legno e non si vedeva naturalmente che quel manico giallo, ritto, e tutt'attorno una gran macchia di sangue nero, che aveva invaso il panciotto e la giacca.

Fred indietreggiò e ricacciò sul ballatoio gli uomini, che lo avevano seguito. Lo fece con tanto impeto che quei quattro o cinque si gettarono contro il parapetto e lo fecero cigolare da spezzarsi. Per qualche minuto, l'allenatore rimase sulla soglia a guardare il cadavere. Era spaventoso! Spaventoso e incredibile. Chi poteva avere ucciso a quel modo Perry Hodburn? Certo, lo avevano ucciso nel sonno!

Dall'androne venne il nitrito di un cavallo. I garzoni riconducevano le bestie nei cortili, per asciugarle e massaggiarle, prima di dar loro da bere e da mangiare.

Quel nitrito valse a scuotere Drake.

Chiuse con violenza la porta della camera e si volse agli uomini.

— Giù! Presto!... Non vedete che rientrano i cavalli?

Gli uomini discesero; ma erano sconvolti.

— Che cosa fate? Muovetevi, perdio!

I garzoni rimanevano in sella, meravigliati che i compagni non accorressero come al solito ad afferrar loro le redini.

— Portate tutti i cavalli nel secondo cortile!...

E discese.

Guardò che la cura delle bestie avesse principio e poi volse lo sguardo alla porta chiusa, sotto il tetto.

Dietro quella porta, c'era Perry Hodburn con un coltello nel petto!

E adesso? Che doveva fare, adesso? Ah! sì... avvertire la polizia, doveva... Un delitto!... Ma perché? Ma perché, by Jove!...

Si diede una manata sulla fronte.

Per tutti i diavoli e chi avrebbe montato la Vergine, fra otto giorni?!

 

 

Capitolo III

 

Araldica

 

Il portinaio del palazzo era gallonato senza parsimonia di oro e di fregi sull'uniforme azzurro cielo.

E il palazzo era l'unico di via Omenoni, che si fosse salvato dal piccone demolitore e dal rullo e troneggiava, adesso, patinato di antica venustà sulla piazza Crispi, che, quando fu eretto e poi per vari secoli ancora, non esisteva. La salvazione l'aveva dovuta appunto ai sei «omenoni» gigantesche figure di cariatide — che sostenevano il frontone dell'ingresso carrozzabile e al pregio storico delle pure linee del sue seicento non ancora imbastardito dal rococò.

Sul portone, appoggiato di spalla al plinto di una delle statue, col palazzo troneggiava il portinaio. Aveva, costui, berretto largamente gallonato e mezza e anche grossi baffi giallastri e neri occhi minacciosi.

Furon per primi gli occhi che gli folgorarono, quando egli si vide ritto dinanzi, sul marciapiede, un omettino vestito di grigio tortora, con un cappelluccio duro e tondo, una cravatta rossa cremisina e un bastone dallo strano manico appuntito. Sbucato chi sa di dove, l'omettino sollevò un poco il cappelluccio per salutare e disse:

— Non vorrei sembrarle indiscreto...

— Che c'è?!

Gli occhi avevano sfolgorato, ma sopratutto di sorpresa. Il cerbero minaccioso doveva essere un buon uomo, in fondo, e l'omettino aveva destato in lui soltanto meraviglia.

— Non c'è nulla?... Ammetto, però, che questa assenza di tutto sia grave. Terra bianca, tosto stanca?... Che ne dice?

Il portinaio pomposo non poteva più dir nulla. La sorpresa diventava stupefazione.

— Ecco! Se non sono indiscreto, è questo il palazzo del barone Gerolamo Verbena del Santo?

— Eh! sicuro?

— Il barone è a palazzo?

Il portinaio si chinò e accostò i baffi al tubino dell'omuncolo.

— Ehi! dico! Chi è lei?

— Io?... Che c'entra? Io sono Vladimiro Curti Bo'... in due parole: Curti... Bo'...

— E poi?

L'ometto si alzò sui tacchi e sollevò un poco il bastone.

— Non basta?

— No, che non basta! Che cosa gliene importa se il barone è a palazzo o no? Che affari ha lei con Sua Eccellenza?

— Affari?... Nessuno. Lo riconosco. lo non faccio affari?... È meglio viver piccolo che morir grande. Però... però... Lei dovrebbe ascoltarmi?... Calamità scopre amistà!...

Il portinaio si sollevò e diede un'occhiata di commiserazione all'omuncolo.

— Il signor barone è fuori! — e voltatosi si diresse nell'interno dell'atrio, apri la porta a vetri della portineria e scomparve con tutto l'azzurro e l'oro che aveva indosso.

Vladimiro sospirò. Si toccò il tubino, si tirò le punte del panciotto, prese un poco l'abbrivio dondolandosi ed entrò anche lui, prima nell'atrio e poi in portineria.

— No!... Non si abbandoni a violenze delle quali avrebbe duramente a pentirsi!... Ho qualcosa di molto grave da dirle!... L'eloquenza del tristo è falso acume; ma le mie parole son d'oro e mirra. Le ascolti.

Quell'affare dell'oro e della mirra convinse sempre più il portinaio che aveva a che fare con un pazzo. E poiché sapeva che per liberarsi da un pazzo occorre fingere di prenderlo per savio, si rassegnò.

Depose la mazza, si tolse il berretto e sedette davanti al suo tavolo, asciugandosi la fronte dal sudore.

— Dica pure...

— Oh! finalmente! Creda a me: piccolo ago scioglie stretto nodo!

È pazzo!, pensò di nuovo dentro di sé il portinaio. Con questi calori prematuri, la pazzia fermenta.

Intanto, Vladimiro s'era seduto. Non sopra una seggiola, ma sull'angolo del tavolo, con un saltino pieno di agilità e non privo di grazia, e si tolse il tubino, deponendolo accanto a sé. — Eccomi qui! Saremo più vicini in tal modo. Voglio dire, che io sarò più vicino al suo volto.

Fece una pausa, che impiegò ad aggiustarsi con la mano libera quella inconcepibile cravatta cremisina. Con l'altra non aveva abbandonato il bastone.

Il portinaio dava occhiate un po' al fenomeno che gli si era appollaiato sul tavolo e un po', oltre la vetrata, all'androne, ché adesso temeva di veder entrare qualcuno d'importanza. E allora sarebbe stato costretto di far passare a quel pazzo la pazzia!

— Io le ho detto il mio nome, ma non la mia professione. Poiché, se è vero che non faccio affari, è pur vero che qualcosa faccio. Qualcosa che mi piace e che mi occupa. Studio araldica...

— Che cosa?

— Oh! già!... Io catalogo, cerco, rintraccio, analizzo, viviseziono le armi gentilizie... Per me non esistono ormai più misteri in fatto di bande, barre, branche, blasoni, scudi semplici e scudi ombelicali. Conosco le imprese di tutte le famiglie nobili italiane e non c'è figura che non sappia interpretare, leggenda che non possa illustrare. Potrei dirle i colori familiari di tutti i casati, compreso l'azzurro cielo, che è quello del suo abito!... Da quanti anni lei ha l'orgoglio e l'onore d'essere il Minosse del barone Gerolamo Verbena del Santo?

— D'essere che cosa? — chiese con un ritorno al malumore il portinaio e di nuovo gli occhi gli si fecero minacciosi.

— Oh! già... Minosse è guardaportone all'Erebo...

— E... rebo?

— Luogo di raccolta di tutta la migliore nobiltà del mondo... Come vede, il posto è d'importanza. Ma torniamo a noi. Se io studio araldica, compilo in pari tempo un'enciclopedia nobiliare. La più completa! La più perfetta! Quando sarà terminata, non esisterà segreto delle grandi casate che non sia svelato. Capisce?

Il portinaio, dando diverso corso ai propri timori, dubitò che l'ometto fosse un truffatore. Questo qui, pensò, sta per farmi il trucco della pubblicità a pagamento.

Ma Vladimiro, quasi avesse letto nel pensiero del degno uomo, trasse il portafogli e dal portafogli un biglietto da cinquanta lire, nuovo nuovo.

— Ecco qua! Vuol guadagnarselo? Anzi, facciamo così: io glielo do, purché lei prometta di rispondere come può... dico: come può, e questo la libera da ogni scrupolo... alle mie domande.

Gli occhi del portinaio s'erano sgranati.

— Lei mi dà?...

— Ma certo! A lei. E ora risponda.

Guardò sparire il foglio filigranato in una tasca dell'uniforme azzurra e sorrise.

— È volato in cielo! — sospirò. — Cominciamo. Da quanti anni lei è portinaio del barone? — Ventiquattro...

— Trentasette meno ventiquattro, tredici. È dal 1913?

— Sì. Il barone era appena venuto a Milano.

— E aveva comperato questo palazzo?

— Come avrei potuto esserne il portinaio altrimenti?

— Giusto! Ricco, dunque, a milioni?

— Ricco, certo; ma a quei tempi non si parlava di milioni.

— Già. Perché il denaro aveva un diverso valore...

— Anche.

— E da dove veniva il barone Verbena?

— Dall'America...

L'omettino si agitò sullo spigolo del tavolo.

— È un po' vago!

— Nessuno ne ha mai saputo di più. Il barone è nato, sembra, a Napoli...

— Nobiltà partenopea! Oh! lo so! Il suo blasone è formato da una sbarra traversa diagonale, con un fior di verbena presso una siepe nel primo campo e una raggiera nel campo inferiore... Blasone borbonico o, forse, spagnolo... Ma io vorrei sapere qualcosa su lui stesso... Questo mi occorre...

S'era messo a succhiare il manico del bastone e guardava il portinaio. Si tolse quella specie di becco dalle labbra per chiedere:

— Non ha parenti?

— Una figlia.

— Non ha moglie?

— Oh! no...

— Nel '13, quanti anni aveva?

— Giovane ancora... Oggi ne ha sessantadue...

— E la figlia?

— La baronessina Verità ha ventiquattro anni...

Vladimiro sollevò le sopracciglia e arrotondò le labbra.

— Dall'America ha dunque portato la Verità in fasce?

— Quando arrivò qui, la moglie era viva. Mori nel '16...

— Vedo! Triste cosa la morte! E la Verità rimase nuda!

— Triste!... — ripeté l'uomo vestito di cielo.

Vladimiro saltò a terra e, rimessosi il tubino, fece il giro del tavolo e gli andò accosto.

— Quanti servi in palazzo?

— Il maggiordomo, due cameriere, una guardarobiera, la cuoca e l'autista.

— Fa affari, il barone?...

— Oh! — Lo ha detto lei!

— Io?!

— Gioca in Borsa?

— Credo.

— E poi?

— Ha una scuderia da corsa...

— Ah! sì?... Una scuderia!...

Si chinò all'orecchio del portinaio:

— Lei deve dirmi... sì, questo è compreso nelle cinquanta lire... deve dirmi perché l'Imperatore, ogni venerdì arriva al palazzo e vi si ferma sino alla notte del sabato...

— L'Imperatore!?

— Il poveretto non aveva più fiato. Eccolo che si mette di nuovo a vaneggiare, pensò.

— Un uomo alto almeno un metro e ottanta... vestito di nero... con una cospicua barba bianca... un grande cappello spiovente... le code alla giacca...

— Ah! ma lei parla del signor Swan! Perché lo chiama l'Imperatore?

— Perché forse lo è!

— Non scherzi! Il signor Swan è un degno commerciante... È svizzero... Conosce il padrone da molto tempo...

— E da quanto tempo viene qui ogni venerdì?...

— Saranno due mesi...

— Svizzero? Di dove?

— Credo risieda a Lugano...

— E quando si trova a palazzo, che cosa fa?

— Come vuole che lo sappia?... Matteo, il maggiordomo, mi ha detto, che sta quasi sempre in biblioteca o nello studio del barone... Legge e scrive... Con Sua Eccellenza parla di religione...

L'ometto si diede un colpo con le dita sul tubino, per rassodarne la stabilità.

— Ah! di religione!... Anche con lui! È teosofo il barone?...

— Che cosa?...

— Chi trova Iddio dentro di sé avrà rivelati da lui tutti i misteri!...

È proprio pazzo, pensò per l'ennesima volta il portinaio; ma non si attardò nell'idea, perché udì dal cortile gli scoppi di un motore.

— È il barone! È il barone che esce!...

Si era alzato e aveva afferrato berretto e mazza. Guardò l'orologio a muro sulla porta.

— Le undici! Non è mai uscito a quest'ora...

E si precipitò fuori della portineria.

Vladimiro s'era cacciato dietro il muro e, toltosi il cappelluccio, sporgeva appena appena un po' la fronte e gli occhi per guardare dalla vetriata.

L'Isotta-Fraschini traversò l'androne e scomparve. Gli occhi in agguato avevan veduto nell'interno della macchina la tesa abbassata d'un vasto cappello chiaro, il profilo di un poderoso naso rostrato e il pizzo grigio d'una barbettina.

— Oh! dove va il barone alle undici?!...

Pronunziò tra sé queste parole ch'era già fuori nell'androne e correva per uscire.

Il portinaio se lo vide passare davanti come una freccia e tese la mazza per cacciargliela fra i piedi. Ma non lo prese e quello fu in un baleno sulla piazza e saltò dentro il primo tassì fermo davanti alla Banca.

Il tassì partì.

L'uomo azzurro cielo, dopo qualche minuto di perplessità, si mise la mano in tasca e palpò il foglio da cinquanta. C'era proprio! Non aveva sognato. Per dar cinquanta lire a quel modo ci voleva un matto!...

 

 

Capitolo IV

 

Incontro

 

Non appena l'autista ebbe aperto lo sportello, il barone Gerolamo Verbena scese d'un salto dalla macchina, e si lanciò per la stradetta, fra i campi.

Il sole annegava i fabbricati bianchi dell'Ippodromo, la pista e il prato e faceva brillare le rotaie dei tranvai sul piazzale.

Col pizzettino grigio, il potente naso a rostro, la persona diritta e snella, il barone aveva l'aspetto e il portamento d'un moschettiere. Tutto in lui contribuiva ad aumentare una tale impressione, dal modo di vestire giovanile e chiassoso — pantaloni di seta grezza, giacca azzurra, cappello di feltro bianco — alle maniere rudi e aggressive, alla voce sonora e flautata, sempre un poco enfatica e declamatoria.

La consuetudine alla vita attiva e la cura ch'egli prendeva della propria persona, gli consentivano a sessantadue anni di dar l'impressione che potesse rivaleggiare con un giovanotto in ogni esercizio fisico.

Non impiegò più di un paio di minuti a percorrere, quasi di corsa, quei tre o❑ quattrocento metri, che dividevano la scuderia dal piazza.

Appena entrato nell'androne, cominciò a gridare: — Drake!... Drake!...

Fred Drake, che stava nel primo cortile, in mezzo a un piccolo gruppo di uomini, si distaccò da essi e accorse.

— Ma è impazzito, lei?... Che cosa diavolo mi ha detto al telefono? Che hanno assassinato Perry Hodburn?!... Se è uno scherzo, per tutti i diavoli, lo dovrà pagar caro... Drake era abituato a quelle vociferazioni e non si scompose. Avanzò rigido, con le ciglia corrugate, le labbra strette, i baffetti irti e pungenti. Il tondo berretto turchino con la nappa rossa gli dava, così biondo di capelli com'era da sembrar bianco, uno strano aspetto di giudice togato.

— Non è uno scherzo e lei farebbe bene a non gridare. Di sopra c'è il medico e quei signori appartengono alla polizia...

Il barone allargò le braccia e masticò un'imprecazione fra i denti.

— Ma perché l'hanno ucciso?! — chiese, con una nota di smarrimento nella voce, e, passato il braccio sotto quello dell'allenatore, si diresse verso il gruppo dei poliziotti.

Il gruppo si aprì e un uomo ancor giovane, bruno, vestito con sobria e distinta eleganza, che nulla aveva in sé del poliziotto, fece qualche passo verso i due.

— Ecco il proprietario — disse Drake, liberandosi dal braccio del barone.

— Commissario De Vincenzi — si presentò l'altro, con un leggero inchino.

— È una cosa orribile, commissario! Lei deve trovare chi l'ha ucciso! Ne va del buon nome dell'Italia! Perry era il miglior fantino del mondo e la sua morte avrà un'eco enorme straordinaria fino in America...

— Capisco... — disse pacatamente De Vincenzi. — Un assassinio è sempre una cosa enorme...

— Ma come hanno potuto?... Quando?... — e il barone si volgeva a Drake.

L'allenatore alzò le spalle.

— Se lo sapessi!... Sono venuto qui alle dieci, per assistere al lavoro dei cavalli e ho visto che Perry non montava la Vergine...

— La Vergine è un cavallo, suppongo? — interruppe De Vincenzi.

