«O’Reilly, O’Reilly…»
Sto consultando l’elenco del telefono locale. È mezzogiorno. Ho dormito.
Ci sono due T. O’Reilly. Uno vive nella parte più bella del sobborgo. L’altro nei bassifondi.
È lui, mi dico. Quello dei bassifondi.
Lo so.
Per togliermi ogni dubbio, vado prima all’indirizzo elegante. È una bella casa con i muri rivestiti di cemento, cui si accede tramite un ampio viale. Busso.
«Sì?»
Mi apre un uomo alto, che mi osserva attraverso la zanzariera. Indossa un paio di shorts, camicia e ciabatte.
«Scusi il disturbo», comincio, «ma…»
«Sei qui per vendere qualcosa?»
«No.»
«Sei un testimone di Geova?»
«No.»
È scioccato. «Be’, in questo caso, accomodati.» Ha cambiato subito tono, e per la prima volta mi guarda con occhi amichevoli. Mi chiedo se accettare o meno la sua offerta, ma poi opto per il no.
Restiamo lì, divisi dalla zanzariera. Mi domando come fare questa cosa nel modo giusto, e alla fine decido che probabilmente l’approccio diretto è il migliore. «Signore, lei è Thomas O’Reilly?»
Fa un passo avanti e aspetta un momento, prima di rispondere.
«No, amico. Io sono Tony. Thomas è mio fratello. Vive in un buco merdoso da qualche parte in Henry Street.»
«Ok, scusi se l’ho disturbata», gli rispondo, e faccio per andarmene. «Grazie.»
«Ehi.» L’uomo apre la zanzariera e mi segue. «Perché cerchi mio fratello?»
Pausa. «Non lo so ancora.»
«Se vai da lui, puoi farmi un favore, quando lo vedi?»
«Non c’è problema.»
«Potresti riferirgli che l’avidità non mi ha ancora divorato?»
Questa frase atterra in mezzo a noi come un pallone sgonfio.
«Certo, sarà fatto.»
Sto per varcare il cancello, quando Tony mi chiama un’ultima volta. Mi giro.
«Credo di doverti avvisare.» Si avvicina. «Mio fratello è un prete.»
Rimaniamo entrambi immobili per qualche secondo, mentre rifletto su quello che mi ha appena detto. «Grazie», e lascio il suo vialetto.
Sempre meglio di uno che picchia e stupra la moglie, mi consolo andandomene.
«Quante volte te lo devo ripetere?»
«Sei sicuro?»
«Non sono stato io, Ed. Se fosse così, te lo direi.»
Sto parlando al telefono con Tommy. Ho pensato a lui, dopo che quel tizio mi ha guidato al fiume e alle pietre di casa. A quanto mi risulti, Tommy è l’unico a sapere che andavamo là, dal momento che non l’abbiamo mai raccontato a nessuno. Eravamo convinti che ce le avrebbero suonate di brutto, se fosse venuto fuori che salivamo fin lassù da soli. Del resto, forse qualcuno ne era al corrente, ma ha sempre fatto finta di niente. Sapevamo nuotare entrambi.
Prima gli ho detto delle carte, e il suo commento è stato: «Com’è che questo genere di cose capita sempre a te, Ed? Se c’è in giro qualcosa di strano, in qualche modo arriva sempre a te. Sei una calamita per le stronzate».
Abbiamo riso.
Tassista. Fannullone. Pietra angolare della mediocrità. Una nullità a letto. Patetico giocatore di carte. E per completare il quadro anche una calamita per le stronzate.
Ammettiamolo.
Sto mettendo insieme una lista niente male.
«Comunque, come stai, Tommy?»
«Tutto ok. Tu?»
«Non c’è male.»
Fine della conversazione. Non è stato Tommy.
Ultimamente c’è stata una penuria di partite a carte, così Marv organizza una seratona. L’appuntamento è da Ritchie. I suoi sono appena partiti per le vacanze.
