Una zanzara mi ronza nell’orecchio, e le sono quasi grato per la compagnia. Sono addirittura tentato di cantare con lei.
È buio, ho la faccia insanguinata, e la zanzara potrebbe tranquillamente succhiare senza pungermi. Potrebbe sorseggiare il sangue dalla mia guancia destra, o dalle labbra.
Non appena mi alzo dal letto sento il pavimento freddo, che mi dà un piacevole sollievo ai piedi. Le lenzuola sono aggrovigliate e sudate, e adesso mi appoggio al muro del corridoio. Un rivolo di sudore arriva fino alla caviglia e scende sotto la pianta del piede.
Non sto così male.
Quando guardo l’orologio mi viene da ridere, poi vado in bagno a farmi una doccia fredda. L’acqua ghiacciata fa bruciare tagli e lividi, ma mi piace. Sono quasi le quattro del mattino, e non ho più paura. Mi infilo un paio di vecchi jeans e torno in camera per prendere i due assi. Apro il cassetto e li tiro fuori. La luce gialla della stanza mi circonda, mentre guardo felice le storie delle due carte. Se penso a Milla e a Edgar Street provo sentimenti molti forti, e spero che Sophie abbia una vita brillante. Sorrido, al ricordo di padre O’Reilly, di Henry Street e della Giornata del prete. Per Angie Carusso avrei voluto fare di più. E quei bastardi dei Rose…
Quale sarà la prossima carta?
Mi aspetto l’asso di cuori.
Aspetto.
Aspetto l’alba, e il prossimo asso.
Stavolta voglio che accada tutto rapidamente.
Voglio la carta subito. Niente misteri. Niente enigmi. Datemi soltanto gli indirizzi. Datemi i nomi e mandatemi là. Vi chiedo solo questo.
La mia unica preoccupazione è che, ogni volta che ho desiderato che una cosa andasse in un certo modo, è successo il contrario, apposta per mettermi di fronte all’ignoto. Voglio che Keith e Daryl varchino ancora quella soglia. Voglio che mi consegnino la terza carta, che critichino il Portinaio per l’odore e le pulci. Ho persino lasciato la porta aperta, perché possano entrare come persone civili.
Ma so che non verranno.
Trovo il mio libro e vado in salotto. Porto con me gli assi, li tengo in mano mentre leggo.
Quando mi sveglio di nuovo, sono sul pavimento con i due assi accanto alla mano sinistra. Sono quasi le dieci e fa caldo, e qualcuno sta bussando.
Sono loro, penso.
«Keith?» chiamo, sollevandomi sulle ginocchia. «Daryl? Siete voi?»
«Chi diavolo è Keith?»
Alzo lo sguardo e vedo Marv sopra di me. Mi strofino gli occhi.
«Che ci fai qui?»
«Ti sembra il modo di parlare a un amico?» Solo ora nota la mia faccia e le costole ridotte a stecche gialle e nere. Dio: capisco che lo sta pensando dalla sua espressione. Risponde alla mia domanda con una risposta a una domanda diversa. È frustrante, ed è tipico di Marv. Invece di dirmi che cosa ci fa qui, mi spiega come ha fatto a entrare. «La porta era aperta, e una volta tanto il Portinaio mi ha lasciato passare.»
«Visto? Te l’avevo detto che è buono.»
Vado in cucina, seguito da Marv. Mi chiede che cos’è successo.
«Com’è che ti sei ridotto così, Ed?»
Accendo il bollitore. «Caffè?»
Sì, grazie.
Ovviamente, il Portinaio ci ha appena raggiunti.
«Grazie», fa Marv.
Mentre beviamo, gli racconto l’accaduto. «Sono stati dei ragazzi. Mi stavano tenendo d’occhio e mi hanno aggredito alle spalle.»
«Li hai menati?»
«No.»
«Perché no?»
«Erano in sei, Marv.»