— Un'idea di Drake! — proruppe il barone. — È stato lui che ha voluto dare quel nome alla cavalla.

Drake sorrise.

— L'ho chiamata così, perché non ha mai corso ancora sugli ippodromi europei... È una cavalla americana, che stava per essere iscritta al Derby d'Epsom, quando io l'ho presa...Per noi è vergine...

— Già... Deve correre al Gran Premio di Milano, vero?... Sarà la favorita.

Il barone e Drake trasalirono.

— Come fa a saperlo, commissario?... Si occupa di corse, lei?

— Oh no! — sorrise De Vincenzi. — Ma son qui da mezz'ora, oramai, e ho interrogato il personale della scuderia...

Il barone diede un'occhiata all'allenatore e poi si avvicinò a De Vincenzi. Con il gesto abituale in lui, quando voleva essere espansivo, afferrò il commissario per un braccio e gli parlò con calore, trascinandolo con sé verso il secondo cortile.

— La Vergine... vede... è stata comperata da Fred Drake a mia insaputa... È costata duemila sterline sonanti e tutto il resto... Duemila sterline non sono molte per un crack già riconosciuto e sicuro, ma sono moltissime per un cavallo che non ha mai corso... Per un'incognita, insomma. Drake però sa quel che fa ed è difficile che sbagli... Senza dubbio, la Vergine è un gran cavallo... E poi Drake l'ha preparato come lui sa fare... Insomma, oggi, anch'io sono sicuro che la Vergine vincerà... Mi capisce?

— No — fece laconicamente De Vincenzi.

— Ah!... Ebbene, le parlerò chiaro. Quando un proprietario di scuderia possiede un cavallo di quella specie e lo fa correre al più gran premio dell'annata, per una moneta di mezzo milione... non è soltanto quel mezzo milione che balla... Mi capisce, adesso?

— Vuoi dire che lei scommetterà sul suo cavallo?

— Voglio dire che il mio interesse era che tutti avessero creduto la Vergine un brocco e che gli allibratori non l'avessero favorita...

— Ebbene? 

— Ebbene, la Vergine vien data già alla pari!... il giorno del premio sarà scesa a un quarto!... Tutti sanno oggi sul turf che è un gran cavallo!... Capisce che cosa è accaduto?... Qualcuno ha parlato... Qualche spia ha veduto la cavalla al lavoro...

Il barone era agitatissimo; lasciò il braccio di De Vincenzi, lo afferrò con le mani alle spalle e gli mise il volto contro il volto.

— E oggi hanno assassinato Perry Hodburn, che era il migliore fantino del mondo e che doveva montarla! Drake non potrà trovar mai, in otto giorni di tempo, una monta di quella fatta!... Comincia a capire, commissario?

— Già! — fece De Vincenzi. — Fatti simili si leggono anche nei romanzi...

— Ma questo, perdio!, non è un romanzo e Perry Hodburn è stato freddato...

S'interruppe, strinse i pugni e si raddrizzò.

— Come l'hanno ucciso?

— Ah! — De Vincenzi si era assorto e sembrava che non avesse udito la domanda.

— Le chiedo in qual modo l'hanno ucciso!

— Oh! in modo brutale e per nulla degno d'un romanzo... Gli hanno piantato un coltello nel petto... Guardò il barone e chiese con gravità:

— Lei ha giocato molto sulla Vergine?

Verbena alzò le spalle.

— Questo non conta. Può darsi che abbia giocato molto. È netto, no? Il cavallo è mio, io ho fiducia in lui e ci gioco... Ma nessuno potrà sapere se io lo abbia giocato o no... Non sono un bambino e il mio denaro non porta la mia firma!

Rise con rumore. Ma appariva turbato.

Teme che senza Hodburn in sella il suo cavallo non arrivi oppure ha qualche altra idea per la testa, si chiese De Vincenzi. E intanto a quel disgraziato hanno messo un coltello fra le costole...

— Bene... — disse. — Ora lasci che io mi occupi dell'assassinio...

E tornò nel primo cortile, seguito dal barone, che s'era dato un colpo al cappello e camminava, masticando parole fra i denti.

Il medico, uscito dalla stanza dove giaceva il cadavere di Perry, scendeva i gradini della scala di legno. La porta dell'ultima cameretta, sopra i posteggi, era rimasta aperta.

— Ebbene, commissario, può far portare il cadavere all'Obitorio... La questione per quello li è regolata e lui non monterà più cavalli su questa terra!...

Era magro, tutto angoli acuti e con la faccia cavallina. Ogni volta che si trovava davanti a un cadavere, quanto più forte in lui era l'impressione che ne riceveva, tanto più scopriva i denti lunghi, ingialliti dalla nicotina, aguzzi. Questa volta, mentre si avvicinava a De Vincenzi, aveva le labbra alle orecchie.

— Dottore, non si metta a farmi una lezione sull'impossibilità di riconoscere a prima vista lo stato di rigidità di un cadavere e mi dica a che ora lo hanno ucciso.

Il medico tendeva le mani davanti a sé.

— Dov'è un lavabo?

Drake gli indicò la fontanina a rubinetto, in mezzo al cortile.

Il dottore fece correre l'acqua e si lavò le mani. Aveva deposta in terra la busta nera, che portava sotto il braccio.

— L'ora della morte, eh?... Col calcolo dei multipli... estratta la radice quadrata... sottratto il minimo comun denominatore... le dirò che quel poveraccio ha ricevuto la coltellata fra le nove di iersera e le due di stamane... Un po' vago, eh?!... Se mi fa dare un asciugatoio, le tolgo un'ora al principio e una alla fine... Dovendo scommettere, propenderei per le undici, mezzanotte...

Un garzone gli aveva portato l'asciugatoio e lui si asciugava le mani lentamente.

— Lo hanno ucciso lassù?

— Io direi di sì. Non mi è sembrato che il corpo sia stato mosso, dopo la morte... Ed è anche sicuro che lo hanno ammazzato mentre dormiva...

— Il coltello?

— L'ho lasciato sul tavolo... — e si chinò a raccogliere la busta dei ferri. — Oh! non dubiti, ho fatto attenzione a non toccare il manico... Può divertirsi a cercarvi le impronte... ma che lei ce le trovi è un altro affare!... E ora che ho finito, la riverisco! Passerò nel pomeriggio all'Obitorio per l'autopsia. Addio, commissario!

Con pochi passi lunghi quanto lui, fu nell'androne e poi fuori tra i campi.

De Vincenzi fece cenno a uno dei suoi tre uomini, che erano rimasti in gruppo in mezzo al cortile.

— Cruni, riunisci tutti coloro che trovi qui dentro e conducili in una stanza... — Si volse verso Drake: Ci sarà un ufficio, qui nelle scuderie, no?... Un luogo qualsiasi che abbia un tavolo per scrivere...

— Sì, c'è... — e l'allenatore indicò una porta, che si apriva sotto l'androne. — È il mio ufficio, quello... Ma non è molto grande...

— Li farò entrare uno per volta, per interrogarli...

I garzoni e i fantini furono presto raccolti. I posteggi si allineavano tutt'attorno ai due cortili e il maresciallo Cruni non fece gran fatica ad assicurarsi che vi fossero rimasti i soli cavalli. Drake si avvicinò a De Vincenzi.

— I cavalli rimangono chiusi nei boxes per il riposo... fino alle sedici e mezzo... Gli uomini dovrebbero mettere in ordine la selleria e i locali accessori... ma lei può disporre di essi..

— Quanti cavalli? — chiese De Vincenzi.

— Quattordici con la Vergine...

— E quanti uomini?

— Cinque fantini... tre allievi...

Un mormorio si era levato dal gruppo degli uomini, che Cruni aveva riuniti e che si erano ammassati nel cortile.

Drake li guardò e bestemmiò sordamente.

— È vero?... I fantini sono quattro... perché Perry è morto!... E poi ci sono i garzoni... un caporale e otto fra uomini e ragazzi per i cavalli e tre uomini per la pulizia dei locali... E infine il custode e la moglie, che abitano le camere sul davanti... lì, all'ingresso...

Una ventina e più di persone da interrogare!

De Vincenzi si diresse verso l'ufficio dell'allenatore, assieme a Drake. Il barone, che aveva continuato a passeggiare per il cortile, li raggiunse.

— Ha ancora bisogno di me, commissario? Io torno al palazzo... Lei può trovarmici, quando vuole...

— Sicuro. Verrò da lei nel pomeriggio...

Il barone si avviò all'uscita.

Passato il paddock, aveva imboccato la stradetta chiusa ai lati dalle siepi, quando se la vide sbarrata dall'autolettiga che arrivava. Si fece da parte per lasciarla passare. Con la schiena contro la siepe, badava che le ruote non gli passassero sui piedi.

— Ultima galoppata, per Perry Hodburn!... Lui è arrivato al traguardo senza cavallo...

Il barone trasalì e si volse. Non vide nessuno. Si rese conto che la voce era venuta di dietro alla siepe e si chinò a guardare. Un omettino vestito di grigio tortora, con un cappelluccio duro sul cranio e una cravatta rossa cremisina, si teneva in piedi sulla scarpata del campo e, quando si vide osservato, portò la mano al tubino e salutò. Con l'altra mano sollevava un bastone dal manico d'osso, giallastro.

— I miei rispetti, signor barone!... Il sole accieca e per i campi i papaveri fiammeggiano... — accennò all'intorno col bastone. — È triste morire al principio dell'estate...

Il barone ritrovò a stento la parola.

— Ma chi siete?... Che fate lì?...

— Io sono Vladimiro Curti Bo'... in due parole: Curti... Bo'... E quel che faccio è evidente: passeggio...

Il barone lo fissò per qualche istante, trasecolato. L'omettino era così buffo, col volto aguzzo da faina, gli occhietti chiari e luminosi, le orecchie ad ansa... Finalmente, in inglese: diede come uno strappo a se stesso, per togliersi da quella contemplazione e imprecò in inglese:

— Al diavolo i matti!

Aveva da fare qualcosa d'assai più importante, che mettersi a perder tempo con gli sfaccendati, che gli si cacciavano tra i piedi! E si allontanò in fretta per la stradicciuola, verso il piazzale dell'Ippodromo, dove l'attendeva la sua auto.

Vladimiro saltò la siepe, con l'agilità di una cavalletta, così piccolino e tutto grigio, tranne quel rosso assurdo della cravatta...

Si fermò in mezzo alla strada a guardar sparire il barone e poi si diede un'aggiustatina al copricapo, una tiratina ai pizzi del panciotto, un buffetto alla cravatta e, con un colpo di reni, si mise in moto verso le scuderie, facendo girare il bastone fra l'indice e il medio della destra.

 

Capitolo V

 

Enigma

 

— L'ho trovato che stava arrampicandosi sul muro delle scuderie, proprio verso i locali accessori!

Il custode teneva sempre l'ometto per il bavero della giacca e lo scuoteva, spingendolo verso il tavolo, davanti a De Vincenzi.

Drake, in piedi, appoggiato a un casellario, s'era tolto la pipa di bocca.

— Oh! da dove è uscito costui?

— Lasciatelo! disse De Vincenzi. — Non vedete che non può parlare?...

Vladimiro, infatti, soffocava.

Quando il custode ebbe aperto la mano, liberandolo, fu un gran sospiro che gli uscì dal petto. Subito, si ricompose gli abiti, si strinse un poco il nodo della cravatta, che gli si era allentato. Portò poi una mano alla testa e incontrò i capelli, che aveva neri tagliati a spazzola, con qualche screziatura grigia.

— Il mio cappello! — gridò. — Quel bruto mi ha certo rovinato il cappello!

E, prima che alcuno potesse trattenerlo, si lanciò fuori della porta, nell'androne. Il cappello era rotolato sullo sterrato, davanti all'ingresso della scuderia e Vladimiro si gettò a raccoglierlo, con un grido di gioia. Lo tenne tra le mani e lo pulì, fregandolo col gomito.

Quando ebbe finito e lo vide integro, ebbe un gesto di soddisfazione e a passettini rapidi fece ritorno nella stanza di dove era fuggito.

Trovò i tre uomini ancora non completamente rimessi dallo stupore e, data un'occhiata furibonda al custode, si volse a De Vincenzi e gli sorrise.

— Un borsalino autentico, commissario!... Gli sono affezionato come a mio figlio!

— Avete un figlio? — chiese inconsciamente De Vincenzi,

— Si fa per dire!... Io adoro le immagini.

— Ma chi siete, voi?

— Vladimiro Curti Bo', commissario... in due parole: Curti... Bo'...

De Vincenzi non sorrise. Osservava l'ometto. Avrebbe giurato di averlo già incontrato in qualche luogo. Ma dove, gli era impossibile ricordare. Il nome enunciato, buffo quanto la persona che lo portava, non lo aveva mai udito, invece. Vladimiro Curti Bo'!... Un nome da farsa...

L'ometto, dinanzi al tavolo, gli sorrideva sempre, quasi ammiccasse. Da tutto il volto gli traspariva malizia e acume. Un ben curioso tipo e coraggioso, per non temere il ridicolo di quel suo abbigliamento e di tutto se stesso!

— Ebbene, perché vi arrampicavate sul muro della scuderia?

— Ma non mi arrampicavo! Il verbo è assolutamente sconveniente... Costui — e indicò il custode con la punta del bastone — mi vuole attribuire qualità di quadrumane o di gatto!... Conosce il muro di cui si parla, commissario? È un muretto alto neppure quattro metri, pieno di educazione e di cortesia, glielo assicuro! A ogni mezzo metro una pietra sporge e par proprio che siano state messe lì per invitare a salire!... Io passeggiavo... Nel moto è la vita, commissario, e l'aria della campagna, anche arroventata dal sole meridiano, è salutare ai polmoni... E al cuore! Oh! al cuore, poi!

De Vincenzi lo ascoltava parlare e cominciava a divertircisi. L'omino lo interessava.

Drake, invece, era furibondo e gli occhi, sotto le ciglia irte e cespugliose, gli fiammeggiavano.

— Chiacchiere! — ruggì. — Questo ridicolo gnomo è una spia!... Ecco quello che è!...

— Una spia! — gridò Vladimiro Curti Bo', sollevando le mani al cielo e con esse il bastone e il tubino. — Una spia... Gli faccia ritirare l'insulto, commissario!

La voce strideva all'acuto. E finì con lo spezzarglisi in un sibilo. Sembrava ubriaco di collera e tremava tutto.

— Calmatevi! — intimò De Vincenzi. — E spiegate senza tante parole perché eravate salito su quel muro!

— Glielo dico io il perché — urlò ancora Drake. Per vedere la Vergine al lavoro, per questo!... È una lurida spia degli allibratori e nient'altro! Se pure non è stato pagato da qualche scuderia... Il nuovo intervento dell'allenatore, che aveva parlato in inglese, invece di far aumentare l'ira dell'omino, sembrò placarla di colpo. Fu istantaneo. Vladimiro Curti Bo' cessò da ogni agitazione e, mentre si adoperava a ricomporre i propri indumenti con quelle sue mosse precise e affettuose, tornò a sorridere.

— Non insidio la virtù delle vergini, io! — disse in inglese anche lui. — E veder le Susanne al lavoro non è la stessa cosa che vederle al bagno! — Si volse a De Vincenzi: — Le sembro, forse, un satiro o un vecchio vizioso?

L'aspetto da satiro un po' lo aveva; ma De Vincenzi notò soltanto che conosceva l'inglese. Forse, l'omino non era così cattolico come sembrava.

— Andate, voi... — ordinò al custode e poi si volse all'allenatore: — Signor Drake, faccia tornare tutti gli uomini alle loro occupazioni... Li interrogherò di nuovo più tardi...

Drake sembrò indeciso. Finì col mettersi il berretto e si diresse alla porta.

— Lei rimane qui, commissario?

— Oh! per qualche minuto soltanto...

Vladimiro guardò l'allenatore uscire dalla stanza e ricambiò con un inchino l'occhiata feroce che questi gli lanciava. Attese che la porta si fosse richiusa e si volse a De Vincenzi.

— Un brutto carattere per trattar con le vergini!

— Lasciamo gli scherzi, signor... Curti Bo'... — insinuò subito l'altro con soavità.

— Si scrive in due parole...

— Due parole un corno!

De Vincenzi cominciava a perder la pazienza, ché da tutto quell'omino alto come il tavolo emanava ironia.

— Aspetto che voi mi diciate perché vi siete arrampicato su quel muro... La cosa non è così semplice come fate mostra di credere e non si tratta soltanto del galoppo di un cavallo!... Proprio in una camera al sommo di quel muro, che voi avete trovato tanto invitante, questa notte è stato ucciso un uomo!

— Già! — fece Vladimiro. — Un uomo, certo, anche se faceva il fantino!... Non trova, commissario, che alcuni mestieri tolgono la mascolinità agli uomini a quel modo che altri la danno alle donne? — Come fate voi a sapere che hanno realmente ucciso qualcuno e che questo qualcuno era un fantino?