Prima di andare da lui, raggiungo Henry Street e cerco Thomas O’Reilly. Mentre cammino, il mio stomaco si agita, le mani cercano le tasche. La strada sembra uscita da un film dell’orrore, e ha sempre avuto questa reputazione. È tutto rotto: tegole, finestre, persone. Persino la casa del prete è abbastanza ripugnante.
Il tetto è di lamiera ondulata, rossa e arrugginita.
Le pareti sono di eternit bianco sporco.
L’intonaco fa schifo, è pieno di bolle.
La recinzione scassata lotta per restare in piedi.
E il cancello è agonizzante.
Sono quasi arrivato, quando mi rendo conto di non potercela fare…
Tre tizi grossi sbucano da un vicolo e cominciano a chiedermi delle cose. Non mi minacciano, ma la loro presenza basta a farmi sentire goffo e solo.
«Ehi, amico, hai quaranta centesimi?» fa uno.
«O delle sigarette?» domanda l’altro.
«Quel giubbotto ti serve proprio?»
«Andiamo, ehi… una sigaretta. Lo so che fumi. Non morirai, se me ne offri una…»
Resto paralizzato per un istante, poi mi giro e me ne vado.
E accelero il passo.
Da Ritchie continuo a rivivere quella scena, mentre gli altri danno le carte e chiacchierano.
«Allora, dove sono andati i tuoi?» chiede Audrey.
Segue una lunga pausa, durante la quale Ritchie riflette sulla domanda. «Non ne ho idea.»
«Stai scherzando, vero?»
«Me l’hanno detto, ma devo essermene dimenticato.»
Audrey scuote la testa, e Marv ride attraverso il fumo di sigaro.
Penso a Henry Street.
Stasera vinco, tanto per cambiare.
Lascio passare qualche mano, ma colleziono più vittorie degli altri.
Marv parla ancora con soddisfazione dell’ormai imminente Partita annuale delle Mazzate. «Avete sentito?» domanda a Ritchie e a me, buttando fuori una boccata di fumo. «I Falcons hanno uno nuovo, quest’anno. Dicono che sia centocinquanta.»
«Centocinquanta che?» fa Ritchie. «Chili?»
Negli ultimi anni, ha giocato anche lui come ala, ma è addirittura meno coinvolto del sottoscritto. Per rendere l’idea, di solito durante i momenti morti della partita si fa una birra o due con il pubblico.
«Esatto, Ritchie», conferma Marv. È una faccenda seria. «Centocinquanta chili.»
«Tu giochi, Ed?»
La domanda viene da Audrey. Sa che giocherò, ma me lo chiede per assicurarsi che tra noi sia tutto a posto. Dall’episodio sulla porta di casa sua – «È solo Ed» – non è più riuscita a parlarmi. Sollevo lo sguardo dal tavolo e le rivolgo un mezzo sorriso. Sa che significa che è tutto ok.
«Sì. Ci sarò anch’io.»
Il suo sorriso risponde, Bene. È bello che sia tutto ok tra noi, intende. Non potrebbe fregargliene di meno della partita. Lei odia il football.
Più tardi, quando ormai abbiamo smesso di giocare a carte, viene da me, e ci sediamo a bere in cucina.
«Sempre bene con quello nuovo?» le domando, mentre butto nel lavello le briciole del pane tostato. Poi mi volto per ascoltare la risposta, e noto del sangue secco sul pavimento. Sangue che ho perso dalla testa, misto a peli di cane. Ovunque ci sono cose che mi ricordano le carte.
«Non c’è male.»
Vorrei dirle quanto mi dispiace di essermi presentato così, l’altra mattina, ma poi non lo faccio. Adesso è tutto ok, tra noi, non ha senso tornare su qualcosa che non posso cambiare. È meglio così.