Scuote la testa. «Cristo, il mondo sta impazzendo.» Decide di tornare a un argomento sensato. «Pensi di riuscire a giocare, questo pomeriggio?»
Ma certo. La Partita delle Mazzate.
È oggi.
«Sì, Marv.» Lo dico molto chiaramente. «Ci sarò.» All’improvviso, comincio a farmi prendere dallo spirito dell’incontro. Nonostante sia ridotto malissimo, mi sento più forte che mai, e non vedo l’ora di farmi malmenare ancora un po’. Non chiedetemi perché. Non me lo so spiegare nemmeno io.
«Andiamo.» Marv si alza e va verso la porta. «Ti offro la colazione.»
«Sul serio?» Questo non è proprio da lui.
Uscendo, gli domando che cosa ci sia sotto, davvero.
«Lo faresti, se lasciassi la squadra?»
Marv apre la portiera e monta in macchina. «Col cavolo.»
Se non altro è sincero.
La macchina non parte.
«Non dire una parola», sibila guardandomi negli occhi.
Entrambi non riusciamo a trattenere una risatina.
È una bella giornata. Lo sento.
Andiamo a piedi in un merdosissimo caffè in fondo a Main Street. Servono uova, salame e una specie di pane senza lievito. La cameriera è un donnone con la bocca larga, che tiene un fazzoletto in mano. Per qualche motivo, ha l’aria di chiamarsi Margaret.
«Che cosa volete, scazzi?»
Siamo scioccati.
«Scazzi?» fa Marv.
Lei ci lancia un’occhiata che significa: Non ho tempo per queste cose. È scazzata da morire. «Sì. Siete due scazzi, no?» Soltanto adesso mi accorgo che ha detto «ragazzi». Ha una pronuncia un po’ strana.
«Ehi», faccio a Marv, «ha detto ‘ragazzi’.»
«Cosa?»
«Ragazzi.»
Marv studia il menu.
Margaret si schiarisce la voce.
Non volendo seccarla ulteriormente, ordino in fretta. «Io prendo un milkshake alla banana, se non è un problema.»
La fronte corrugata, mi informa: «Abbiamo finito il latte».
«Avete fin… Ma come diavolo è possibile che una caffetteria resti senza latte?»
«Senti, non sono io a comprarlo. Io non c’entro niente con il latte. So solo che non ce n’è. Perché non ordini qualcosa da mangiare?» Questa donna ama il suo lavoro. Ne sono convinto.
«Avete del pane?» le chiedo.
«Adesso non fare lo spiritoso.»
Perlustro il locale per vedere che cosa mangiano gli altri. «Prendo quello che sta mangiando quel tizio laggiù.» Ci voltiamo tutti e tre.
«Sicuro?» mi avverte Marn. «Sembra al limite del legale, Ed.»
«Be’, almeno ce l’hanno, no?»
Ora Margaret se la prende sul serio. «Sentite», sbotta, grattandosi la testa con la penna. Quasi mi aspetto che ci si pulisca anche le orecchie. «Se questo posto non è abbastanza elegante per voi scazzi, potete togliervi dalle scatole e andare da un’altra parte.» È parecchio suscettibile, per non dire altro.
«Ok.» Alzo la mano, come tirandomi indietro. «Portami quello che ha preso quel tipo, e una banana, ok?»
«Ottima scelta», approva Marv. «Potassio in vista della partita.»
Potassio?
Non credo che mi aiuterà.
«E tu?» Margaret ha spostato la sua attenzione sul mio amico.
Lui si agita sulla sedia. «Che ne dici di quel pane senza lievito che fate voi, con la vostra migliore selezione di formaggini?» Non poteva proprio trattenersi. Non riesce a non fare lo sbruffone con le persone come Margaret. È nella sua natura.
Ma Margaret è in gamba. Deve sopportare continuamente teste di cazzo come noi. «L’unico formaggino, qui, sei tu», gli risponde, e devo ammettere che ridiamo entrambi. Lei fa finta di niente. «Prendete altro, scazzi?»