— Uhm! — Vladimiro si schiarì la voce e parlò, cercando di non toccare le note acute. — Ma appunto per il fatto che io passeggiavo nei pressi della scuderia e... su quel muro... Quale interesse avrebbe potuto avere per me quella scalata, se al termine di essa non avessi saputo di trovare un cadavere?

— Dunque, a voi interessava quel cadavere?

— Interesse umano!... Curiosità, signor commissario! Peccato veniale!...

— Volete farmi credere che eravate venuto a San Siro soltanto per caso? Dove abitate, voi?

— Oh! lontano di qui... Ma come trovare prati e campi, se non ci si allontana dall'agglomerato della città?

— E così? Avanti! Da chi avete saputo che era stato ucciso un fantino?

— Tutti ne parlavano, di già! Lo sapevano le donnette che scendono dai casolari con le uova... i guardiani di San Siro... gli autisti dei tassi fermi sul piazzale dell'Ippodromo... la padrona e i camerieri del caffè... Se lo dicevano i tranvieri che, raggiunto il capolinea, ne ripartivano... A quest'ora può giurare che la notizia è arrivata in piazza del Duomo... Io l'ho appresa così...

— E siete subito corso a scalare il muro?

— Per vedere! Certo! Quale conoscenza vale quella degli occhi?

— E avete veduto il cadavere?!

— Oh!... no... 

— Perché il custode vi ha tirato già dal muro?

— Non è così! Il custode è stato inesatto e si è fermato alle apparenze. Egli mi ha veduto sul muro e ha creduto che volessi scalarlo... Invece, io ne discendevo...

— Ah!

— Ero già entrato nella camera del povero Perry Hodburn...

— Ah sì?...

De Vincenzi lo fissava. Quell'omino non era quel che voleva far credere. Ma chi, dunque?

— E che cosa avete visto, nella camera del morto?

— Vuol venire con me, commissario? Le mostrerò qualcosa che forse lei non ha visto... Venga! Venga!

S'era incamminato alla porta. De Vincenzi si alzò e lo seguì. Indubbiamente, quel curioso tipo aveva uno strano potere di persuasione!

Dall'androne, l'ometto, messosi il cappellaccio sulla testa, si dirigeva senza esitazioni attraverso il cortile. Passò davanti a Fred Drake, che fece un gesto di meraviglia, e agli ucraini che si trovavano fuori dei boxes, i quali lo guardarono e risero.

Cruni, staccatosi dai due agenti coi quali parlava, volle fermarlo, ma De Vincenzi gli fece un cenno e il maresciallo s'immobilizzò a mezza via.

Vladimiro era giunto ai piedi della scaletta di legno che conduceva ai locali accessori. La salì a saltellini e calcò con sicurezza il tavolato della passerella. Quando fu davanti all'ultima porta delle camerette, si fermò e si volse ad aspettare De Vincenzi.

— Entri lei per primo, commissario.

De Vincenzi aprì la porta. La stanzuccia non conteneva che il letto, un cassettone, due seggiole. Alle pareti alcune stampe inglesi di donne e di cavalli, uno specchio con la sottile cornice dorata e una fotografia di Perry Hodburn in costume da fantino.

Sul cassettone si vedevano gli oggetti tolti dalle tasche del morto: il portafogli, un portasigarette d'argento, una mandata di monete d'argento e di rame, un paio di fazzoletti, alcune lettere, l'orologio d'oro a braccialetto e una sottile catenina d'oro con un paio di ciondoli portafortuna.

— Perry aveva ancora i genitori a Dunfermline nel Fife, in Scozia...

De Vincenzi guardò l'ometto, che era entrato dietro di lui e aveva parlato.

— Oh! No!... Un'ora fa io non conoscevo neppure di nome il celebre Perry Hodburn... Ma, come le ho detto, sono entrato in questa camera, passando per quella finestra... — e indicò di fianco al letto la piccola finestra ancora aperta — ... e ho dato un'occhiata... appena un'occhiata, a quelle lettere... Ce n'è una appunto dei genitori di Perry... E ce n'è un'altra...

Sorrideva sempre, con quel suo sorriso pieno di malizia. Il volto appuntito, le orecchie aguzze, gli occhietti scintillanti. Una faina! De Vincenzi più lo guardava e più si convinceva che è straordinaria la somiglianza di alcuni uomini con gli animali! Ma questo qui di dove era sbucato? Doveva averlo già veduto e non riusciva a ricordare!

— Andate avanti...

— Non è questo che interessa... Le lettere le leggerà da sé e scoprirà facilmente gli intrighi amorosi del fu mister Hodburn di Dunfermline... Che cosa può importare adesso che egli avesse una moglie e in pari tempo una amante alla quale faceva credere d'essere scapolo?

De Vincenzi diede un'occhiata al letto sul quale il cadavere del fantino aveva giaciuto e che era largamente macchiato di sangue e poi al coltello, lasciato dal dottore sul piccolo tavolo di fianco al capezzale. No, nessun carattere di un delitto passionale, in quell'omicidio!... L'omino vedeva giusto! Gli diede un'altra occhiata e quasi ne ebbe rispetto.

— Allora, lei pensa...

S'interruppe, sorpreso egli stesso di avere adoperato il lei dopo tanti voi. Quell'omino non vedeva giusto, forse, proprio perché ne sapeva assai più del lecito? In altri termini, non poteva essere un complice o l'assassino stesso?

— Vediamo che cosa volete mostrarmi.

— Già!

Il ritorno al voi non gli era sfuggito e gli aveva fatto accentuare il sorriso.

Si avvicinò al letto e tese il bastone per indicare il ripiano del tavolinetto sul quale erano un libro, un portacenere e una scatola di fiammiferi, oltre al coltello sporco di sangue.

De Vincenzi si chinò a guardare: sul legno si vedeva nitida la traccia rotonda lasciata da una candela, che aveva sgocciolato tutt'attorno.

— Strano, eh! In una scuderia di questo genere è assolutamente proibito servirsi di candele... Un fantino come Perry Hodburn, abituato alle leggi ferree degli allenatori, non avrebbe mai commesso una simile imprudenza. Si sarebbe permesso di fumare, di nascosto, ma non sarebbe andato più oltre e non avrebbe certamente acceso una candela!... E poi a che scopo, quando per leggere in letto aveva la lampada proprio sul capezzale?

Era vero. Il braccio con la lampadina elettrica si protendeva, basso e comodo, dal muro.

De Vincenzi prese in mano il libro, ne lesse il titolo e diede un'occhiata all'omino. Wilde!... Intentions... E il libro ha un segno al saggio Penna, matita e veleno... Letture un po' troppo decadenti per un fantino!... Ma non dimentichi, commissario, che Hodburn era inglese e gli inglesi soffrono di strane aberrazioni, alle quali non si deve dar troppo peso nel giudicarli!... No, no... le divagazioni paranoiche più che paradossali attorno all'avvelenatore di Chiswich non hanno alcuna importanza in tutto questo!... Come la progettata bigamia del morto... Ma, invece, quelle macchie di cera!... Che sconfinato campo esse aprono alle ipotesi e come pure sono rivelatrici, nella loro antimoderna impudenza.

De Vincenzi depose il libro. Il volto gli si era chiuso duramente. Sì, quelle macchie di cera erano senza dubbio interessanti; ma non mai quanto l'omino che gli parlava. Era indispensabile ch'egli si occupasse di lui con ogni attenzione. Ma intanto occorreva sentire che cosa avrebbe detto l'allenatore di quella infrazione al regolamento.

— Aspetti, signor Curti Bo'... Aspetti qui... — e andò fuori sul ballatoio e, poiché non vide Cruni nel cortile e neppure alcun altro, fece di corsa la passerella e scese la scala.

Nell'androne trovò Drake e lo fece salire con lui. De Vincenzi precedeva.

Quando fu per arrivare all'ultima stanzuccia, cominciò a dire:

— Desidero farle vedere qualche cosa, signor Drake... ma prima mi dica: che lei sappia Perry Hodburn aveva l'abitudine di servirsi...

Era giunto sulla soglia e s'interruppe bruscamente. La stanza era vuota. Vladimiro Curti Bo' si era dileguato.

De Vincenzi fu rapido a rimettersi dalla sorpresa. Corse alla finestra e vide l'omino che era già disceso dal muro e saltava come un grillo verso l'Ippodromo.

Non pensò neppure di farlo inseguire.

Se Vladimiro Curti Bo' era scappato a quel modo, si poteva essere sicuri che conosceva il mezzo di non farsi acciuffare...

 

 

Capitolo VI

 

Rosenkreutz

 

Il guardaportone azzurro cielo questa volta corse rischio di perdere il paradiso. Per qualche istante sembrò che stesse per annegare dentro quel suo mare di purità come in un oceano di collera. Paonazzo, i baffi ritti, balbettò:

— Lei! Lei!... Ma che cosa vuole?

Si strangolava e poiché a garrottarlo, col gonfiarglisi del collo, era il colletto gallonato, egli moriva, come Mida, soffocato dall'oro.

— Non si agiti! È assolutamente pericoloso, specialmente di pomeriggio, all'ora della digestione!

— Ma perché è tornato?!

— Si rassicuri! Non certo per richiederle quelle cinquanta lire! Esse si sono involate! Transeerunt!...

— Ah! — fece il guardaportone, ripigliando a respirare.

— Prenda, invece, questo mio biglietto di visita, che la prego di far trasmettere a Sua Eccellenza... Si dice così? A Sua Eccellenza il barone Gerolamo Verbena del Santo...

L'uomo, che aveva ritrovato un po' del suo contegno e che al nome del padrone tentava di riprendere anche la fierezza, diede un'occhiata sdegnosa al cartoncino.

In mezzo lesse subito stampato in un bel gotico:

 

VLADIMIRO CURTI BO'

 

Ma, su quel biglietto il guardaportone vide ben di più. Vide disegnati a matita due triangoli sovrapposti a formar stella e attorno, i seguenti frammenti di parola fra una punta e l'altra degli angoli: SAL- UTE - AVO - IBA - NDI - TORI.

Come poteva pensare quel dissennato che lui si sarebbe permesso di far pervenire a Sua Eccellenza un biglietto di quella specie?

Il suo sdegno fu tanto violento, ch'egli non temette di dir pane al pane:

— Ma lei è pazzo, caro signore!

Incollerito certo, ma anche conscio del pericolo che si corre a dar del pazzo a un pazzo, il guardaportone si teneva dietro il tavolo massiccio, come dietro una trincea, pronto alla difesa.

Invece, l'omettino rise.

— Eh! Il dubbio non è suo soltanto. La generalità dei mortali ritiene dissennati quei pochi credenti puri, che hanno per simbolo il pentagramma e che sanno dissertare sulla evoluzione delle Catene e dei Giri!...

Rise ancora e più rumorosamente. Poi si fermò, per non scomporre l'ordine della cravatta e del tubino, che ai sussulti gli era sceso fino alla nuca.

— Vediamo un po'... Che cosa posso fare per convincerla che quel mio biglietto mi servirà di sicura introduzione presso il suo padrone?... Forse, neppure il denaro basterà!... Tuttavia, è necessario!

Parlava come tra sé e non dava che qualche occhiata scrutatrice al cerbero trincerato dietro il tavolo.

— Ecco! Forse, questo è il mezzo!...

Fece una pausa.

— Non vuole, dunque, annunziarmi direttamente al barone? Mandi allora il mio biglietto al maggiordomo... Parlerò con lui...

Il portinaio esitò. Ebbene, Matteo avrebbe pensato lui a liberarlo una volta per tutte da un simile seccatore. Era la migliore soluzione!

— Sta bene! — disse. — Avvertirò Matteo...

— Matthew Scott, originario di Topeka, nel Kansas!

Anche il nome e il paese d'origine del maggiordomo sapeva! Un pazzo lucido, perdio!

L'omettino, indifferente alle occhiate sbalordite del portinaio, s'era messo a passeggiare per la stanza, agitando con grazia il bastone.

Dopo una decina di minuti, il maggiordomo in panciotto a righe verdi e bianche fece la sua apparizione in portineria. Era evidentemente seccato d'essersi dovuto scomodare e guardò Vladimiro dall'alto della sua persona magrissima come si guarda un insetto velenoso.

— Mister Matthew Scott? — chiese con voce acuta l'omino e si tolse il cappellaccio, inchinandosi.

— Che cosa volete?

Matteo, invece, aveva la voce sgraziata, roca, che grattava le parole. E il volto glabro, senza la più piccola traccia di peluria, solcato da mille rughe sottili, ma duro, battuto dagli anni come da un vento salso di tempesta. Sotto una parrucca rossigna — un'onesta parrucca, che aveva visibilmente soltanto il compito di coprire la testa al modo di un cappello e non l'altro ingannevole di rappresentare i capelli — s'indovinava con ogni facilità iI cranio calvo, liscio come una palla di biliardo.

Vladimiro prese dal tavolo il cartoncino lasciatovi dal guardaportone e lo tese al maggiordomo.

— Volete annunziarmi a Sua Eccellenza, mister Matthew?

— Eh? — Sì, sì, non esitate! Recate al barone questo mio biglietto e vedrete ch'esso sarà per me l'apriti sesamo!

Mentre diceva così, l'omino gli aveva cacciato nella mano il biglietto.

L'uomo dalla parrucca e dal panciotto a righe verdi abbassò macchinalmente lo sguardo sul cartoncino e subito lo rialzò in volto a colui che glielo aveva dato. Era interrogativo quello sguardo, ma anche alquanto smarrito.

— Che vuol dire?

— Oh! nulla... Nel porgerlo al barone, potete aggiungere, se volete, che sono un amico dell'Imperatore...

— Venite!

E con grande meraviglia dell'uomo azzurro cielo, l'uomo verde e bianco fece salire dietro di sé, per Io scalone d'onore, l'omino dall'abito tortora e dalla cravatta cremisina.

Una folle ridda di colori assurdi danzava così, in quel pomeriggio, dentro l'austero palazzo di piazza Crispi, che sei enormi giganti sorreggevano da secoli.

 

 

Gerolamo Verbena del Santo ricevette Vladimiro Curti Bo' nel suo studio al primo piano, che precedeva, in quell'ala del palazzo, la sua propria stanza da letto e chiudeva l'interminabile fila di saloni e salette.

Uno studio dalle linee severe, addobbato con severa ricchezza.

Nel mezzo, sotto il lampadario di vetro veneziano, si stendeva l'immenso tavolo di legno di rosa.

Un sottile e altissimo Cristo di avorio era su di esso, di fronte al seggiolone baronale, e un altro Cristo, d'argento massiccio e brunito questo qui, si rizzava da una corta colonna d'ebano di fianco al tavolo.

Quei due simboli di una fede proclamata in avorio e argento davano alla stanza, in cui il rosso cupo e il nero lucente imperavano, una strana apparenza di cappella ardente, che neppure il sole ch'entrava dalle grandi finestre aperte riusciva a toglierle.

Il barone attendeva colui che s'era fatto annunciare, in piedi presso il tavolo e quando lo vide entrare, senza il tubino, che Matteo gli aveva preso nell'anticamera, ma ancora col suo bastone in mano, dal quale non aveva voluto separarsi, trasalì. Era l'omino di San Siro! Mosse un passo verso di lui, poi s'immobilizzò.

— Lei è?...

— Precisamente, Eccellenza! — e Vladimiro Curti Bo' s'inchinò gravemente, per poi avanzare ancora con quei suoi passettini rapidi sino al tavolo. — Precisamente! Il signor Swan mi onora della sua amicizia e assai spesso assieme a lui ho assistito al levarsi del sole sulla città tentacolare, sentina di vizi e di sozzure...

Il barone lo aveva ascoltato e lo guardava a occhi socchiusi. Accennò col capo:

— Segga... — e lui per primo sedette davanti al tavolo. L'omino gli sedette di fronte.

— Perché è venuto da me, lei?

— Oh! — fece Vladimiro. — Gli è ch'io non ignoro come la forza materiale, vivificatrice, sostenitrice dei Rosa Croce, promani da questo palazzo... da questa sala... dal suo cuore.

Un leggero sorriso aleggiò sulle labbra tumide del barone, setto il naso potente, tra i baffi e il pizzetto pepe e sale.

— È stato Teodoro Swan a dirglielo? Egli ha avuto questa fiducia in me!

— Straordinario! — pronunciò la voce flautata del barone e Vladimiro trasalì. 

— Oh! io sono un uomo sicuro, signor barone... Una tomba per i segreti... Una spada per la battaglia...

— Straordinario! — ripeté la voce e il barone prese fra le dita il biglietto di visita che aveva deposto sul tavolo e si mise a osservarlo.

Sulla seggiola l'omino si agitò. La sua destra strinse a mezza canna il bastone.

