Sean si era procurato due bottiglie di whisky al bar del tendone.
La ragazza gli si era aggrappata al collo. « Facciamo baldoria », disse attraversando la folla di marinai e prostitute che si accalcava all'ingresso del locale.
L'interno era così buio che si distingueva a malapena la banda.
La musica era così alta che dovevano gridarsi le cose nell'orecchio per sentirle.
« Sei un fratello meraviglioso », gli urlò Isabella baciandolo.
« Non mi fai mai le prediche! »
« La vita è tua, cara Isabella: goditela... E chiamami se qualcuno cerca di impedirtelo! »
Seduta sulle ginocchia di Lothar, l'abbracciava sbaciucchiando-lo sul collo. La ragazza che stava con Sean era crollata, e lui l'aveva stesa sul divanetto imbottito, con la testa sul suo grembo, mentre parlava seriamente con Lothar, a spalla a spalla con lui. La musica copriva le voci, e a piú di qualche centimetro nessuno poteva certamente udire.
« Sai che alla polizia c'è ancora un bell'incartamento a nome tuo? » gli disse Lothar.
« Non è una gran sorpresa », ammise Sean.
« Non t'importa di correre qualche rischio, eh? » rise Lothar.
« Il tuo coraggio mi piace. »
« A quanto vedo e sento, direi che sei abbastanza coraggioso anche tu », disse Sean.
« Io potrei fare in modo che le tue pratiche spariscano », offrì Lothar.
« In cambio di qualcosina d'altro, immagino. »
« Be', direi », annuì Lothar. « Non si fa niente per niente. »
« E per una manciata di cacca si guadagna un pugno di mosche », rise Sean, riempiendo di nuovo i bicchieri. « Cosa dovrei fa-re per voi? »
« Il nostro agente in Rhodesia. In tal caso, dimenticheremmo forse le tue piccole indiscrezioni. »
« Perché no? » accettò immediatamente Sean. « Cosa non si fa per una bella risata! E vivere pericolosamente è già metà divertimento. »
« Ehi, voi due, perché non la piantate di fare i noiosi? » gridò Isabella, accarezzando la guancia di Lothar. « Io voglio ballare! »
La ragazza di Sean si rialzò ciondolando e disse: « Sto per vomitare ».
« Emergenza », dichiarò Sean, saltando in piedi e portandola al-la toilette delle donne. C'erano due signore al lavandino, che si misero a squittire pudiche a quell'irruzione.
« Non si preoccupino di noi, signore », disse Sean spingendo la ragazza nel cubicolo e puntandola verso la tazza del cesso. Rumorosamente si liberò di quanto l'angustiava, poi si rialzò barcollando e gli fece un sorriso stranito. Con tenerezza lui le pulì la bocca con della carta igienica.
« Come ti senti? »
« Adesso meglio. »
« Bene. Andiamo da qualche parte a scopare. »
« Okay », disse lei, miracolosamente ringalluzzita. « Era tutta la sera che aspettavo! »
Sean si fermò vicino a Lothar e Isabella che stavano ballando sulla pista affollata.
« Noi ce ne andiamo. E' saltato fuori un imprevisto, se mi passate l'espressione. »
« Ti telefono domani a Weltevreden », disse Lothar, « per mettere a punto i dettagli. »
« Non troppo presto, mi raccomando », disse Sean e sorrise a sua sorella. « Ci vediamo, Bella. »
« Non dirmi "fa' la brava" eh? »
« Perisca il solo pensiero. » Sean prese la sua amica e la condusse giú per le scale.
Isabella fece un altro giro di pista, tanto per far allontanare Sean, poi sussurrò: « Sono stufa di ballare. Andiamocene via ».
Lothar non aveva mai visto una donna guidare con il gusto e la bravura di Isabella. Si rilassò sul sedile e si mise a guardarla. Nonostante la giornata lunga e piena di eccessi, era sempre fresca come un petalo di rosa, con gli occhi chiari e luminosi.
Era la prima ragazza inglese con cui fosse mai uscito, e i suoi modi liberi e diretti l'avevano sbigottito e affascinato. Con la severa educazione calvinistica che ricevevano, le ragazze afrikaner non potevano comportarsi con altrettanta spontaneità senza essere considerate delle ragazze facili. Eppure, benché l'avesse turbato piú di un pò, doveva ammettere che era la ragazza piú bella e affascinante che avesse mai conosciuto.
All'incrocio tra Paradise Road e Rhodes Drive Isabella tirò dritto.