«No, grazie.»
«D’accordo. Fanno ventidue dollari e cinquanta.»
«Ventidue e cinquanta?» Non nascondiamo l’irritazione.
«Be’, questo è un posto di classe.»
«Ovvio… il servizio è impeccabile.»
Ora siamo seduti a un rovente tavolo all’aperto, e sudiamo aspettando la colazione. Margaret si diverte a ignorarci mentre porta le ordinazioni agli altri clienti. Diverse volte siamo sul punto di chiederle dove siano finite le nostre, ma sappiamo che l’unico risultato sarebbe quello di dover attendere ancora di più. C’è davvero qualcuno che sta pranzando, mentre noi non abbiamo ancora avuto la colazione. E, quando finalmente arriva, Margaret ce la sbatte sul tavolo quasi ci stesse servendo del concime organico.
«Grazie, dolcezza», dice Marv. «Ti sei superata.»
Margaret si soffia il naso e se ne va. Brutale indifferenza.
«Com’è il tuo?» mi domanda Marv poco dopo. «O, meglio… cos’è?»
«Uova, formaggio e qualcos’altro.»
«Almeno ti piacciono le uova?»
«No.»
«Allora perché le hai ordinate?»
«Be’, non sembravano uova sul piatto di quel tizio.»
«Giusto. Vuoi assaggiare questo?»
Accetto e prendo un po’ del suo pane senza lievito. Non male.
Alla fine, gli chiedo perché abbia deciso di offrirmi la colazione proprio oggi. Non era mai successo. A dire la verità, non avevo mai fatto colazione fuori in vita mia. E poi Marv non penserebbe mai di pagare per me. No: in circostanze normali, preferirebbe morire.
«Marv», lo guardo dritto negli occhi, «perché siamo qui?»
Scuote la testa. «Io…»
«Vuoi essere sicuro che venga alla partita oggi pomeriggio, vero? Mi stai comprando?»
Non può mentirmi su questo, e lo sa. «Più o meno è così, sì.»
«Ci sarò», gli ripeto. «Alle quattro in punto.»
«Bene.»
Il resto della giornata scorre via veloce. Grazie al cielo, Marv mi concede qualche ora di libertà, e torno a casa a farmi una dormita prima dell’incontro.
Quando è l’ora di andare, m’incammino verso il campo sportivo con il Portinaio al seguito, contagiato dalla mia recente esplosione di felicità (nonostante il mio aspetto terribile).
Ci fermiamo da Audrey.
In casa non c’è nessuno.
Forse è già là. Detesta il football, ma è sempre presente, ogni anno.
Ci presentiamo al campo quando manca un quarto d’ora all’inizio, e una volta lì non posso non pensare a me e a Sophie. In confronto, questa partita sembra patetica… e in effetti lo è. Si sta radunando una piccola folla, mentre la pista di atletica è vuota… Rimane soltanto il ricordo di una ragazza scalza…
Contemplo quelle splendide immagini finché posso, poi mi volto e vado incontro a ciò che mi aspetta.
Più mi avvicino, più l’odore della birra diventa intenso. Fa caldo. Ci sono trentadue gradi, circa.
Le due squadre sono agli angoli opposti del campo, e le persone aumentano lentamente. È sempre un evento, la Partita delle Mazzate. Si tiene il primo sabato di dicembre, e credo che questa sia la quinta edizione. Per me è la terza.
Lascio il Portinaio all’ombra di un albero e, quando raggiungo la squadra, quelli che si accorgono di me si girano a guardarmi una seconda volta.
Ma l’interesse passa subito. Questa gente è abituata a vedere sangue e lividi.
Cinque minuti dopo mi viene lanciata una maglia blu a strisce rosse e gialle. Sono il numero dodici. Mi tolgo i jeans e indosso un paio di shorts neri. Niente calze né scarpe: sono le regole. Si gioca a piedi nudi, senza protezioni. Solo maglietta, calzoncini e un linguaggio osceno. Non serve altro.