Quando rimetto il tostapane al suo posto, intravedo il mio riflesso sulla superficie, anche se devo ammettere che è un po’ lurido. I miei occhi sono insicuri, al punto da sembrare feriti. Per quel brevissimo istante mi appare la natura miserabile dalla mia vita. Questa ragazza che non posso avere. Questi messaggi che non mi sento in grado di consegnare… Ma poi vedo quegli stessi occhi diventare determinati. Vedo una nuova versione di me stesso che torna in Henry Street per andare da padre Thomas O’Reilly. Indosserò il mio giubbotto vecchio e sporco, e sarò senza soldi e senza sigarette come l’ultima volta. Ma arriverò fino alla porta d’ingresso.
Devo farlo, mi impongo, e poi dico a Audrey: «So dove devo andare».
Lei sorseggia il succo di pompelmo e mi domanda: «Sì? E dove?»
«Da altre tre persone.»
I nomi incisi sulla roccia gigantesca mi si materializzano davanti, ma li tengo per me. Come ho già detto, non ha senso raccontarle tutto.
Sta morendo dalla voglia di chiedermeli.
È evidente.
Ma dalla sua bocca non esce nemmeno una parola; devo riconoscerglielo, non forza mai le cose. Sa che non le racconterò niente, se mi fa troppe pressioni.
Le rivelo soltanto dove li ho trovati.
«Stavo inseguendo un tizio che è scappato per non pagarmi la corsa, e mi ha portato là…»
«Chiunque ci sia dietro, sembra promettere solo guai.»
«Questa gente mi conosce incredibilmente bene… quasi come me.»
«Sì, ma… chi ti conosce sul serio, Ed?»
Ecco. Ha colto nel segno.
«Nessuno.»
Nemmeno io? mi chiede il Portinaio, entrando in cucina.
Mi volto per rispondergli.
Ascolta, amico… il fatto che ci siamo fatti qualche tazza di caffè insieme non significa che tu mi conosca.
A volte credo di non conoscermi neanch’io.
Il riflesso sul tostapane attira di nuovo il mio sguardo.
Ma tu sai cosa fare, mi dice.
Ha ragione.
La sera dopo, smonto dal turno e torno in Henry Street, e questa volta arrivo alla porta. Devo dire che la casa di padre O’Reilly dà un nuovo significato all’aggettivo «orrenda».
Mi presento e, senza aggiungere granché, il sacerdote mi invita a entrare.
Una volta nel corridoio, gli dico, senza pensarci: «Gesù, non morirebbe se pulisse una volta ogni tanto, sa?»
Sono uscite da me queste parole?
Ma non ho bisogno di preoccuparmi, perché padre O’Reilly ribatte al volo.
«Vogliamo parlare di te? Quand’è stata l’ultima volta che hai lavato quel giubbotto?»
«Uno pari», replico, grato della sua risposta pronta.
Sta perdendo i capelli, gli do più o meno quarantacinque anni. Non è alto come il fratello, ha gli occhi verde bottiglia e le orecchie belle grandi. Porta la veste, e mi domando perché abiti qui e non in canonica. Ho sempre pensato che i preti vivessero vicino alla chiesa, per permettere ai fedeli di andare da loro, se avessero bisogno di aiuto o di consigli.
Mi fa strada in cucina, dove ci sediamo al tavolo.
«Tè o caffè?» Dal tono, sembra convinto che io debba bere qualcosa. Si tratta solo di scegliere che cosa.
«Caffè.»
«Latte e zucchero?»
«Sì, grazie.»
«Quanti cucchiaini?»
Questo mi crea un certo imbarazzo. «Quattro.»
«Quattro? Ma chi sei, David Helfgott?»
«Chi diavolo è?»
«Il pianista… quello mezzo matto.» È sbalordito che non lo conosca. «Beve dodici tazze di caffè al giorno, e in ciascuna mette dieci cucchiaini di zucchero.»
«È bravo?»
«Be’, sì.» Mette su il bollitore. «Pazzo ma bravo.» I suoi occhi limpidi sono cordiali, adesso. Emanano una gentilezza di proporzioni gigantesche. «Sei pazzo ma bravo anche tu, Ed Kennedy?»
«Non lo so», rispondo, e lui ride, ma è più una risata tra sé che rivolta a qualcun altro.