« Bisognava svoltare di là per Weltevreden », disse Lothar, e lei rispose con un sorrisetto malandrino. « Non è là che stiamo andando. Da qui in avanti, sei nelle mie mani, Lothar De La Rey. »
Seguirono la strada costiera da Muizenberg intorno alla baia, per le vie deserte di Simonstown, la base navale britannica, proseguendo poi verso la vera e propria punta del continente.
Dove la strada costeggiava un'alta scogliera, Isabella fermò l'Al-fa Romeo sul ciglio della strada, e spense il motore.
« Vieni », gli ordinò. Lo prese per mano e lo portò sul ciglio dell'abisso. L'alba stava tingendo il cielo orientale di arancio e limone.
Molti metri sotto di loro, la scogliera rientrava a formare una baia riparata. « Che bello qui », mormorò Isabella. « E' uno dei posti che preferisco. »
« Dove siamo? » le chiese Lothar.
« In un posto che si chiama Smitswinkel Bay », gli disse lei, e lo portò per mano all'imboccatura del sentiero che scendeva al mare.
In fondo c'era una spiaggetta a ferro di cavallo, di sabbia argentea, sopra la quale, abbarbicati alla roccia, si vedevano dei rozzi cottage. Il chiarore perlaceo dell'alba cominciava a illuminarli, mentre le spume della baia avevano la patina nebulosa del peltro.
Isabella scalciò via le scarpe e andò in riva all'acqua. Poi, senza girarsi a guardarlo, si tolse il vestito sfilandoselo da sopra la testa e lo lasciò cadere sulla sabbia. Sotto, indossava soltanto le mutandine di seta col pizzo. Per un lungo momento restò lì a guardare il mare: aveva la schiena lunga e fatta a forma di un bel vaso, le vertebre si vedevano appena sotto la pelle chiara e luminosa come madreperla.
Quindi si chinò a togliersi anche le mutandine.
Era nuda, e Lothar si accorse di emettere un gemito strozzato nel respirare e guardandola andare a passi lenti all'acqua, ancheggiando dolcemente a tempo con il pigro ritmo dell'oceano. Proseguì finché fu in mare fino alla vita e si abbassò, lasciando fuori solo la testa. Poi si girò a guardarlo. La sfida e l'invito erano chiari come se li avesse spiattellati a voce.
Lothar si svestì senza fretta, come aveva fatto lei. Nudo, entrò nella baia, e lei si alzò ad accoglierlo, facendo ruscellare l'acqua giú dalle spalle e tra i seni. Poi gli tese le braccia, prendendolo dolcemente per il collo.
Lo provocava con la lingua, lasciandogli esplorare il tepore e la morbidezza della sua bocca; e, sentendo quanto la desiderava, emise una risatina sommessa e roca.
Così provocato, Lothar la prese tra le braccia e la portò dove lei non toccava. Fu costretta a stringerglisi addosso, col corpo privo di peso. La maneggiava come una bambola e lei non faceva nessuna resistenza. La sua forza sembrava senza limiti: si sentiva indifesa e vulnerabile nelle sue mani, e gli fu grata della sua pazienza: affrettarsi ora sarebbe stato un rovinare tutto. Voleva che questa volta fosse ben diverso dal frenetico tastare e spesso doloroso fottere che le avevano saputo offrire i quattro o cinque studentelli a cui finora aveva dato l'occasione.
Imparò ben presto che anche lui poteva provocarla. La lasciava galleggiare intorno a sé nel respiro tranquillo dell'oceano, mentre lui se ne stava immobile, rifiutando di procedere all'assalto finale.
Alla fine, fu Isabella a soccombere all'impazienza.
In contrasto con l'acqua fredda che le girava intorno, lui era co-me un ferro per marchiare incandescente, piantato in profondità nel suo corpo. Non riusciva a credere a quella durezza e a quel calore, e gridava forte per il piacere indescrivibile. Non le era mai capitato di godere così. D'ora in poi, solo questo contava, perché questo era ciò che aveva sempre cercato.
Sempre allacciati tornarono a riva, e videro che ormai era pieno mattino. Raccolsero i vestiti e lei, senza affatto infilarseli, lo condusse all'ultima baracca della fila. Mentre cercava la chiave nella borsetta lui le chiese: « Di chi è? ».
« E' uno dei nascondigli di papà. L'ho scoperto per caso, e non sa che ho la chiave. »
Aprì la porta e lo fece entrare. « Asciugamani », disse aprendo un cassetto. Si divertirono ad asciugarsi a vicenda, ma il gioco ben presto da spensierato diventò serio, e lei lo tirò alla brandina contro il muro.