Noi siamo i Colts. I nostri avversari i Falcons. Portano una T-shirt verde e bianca e pantaloncini degli stessi colori, anche se a nessuno importa. Siamo già fortunati ad avere le maglie, considerando che entrambe le squadre le hanno avute per pochi soldi da un vero club locale, o forse hanno preso quelle usate.
Ci sono giocatori di quarant’anni. Minatori o pompieri massicci e orribili. Poi ci sono quelli sulla trentina; qualche giovane, come Marv, Ritchie e il sottoscritto; e qualcuno che sa giocare davvero bene.
Ritchie è l’ultimo dei nostri a presentarsi.
«Meglio mai che tardi», commenta uno dei nostri grassoni. Un amico gli fa notare che la frase è diversa, «Meglio tardi che mai», ma palla di lardo è troppo scemo per capire. Ha dei baffi alla Merv Hughes. Se non capite che cosa intendo, vi basti sapere che sono spessi, cespugliosi e assolutamente improponibili. Ma la cosa più triste è che è anche il nostro capitano. Credo che il suo vero nome sia Henry Dickens. Nessuna parentela con Charles.
Ritchie butta a terra la borsa e risponde: «Ehi, ragazzi, come andiamo?» Tiene lo sguardo basso, e inoltre a nessuno frega un cazzo di come stanno gli altri. Mancano cinque minuti all’inizio, e la maggior parte della squadra sta bevendo birra. Ne lanciano una anche a me, ma la tengo per dopo.
Me ne sto lì senza far niente, mentre la folla continua ad ammassarsi intorno al campo. Ritchie mi raggiunge.
Mi studia un momento, squadrandomi dalla testa ai piedi.
«Cristo, Ed… sei messo malissimo. Che merda, tutto pesto e insanguinato.»
«Grazie.»
Mi guarda più attentamente. «Cos’è successo?»
«Oh, niente… dei ragazzini che volevano divertirsi in modo innocuo.»
Mi dà una pacca sulla schiena, abbastanza forte da farmi male. «Ben ti sta, giusto?»
«Per che cosa?»
Mi strizza l’occhio e finisce la sua birra. «Non ne ho idea.»
Bisogna amarlo, quando è così. Non gli interessa granché come accadono le cose, e non si disturba a chiedere il perché. Sa che non ho molta voglia di parlare dell’incidente, così fa una battuta e lasciamo cadere il discorso.
Ritchie è un buon amico.
Trovo curioso che nessuno mi abbia anche solo suggerito di chiamare la polizia, per via dell’aggressione. Non si fa, da queste parti. La gente viene rapinata o picchiata di continuo, e nella maggior parte dei casi può fare soltanto due cose: vendicarsi subito o incassare.
Io ho scelto di incassare.
Mentre allungo pigramente i muscoli, do un’occhiata all’altra squadra. Sono più grossi di noi. Lo sguardo mi cade sulla montagna di cui mi ha parlato Marv. È un gigante e, in tutta onestà, non so dire se sia un uomo o una donna. Da lontano, sembra Mimi del Drew Carey Show.
E poi.
Noto il dettaglio più spaventoso.
Il numero.
È il dodici, come me.
«Ecco chi devi marcare», dice una voce alle mie spalle. È Marv, lo so. Arriva anche Ritchie.
«Buona fortuna, Ed», mi fa, cercando di nascondere quanto si diverte. Scoppio a ridere anch’io.
«Cristo, quello mi seppellisce nel vero senso della parola.»
«Sicuro che sia un uomo?» scherza Marv.
Mi piego e mi afferro la punta dei piedi, per allungare la parte posteriore delle gambe. «Glielo chiederò quando mi starà sopra.»
Ma la cosa strana è che non sono troppo preoccupato.