Quando è pronto il caffè, lo porta in tavola e torna a sedersi. Prima di assaggiarlo, mi domanda se qualcuno mi ha tormentato per avere soldi o sigarette, e con la testa indica la via alle sue spalle.
«Sì, e un tizio continuava a chiedermi il giubbotto.»
«Sul serio?» Scuote la testa. «Dio solo sa perché. Non ha molto gusto, suppongo.» Beve.
Abbasso lo sguardo sulle maniche. «È davvero conciato così male?»
«Nah.» È sincero, ora. «Ti sto solo stuzzicando, figliolo.»
Tra noi cala un silenzio imbarazzante. Un silenzio che mi suggerisce che è il momento di venire al dunque. Credo che anche il prete abbia la stessa sensazione: l’espressione sul suo viso esprime curiosità, ma pure pazienza e attesa.
Sto per cominciare, quando in una delle case vicine esplode una lite.
Un piatto finisce in frantumi.
Da oltre la recinzione giungono delle urla.
Il battibecco si fa più intenso, si sentono insulti e porte che sbattono.
Lui nota la mia ansia: «Aspetta un secondo, Ed». Va alla finestra e la apre un po’ di più. Grida: «Voi due, datevi una calmata!» E non molla: «Clem!»
Adesso un mormorio striscia fino alla finestra, seguito da una voce. «Sì, padre?»
«Cosa succede, oggi?»
«Lei mi sta facendo innervosire di nuovo!»
«Be’, questo è chiaro, Clem, ma perché…»
Un’altra voce. Di donna. «Perché è stato di nuovo al pub. A bere e a giocare!»
Padre O’Reilly assume un tono da reverendo. Una voce rispettabile e ferma. «È vero, Clem?»
«Be’, sì, ma…»
«Niente ‘ma’, Clem. Questa sera resti a casa, ok? Tenetevi per mano e guardate la tv.»
Voce uno: «Ok, padre».
Voce due: «Grazie, padre».
A quel punto torna da me, scuotendo la testa. «Ti presento i Parkinson. Una dannata coppia di buoni a nulla.» Il suo commento mi sciocca. Non avevo mai sentito un sacerdote parlare in questo modo. In effetti non avevo mai nemmeno parlato con un sacerdote, ma di sicuro non sono tutti così.
«Succede spesso?» gli chiedo.
«Un paio di volte alla settimana, almeno.»
«E come fa a conviverci?»
Mi risponde allargando le braccia, indicandosi la veste. «È per questo che sono qui.»
Chiacchieriamo per un minuto, padre O’Reilly e io.
Gli racconto com’è fare il tassista.
Lui com’è fare il sacerdote.
La sua chiesa è quella vecchia, alle porte del sobborgo, e adesso capisco perché ha scelto di vivere qui. La chiesa è troppo lontana per permettergli di aiutare davvero qualcuno, quindi questo per lui è il posto migliore, se vuole essere presente. È qui che ha bisogno di stare, non in una chiesa a prendere polvere.
Sono stupito dalle parole che usa, specialmente riguardo la chiesa.
«Gli affari non vanno bene, ultimamente?»
«Vuoi la verità?» Il vetro dei suoi occhi si frantuma e mi punge. «È una vera merda.»
A questo punto, non posso più trattenermi. «Può davvero esprimersi così? Anche se è consacrato e robe simili?»
«Come? Perché sono un prete, intendi?» Beve anche il fondo del caffè. «Certo che sì. Dio sa riconoscere le cose importanti.»
È un sollievo che non cominci a dire che Dio conosce tutti, rifilandomi un sermone sull’argomento. Non predica nemmeno. Anche quando non abbiamo più niente da dirci, mi guarda con un’aria risoluta e mi sprona: «Ma non cadiamo in discorsi religiosi, oggi, Ed. Parliamo di altro». Il suo tono si fa lievemente formale. «Parliamo del motivo per cui sei qui.»
Ci fissiamo attraverso il tavolo.
Per pochi istanti.
Ci fissiamo.