— È per farmi sapere tutto questo che lei ha disegnato il segno cabalistico sotto il suo nome?

— Sapevo che non avrei potuto trovare migliore raccomandazione presso il suo cuore!

— Bene!

Seguì una pausa. Gli occhi semichiusi del barone non lasciavano l'omino.

— E adesso veniamo al sodo... — La voce era sempre flautata, più soave ancora di prima. — Che cosa vuole da me?

— Una sola speranza sorregge la mia vita! Poter essere accolto nel cenobio... Nel cenobio gnostico... — ebbe un'esitazione e poi chiese di colpo: — Dove si trova il cenobio dei Rosa Croce?

— Vedo!... E Teodoro Swan?

— Oh! no... L'Imperatore non mi ha rivelato neppure il luogo!... La Svizzera è piccola ed è grande...

Per la terza volta, il barone esclamò: straordinario! Poi rise dolcemente, con soddisfazione, a piccoli sussulti lievi.

Vladimiro lo guardò ridere e si fece scuro in volto. Tutto il suo spirito si tese e, poiché evidentemente egli era un emotivo, quella tensione gli apparve sul visuccio da faina così chiara e percepibile, come la leggera increspatura prodotta dal vento sopra uno specchio d'acqua.

Ma il barone continuava a ridere, e l'omino saltò dalla seggiola sul pavimento.

— Stia comodo?... Che cosa le prende? Non è venuto qui condotto dalla fede?

Fece una pausa, poi chiese:

— Che cosa sa lei di me?

— Oh! nulla!

Vladimiro Curti Bo' s'era ripreso.

— Che cosa potrei sapere io di lei, Eccellenza?! Neppure il proprio corpo si conosce perfettamente. Ognuno di noi ha qualche ghiandoletta di cui sempre gli è stata ignota l'esistenza...

— Ma no!... Bisogna conoscere se stessi... L'aiuterò io a farlo...

Tese la mano e premette un bottone.

Quasi si fosse tenuto dietro alla porta, pronto a quella chiamata, Matteo apparve.

— Dai una stanza nel palazzo a questo signore. Egli è nostro ospite... E trattalo con ogni riguardo. La sua permanenza con noi sarà lunga... Vada, vada pure, signor Vladimiro... Curti Bo'... Ci rivedremo e parleremo...

Vladimiro diede un'occhiata al servo e non ebbe dubbi: non gli era possibile sottrarsi all'ospitalità offertagli. Il vecchio con la parrucca era forte ancora, tutto d'acciaio. Dentro di sé maledisse la propria imprudenza. Avrebbe dovuto pensare alla ritirata!

Ma oramai era troppo tardi per recriminare.

Fece un inchino e si avviò alla porta. Matteo lo seguì. Traversarono i saloni. Il servo gli stava alle calcagna.

Raggiunsero il largo pianerottolo, che univa le due ali del primo piano e si apriva da una parte con la rampa ascendente e dall'altra con quella che discendeva all'androne, per terminare davanti all'ufficio del portinaio azzurro cielo.

Vladimiro agì con la rapidità del lampo.

Matteo aveva intimato: — Salga!... — ma non aveva finito di pronunciar la parola, che si trovò in terra. L'omino gli aveva cacciato il bastone fra le gambe.

Compiuto questo gesto semplice, Vladimiro compì una serie di altri gesti alquanto più complicati, ma egualmente rapidi. Si chinò e, afferrata la parrucca rossigna, la cacciò sul volto di Matteo a mo' di maschera, accecandolo. Poi, si gettò giù per lo scalone. Lo percorse in un attimo, balzando leggero senza quasi toccare i gradini.

Quando il servo, strappatasi la parrucca dal volto, poté rimettersi in piedi, l'omino era già passato come una freccia davanti alla vetriata del guardaportone e usciva sulla piazza.

Quivi giunto si fermò. Si diede una toccatina ai vestiti, alla cravatta, alla testa. Ahimè! il cappello era rimasto nel palazzo del barone.

— Un borsalino autentico! — sospirò Vladimiro. — La cosa più urgente è che io me ne vada ad acquistare un altro...

 

 

Capitolo VII

 

Verità

 

Se la prerogativa precipua di Vladimiro era, come si è visto, di saper fuggire a tempo, egli aveva innegabilmente anche un'altra virtù: la tenacia.

Tenacia e costanza, che gli facevano tener la presa come a uno di quei cagnolini, che non aprono le zannette, se pur si scuota, si tiri e si sbatta il tappeto che hanno addentato.

L'omino aveva azzannato un metaforico tappeto, che lui solo vedeva e conosceva, e non dimostrava alcuna intenzione di abbandonarlo.

Uscito dal palazzo Verbena, egli si era munito di un altro copricapo, in tutto simile a quello perduto, ed era subito tornato verso piazza Crispi.

Alle cinque circa del pomeriggio, in quel giugno prematuramente caldo, le strade e le piazze del centro di Milano ardevano di sole.

In piazza Crispi, Vladimiro trovò un po' di ombra sotto i portici di corso del Littorio. Si rifugiò a quell'ombra e, dal principio dei portici, poté osservare il portone coi giganti e veder chi ne uscisse e chi vi entrasse, senza tema che qualcuno o qualcosa potesse sfuggirgli.

Ma se questo suo modo di agire — date le azioni ch'egli aveva compiute fin dalla mattina di quel giorno — poteva apparire normale, meno normale, all'intelligenza di chi avesse voluto comprendere le ragioni che lo facevano muovere, era quel suo annotare sopra una minuscola agenda tutto quanto vedeva, che avesse relazione col palazzo.

Così, sopra quell'agenduzza, dopo circa un'ora di attesa, l'omino aveva scritto le seguenti annotazioni:

 

— ore 17 e 5 — il guardaportone mostra il suo azzurro sulla soglia; baffi ispidi e ciglia agitate;

— ore 17 e 20 — Matthew, con la parrucca rimessa a sesto e col vivido panciotto coperto da una giacca grigia abbottonata, esce in fretta e si dirige per via Caserotte; inutile seguirlo per sapere dove si rechi;

— ore 17 e 35 — Fred Drake — con cappello floscio al posto del berretto a nappa — arriva nella sua Renault, discende in fretta ed entra nel palazzo; è congestionato (questo caldo è deleterio per i temperamenti apoplettici e collerici);

— ore 17 e 55 — il commissario De Vincenzi (sarà un miracolo se io riuscirò a fargliela sino alla fine!) appare in via Caserotte con Matthew Scott al fianco; così la riunione sta per essere al completo...

 

A questo punto, Vladimiro interruppe le sue note, chiuse in fretta l'agenda e se la cacciò in tasca. Con un piccolo balzo si nascose dietro una colonna e di lì, al riparo dagli sguardi dei due che avanzavano verso il palazzo, osservò a tutt'occhi un'impressionante figura di donna che, apparsa sul portone, s'era messa ad attendere l'avvicinarsi di una grossa spider alla quale il portinaio aveva fatto un cenno imperioso.

Vide la macchina girar per la piazza, guidata da un autista in spolverino bianco, e non attese che essa si fosse fermata per fare un sol balzo dalla colonna al primo tassi fermo lungo il marciapiede del colonnato.

Il conducente si volse a interrogare quello strano cliente, che gli capitava come un bolide; ma ne ottenne soltanto un grazioso sorriso.

— E allora?

— Allora, che cosa?

— Dove vuole andare?

— Ma io non Io so... Voglio dire... ecco... — Aveva guadagnato il tempo necessario e adesso la spider si muoveva di nuovo con la donna al volante e senza l'autista, ch'era rimasto a terra accanto al guardaportone. ... Seguite quella macchina e non perdetela di vista... se potete...

Il conducente guardò l'auto lussuosa con la donna e poi di nuovo il cliente capitatogli. Premette la messa in marcia e sogghignò:

— Se la raggiunge, quella lì se ne fa un ciondolo!...

Vladimiro Curti Bo' finse di non aver udito e si abbandonò beatamente sul sedile, togliendosi il cappelluccio per avere il refrigerio di un po' d'aria.

Voleva godersi la gioia di quell'abbandono, senza guardarsi neppure attorno. Il tassi andava per le vie del centro, fermandosi ai semafori e al segnale dei vigili a ogni centinaio di metri. Poi cominciò ad accelerare e gli arresti si fecero più radi.

Vladimiro si scosse. Riconobbe piazzale Magenta col monumento a Baracca. Oh! fece dentro di sé, Verità va a San Siro!... E cominciò a destarsi dal sopore. Questo non lo avrebbe supposto! Eppure, che cosa di strano che la giovane amasse i cavalli e s'interessasse alla vita di scuderia?

La lunga veloce macchina di Verità giunse al piazzale dell'Ippodromo che il tassi verde era ancora al principio di via Caprilli. Quando finalmente Vladimiro arrivò e discese, essa era scomparsa. Facile a immaginare che s'era inoltrata per la stradetta della scuderia, sulla via di Trenno.

— Ho da aspettarla qui? chiese il conducente.

— Ma no! A bollir nella pentola, le uova diventano dure!

Il conducente sgranò gli occhi.

Vladimiro aveva ritrovato tutto se stesso, oramai. Ammiccò:

— Voi non avete la pazienza del pescatore e soprattutto non l'ha il vostro tassametro! Cavò il borsellino e pagò. L'uomo del tassi torse la bocca: non si aspettava una ricca mancia da un omino simile, ma quello gli aveva dato in tutto e per tutto venti centesimi!

Gli sputò dietro e diede un colpo al volante, bestemmiando.

Vladimiro trotterellava di già per la stradetta, facendo roteare il bastone fra le dita della destra.

Tra il paddock e la porta della scuderia vide ferma la spider di Verità. La ragazza doveva essere entrata.

Tutt'attorno non si mostrava anima viva. I cavalli dormivano nei boxes e gli uomini o erano dentro o s'erano dispersi nelle osterie. In quanto ai fantini, dovevano trovarsi da tempo in qualche bar del centro.

Che cosa era andata a fare Verità nelle scuderie a quell'ora?

L'omino si tolse il cappello e si grattò la testa. L'atto in lui era insolito e denotava una certa perplessità.

Si avvicinò all'auto e ci girò attorno.

A un tratto sembrò che le sue esitazioni fossero cessate. Senza aprire lo sportello, lo scavalcò e penetrò nell'interno della carrozza. Sul sedile posteriore v'era una grande coperta e parecchi cuscini. Vladimiro si distese sul fondo, tirandosi addosso la coperta e disponendola in modo che sembrasse caduta naturalmente. La posizione non era nelle più comode e l'omino, lì sotto, cominciò a sudare. Con la testa fuori dalla coperta a mo' d'una tartaruga, spiava il portone.

Per sua fortuna, l'attesa non fu lunga. Dopo una decina di minuti, Verità comparve sulla porta. Camminò svelta alla macchina e salì al volante. Sotto la coperta Vladimiro era scomparso.

La macchina si mosse. Girò attorno al paddock, imboccò la stradetta. Procedeva lentamente, che quella specie di viottolo non era fatto davvero per la velocità.

Della lentezza, Vladimiro approfittò subito, ché l'unico scopo per il quale s'era sottoposto a quella specie di bagno turco era appunto di poter parlare a Verità, senza testimoni e senza preavvisi. Si tolse di dosso la coperta e sedette sul seggiolino, proprio alle spalle della guidatrice.

Prima si ricompose abito e cravatta, si mise il tubino sul cranio, diede a se stesso quel colpo di reni con cui si raddrizzava materialmente per prendere l'abbrivio a una azione, quindi tossicchiò discretamente.

Il motore girava con dolcezza; la campagna era immota sotto la luce opalina dell'ultima ora di chiarità; il fremito molecolare che il sole dà all'atmosfera s'era miracolosamente arrestato nell'attesa trepida del crepuscolo, che è sempre il rinnovarsi di un'agonia e che sempre dà alla terra e alle cose un'ansia sospesa.

Il raschiamento dell'ugola di Vladimiro fece voltare di colpo Verità.

A vedere l'omino seduto nella sua auto, la ragazza trasalì e un poco la macchina sbandò verso la siepe. Ma fu un attimo. Lo sguardo limpido, diritto, degli occhi grigi, stranamente argentei, riprese la sua sicurezza e Verità, dato un colpo energico al pedale e uno alla leva, fermò la macchina. Quindi si volse e per qualche istante esaminò con rapida minuziosità l'intruso.

— Bene — disse e la sua voce era forte, ferma, una voce dal timbro senza incrinature. — Volete dirmi che cosa desiderate e perché vi siete seduto nella mia auto?

Vladimiro si tolse il tubino e salutò.

Chiedo scusa! II modo non è corretto. Ma io personalmente sono correttissimo.

— Lo vedo! E poi?

— La vita è ricca a dovizia di sorprese!

La ragazza sorrise ironicamente.

— Questa è un po' una sorpresa da circo equestre! L'uscita di un clown privo di originalità.

— Lo ammetto. Ma anche il modo con cui Perry Hodburn è stato fatto uscire dal mondo non ha molta originalità, se non forse quella delle macchie di cera...

A Vladimiro sembrò che nello sguardo interrogativo di Verità fosse passato un lampo di paura. Ma la voce suonò calda, senza fremiti.

— Che cosa c'entrate voi con l'assassinio di Hodburn?

— C'è un cuneo... un piccolo cuneo appuntito... e c'è un martello... Il martello batte e fa penetrare il cuneo. lo sono il cuneo, che il destino ha confitto nel denso spessore d'un mistero...

La ragazza rise.

— Siete divertente! — e girò di più la persona, quasi volesse godersi meglio lo spettacolo.

L'omino si pavoneggiò.

— Ho scelto questo mezzo, per rendermi utile.

— A chi?

— A lei, baronessina Verità!

— O a voi stesso, signor intrigante!

Vladimiro si fece grave. La voce, quando parlò, gli salì al falsetto, proprio mentre lui avrebbe voluto renderla cavernosa.

— Perché hanno ucciso Perry Hodburn? Il perché conta!... Nel quia è il nodo. Un fantino è un semplice congegno, sopra una forza viva! Si son voluti tagliare i garretti del cavallo?... No... no... — e girò la testa, negando con forza. — No! Il dramma è più profondo... è più nero nel gorgo nero... Viene da lontano... Posso rivolgerle una domanda, baronessina Verità? Non chiedo che ella mi dica... se stessa, nella risposta!

Si fermò. Sorrise. Sospirò.

— Oh! perché suo padre le ha dato un nome tanto compromettente?! Ma non è questa la mia domanda. Questa è una domanda che rivolgo a me stesso e al destino. A lei vorrei permettermi di chiedere: che cosa è venuta a fare qui, stasera? Il volto della ragazza rimase impenetrabile, soltanto un poco gli occhi le lampeggiarono, con quel guizzo, che forse era di paura.

— E poi?

— Noi ci dovremo incontrare parecchie volte ancora, baronessina! E io proprio vorrei che una di tali volte ella non dovesse benedire il cielo d'avermi accanto!...

— Tutto questo è divertente, ma oscuro! E noioso!... Voi chi siete e che cosa volete?

— Trovarmi presente quando alla morte di Perry Hodburn se ne staranno per aggiungere altre!... Il mio cuore tenero non approva che si riforniscano artificialmente i cimiteri!

— Chi siete, voi?

— Vladimiro Curti Bo'... in due parole...

— Ebbene, signor... in due parole... voi cominciate ad abusare della mia pazienza! Volete un consiglio? Uscite dalla mia vettura prima che non sia io a gettarvene fuori!

— Mi ascolti, signorina Verità!... L'uccisione di Perry non è che un avvertimento... Io non so nulla di tutto quanto accadde, ma certo quell'assassinio ha un significato, che non è quello apparente... Non si rende vedova... una vergine, perché non arrivi prima al traguardo! Esistono altri novecentonovantanove mezzi meno sanguinosi e più economici, per raggiungere lo scopo. Se lei crede che sia una questione di turf, parte handicappata e va incontro a sorprese poco piacevoli!... Questo è un gran ballo mascherato, che si prepara nel palazzo degli omenoni, e qualcuno si è travestito da imperatore!... Dopo il primo cadavere, ce ne troveremo fra i piedi qualche altro e a un tratto le luci si spegneranno, per permettere al protagonista di prendere il largo... Io non so nulla, ma la mia fantasia è una curiosa bestiola, che fa salti di lunghezza spropositata...

Tacque e si diede una toccatina alla cravatta.

Verità lo aveva ascoltato con attenzione, fissandolo. Sembrava pesar dentro di sé il valore di quella elucubrazione.

— Troppe parole! — mormorò.

Poi, di colpo, s'inginocchiò sul sedile, volta verso l'interno della macchina, afferrò sotto le ascelle l'omino, lo sollevò e lo lasciò cadere fuori dell'auto, sulla siepe.