La folla comincia a essere impaziente.
«Va bene, tutti qui», ci raduna Merv.
Sì, Merv, non Marv… ho deciso di chiamare così il ciccione baffuto perché non sono affatto sicuro che il suo vero nome sia Henry. Comunque, immagino che gli amici lo chiamino Merv per via dei baffi.
Facciamo capannello e ci carichiamo in vista dell’incontro. Ecco uno schifoso pot-pourri di ascelle sudate, alito di birra, bocche sdentate e barbe di tre giorni.
«Ok», fa Merv, «quando andremo là fuori, che cosa faremo?»
Silenzio.
«Allora?»
«Io non lo so», risponde finalmente qualcuno.
«Schiacceremo quei coglioni!» sbraita Merv, e subito si leva un borbottio di assenso. Solo Ritchie sta zitto, e sbadiglia. Anche qualcuno fra gli altri urla, ma non si può certo dire che si tratti di un muro di grida. Imprecano, sbuffano e parlano di tutto, tranne che di massacrare i Falcons.
Questi sono uomini adulti, penso. Non cresciamo mai.
L’arbitro fischia. È sempre lui, Reggie La Motta, molto conosciuto nel sobborgo per essere un ubriacone di prima categoria. L’unico motivo per cui accetta di arbitrare è che si becca due bottiglie di superalcolici che compriamo facendo la colletta. Una da ciascuna squadra.
«Dài, uccidiamoli!» esclamiamo in coro, e avanti così.
Svelto, torno all’albero dove ho lasciato il Portinaio. Si è addormentato, e un bambino lo sta accarezzando.
«Ti va di badare al mio cane?»
«Sì. Io mi chiamo Jay.»
«E lui è il Portinaio», e corro sul campo per unirmi ai compagni.
«Adesso ascoltate, ragazzi», comincia Reggie. Sta biascicando. La partita non è ancora iniziata, e l’arbitro è già ubriaco. È piuttosto buffo, in effetti. «Se succede la stessa merda dell’anno scorso, me ne vado e vi arbitrate da soli.»
«Non avrai le tue bottiglie, Reg», lo punzecchia qualcuno.
«Stronzate.» Si fa più tagliente. «Niente porcherie, chiaro?»
Siamo tutti d’accordo.
«Grazie, Reggie.»
«Giusto, Reg.»
Facciamo un passo avanti e stringiamo la mano agli avversari. Io la stringo all’altro dodici, che mi sovrasta con la sua altezza mettendomi in ombra. Avevo ragione. È un uomo, ma è la fotocopia di Mimi del Drew Carey Show.
«Buona fortuna», gli dico.
«Dammi cinque minuti», risponde Mimi, con voce gutturale. Con un po’ di trucco sarebbe perfetto. «E ti faccio a pezzi.»
I Falcons tirano il calcio d’inizio, e poco dopo faccio la mia prima corsa.
Mi uccidono.
Poi ci riprovo.
Idem come sopra, e in più mi becco gli insulti di Mimi il gigante mentre mi schiaccia la testa contro il terreno. Questa è la Partita delle Mazzate. La gente continua a fare ooh e aah, urla oscenità e battute, sempre bevendo birra e vino, e mangiando sandwich e hot dog venduti dallo stesso tizio che c’è ogni anno. Allestisce il banco a bordo campo, e porta persino bevande analcoliche e lecca-lecca per i bambini.
I Falcons segnano qualche punto, e si portano in vantaggio.
«Che cazzo sta succedendo?» chiede qualcuno, mentre siamo vicini ai pali. È Merv il grassone. Da capitano, si sente in dovere di dire qualcosa. «Cristo, solo uno di noi sta cercando di massacrare gli avversari, ed è… Ehi, com’è che ti chiami?»
Sono sbalordito, ce l’ha con me.
Preso alla sprovvista, rispondo: «Ed. Ed Kennedy».
«Be’, Ed è l’unico che stia correndo e placcando sul serio. Coraggio!»