Dopo un silenzio fin troppo lungo, confesso. Gli racconto che ancora non so perché sono venuto. Non nomino i messaggi di cui mi sono già occupato, né quelli che mi attendono. Mi limito a dirgli che ho uno scopo, e che presto mi sarà chiaro.
Lui ascolta con attenzione, con i gomiti sul tavolo, le mani giunte, le dita intrecciate sotto il mento.
Passa un momento, e poi capisce che non mi è rimasto granché da aggiungere. Allora comincia con voce chiara, calma. «Non preoccuparti, Ed. Presto, dentro di te saprai quello che devi fare. Ho la sensazione che sia già successo, in passato.»
«Infatti.»
«Fammi soltanto un favore, e ricorda una cosa», mi dice, e capisco che si sta sforzando di non comportarsi troppo da religioso. «Abbi fede, Ed, d’accordo?»
Fede. La cerco nella tazza di caffè, ma non ce n’è.
Mi accompagna fuori e percorre con me un tratto di strada. Incrociamo i tizi che volevano una sigaretta, dei soldi e il mio giubbotto, e padre O’Reilly li chiama e fa loro un discorsetto.
«Ragazzi, voglio presentarvi Ed. Ed, loro sono Joe, Graeme e Joshua.» Stringo la mano a tutti e tre. «E questo è Ed Kennedy.»
«Piacere di conoscerti, Ed.»
«Ciao, Ed.»
«Come butta, Ed?»
«E ricordate una cosa.» Il tono di padre O’Reilly è severo, ora. «Ed è un mio amico, e non dovrete chiedergli sigarette né soldi. Soprattutto, non il giubbotto.» Mi rivolge un rapido sorriso. «Voglio dire, Joe… guardalo: è scandaloso, non trovi anche tu? È davvero brutto.»
Joe è felice di dargli ragione. «Certamente, padre.»
«Bene. Quindi, intesi?»
Sì.
«Perfetto.» Noi due proseguiamo fino all’angolo.
Ci salutiamo. Padre O’Reilly è già quasi scomparso dalla mia vista, quando mi ricordo di suo fratello e torno indietro di corsa. Lo chiamo. «Ehi, padre!»
Si volta.
«Quasi dimenticavo.» Mi fermo a una quindicina di metri da lui. «Suo fratello.» Lo sguardo si fa più attento. «Mi ha chiesto di dirle che l’avidità non l’ha ancora divorato.»
I suoi occhi si illuminano, e vi scorgo anche una lieve punta di rimpianto. «Mio fratello Tony…» Quelle parole morbide vengono verso di me, ondeggiando. «Non lo vedo da tanto tempo. Come sta?»
«Non male.» Lo affermo con una sicurezza che non mi spiego. Ma l’istinto mi suggerisce che è la risposta giusta, e così restiamo lì, in mezzo all’imbarazzo e all’immondizia.
«Si sente bene, padre?»
«Sì, Ed. Grazie.»
Si volta e se ne va, e per la prima volta non lo vedo come un sacerdote.
E neanche come un uomo.
In questo istante è semplicemente un essere umano che sta tornando a casa, in Henry Street.
Ed ecco una scena molto diversa.
Sono da Marv e sto guardando Baywatch, con il volume al minimo. Non ci interessano la trama, né i dialoghi.
Stiamo ascoltando il suo gruppo preferito, i Ramones.
«Posso mettere qualcos’altro?» fa Ritchie.
«Sì, metti Pryor», risponde Marv. In questi giorni perfino Jimi Hendrix lo chiamiamo Richard Pryor. Partono le note di Purple Haze, e lui domanda: «Audrey dov’è?»
«Sono qui», ribatte lei, entrando.
«Cos’è quest’odore?» chiede Ritchie con una smorfia. «È familiare.»
Marv lo riconosce e mi punta contro un dito accusatorio. «Hai portato il Portinaio, vero?»
«Ho dovuto… si sentiva solo.»
«Sai che non è il benvenuto, qui.»
Il cane è sulla porta del retro, aperta, e guarda dentro.
Guarda Marv e abbaia.
È l’unica persona con cui lo faccia.