Vladimiro si rese conto di quel che gli accadeva, quando già stava nuotando fra le spine. E alla sua volta procurò una piccola sorpresa alla ragazza. Logicamente, avrebbe dovuto impantanarsi fra quelle spine e rimanervi come una mosca sulla colla; invece fu miracoloso: toccò coi talloni la terra e saltò fuori. In piedi sull'argine della strada, guardò l'auto che si muoveva.

— Me lo merito, signorina Verità! Ma non sarà sbarazzandosi di me, che lei potrà uscire incolume dal ballo!

La ragazza si volse e rise. Poi premette sull'acceleratore. La macchina schizzò per la stradetta. Vladimiro Curti Bo' mormorò tra sé, scuotendo tristemente il capo:

— Hai riso verde, povera Verità!

Si rassettò il vestito un poco malconcio per il volo e si mosse. Fece qualche passo in direzione del piazzale, dove la macchina era ormai spedita; poi si fermò.

— Se sapessi almeno perché hanno avuto bisogno di una candela!

E tornò indietro, verso la scuderia.

 

 

Capitolo VIII

 

Ectoplasma

 

— Ma quell'omuncolo non è soltanto ridicolo!... Non so come dire!... lo ho subito supposto ch'egli si serviva del ridicolo come di una maschera... I suoi abiti e il suo nome sono un travestimento! II travestimento di un uomo, che si è imposto di apparire comico, per non essere riconosciuto...

Sì, la supposizione reggeva. Ma non era la buona. De Vincenzi avrebbe giurato che non rispondeva a verità. A parte la sicurezza di averlo veduto altrove prima che alla scuderia di San Siro; gli occhi dell'omino e il suo volto da faina erano comici naturalmente e, perciò appunto, sconcertanti... Ma chi poteva mai essere, dunque, quel Curti Bo'... in due parole!... e perché aveva voluto cacciarsi in mezzo a una storia simile? E oltre tutto, dopo esser fuggito a quel modo imprevedibile dalla scuderia, era andato a trovare il barone nel suo palazzo:

— Ma si può sapere, insomma, che cosa voleva? Una ragione alla sua visita deve pure avergliela data...

In piedi davanti al tavolo di legno di rosa, De Vincenzi aveva distolto lo sguardo dal Cristo d'argento, per guardare in volto il barone.

Gerolamo Verbena del Santo, troneggiante nel suo seggiolone, appariva agitato. Le mani robuste, ricche di pelo grigio sino alla prima falange delle dita, si muovevano sul tavolo con irrequietezza.

Fred Drake, ritto di fianco al tavolo, si mordicchiava i baffi ispidi e faceva il cipiglio. In fondo, tutte quelle storie — e soprattutto l'assassinio del fantino nel suo cervello assumevano un'unica realtà: fra otto giorni la Vergine doveva correre e lui non aveva più la monta, che potesse dargli la sicurezza della vittoria.

— Una ragione... una ragione!... Eccola la sua ragione! Farebbe ridere, se non ci avessero cacciato un cadavere fra i piedi!

E gettò sul tavolo, verso il commissario, il cartoncino col nome e col pentagramma.

De Vincenzi lo prese e lo osservò con attenzione, poi fissò negli occhi il barone.

— Uno dei simboli dei Rosa Croce!

— Come lo sa, lei?! — fece Gerolamo Verbena e la sua meraviglia era sincera.

De Vincenzi sorrise.

— Qualche volta leggo... per farmi una cultura!... Lei appartiene ai Rosa Croce? Ha relazione con l'Ordine Esoterico di Kempten?

— Ma sì — in America ho appartenuto all'Order of the Golden Dawn... Venuto in Italia, ho mantenuto le relazioni con Thurmann e con Hartmann...

— Si è recato a Kempten a partecipare a qualche seduta spiritica?

— Non sono mai stato in Baviera... Ma tutto questo non c'entra... Evidentemente, la teosofia non è che un pretesto... Quel signore... quella specie di nano... dopo esser penetrato nelle scuderie, ha voluto entrare anche qui dentro... A quale scopo? Ecco! È questo appunto che lei deve scoprire!...

De Vincenzi alzò le spalle.

— Lo scopriremo, forse... — mormorò.

Fred Drake interloquì con veemenza:

— Io ho l'impressione, che non avremo fatto un gran passo, quando si sarà saputo chi sia e che cosa voglia quel nanerottolo della malora!

— Che significa questo?! Un gran passo? — scattò il barone.

— Sulla strada dell'assassino di Perry Hodburn... Ed è questo che interessa, per il momento! Un coltello nel petto del miglior fantino d'Europa è qualcosa di ben più preoccupante che non l'inutile ficcanasare di un ridicolo ometto!

— Crede? chiese De Vincenzi, fissando l'allenatore. — E pure stamane lei parlava di spionaggio e accusava quell'ometto d'essere un emissario degli allibratori!

— Sicuro! È l'unica spiegazione plausibile! Ma con questo?! Lo spionaggio... la corruzione... il trucco... sono mali troppo diffusi e radicati nel nostro mestiere, perché possano sorprendermi!... Dacché esistono, non ci rimane che difenderci da essi, adoperando quei mali stessi per contro veleno!...

— Naturalmente!

Il barone saltò in piedi, come se volesse ribattere. Ma ebbe un gesto d'ira e non parlò. Preso lo slancio, lo esaurì, mettendosi a camminare per la stanza.

I due lo guardavano. De Vincenzi aveva parecchie domande da rivolgergli, molti punti da chiarire; ma voleva prima lasciarlo parlare. Fin dal momento in cui lo aveva incontrato a San Siro e poi subito quando aveva veduto entrare il maggiordomo nel proprio ufficio di San Fedele, un'intuizione gli aveva detto che il barone nascondeva qualcosa e che questo qualcosa era tutt'altro che trascurabile. E adesso era venuta la teosofia e l'ombra dei due immensi Cristi sovrastanti ad aumentare in lui quell'impressione e a dargli l'oscuro senso di un pericolo, come la sensazione d'un nuovo dramma imminente.

Il barone si fermò, finalmente, e tornò a lasciarsi cadere sul seggiolone. Appariva invecchiato. La grossa mole del suo corpo dalle ossa potenti, dai muscoli vigorosi, sembrava — là, contro il damasco oro e porpora dello schienale — aver perduto consistenza. Fosse la luce che entrava ancora a fiotti dai finestroni col sole fremente di molecole splendenti; fosse soprattutto lo stato di morbosa tensione in cui egli stesso si trovava, De Vincenzi lo vide come sfocato, enorme massa d'ectoplasma materializzatosi nel corso d'una assurda seduta di spiritismo.

Facendo uno sforzo su se stesso, col movimento con cui avrebbe gettato dalle spalle un peso che l'opprimeva, il barone si rizzò sul busto e aprì un tiretto del tavolo.

— E poi ci sono queste!...

Trasse due buste e le gettò sul piano lucido del tavolo.

De Vincenzi vide che recavano il nome del barone e avevano francobolli e timbri postali. I francobolli non erano italiani.

— Quelle? — chiese.

— Guardi!

Le prese tutte e due e le osservò. Una aveva il francobollo australiano e sul timbro si leggeva chiaramente la data: 13/6/1935. L'altra aveva il francobollo svizzero e la data 13/6/36. Su entrambe l'indirizzo del barone era scritto con calligrafia nervosa, puntuta, sicuramente non artefatta.

Aprì la meno recente e ne trasse un foglio con poche righe:

 

«Ancora due anni e poi sarà il trentesimo anniversario della mia morte. Ma i morti tornano, ché l'anima non si uccide. E nulla è più terribile di un'anima che si vendica».

 

Non recava firma.

 

La seconda era più breve ancora:

 

«Un altro anno è passato. Fra dodici mesi...».

 

— Null'altro. Tra dodici mesi... Domani, cioè... Domani è il 13 giugno...

—E stamane hanno ucciso Perry Hodburn!...

De Vincenzi fissava il barone. La sua aria guasconesca era caduta. Tutto in lui rivelava lo smarrimento. Ma lei deve sapere qualcosa di queste lettere! Lei deve avere gli elementi per supporre chi sia stato a mandargliele e quindi da chi le venga la minaccia.

Sorrise. Gli sguardi fuggirono dalle lettere al Cristo d'avorio, per posarsi lontano sulla parete, oltre la parete.

— Io non ho... ucciso nessuno, commissario... Proprio nessuno!... A parte il fatto che le anime non si vendicano e soprattutto non scrivono!...

Sempre in piedi di fianco al tavolo, Fred Drake girava lo sguardo sul barone, sulle lettere, su De Vincenzi, con aria stupefatta.

— E questo è tutto!... Quel... quel Curti Bo'... Perry Hodburn con un coltello nel petto... e le due lettere... Non c'è altro, commissario! E tocca a lei di capirci qualche cosa!...

— È proprio sicuro che non ci sia altro?

— Che vuol dire?!

— Non crede che sarebbe opportuno ch'io avessi un colloquio con lei, da soli?...

Fred Drake fece un passo verso la porta.

— No! Rimanga!... Io non ho segreti per nessuno.

L'allenatore si fermò. Un lieve senso d'impaccio gli era apparso sul volto. Più che mai furiosamente si mordeva i baffi.

— E non ho proprio null'altro da dirle, commissario!...

Si alzò ed ebbe un sogghigno. Cominciava a trovare un po' di sicurezza.

— Non le sembra che basti?! Un cadavere... lettere... un omino che dà la scalata ai muri!..

— E una macchia di cera...

La voce di De Vincenzi era bassa, insinuante, soave; ma penetrava come una lama.

— Che cosa?!...

Il barone aveva impallidito. Un leggero tremore gli agitava la mascella.

— Che cosa?! — ripeté con voce rauca, strozzata.

De Vincenzi lo osservò, senza rispondere. Poi lentamente si volse a Fred Drake.

— Nella scuderia, i fantini e gli altri uomini che vi dormono hanno l'autorizzazione a servirsi di candele?

La domanda fece trasecolare l'allenatore.

— Ma... non capisco... Candele? E perché? Qual necessità di servirsi di candele, se c'è la luce elettrica?

— Sì, questo è evidente. Ma lei pensa che qualcuno possa, per una qualsiasi ragione, adoperare le candele?

— Ma no! Se me ne fossi accorto, avrei immediatamente licenziato chi lo avesse fatto! Col fieno la paglia, i boxes di legno, una tale imprudenza sarebbe pazzesca!...

— Ebbene, sul tavolino, accanto al letto di Perry Hodburn, sono rimaste evidentissime le tracce di cera di una candela, ch'era stata deposta accesa su legno e che aveva gocciolato tutto attorno...

— L'assassino ne avrà portata una con sé... cominciò Fred Drake; ma De Vincenzi lo interruppe:

— Le pare possibile che un assassino si serva di una candela, per muoversi nella stanza del delitto? Oggi, qualunque ladro e qualunque assassino conosce l'uso delle lampade tascabili...

— Ma allora?!... balbettò, l'allenatore.

— Ebbene, quali sono le sue induzioni, commissario?

La voce del barone era sempre più bassa e rauca, per quanto si fosse un poco raffermata e avesse un leggero accento ironico.

— Nessuna! Se non, forse, questa: chi ha assassinato Perry Hodburn doveva essere ben conosciuto dalla vittima e può darsi che una candela... la cui luce discreta era meno visibile dal di fuori di quella della lampada elettrica... abbia servito a illuminare un colloquio segreto, chiusosi tragicamente per il fantino... Ma è un'ipotesi, che non ci rivela nulla e che non ci conduce ad alcuna conclusione!

Seguì un silenzio.

Gerolamo Verbena del Santo era ricaduto a sedere.

Dopo qualche istante di perplessità, quasi di levitazione su quel silenzio gonfio di ansia, Fred Drake guardò l'orologio al polso e mosse decisamente verso l'uscio.

— Sono quasi le sette e io desidero fare un'ispezione nelle scuderie, prima che vengano chiuse per la notte...

Nessuno gli rispose e lui arrivò alla porta. Sulla soglia disse: — Buona sera! — e scomparve. Il silenzio incombette di nuovo.

— Non crede ch'ella possa e debba darmi qualche chiarimento attorno a queste due lettere? De Vincenzi le teneva sempre fra le dita e le guardava.

— Quale spiegazione vuole che le dia? Anch'io potrei fare qualche ipotesi... come potrebbe farne lei. Sono lettere di un pazzo? Sono lettere di un mio antico nemico, che tenta in tal modo di avvelenarmi l'esistenza?

Quale nemico, barone?

— Mah! non lo so! Chi di noi non ha almeno un nemico? Io più degli altri... che ho combattuto duramente per farmi la posizione attuale, per raccogliere, conservare, difendere il denaro che posseggo!

— Dove?

— Eh?

— Dico: dove ha combattuto? Di che luoghi parla? Di che tempi? La lettera fissa a trent'anni fa la... conoscenza ch'ella può avere avuta con lo scrivente...

La voce del barone, bassa, rauca, strangolata, ma adesso nettamente sardonica, interruppe:

— Lo scrivente è un... morto! Un'anima che si vendica!

— Lasciamo andare! Ci sono molte maniere, per morire... molte maniere per essere soltanto anima.

De Vincenzi si faceva persuasivo, cercava di rompere la crosta di ghiaccio dietro cui s'era rifugiato, quasi in modo materiale, quell'uomo dal corpo potente, ben vivo, tutto ossa e fasci di muscoli, eppure così fluido, così evanescente.

Prese una seggiola e sedette davanti al tavolo di legno di rosa, sotto il Cristo d'avorio.

— Crede davvero a un pericolo? Certo ci crede, ché altrimenti non avrebbe conservato le lettere, non me le avrebbe mostrate... non le avrebbe prese fra le mani proprio oggi, che è la vigilia del 13 giugno 1937... e che hanno ucciso Perry Hodburn!... Ma come vuole che io la protegga, che io eviti... una catastrofe, se lei non mi dà tutti gli elementi necessari a facilitarmi il compito?

Il barone tacque. Scuoteva il capo e sorrideva. Un sorriso pallido, smorto, senza precisione.

— Dove si trovava lei, trent'anni or sono?

Il barone sussultò.

— Ah!... In Australia...

De Vincenzi guardò una delle due buste.

— A Sidney?

— Anche... Come faccio a ricordare? Avevo un piroscafo... viaggiavo... facevo il commercio delle perle...

— Delle perle?

— Ma sì... L'Oceano Indiano... Ceylon... e poi ancora l'Australia e poi San Francisco... Stava per finire l'epoca dei coloni, dei cercatori... Era finita, anzi!...

— Lei era giovane allora!...

— Faccia il conto! Oggi, ho sessantadue De Vincenzi batteva leggermente con l'indice a martello sul legno del tavolo.

— E poi?

— E poi... che cosa?

— Non ricorda altro... altro che possa spiegare queste lettere?

— No!

Ebbe un gesto, come per scacciare uno sciame di spettri; per cancellare i segni bianchi da un'invisibile lavagna, davanti a sé.

— Non bisogna parlare del passato!... Non bisogna farlo rivivere!... Se si uccide la memoria, si uccide il passato. Esso non esiste più.

Ancora una volta si alzò. Ma adesso con decisione, per far intendere che sarebbe stato inutile insistere e che il colloquio era chiuso.

— Sta bene, barone. Quando crederà giunto il momento di parlare, mi avvertirà... se ne avrà il tempo.

Si alzò, girò sui tacchi, si diresse alla porta, uscì, la richiuse.

Nel salotto vide Matteo, che gli si inchinò per accompagnarlo.

 

 

Capitolo IX

 

Legamenti

 

Il maggiordomo dalla parrucca onesta lo precedette per saloni e sale.

Ne traversarono quattro. Alla quinta, che era l'ultima, prima del grande pianerottolo sullo scalone, De Vincenzi si fermò.

— Come vi chiamate, voi?

— Matteo...

— Non perdiamo tempo! Del resto, conosco il vostro nome. Matthew Scott di Topeka nel Kansas... Siete venuto in Italia col barone... Nel?...

— 1913...

— E prima?

— Dal 1900 servo Sua Eccellenza...

— In Australia?

— Ero secondo ufficiale sulla Vergine...

De Vincenzi non riuscì a reprimere un sussulto.

— La Vergine?

— Era il nome della goletta con cui il barone faceva il cabotaggio dall'Australia alle Indie... — Per il commercio delle perle?...

— Delle perle, sì...

Aveva esitato. Forse, si trattava di altro; che contava? Si può commettere un delitto anche per le perle.

Ma il nome di Vergine alla cavalla era stato dato da Fred Drake!... Possibile che fosse soltanto una coincidenza?

— Il signor Drake è venuto anche lui in Europa col barone?

— Ma no. Mister Drake è stato assunto da Sua Eccellenza, quando ha messo scuderia da corsa... Nel '32...

