Prendo la radio, e restiamo lì ancora un po’. Lei non mi invita a entrare, e io non glielo chiedo.

Il mio dovere l’ho fatto, così mi volto e la saluto: «Ci vediamo, Audrey. Magari alla prossima partita. Magari prima».

«Presto», mi assicura, e mi incammino verso casa.

Dodici messaggi consegnati.

Quattro assi completati.

Questo si direbbe il giorno più importante della mia vita.

Sono vivo, penso. Ho vinto. Per la prima volta dopo mesi mi sento libero, e un’aria di soddisfazione mi passeggia accanto per tutto il tragitto. Resta con me persino quando salgo i gradini per arrivare alla porta, quando do un bacio al Portinaio e vado in cucina a preparare una tazza di caffè per entrambi.

Lo stiamo sorseggiando, quando un’altra sensazione si insinua nel mio stomaco, e poi sale e si riversa fuori.

Non so ancora perché, ma l’appagamento sparisce all’istante, non appena il Portinaio solleva lo sguardo verso di me. Fuori, sentiamo una serratura che viene aperta e chiusa. E una persona che corre via.

Piano, varco la porta, scendo i gradini della veranda e mi fermo sul prato. La mia cassetta delle lettere è lì. Un po’ storta. Sembra sentirsi in colpa.

Ho un brivido al cuore.

Cammino, e mentre apro lo sportello tremo.

Oh, no, penso. No, no. No!

Infilo la mano, e le dita toccano una busta. Sopra c’è il mio nome, e in trasparenza la vedo già.

C’è un’ultima carta.

Con un ultimo indirizzo.

Chiudo gli occhi e cado in ginocchio, sul mio prato.

Un’ultima carta.

Apro la busta e, quando i miei occhi leggono l’indirizzo, i pensieri vengono lasciati lì a morire.

26 Shipping Street

È il mio indirizzo.

L’ultimo messaggio è per me.