«Non gli piaccio», sottolinea.
Un altro latrato.
«È perché gli lanci delle occhiatacce e lo insulti ogni volta. Non è stupido, sai?»
Andiamo avanti a discutere per un po’, fino a quando Audrey non ci interrompe dando le carte.
«Signori?» si schiarisce la voce.
Ci sediamo, e pesco una carta.
Durante la terza partita, pesco l’asso di fiori.
Padre O’Reilly, penso.
«Che cosa fai domenica, Marv?»
«Che vuol dire Che cosa fai domenica?»
«Secondo te?»
«Sei davvero un idiota, Marv. Immagino che Ed ti stia semplicemente chiedendo se hai impegni, quel giorno.»
Adesso Marv punta il dito contro Ritchie. È antipatico, oggi, perché ho portato il Portinaio. «Non farmi incazzare anche tu, Pryor.» Poi guarda Audrey. «E sta’ zitta pure tu.»
Audrey è attonita. «Che cosa diavolo ho fatto, io?»
Intervengo. «Comunque, la domanda non è rivolta solo a Marv… ma a tutti e tre.» Metto le mie carte sul tavolo, a faccia in giù. «Ho bisogno di un favore.»
«E sarebbe?» chiede Marv.
Adesso ho la loro attenzione.
Aspettano.
«Ecco, mi domandavo se potessimo andare insieme…» lascio che le parole escano in un turbine dalla mia bocca «…in chiesa.»
«Cosa?!»
«Be’? Che ho detto di male?»
Marv tenta di riprendersi dallo choc. «Perché cazzo vuoi andare in chiesa?»
«Be’, c’è questo prete che…»
«Non sarà mica uno di quelli che?…»
«No.»
«Di che state parlando?» domanda Ritchie, ma nessuno gli risponde. Alla fine, dato che non gli importa davvero, se ne dimentica.
Poi interviene Audrey, che finalmente mette un briciolo di razionalità. «Perché, Ed?» Credo abbia intuito che l’asso di fiori c’entra qualcosa.
«Il sacerdote è una brava persona, e penso che ci farebbe bene andare, anche solo per farci una risata.»
«Lui viene?»
Marv indica il Portinaio.
«Ovviamente no.»
Ritchie è il mio salvatore. Sarà anche un giocatore d’azzardo che scrocca il sussidio di disoccupazione, e avrà anche il tatuaggio più brutto del mondo, ma è disposto a seguirti quasi in tutto. Con il suo modo affabile, dice: «Perché no, Ed? Io ci vengo». E poi aggiunge: «Per farci una risata, giusto?»
«Certo.»
E un attimo dopo Audrey: «Ok, Ed, ci sono anch’io».
A questo punto, Marv sa di essere in una situazione delicata. Non vuole venire ma, se rifiuta, farà la figura dello stronzo. Alla fine butta fuori l’aria che aveva trattenuto nei polmoni. «Dio, non posso credere a quello che sto per dire. Vengo anch’io, Ed.» Ride mestamente. «In chiesa, domenica.» E poi scuote la testa. «Cristo.»
«Esatto», faccio io, mentre riprendo in mano le carte.
Più tardi, a casa mia squilla ancora il telefono. Non mi lascio intimidire.
«Pronto?»
«Ciao, Ed.»
È mamma. Mi scappa un sospiro di sollievo, e mi preparo alla mitragliata. Non la sento da un po’, quindi vorrà sputarmi addosso gli insulti arretrati di due settimane, o addirittura di un mese.
«Come stai, ma’?»
«Hai già chiamato Kath? È il suo compleanno.»
Kath, mia sorella.
«Oh, merda.»
«Oh, merda, esatto. Adesso alza il culo e falle una telefonata.»
«Sì, subi…»
È caduta la linea.
Nessuno è più bravo di mia madre a uccidere una conversazione telefonica.