Il vecchio rispondeva con precisione, a voce bassa, piena di deferenza; ma il suo volto glabro rimaneva immobile, con quelle sue centomila rughe impercettibili, che lo rendevano simile a una pergamena ingiallita. E la parrucca deposta sul cranio calvo sembrava adesso, più che un cappello onesto, una calotta da forzato...

— Avete saputo che la notte scorsa qualcuno è stato ucciso nelle scuderie?

— Sua Eccellenza me lo ha detto.

— Sapete che un pericolo minaccia anche il barone?

Il vecchio sollevò le sopracciglia.

— Un pericolo, signore?! Non comprendo. Tutti i mortali sono minacciati dal pericolo a ogni momento...

De Vincenzi prese la tangente.

— Parlatemi di coloro che abitano il palazzo.

— Servi?

— E della famiglia?

— Miss Verity soltanto...

— La figlia del barone?

— Sì, signore.

— E la moglie?

— La madre, di miss Verity è morta in questo palazzo...

De Vincenzi colse il significato della precisazione.

— Aveva avuto, dunque, altre mogli il barone, in Australia o in America?

— Un'altra, signore.

— Il suo nome?

— Mistress Maud Mac Laren di Porto Augusta.

— Australiana... E da essa nessun figlio?

— Uno solo... maschio...

— Vivo?

— No, signore. Sua Eccellenza non ha eredi maschi... Il piccolo Mark morì assieme alla madre, a due anni d'età... in un'orribile catastrofe...

De Vincenzi lo guardava. Il vecchio continuò; ma adesso le parole gli uscivano a fatica e lui aveva visibilmente esitato:

— L'incendio della Vergine al largo di Sidney, signore... Tutti gli altri perirono... Io potei salvarmi per un vero miracolo!

Un silenzio. Poi la voce netta, pacata del commissario a chiedere:

— E il bimbo era nato?

— Nel 1905...

Calcolo facile; morto nel 1907 a due anni, il figlio di Gerolamo Verbena del Santo avrebbe avuto oggi trentadue anni. «I morti tornano, ché l'anima non si uccide!» A che cosa andava a pensare adesso! Assurdo! Un dramma mostruoso, una vendetta inconcepibile!

Eppure, era davvero morto il piccolo Marco, figlio di Maud Mac Laren? Assieme alla madre nell'incendio del piroscafo, che aveva ucciso tutti, tranne Matthew Scott! E il padre si era sposato di nuovo ed era nata Verità...

— Dove è nata miss Verity?

— Sul transatlantico, che portava il barone e sua moglie in Italia...

— Perché il barone tornava in Italia?

— Perché l'acqua ritorna al mare? Oramai laggiù non aveva più nulla da fare!

— O tutto da temere?

— Non ho detto questo, signore.

— In che anno morì la madre della signorina Verità?

— Dopo tre anni dal suo arrivo qui... giovanissima ancora.

— Di che malattia?

— Aneurisma.

— Chi ha allevato la bambina?

— Virginia Carey... la cameriera della signora...

— Australiana?

— Ma no! Di San Francisco come la sua padrona. De Vincenzi trasse di tasca un giornale e una matita. Sempre lui prendeva gli appunti sui giornali, sulle buste vecchie, sul primo pezzo di carta che gli capitava. Non aveva mai posseduto un taccuino e in quanto agli appunti non si segnava che i nomi e le cifre.

— Maud Mac Laren; avete detto?

— Sì, signore.

— E il nome della madre di Verità?

— Ellen Mackenzie...

Si rimise in tasca il giornale. Avrebbe telegrafato a Melbourne e a San Francisco. Trent'anni non sono che tre volte dieci anni e gli archivi hanno buona memoria.

— Grazie, Matteo... Volete farmi venire Virginia Carey?

Per la prima volta, il volto del vecchio manifestò lo stupore.

— Come fa a sapere che si trova a palazzo?

— Voi ne avete parlato come di persona viva.

— È la governante della casa, adesso...

De Vincenzi annuì.

— Nulla di più naturale. Conducetemi da lei, allora.

Virginia Carey fu assai meravigliata di vedere Matteo mostrarsi sulla porta e farsi da parte per introdurre nella sua camera da lavoro un estraneo.

La vecchia era magra, ossuta, e indossava un abito grigio chiaro che sembrava d'argento. Attorno ai polsi e al collo le si arricciava a pieghettine un merlettino bianco. Da quel merletto usciva la carne rugosa del collo e quella ricca di vene turgide, verdi quasi, delle mani.

Virginia, seduta presso la finestra, aveva le mani deposte sulle ginocchia. Il suo aspetto era placido, corretto; lo si sarebbe detto rassegnato.

— Sta bene, Matthew Scott... Lasciateci soli. Matteo era scomparso e aveva chiuso la porta della camera.

De Vincenzi prese una seggiola e andò a sedere di fronte alla governante. Lei lo aveva guardato fare, e adesso aspettava.

— Il vostro nome è Virgina Carey, mi è stato detto.

— Sicuro.

— Io sono un commissario di polizia...

— Ah! Un poco le era salito il sangue alle gote e gli occhi le lucevano.

— Sapete che è necessario dire la verità a un funzionario di polizia?

Assentì col capo con forza. Lo sapeva. La legge era per lei una forza misteriosa, armata di saette ardenti, qualcosa come l'occhio del Signore. Soltanto non comprendeva perché mai una tal forza fosse entrata nel palazzo e fosse salita nella sua tranquilla stanza, per occuparsi di lei; ma certo avrebbe detto la verità. Quale?

— Sono molti anni che siete al servizio del barone, vero?

— Molti.

— Eravate la cameriera di mistress Ellen?

— Oh! Sì — Ero la cameriera di miss Ellen Mackenzie prima ancora ch'ella divenisse mistress Verbena del Santo...

— A San Francisco?

— A Cisco, a New York, a Southampton. Mister Mackenzie, il padre di miss Ellen, aveva tre case... Quella di Cisco era la residenza abituale della famiglia... Il mio padrone era molto ricco...

— Commerciava in perle?

— Oh! no, signore. Era ricco... e basta!

— Il barone frequentava la casa? Voglio dire la casa di San Francisco...

— No! Un giorno seppi che miss Ellen prendeva marito... e miss Ellen mi chiese di andare con lei... Allora, conobbi il barone.

— E questo avvenne nell'anno?

La governante si concentrò. Le labbra le si muovevano: faceva il calcolo degli anni. Aveva corrugato la fronte. Voleva essere precisa e fedele: non si dicono menzogne alla polizia.

— Nell'anno 1906... Sì, signore, non posso sbagliarmi. Fu nel febbraio del 1906... E nel 1907 erano morti in una catastrofe marittima Maud Mac Laren e suo figlio Mark, di due anni.

Come far concordare le date? Forse, la vecchia faceva errore.

— Rimasero a San Francisco, gli sposi?

— Non vi celebrarono neppure il matrimonio, signore. Miss Ellen e suo padre s'incontrarono con lo sposo a New York.. e io rimasi con miss... con mistress Ellen... a New York, fin quando il barone volle partire e non ci portò tutti qui... in questo palazzo.

— Dove la vostra padrona è morta...

— Sì, signore.

— In qual modo?

— Improvvisamente, signore. Fu un pomeriggio. Entrai nella sua camera con la balia, per recarle la bambina, che era tornata dai giardini, e la trovammo morta. Seduta nella sua poltrona, sembrava dormisse.

— Aneurisma!... — mormorò De Vincenzi.

Il cuore umano si dilata e scoppia.

E una bimba, che si chiama Verità, rimane senza madre.

— Avete mai sentito parlare della Vergine, signora Carey?

— Ignoro che cosa sia la Vergine, signore!

Ma questa volta la risposta era venuta un poco troppo precipitosa.

— La vostra padrona amava suo marito?

La vecchia fissò i suoi occhi chiari, limpidi, in volto a De Vincenzi.

— Vorrei non rispondere a questa domanda, signore. lo amo miss Verity come se fosse mia figlia...

De Vincenzi si alzò.

— Grazie, signora Carey. Credo che dovremo incontrarci ancora.

— Spero di no, signore. Quando la polizia entra in una casa, per di lì è passata la morte.

— Oh! no, signora Carey! Talvolta la polizia vi entra per evitare che vi passi la morte.

— Sì, signore.

E, quando vide che il commissario varcava la soglia, si volse a guardar fuori della finestra il cielo azzurro, pieno di luce nel crepuscolo.

De Vincenzi discese lo scalone e trovò Matteo sul primo pianerottolo.

Il vecchio gli si inchinò.

— Matthew Scott, perché la goletta del barone si chiamava la Vergine?

— Prima si chiamava Pearl... Quando il barone ebbe il primo figlio, la chiamò Maid... Io pensai lo avesse fatto, perché la nostra vecchia goletta gli era fedele e gli serviva1... ma lui mi disse: Scott, da oggi Pearl è una Virgin uncontaminated... e mise a riposo la goletta, subito dopo il battesimo...

— Ma proprio la fatalità volle che, quando la goletta si mosse da Sidney per San Francisco, lo scoppio delle caldaie la facesse saltare con l'equipaggio e con la famiglia del barone!

A De Vincenzi sembrò che Matteo avesse avuto un fremito; ma la sua voce era sicura, quando rispose:

— Appunto così, signore...

— E la Vergine morì incontaminata!

Anche la cavalla era incontaminata e non aveva mai corso. Ma per qual ragione Fred Drake l'aveva chiamata Vergine? E l'allenatore come faceva a conoscere l'esistenza della goletta, se la conosceva?

Sul portone, De Vincenzi dovette trarsi da parte, per lasciar entrare la spider di Verità.

La ragazza bloccò i freni di colpo a mezzo atrio e balzò dall'auto.

De Vincenzi fece a tempo a vedere un corpo snello, disegnato con precisione dall'abito di seta aderente, una testa alta e fiera dai capelli neri d'ebano, tanto neri da aver bagliori rossi, un profilo tagliente e il lampo degli occhi grigi, che per un istante lo guardarono, scrutandolo.

Ma sopratutto vide il pallore del volto, sul quale facevano macchia, stranamente rosse, di sangue vivo, le labbra.

Fu l'apparizione, subito spenta, di una proiezione sullo schermo. Quando si rese conto che quella ragazza poteva essere, era senza dubbio, Verità, ella era già sparita su per lo scalone.

 

Capitolo X

Bagliori

 

Verità si era seduta nella poltrona, davanti allo specchio. Le mani le pendevano sulle ginocchia e dalle mani il cappello di feltro bianco, che si era tolto. Lo teneva per la falda larga e molle con dita contratte.

Guardava se stessa nello specchio e il suo sguardo ardente analizzava le linee del volto, la bocca carnosa rossa, il lobo dell'orecchio, il biancore più fluido della tempia.

A un tratto le pupille grigie s'immobilizzarono, i fecero dure.

— Che cosa volete? Perché siete entrato senza picchiare?

Parlava all'immagine riflessa nello specchio e non s'era mossa. Una smorfia cinica le torceva un poco le labbra.

Il cinismo è l'appannaggio della gioventù, pensò il barone. Lui non era cinico. Tanto vero che quel coltello cacciato fra le costole di Perry Hodburn lo aveva, sulle prime, sconvolto. Adesso, il suo turbamento dipendeva da altre ragioni più profonde, più intimamente vitali.

Avanzò e sedette sul divano, a piè del letto. La stanza di Verità, nell'ala opposta a quella in cui lui viveva, aveva tutti i mobili antichi, tranne lo specchio, che non era di nessuno stile, era uno specchio appena incastonato nella parete, come una finestra, come un piccolo lago lucente in mezzo a un prato. E verde, infatti, era il damasco antico delle pareti, dolcemente verde, riposantemente verde. Anche la coltre del letto aveva lo stesso colore, anche le tende alle finestre.

Gerolamo Verbena fissava la nuca di sua figlia e i capelli neri dai riflessi d'oro rosso. Un poco la bocca gli ricadeva e aveva le gote rilassate, le pupille spente.

— Ebbene?

— Ieri notte hanno ucciso Perry Hodburn!

Verità alzò le spalle. La smorfia delle labbra le si accentuò. Continuava a guardare suo padre nello specchio.

— Me lo avete detto a colazione!

— La Vergine domenica non potrà correre...

— Correrà con un altro fantino.

— Non è la stessa cosa!

Parlava per parlare. Verità sapeva che non era della corsa di domenica che suo padre si preoccupava e che non era venuto nella sua stanza per questo.

— Ebbene? — ripeté con più forza, quasi con violenza. E finalmente si volse e guardò il barone in volto.

— Penso... che dovrò allontanarmi per qualche tempo... Rimanere a Milano sarebbe... Voglio dire che Swan insiste perché vada a Gland, a far visita alla colonia...

Balbettava. Il labbro inferiore gli ricadeva sempre di più.

— Naturalmente!...

Non era pietà. Era disprezzo. Gli sguardi di Verità traforavano.

— Andate a Gland? — e ripeté: — Naturalmente!

Pensava che era da molto tempo che suo padre stava preparando tutto per andare a Gland. E, dalla Svizzera, più lontano ancora. Assai più lontano.

— Verrai con me, Verità?

La ragazza gli aveva voltato le spalle, si era allontanata verso la porta della stanza da bagno. Sulla soglia si fermò e fece mezzo giro sui tacchi lentamente.

— I viaggi lunghi sono perniciosi, a farli assieme a voi, padre!...

Rise e scomparve.

Il barone s'era alzato di scatto. Le guance gli si erano fatte livide. Fece per seguirla, d'impulso, con violenza. Ma dopo un passo si fermò. Ebbe un gesto. Con la mano tesa, tagliò l'aria verticalmente, come se volesse mozzar qualcosa. Fu quel gesto, che per lui era conclusivo, a farlo respirare con forza, quasi tornasse a vivere. Poiché aveva una grande sanità di corpo, ritrovava presto l'equilibrio fisico.

Dalla stanza da bagno veniva lo scroscio dell'acqua dai rubinetti.

Ascoltò qualche istante, poi uscì dalla stanza tappezzata di verde tenero, che tirava al giallo, come le foglie al principio dell'autunno.

Nel suo studio, si mise in piedi davanti al tavolo, a guardare il Cristo che gli era dinanzi. Aveva gli occhi pieni di luce; vagava per regioni eteree. Matteo dovette picchiare all'uscio a più riprese, prima d'ottener risposta.

— Che c'è?

— Il pranzo è servito...

— Sì...

Matteo lo scrutava. Diritto davanti al tavolo, tutto nero adesso, con lo sparato bianco di porcellana, ché s'era tolto il panciotto a righe e messo il frac, per servire a tavola.

— Matteo, verrai con me in Svizzera.

— Quando partiamo?

— Questa notte!

Il vecchio strinse le labbra. Le pupille gli correvano attorno per la stanza, lampeggiando.

— Hanno trovato qualcosa?

Il barone sedette. Era calmissimo adesso. Ritornato sulla terra, aveva ripreso la sua aria bonacciona, venata d'indulgente ironia. Si carezzò il pizzo pepe e sale, socchiuse gli occhi.

— Che cosa vuoi che abbiano trovato? Hanno ucciso Perry Hodburn perché doveva montare la Vergine! Non c'è altra spiegazione plausibile. Ogni delitto ha un motivo. Quale altro potrebbe essercene in questo caso?

Più desiderio che quella fosse la realtà, che sarcasmo.

— Allora, perché fuggiamo?

Appoggiato alla spalliera del seggiolone, la testa di Gerolamo Verbena si mosse lentamente, pazientemente, a negare.

— Noi non fuggiamo, Matteo! Quando mai lo abbiamo fatto? Siamo forse fuggiti da Sidney? La Vergine bruciava e noi provvedevamo ai soccorsi... Anche tu, che eri appena scampato dal pericolo... Che cosa dovevamo fare di più?

Questa volta nella voce, c'era anche una grande profonda amarezza.

Matteo, Matthew Scott, aveva rabbrividito. Il volto gli si era contratto: una noce secca, rugosa, grossa come un pugno.

Alzò la destra aperta, la lasciò ricadere. Voleva scacciare il ricordo. Quello tornò, come una mosca, nelle parole del barone.

— Non fu forse un miracolo a renderti possibile il salvataggio? Quando le macchine scoppiarono, solo tu eri sul ponte di traversa e potesti gettarti in mare... Non avresti dovuto, invece, trovarti nel quadrato di poppa col capitano?

Di nuovo la mano del vecchio si alzò e si abbassò. Ma l'altro continuava:

— Quattordici uomini dell'equipaggio... mia moglie Maud... — Un silenzio. — Povera Maud!... Povero piccolo Marco...

Una grande, profonda tristezza.

La noce secca s'era fatta livida, d'un pallore terroso.

Il barone si alzò.

— Il pranzo è pronto, hai detto? Vado a cambiarmi d'abito... Avverti Verità...