Io non smetto di correre.
Quel mostro di Mimi tenta di distruggermi, e mi domando se rimarrà mai senza fiato. Di sicuro, uno di quella stazza non può andare avanti ancora a lungo, con questo caldo.
Sono a terra, quando Reggie annuncia la fine del primo tempo, e vanno tutti a bersi una birra. Dopo, ciascun giocatore dovrà convincersi – con non poche difficoltà – a rientrare in campo.
Durante l’intervallo mi sdraio un po’ all’ombra, accanto al Portinaio e al bambino. Ed è allora che arriva Audrey. Non mi chiede niente dei lividi, perché sa che si tratta del mio lavoro di messaggero. Sta diventando una cosa normale, quindi non entro nei dettagli.
«Stai bene?» mi chiede.
Sospiro, felice, e le rispondo: «Certo. Sono innamorato della vita».
Nel secondo tempo cominciamo a contrattaccare. Ritchie segna piazzando la palla vicinissima al palo e un altro tizio la mette direttamente in porta. Siamo pari.
Anche Marv sta giocando bene, adesso, e restiamo a lungo pari.
Finalmente Mimi inizia a essere stanco e, durante una pausa per infortunio, Marv mi dà una scrollata. «Ehi», dice, pungolandomi con un dito, «non hai ancora fatto male a quel maledetto donnone.» Ha i capelli biondi tutti appiccicati, lo sguardo determinato.
«Hai visto quant’è grosso, Marv? È più grosso di Mamma Grape, Cristo santo!»
«Mamma chi?»
«Hai presente la tizia di quel libro…» Ci rinuncio. «Hanno fatto anche un film, non te lo ricordi? Con Johnny Depp…»
«Comunque sia, Ed… vai là e fagli il culo!»
Obbedisco.
Mentre un giocatore viene medicato, io raggiungo Mimi.
Ci guardiamo.
«Prova a venirmi addosso, la prossima volta che ricevo palla», lo minaccio.
Mi volto, e intanto me la faccio sotto.
Riprende il gioco, e Mimi fa come gli ho detto.
Si dà la carica e corre verso di me, e per qualche motivo io so che ce la farò. Si avventa sulla palla, io mi metto sulla sua stessa linea e mi lancio in avanti. Quello che sento è il rumore. Lo scontro è tremendo, trema tutto. Mentre la folla impazzisce, mi rendo conto di essere ancora in piedi, invece Mimi è a terra, ridotto a un ammasso accartocciato.
Un attimo dopo sono tutti intorno a me, mi urlano che sono stato grande eccetera, ma all’improvviso provo un senso di nausea.
Mi sento malissimo per quello che ho fatto, e il grosso numero dodici sulla schiena del mio avversario mi osserva, immobile e abbandonato.
«È vivo?» chiede qualcuno.
«Chi se ne frega» gli rispondono.
Io vomito.
Lentamente, esco dal campo, mentre gli altri discutono su come trascinare fuori Mimi, così da poter riprendere il gioco.
«Ci serve una barella», suggerisce qualcuno.
«Non ne abbiamo, e poi… guarda la stazza di questo qui. È troppo grosso. Ci vorrà una gru, cazzo.»
«O un caterpillar.»
Le proposte sono infinite. Gente del genere non si fa scrupoli a infierire. Stazza, peso, puzza: qualunque sia il tuo problema, te lo rinfacciano anche se sei spiaccicato a terra.
L’ultima voce che mi arriva è quella di Merv il grassone. «Era da tanto che non vedevo un placcaggio simile.» C’è molta gioia in quella frase, e gli altri giocatori sono d’accordo con lui.
Io continuo a camminare.
Mi sento malissimo. In colpa.
Per me, la partita finisce qui.
La partita è finita, ma comincia qualcos’altro.
Torno all’albero, e il Portinaio è sparito.
Si sta risvegliando una paura familiare.