L’unico mio errore è stato quello di non pensare abbastanza velocemente e di non chiederle il numero di Kath, nel caso non riuscissi a trovarlo. Ho la brutta sensazione di averlo perso, che si rivela fondata dopo che ho frugato in tutti i cassetti e in ogni fessura della cucina. Non è da nessuna parte, e lei non è sull’elenco.
Oh, no.
Avete indovinato.
La temuta telefonata a mamma.
Compongo il numero.
«Pronto?»
«Ma’, sono io.»
«E adesso che cosa vuoi, Ed?» Il suo sospiro mi fa capire quanto sia seccata.
«Il numero di Kath?»
Sono sicuro che immaginiate da soli la risposta.
Arriva la domenica, più in fretta di quanto avessi pensato.
Ci sediamo in fondo alla chiesa.
Ritchie è piuttosto felice, Audrey è contenta. Marv ha i postumi di una sbornia – si è ubriacato di nuovo con la birra del padre – e io, per qualche motivo, mi sento nervoso.
In chiesa ci sono appena una decina di persone, a parte noi. È così vuota da essere deprimente. La moquette è crivellata di buchi, i banchi hanno un aspetto cupo. Solo i vetri piombati hanno un’aria sacra. Gli altri fedeli sono anziani e siedono con le spalle curve, come martiri.
Quando esce dalla sagrestia, padre O’Reilly saluta i presenti: «Grazie a tutti di essere qui». Per un istante, sembra un uomo abbattuto. Poi nota noi quattro, in fondo. «Diamo un caloroso benvenuto ai tassisti.»
La chiazza calva brilla sotto il raggio di luce che filtra attraverso una vetrata.
Fa un cenno con la testa per salutarmi.
Rido, solo io.
Ritchie, Marv e Audrey si voltano a guardarmi. Gli occhi di Marv sono iniettati di sangue, tremendi.
«Nottata difficile?» gli chiedo.
«Da incubo.»
Padre O’Reilly raccoglie i pensieri e passa in rassegna i presenti. Vedo che sta facendo appello alle sue forze. È capace di arrivare nel profondo dell’anima. Inizia il sermone.
Dopo la funzione, ci sediamo fuori.
«Qual era lo scopo di tutte quelle stronzate sul pastore?» vuole sapere Marv. È sdraiato sull’erba, persino la voce risente della sbronza.
Siamo seduti sotto un enorme salice, che ci piange tutt’intorno. Poco prima che uscissimo dalla chiesa, sono passati a ritirare le offerte. Io ho messo cinque dollari, Ritchie non aveva soldi, Audrey ne ha messi due o tre, e Marv ha frugato nelle tasche e ha tirato fuori una moneta da venti centesimi e il tappo di una biro.
L’ho guardato.
«Be’, che c’è?»
«Niente, Marv.»
«Ecco, appunto.»
Ce ne stiamo lì sotto l’albero. Audrey canticchia tra sé, Ritchie si appoggia con i gomiti al gradino dietro di lui. Marv si addormenta, e io aspetto.
Poco dopo avverto una presenza alle spalle. So che è padre O’Reilly ancora prima che apra bocca. È l’impressione che fa. La sua concretezza tranquilla, allegra.
«Grazie di essere venuto, Ed», mi dice. Poi guarda Marv. «Quel ragazzo sembra nella merda persino più di te.» Un’espressione maligna gli attraversa il viso. «Cristo santo», aggiunge, e noi scoppiamo a ridere. Tranne Marv, che un attimo dopo si sveglia.
«Oh.» Si dà una grattatina al braccio. «Salve, padre. Bella predica.»
«Grazie.» Ci guarda ancora, tutti e quattro. «Grazie di essere venuti. Vi rivedrò la prossima settimana?»
«Forse», rispondo io, ma Marv decide di parlare per sé.
«Non esiste.»
Padre O’Reilly la prende bene.
Non credo di aver capito esattamente di che cosa abbia bisogno quell’uomo, ma adesso so che cosa intendo fare. Tornato a casa, mi siedo con il Portinaio a leggere e a guardare le foto sopra il televisore. E poi decido.
Riempirò la sua chiesa.
L’unica domanda è: come?