— Miss... miss Verity verrà con noi?

— Miss Verity farà quel che vorrà... — Un sospiro: — Queste ragazze moderne, caro Matteo, hanno le loro idee.

E uscì dalla porta che metteva dallo studio nella sua camera.

Matteo era rimasto immobile davanti al tavolo, col Cristo d'argento inchiodato alla Croce.

Gli occhi gli si abbassarono e lo sguardo gli cadde sul cartoncino col nome in due parole e coi triangoli e la frase cabalistica... Il biglietto d'introduzione dell'omino, che gli aveva fatto lo sgambetto e lo aveva accecato con la parrucca...

Il tremore del vecchio aumentò. Che cosa, in definitiva, voleva quell'uomo?

E Gland, in Svizzera, gli apparve lontana, infinitamente lontana ancora.

 

 

Non sapeva che abito mettere.

Era questa la sua perplessità e null'altra. Non poteva, non doveva essere altra.

Avrebbe agito. Oramai non le era più possibile attendere. Gland... forse la Francia... forse l'Olanda... un piroscafo... il mare... la fuga... Certo, la fuga! E che cosa, altrimenti? Nella notte, Perry Hodburn era stato ucciso...

Lo avevano ucciso, perché sapeva troppe cose, non perché dovesse montare la Vergine. Un atroce senso d'orrore la invase. Un orrore viscido, fluido, che l'avvolgeva.

Doveva vincersi. Si vinse. Aprì la vestaglia, che si era messa dopo il bagno, e la lanciò sul letto.

Il corpo di Verità era muscoloso, pieno, tutto linee vibranti, armoniose. Un corpo da giovane efebo assuefatto alla corsa e al lancio del disco.

Indossò un abito di seta rossa, aderente. Nello specchio, arse come una fiamma. Gli occhi le brillavano febbrilmente. Quel suo pallore, col rosso delle labbra, era impressionante.

Agire? Sopratutto non far dubitare di sé. Ogni imprudenza le sarebbe costata la vita. Non dovevano supporre che lei sapeva...

Un lieve sorriso le era apparso sul volto. Pensava all'omino, che aveva trovato dentro l'auto... Ridicolo, quello! Ma il sorriso scomparve.

 

«Trovarmi presente, quando alla morte di Perry Hodburn se ne staranno per aggiungere altre!»

 

Perché le aveva detto quelle parole? Che cosa sapeva? Chi era?

Quegli interrogativi la preoccupavano; ma lei non riusciva ad aver paura di quell'uomo. Eppure, aveva potuto volerla ingannare, quando le aveva offerto il proprio aiuto...

Rapidamente, si passò sulle gote il rossetto, cercò di coprire quel suo pallore, che avrebbe rivelato troppe cose.

Alla porta, girò il commutatore e fece il buio.

Subito un piccolo grido le usci dalle labbra e lei si affrettò a riaccendere la luce.

Che sciocca era! L'oscurità l'atterriva, ora. Una debolezza insulsa e che l'avrebbe abbandonata indifesa ai pericoli, se non fosse riuscita a vincerla...

Nella sala da pranzo, il barone era già seduto a capo tavola, in smoking, con quel suo volto accogliente, che sembrava incipriato di sorriso.

Matteo teneva la seggiola di Verità. Verità sedendo disse:

— Buon appetito!

Sorrideva.

Mentre Matteo porgeva il piatto a Verità perché si servisse, volse il capo alla porta. Dalla soglia, la prima cameriera muoveva la testina con la cresta ricamata, agitando la mano inguantata di bianco verso di lui.

Matteo finì di servire, depose il piatto sulla mensola dorata, uscì per raggiungere la ragazza.

Poco dopo tornava e metteva il telefono sul tavolo, accanto al barone, si allontanava verso la parete, si chinava a introdurre la spina nella presa.

— Chi è?

Matteo rispose con deferenza:

— Da San Siro.

Il barone prese il ricevitore, disse: pronto: ascoltò.

Lo sguardo gli corse subito a Verità, che mangiava. Continuò ad ascoltare. Gli occhi gli lampeggiavano. Verità non guardava suo padre in quel momento e fu una fortuna per lei, perché il volto contratto del barone era tutt'altro che piacevole.

— Sta bene — e depose il ricevitore sui ganci della scatola nera.

— Porta via, Matteo.

Fu soltanto al termine del pranzo che disse:

— Verità, non pensare più a quanto ti ho detto poco fa... Non credo che potrei allontanarmi In questo momento da Milano... Drake ha certamente bisogno di me fino a domenica... Se la Vergine non vincesse il Gran Premio, lui ne farebbe una malattia... Non sarà per ora che potrò andarmene a Gland...

Verità lo fissò.

— Naturalmente...

Si alzò e uscì dalla sala da pranzo. La gola le si era chiusa. Improvvisamente si era sentita invadere da un'angoscia nuova.

Il barone la guardò uscire. Aveva negli occhi una grande, profonda tristezza.

— Matteo!

Il vecchio si avvicinò alla tavola.

— Oggi Verità è andata alla scuderia e ha interrogato O' Brian...

— Oh! fece il vecchio.

— Bene — e il barone si alzò e gli batté una mano sulla spalla. — Ci penseremo... Adesso, è più urgente provvedere a O' Brian.

— Anche lui?! — e sbarrava gli occhi.

— Che vuoi farci?... Le pareti della scuderia sono di legno...

 

 

Capitolo XI

Avvertimento...

 

Il telefono si trovava nell'interno di una specie di armadio a muro, nella stanza di Fred Drake. La stanza di direzione delle scuderie, insomma.

Clark O' Brian aprì la porta, che dava sul ballatoio di legno. La sua camera era attigua a quella di Perry Hodburn. Separata soltanto dalla parete di tavole. Quando Perry russava, lui lo sentiva. Quella notte non lo aveva sentito russare... Alla mattina, lo avevano trovato morto, con un coltello nel petto. Nulla di strano che non avesse russato.

Il cortile era deserto. Il caporale di scuderia doveva essere andato a bere, in qualche gargotta del vicinato. Nessuno sapeva che lui, Clark O' Brian, era rimasto chiuso nella sua camera. Tutti gli altri fantini o erano all'Ippodromo per la riunione del pomeriggio, dove avevano montato i tre cavalli della scuderia Verbena, che correvano quel giorno, o erano usciti da tempo. Come aveva fatto miss Verity ad andare diritta alla sua porta e a soffiargli: «Aprite, O' Brian. Sono miss Verbena. Ho da parlarvi...»?

Certo che lui non le aveva detto nulla. Come avrebbe potuto sapere qualcosa, del resto, se era tornato alle scuderie alle tre del mattino? A quell'ora, la festa a Perry gliela avevano già fatta e l'assassino se ne era andato come era venuto. Che poteva saperne, lui?

Ma miss Verity aveva picchiato con le nocche sulla parete di divisione, dalla parte di Perry, e aveva continuato a muovergli domande.

Clark discese lentamente la scaletta di legno, traversò il cortile. Si fermò sotto l'atrio e diede un colpo col piede alla porta della direzione. La porta si spalancò. La stanza era vuota. Sulla parete di fronte, la pendola segnava le 20 e 30. Anche i cavalli che avevano corso dovevano essere rientrati da almeno due ore. Non c'era pericolo che Drake tornasse.

Il fantino entrò e richiuse la porta. Quando fu dentro lo sgabuzzino del telefono, chiuse anche quella porta dietro di sé. Le precauzioni non erano mai troppo per la telefonata che aveva da fare.

Uscì che sorrideva. Non era mai molto bello il volto di Clark O' Brian — piùttosto scimmiesco, con gli occhi e la bocca da batrace — ma quando sorrideva a quel modo lo era ancor meno.

A mezza stanza il sorriso gli scomparve.

— Nella specie dei giochi d'azzardo, ne conosco di assai più riposanti!

Clark si voltò di scatto.

Seduto al tavolo dell'allenatore, un omino gli ammiccava.

Al fantino occorse qualche minuto prima di poter parlare. Lo stupore lo aveva paralizzato.

— Oh! di dove siete sbucato, voi!

— Dalla porta, evidentemente! È sempre il più facile e comodo modo per entrare, una porta! Soltanto in pochi casi si entra dalla finestra. E uno di questi casi si è verificato la notte scorsa, quando qualcuno è entrato nella camera di Perry Hodburn...

Clark sussultò.

— Ma chi diavolo siete?

L'omino si tolse il cappello e lo depose con precauzione sul tavolo. Subito lo riafferrò e se lo rimise.

— No — mormorò. — Non vorrei perderne un altro...

Si schiarì la voce.

— È con voi, vero, che miss Verity ha parlato?

Clark O' Brian non aveva un carattere facile. La sua era una natura inadatta a fargli tollerare gli scherzi arrischiati. E questo qui, adesso che aveva digerito lo stupore del primo colpo, per arrischiato lo era anche troppo.

Andò diritto al tavolo e picchiò un pugno.

— By Jove! Mi direte chi siete e che cosa fate qui dentro o vi prendo per il collo e vi sbatto al muro finché non parlate...

L'omino fece un salto e rovesciò la seggiola dietro di sé. In piedi e col tubino superava di un palmo il piano del tavolo.

— Cattivo metodo! Se mi sbattete al muro, mi addormentate e nient'altro!

Teneva il bastone alzato davanti a sé e, a veder quel manico aguzzo di osso giallo, lo si sarebbe detto uno gnomo con la falce.

Clark si lanciò attorno al tavolo, per afferrarlo. Ma aveva fatto male i conti. Quello era individuo di risorse imprevedibili. Invece di fuggire girando attorno al tavolo, scomparve sotto di esso, per andare a ricomparire in mezzo alla stanza. E quando il fantino, vedendolo oramai senza riparo, si lanciò di nuovo, l'omino con un salto da acrobata fu in piedi sul tavolo.

Neppure il tubino gli si era mosso dal capo.

— Non vi avvicinate, perché vi do il bastone sulla testa. Avete la testa dura, è vero, ma il mio bastone ve la romperà...

O' Brian fremeva di rabbia; tuttavia si fermò. L'omino aveva un volto da faina, che traspariva astuzia come le pareti di una grotta trasudano umidità. E agile poi al pari di una scimmia.

D'altra parte, dopo la telefonata che aveva fatta, tutto conveniva al fantino, tranne d'essere sorpreso in quella camera.

— Che il diavolo vi porti! — ruggì e, voltategli le spalle, fece per andarsene.

Ma sulla porta dovette fermarsi un'altra volta, di colpo, come inchiodato al pavimento.

— State attento alla luce delle candele!

Ma era pazzo? Che cosa c'entravano adesso le candele?!

Si volse.

— Volete dirmi chi siete e perché siete venuto alla scuderia?

L'omino ebbe un sorrisetto soddisfatto.

— Sicuro! Quando mi si parla gentilmente, si ottiene tutto da me...

Discese dal tavolo e avanzò verso il fantino.

— Io mi chiamo Curti Bo'... in due parole: Curti... Bo'... e voi siete Clark O' Brian... La notte scorsa, voi avete sentito qualcuno che si muoveva nella stanza di Perry Hodburn...

— Come lo sapete?

— Erano le undici, vero?... O poco più...

— Mezzanotte, era!

— Errore! Temo proprio che abbiate un orologio che va avanti...

S'interruppe e sembrò riflettere. Per qualche istante succhiò il manico del bastone.

— Siete proprio sicuro che fosse mezzanotte?

— Ma insomma...

— Un momento!

Trasse l'orologio, diede un'occhiata alla pendola.

— Io faccio le 20 e 47. E voi?

Come suggestionato, O' Brian guardò l'orologio che aveva al polso.

— Le 20 e 50...

— Tre minuti soltanto! Ma allora...

Dimostrava la perplessità in modo assai curioso, passandosi la lingua fra le labbra.

— Ma allora hanno ucciso Perry Hodburn due volte!

Un pazzo! Adesso Clark lo fissava con preoccupazione diversa.

— A che ora siete rientrato alle scuderie?

— Alle ventitrè e mezzo...

— E alla mezzanotte avete sentito entrar qualcuno da Perry Hodburn?

— Avevo appena spenta la luce... e ho accanto al letto una sveglia fosforescente...

— Già...

Guardava in volto il fantino.

— Immagino che non vorrete dirmi altro?

Clark alzò le spalle.

— Che cos'è questa storia della candela?

— Ah! è un avvertimento che vi ho dato. Perry Hodburn è stato ucciso al lume di una candela... Ma, dopo tutto, questo è un particolare che per voi non ha importanza, se siete tornato alle undici e mezzo!... Colui che si muoveva nella stanza di Perry Hodburn a mezzanotte non poteva essere l'assassino, quell'assassino... dato che il povero Perry era già stato ucciso alle undici!

Vladimiro Curti Bo' appariva insinuante con dolcezza, persuasivo con noncuranza.

Clark O' Brian sgranò gli occhi. Si passò una mano sulla fronte.

— Vediamo! Cerchiamo di ragionare... Voi siete sicuro di non essere uscito dal manicomio?

— Il vostro sospetto è legittimo, mister O' Brian! ...Tutta questa storia si svolge sotto il segno della pazzia... Ciò non pertanto ho l'orgoglio di credere che una delle poche persone risparmiate sia proprio io! Ascoltatemi. Vi è necessario aver fiducia in me, senza cercare di comprendere; oppure non averne affatto. Avete la scelta libera. Ma io vi dico subito che da essa dipende forse la vostra vita...

Gli acuti! Gli acuti ai quali saliva la sua voce nei momenti gravi, quando egli più tentava di renderla profonda, ecco che tornavano. Vladimiro tossì e pestò un piede in terra. Sapeva benissimo che la sua voce sul registro del do faceva ridere.

Ma Clark non rideva.

— E se avessi fiducia in voi, che dovrei fare?

— Un momento!

Balzò alla porta, l'aprì, diede una rapida occhiata all'androne, al cortile, alla strada.

Richiuse la porta e si appoggiò con la personcina ai battenti.

— Facciamo in fretta! Se avete fiducia in me... oppure, per parlarci con chiarezza, se volete tentare di salvar la pelle, dovete rispondere a tre mie domande e seguirei due consigli che vi darò.

Fece schioccare le dita della mano libera, mentre con l'altra alzava il bastone.

— Là!... Tre e due... Volete?

— Parlate!

Il fatto adesso appariva indiscutibile: Clark O' Brian aveva paura.

— Benissimo. Prima domanda: chi avete veduto a mezzanotte, quando vi siete affacciato alla finestra della vostra camera, discendere per il muro, fuggendo dalla camera di Perry Hodburn?

— Un uomo...

— Lo avete riconosciuto? Questa è sempre la prima domanda...

— No!

— Bene. Seconda domanda: che cosa avete telefonato al barone, poco fa, rinchiuso il dentro?

Clark sussultò.

— Eh!... Non vi rispondo!

— Avete già risposto, amico mio!... Non desidero saper altro al riguardo. Come vedete, cerco di aiutarvi più che posso! Terza domanda: avete detto a miss Verity di aver veduto l'uomo e di averlo riconosciuto?

— No! Eh, perbacco! Se glielo avessi detto...

— … non avreste potuto telefonare al barone, vero?... Capisco benissimo. Come capisco che mi avete mentito, dicendomi di non aver riconosciuto l'uomo che fuggiva... Sta bene. Nonostante la vostra mancanza di lealtà, vi do i due consigli. Primo: non permettete a nessuno di accendere una candela in vostra presenza; secondo: non accettate di montare la Vergine per la corsa di domenica... Buona sera!

Aprì l'uscio, balzò fuori, lo richiuse.

Quando Clark, datosi all'inseguimento, fu nell'androne, l'omino era scomparso.

 

 

Capitolo XII

… inutile

 

Matteo era vestito tutto di nero e sopra la parrucca rossigna aveva un feltro nero.

Quando il barone se lo vide dinanzi, sul pianerottolo del suo appartamento, rise con dolcezza.

— Sembri un funerale di prima classe, Matteo!

Il maggiordomo non rise. Era cereo. Un cadavere preparato per la bara.

— Andiamo — fece il barone, senza più ridere. — L'auto è pronta?

— L'ho lasciata all'angolo della strada...

Discesero lo scalone. Quando furono agli ultimi gradini, il barone chiese:

— Hai pensato ad Antonio?

Antonio era il guardaportone azzurro cielo.

— Sì. L'ho fatto salire in camera mia a bere. Non era la prima volta che ci veniva. Questa volta, però, ho messo un narcotico nel vino...

— Imbecille! Scommetto che l'hai lasciato addormentato in camera tua! 

— Antonio dorme nel suo letto.

— Ah! Non volevo offenderti, dicendoti imbecille. Tu lo sai che ti voglio bene...

Una grande profonda tristezza era nelle sue parole e Matthew Scott dovette sentirla, perché rispose con voce commossa:

— Sono trent'anni esatti che lei mi vuole bene! Traversarono l'androne illuminato. Matteo apri il portello tagliato nel battente monumentale, fece uscire il padrone e richiuse il portello con cautela.

Nell'auto, fu Matteo che prese il volante.

Traversarono piazza della Scala, dovettero fermarsi ai semafori. Sino al largo Cairoli procedettero a quel modo, una fermata dopo l'altra.

Il barone ruggiva sordamente.

— Anche a mezzanotte i semafori funzionano! Appena in via Boccaccio, Matteo premette l'acceleratore.

— A che ora gli ha dato appuntamento?

— A mezzanotte.

L'orologio sul cruscotto segnava le dodici e cinque.

— Oh! aspetterà certamente!

— Dove, Eccellenza?

Nessuna ironia nella parola. Matthew Scott non era un uomo da permettersi ornamenti superflui al proprio pensiero e al proprio eloquio. Da tempo si era abituato a dar quel titolo magniloquente a colui che trent'anni prima chiamava semplicemente padrone.

— Lui stesso me Io ha proposto. Sul piazzale dell'Ippodromo. A quest'ora è deserto.

— Uhm! — fece Matteo.

Ma del resto che importanza poteva avere che vedessero Clark O' Brian parlare di notte col barone? Cioè... L'idea improvvisa gli fece fare una sterzata falsa.

— Che cosa c'è, Matteo?

L'auto s'era raddrizzata. Il guidatore aspettò di avere attraversato piazzale Magenta, dove ancora i tranvai correvano a incrocio e poi disse:

— Lei sa che cosa vuol dirle Clark O' Brian?

— Lo immagino. È facile a immaginare, Matteo!... Egli ti ha veduto discendere dal muro...

— Era già morto!

— Clark non lo sa, forse... Chi lo crederebbe? Ah! come è triste questa storia, Matteo! Da ieri notte, quando tu sei tornato a palazzo e mi hai raccontato di aver trovato Perry morto, io mi torturo il cervello a pensare chi può essere stato...

Matteo volse il capo e cercò di scrutare in volto il barone. Sotto la tesa del cappello, non vide che il profilo potentemente disegnato, immobile.

— A ogni modo, chi è stato non ha fatto che prevenire il nostro...

La mano del barone si alzò a interromperlo.

— Non importa!

— Già! Ma io volevo chiederle quel che lei intende fare con Clark...

Il barone non rispose subito. E soltanto dopo qualche minuto di silenzio, disse con voce amara, piena di sconforto:

— Minacciare me non porta fortuna, Matteo!... Perry Hodburn ci ha lasciato la vita!... — Sospirò profondamente. — Povero Clark!... Volevo dire: povero Perry!

L'auto correva adesso per il rettilineo parallelo alla pista dell'Ippodromo. La strada era illuminata dalla luna. Un'afa pesante stagnava attorno. La macchina apriva una scia nella calura.

— Non questa notte, Eccellenza!

— Sicuro! Questa notte tutti possono sapere che io sono andato a trovare Clark O' Brian... Vado a proporgli di montare la Vergine domenica... Incarico onesto e avveduto, che farà andare in bestia Fred Drake... Non è stato per tener nascosta la nostra uscita dal palazzo che io t'ho consigliato di far bere Antonio...

— L'ho supposto, Eccellenza!

— Tu sei astuto, Matthew!

L'auto si fermò sul piazzale, all'ombra della tettoia dell'Ippodromo.

Il barone attese, senza discendere. Aspettava di vedere Clark O' Brian mostrarsi. Era impossibile che, pur stando nascosto, non avesse udito il rumore dell'auto. Ma il piazzale rimaneva deserto.

— Supporrà che lei non è solo nella macchina e non vorrà farsi vedere...

— Hai ragione, Matteo!

Il barone discese. Camminò verso il centro del piazzale. Fece il giro del chiosco del caffè, si avvicinò ai bordi del vasto cerchio, là dove cominciano, con le siepi alte per limite, i campi e gli orti.

Nessuno.

Il silenzio era rotto dal canto dei grilli e dal rumore dei passi del barone sulla ghiaia.

Nettissima, l'ombra dell'alto e robusto corpo dell'uomo si disegnava sul suolo bianco.

Compiuto il giro, il barone si fermò al principio della stradetta, che conduce verso le scuderie di Trenno. Forse, il fantino si era addormentato e adesso lo avrebbe veduto giungere di corsa...

Si tolse il cappello e si asciugò la fronte e la nuca col fazzoletto. Traspirava in abbondanza. Aveva il corpo molle di sudore.

La notte era veramente asfìssiante. Un vapore umido e attaccaticcio era nell'aria, sembrava nascere dalla terra, alzarsi verso la luna, formare attorno a essa un alone denso, violaceo, rossigno come la parrucca di Matthew Scott, un alone di miasmi. A quel modo che dalla groppa e dai fianchi di un cavallo tornato da una corsa, dai campi e dagli orti fumava adesso la calura.

Perché mai Clark non compariva?

Che lo avesse atteso e se ne fosse andato per il suo ritardo di dieci minuti, non era credibile. E che non fosse venuto e non venisse all'appuntamento, dategli da lui stesso e con uno scopo... tanto importante, era assurdo!

Che avesse temuto un tranello?

Il ricatto è sempre un'arma pericolosa a maneggiare e Clark O' Brian poteva avere avuto paura... Sì, questo era possibile; ma, dal momento che aveva telefonato, il fantino doveva sapere quel che arrischiava e sopratutto l'impossibilità in cui si metteva di tornare indietro. Un ricattatore anonimo può pentirsi e scomparire; ma lui si era scoperto! Il barone alzò le spalle: non era tipo O' Brian da aver paura! Se aveva telefonato, segno era che aveva la determinazione di andare sino in fondo.

Tornò lentamente verso l'auto e si avvicinò a Matteo.

— Non c'è! Ci capisci qualche cosa, tu?

Il vecchio si volse a guardare il barone, che si era appoggiato alla macchina.

— È strano!

Per qualche istante, tutti e due tacquero.

— Deve essergli accaduto...

— No!

Il barone quasi aveva gridato. Sentiva tutta la minaccia, terribile per lui, di un secondo omicidio compiuto a quel modo, da altri, proprio nel momento in cui lui stesso avrebbe voluto e forse dovuto uccidere!

Ma chi, dunque?

Dalle labbra del vecchio uscì un breve sospiro, che sembrò un gemito.

— No, non è possibile!

Si allontanò dall'auto, tornò a scrutare attorno a sé il silenzio immobile.

Nessuno.

Matteo era disceso dalla macchina e gli si era messo accanto.

— Andiamo alle scuderie...

Ma... lei come farà a spiegare?

— Non è la prima volta che mi reco di notte alle scuderie. E, dopo quel che è avvenuto ieri, una mia visita è abbastanza logica!

Ma se davvero è avvenuto qualcosa, la nostra visita a quest'ora diventa sospetta!

— Nessuno potrà accusare me, a ogni modo! E poi... preferisco tutto a questa attesa! Non capisci che, se avessero ucciso Clark come hanno fatto con Perry...

Non terminò e si diresse decisamente verso la stradetta.

Matteo lo seguì.

Oramai, il barone era preparato a tutto.

Non però a trovarsi tra i piedi il cadavere del fantino, proprio quando stava per uscire dal viottolo davanti al paddock.

Fu per questo che inciampò nel corpo e cadde, faccia avanti, pesantemente.

Matteo ebbe la forza di non gridare e si chinò rapido a rialzarlo.

Tutti e due rimasero in contemplazione di Clark O' Brian disteso in mezzo alla strada, col volto alla luna.

— È morto!

Il barone non riusciva a vincere l'orrore che lo invadeva. Il sudore gli si era agghiacciato sul corpo.

Afferrò il braccio di Matteo e lo strinse.

— Torniamo! — supplicò il vecchio con voce strangolata, di colpo.

Poi si liberò con uno strappo dalla stretta e si mise a correre verso il piazzale.

Il barone lo seguì.

Saltarono sulla macchina. Matteo la mise in moto. L'auto girò a semicerchio, infilò il rettilineo nella chiarità della notte lunare.

Da una delle due siepi che costeggiano la stradetta della scuderia sbucò allora un'ombra. Una piccola ombra, che si disegnò precisa sul terreno e avanzò verso il cadavere, chinandosi su di esso.

— Non si vedono ferite!

Vladimiro Curti Bo' s'era raddrizzato.

Allontanò il cappelluccio dalla fronte, prese a succhiare il manico del bastone.

— Glielo avevo detto di diffidare delle candele!

Si allontanò dal cadavere e si avvicinò alla scuderia.

Il portone era chiuso. Tutte le finestre della facciata anche.

L'omino fece il giro del muro di cinta. Quando fu sotto la finestra della camera di Clark O' Brian, si fermò e si mise a esaminare il muro. Dovette trovarlo quale sperava, perché la sua decisione fu presto presa.

Depose in terra il bastone e il cappello e si diede alla scalata. In pochi secondi raggiunse il parapetto della finestra e scomparve nell'interno della stanza.

Quando ridiscese, rimase ancora fermo qualche istante, col volto da faina verso la luna, a contemplare l'astro.

Poi raccolse il cappelluccio e il bastone.

Nel tornare verso il paddock, camminava lentamente.

Davanti al corpo si arrestò e si chinò di nuovo a osservarlo con attenzione, senza toccarlo.

— Non potevano esserci ferite!... Ma come hanno fatto a trasportarlo fin qui?...

Si rialzò. Si tolse il cappello e si passò la mano sulla testa. Era perplesso e si volse più volte a guardar le scuderie, come se misurasse la distanza da esse al cadavere, Fece qualche passo per lo spiazzo, osservando il terreno. Mormorava:

Ma perché non gli hanno fatto almeno una ferita?

Il terreno era pieno di orme di passi e lui finì col fermarsi e col fare un gesto di scoraggiata rassegnazione.

— Naturalmente! Lo avranno trasportato! Quaranta o cinquanta chili sono facili da portare.

Tornò indietro, scavalcò il cadavere con un saltino e si mise a camminare in fretta.

Traversò il piazzale, imboccò via Caprilli. Portava il bastone a bilancia e procedeva rapido, a passo uniforme, cadenzato, da uomo che sa di dover fare molta strada.

Dopo mezz'ora di cammino, aveva raggiunto piazza Buonarrotti e saliva in un tassi.

Guardò l'orologio e disse al conducente:

— Via Plinio... Da «Fulgenzio»...

Il caffè ospitale rimaneva aperto fino alle due e lui sapeva che di lì avrebbe potuto telefonare.

 

 

Capitolo XIII

Telefonate

 

De Vincenzi, nel suo ufficio di San Fedele, sudava e leggeva Kant. Dopo lo psicologismo occultistico di Freud, era tornato al criticismo freddamente razionale del filosofo di Konisberg. Mandato Aristotele con le gambe all'aria, Kant era giunto alla conclusione che, se ciascuno degli uomini ha il proprio mondo, questo avviene perché essi sognano. Ancora e sempre il dominio dell'incosciente!

Squillò il telefono sul tavolo e De Vincenzi diede un balzo. L'orologio, davanti a lui, segnava la una e tre quarti.

Afferrò il cornetto.

— Pronto!

— C'è qualcuno che chiede di lei, commissario...

— Personalmente?

— Desidera parlare col commissario De Vincenzi, ha detto...

— Va bene...

Chi poteva volere proprio lui, a quell'ora?

— È lei, commissario?

— Sono io. E lei chi è?

— Curti Bo', commissario... Curti Bo'... in due parole...

— Ah!

— La riverisco! Anzi tutto mi scusi per essermene andato, senza salutarla, ieri mattina... Ma avevo fretta!

— Vada avanti...

L'omino era straordinario! Ma se gli fosse capitato a tiro un'altra volta, non se lo sarebbe fatto scappare tanto facilmente.

— Ecco!... Non si meravigli ch'io sia desto a quest'ora. Al pari di lady Macbeth... pur senza averne le mani tinte di sangue... io ho ucciso il sonno... Di notte, passeggio...

— Sui muri, come di giorno?

— Eh! eh!... — dentro il microfono la risata squillava acuta. — Talvolta!...

— Ebbene?

— Ebbene, mi scusi, mi è indispensabile darle un consiglio: questa notte faccia una passeggiata anche lei, commissario! Più presto si muoverà, meglio farà...

De Vincenzi si sentì venir freddo alla schiena. Non pensò neppure un istante che quell'altro gli stesse facendo il cattivo scherzo di burlarsi di lui! L'omuncolo era ridicolo; ma non scherzava.

— Mi ascolta?

— L'ascolto!... Continui!

— Oh! c'è pochissimo da dire ancora. Qualcuno si è dedicato all'eccidio di un numero impressionante di fantini... Davanti alla scuderia del barone Verbena troverà un altro cadavere...

Il dramma! Il dramma continuava. De Vincenzi sapeva benissimo che sarebbe continuato. Si dominò.

— Di dove telefona, lei?

— Ah!

Di nuovo si fece udire la risatina squillante.

— Non si preoccupi di me, commissario! Io ml trovo lontano da San Siro... Ma mi rivedrà! Le garantisco che mi rivedrà! Intanto, si occupi, se crede, di quest'altro defunto. È stato ucciso senza violenza, con ogni delicatezza possibile, anzi! Neppure la più piccola goccia di sangue, questa volta. Morte misteriosa! Eh! eh!... Soltanto, abbiamo la fortuna che il diavolo è sottile, ma fila grosso. Nella camera di Clark O' Brian, troverà una candela... Oh! non le tracce, proprio la candela... Io ce l'ho lasciata. A rivederla, commissario...

Si sentì Io scatto del gancio riabbassato.

De Vincenzi rimase qualche istante col microfono in mano.

Ma chi era dunque, quell'accidente di un Curti Bo', in due parole?

Se avesse potuto afferrarlo!

Si alzò. Inutile tentare di conoscere il luogo di dove aveva telefonato: con gli apparecchi automatici era impossibile.

Ma nella tragedia di casa Verbena del Santo — perché De Vincenzi non dubitava, oramai, che si trattasse di un «affare» ben più complesso della semplice soppressione di uno o due fantini per impedire che corressero e vincessero — che parte aveva l'omino dal muso di faina?

Intanto, c'era un altro morto!

Premette il bottone del campanello, che corrispondeva col corpo di guardia.

— Cruni e due agenti con me e la Squadra Volante subito a San Sino. Dite al brigadiere che la comanda di aspettarmi sul piazzale dell'Ippodromo...

Chiuse il libro che stava leggendo e fece per uscire. Il trillo del telefono lo fermò sulla soglia.

Ancora!

— Pronto!

— Il commissario De Vincenzi?

— Sono io... — Lei parla col barone Verbena del Santo, commissario...

Naturalmente! Tutto secondo logica!

— Pronto! Mi sente? Sono il barone Verbena...

— Ho capito. Vada avanti...

— Le telefono perché mia figlia Verità è scomparsa...

— Che dice?

— Sì, commissario. Ho atteso, prima di rivolgermi a lei, di aver perduto la speranza che si tratti di una semplice assenza di mia figlia dal palazzo. Verità è uscita alle nove, ieri sera... Ho creduto si recasse a teatro... Ma sono le due e non è ancora rientrata...

— Ebbene?

— No, non pensi ch'io abbia disturbato lei senza una ragione... Preoccupato di non veder ritornare mia figlia, ho interrogato la sua cameriera... La ragazza avevi aiutato Verità a vestirsi ieri sera e sapeva benissimo quale abito e quale mantello si era messi...

— Allora?

— L'abito che indossava Verità quando è uscita alle nove si trova adesso nella sua camera, assieme al mantello...

— Questa è la prova che sua figlia è rientrata!

— Ma se in palazzo non c'è! L'abbiamo cercata dovunque...

Un silenzio. De Vincenzi rifletteva. Si sforzava sopratutto di dare un'anima alla voce che udiva nel microfono. Le voci hanno un'anima e talvolta tradiscono quella del corpo.

— Lo sa che questa notte un altro dei suoi fantini è stato ucciso?

— Ma che dice?! È impazzito!

— Già! Se continua così, la storia è proprio di quelle che fanno impazzire!... Io debbo andar subito alla scuderia... Prima che faccia giorno, verrò da lei...

Depose il ricevitore, perché non voleva che l'altro gli rispondesse. Inutile farlo parlare. Sapeva benissimo che se lo sarebbe trovato fra i piedi a San Siro.

Così, Verità era scomparsa. Il dramma passava dalle scuderie al palazzo.

I morti tornano e le anime si vendicano!

E l'omino scopriva prima le tracce di cera e poi tutta intera una candela!

De Vincenzi s'impose di non riflettere. Non c'era da fare ipotesi che reggessero! Occorreva gettarsi sui fatti. Soltanto da essi avrebbe potuto scaturire qualche luce.