« Al mio paese è l'uomo che domanda! » ridacchiò Lothar.
« Sei un vecchio bigotto », ribatté lei.
Mentre lei saliva sulla brandina, Lothar vide che aveva ancora il sedere bello rosso per l'acqua fredda della baia; se ne sentì particolarmente intenerito, e fu colto da un empito di simpatia per lei.
« Sei così dolce », gli sussurrò Isabella. « Così forte e dolce... »
Verso metà mattina si accorsero che avevano fame. Vestita solo di un vecchio maglione da pesca di suo padre, saccheggiò l'arma-dietto della cucina per preparare la colazione.
« Ti vanno asparagi, ostriche affumicate e fagioli? »
« Tuo padre non noterà la tua assenza? » le chiese aprendo le scatole.
« Oh, no, papà è molto distratto, e poi crede a tutto quello che gli dico. E' da mia nonna che devo guardarmi, ma sono già d'accordo con una mia amica che ci coprirà. »
« Così tu sapevi già come e dove andava a finire? » le chiese.
« Ma certo. Perché tu no? » disse roteando gli occhi.
Si misero a mangiare. Isabella diede la sua opinione: « Che schifo! Se non avessi tutta 'sta fame, non lo mangerei di certo ».
« Naturalmente a Londra andrai a trovare tua madre, vero? » le chiese poi Lothar. Isabella si fermò con la forchetta a mezz'aria.
« Come fai a sapere che vado a Londra, e come fai a sapere che mia madre sta là? »
« Probabilmente so di tua madre cose che tu stessa ignori », le disse Lothar. Lei mise giú la forchetta e lo fissò.
« Quali ad esempio? » lo sfidò.
« Be', ad esempio che è una gran nemica di questo Paese. E'
membro dell'ANC, e del gruppo anti-apartheid. Vede spesso membri del Partito Comunista Sudafricano. A Londra gestisce una specie di covo per rifugiati politici e terroristi espatriati. »
« Mia madre? » Isabella scosse la testa.
« Tua madre era profondamente coinvolta nel complotto per far saltare la Camera e assassinare governo e opposizione. Dal primo ministro a tuo padre e al mio. »
Isabella prese a scuoter la testa, ma lui proseguì in tono piatto, guardandola con quei suoi occhi dorati da leopardo.
« E' direttamente responsabile della morte di suo padre, tuo nonno, il colonnello Blaine Malcomess. Era la complice di Moses Ga-ma, che sta ora scontando l'ergastolo per terrorismo e omicidio, e se non fosse fuggita sarebbe certamente in prigione anche lei. »
« No », disse piano Isabella. « Non ci credo. »
Era sbalordita e sconvolta per l'improvviso cambiamento che aveva avuto luogo in lui. Qualche minuto prima era gentile, adesso era duro e crudele, e la feriva con le sue parole. « Lo sapevi che tua madre era l'amante di Moses Gama, e ha avuto un figlio da lui? Il tuo fratellastro è di un bel color caffellatte. »
« No! » proruppe Isabella, scuotendo la testa incredula. « Come fai a sapere tutte queste cose? »
« Dalla confessione firmata di Moses Gama, il padre. Potrei anche procurartene una copia, ma in realtà non serve, perché molto probabilmente conoscerai il tuo fratellastro bastardo a Londra.
Abita lì con tua madre. Si chiama Benjamin Afrika. »
Isabella saltò in piedi e vuotò il piatto nella spazzatura. Senza alzare gli occhi gli chiese: « Perché mi racconti tutte queste cose? ».
« Per indicarti qual è il tuo dovere. »
« Non capisco. » Ancora non lo guardava.
« Noi siamo convinti che tua madre e i suoi amici preparino altre azioni violente contro questo Paese. Ma non sappiamo bene di che cosa si tratta. Qualunque informazione sulle loro attività ci sarebbe utilissima. »
Isabella si voltò pian piano e lo fissò. Il suo viso era pallido e sconvolto. « Vuoi che faccia la spia contro mia madre? »
« Vorremmo solo sapere i nomi delle persone che conoscerai a Londra in sua compagnia. »
Non ascoltava. L'interruppe. « L'hai fatto apposta. Mi hai scelta non perché mi giudicavi attraente, dolce o desiderabile, ma solo per questa schifosa ragione. »
« Tu sei bella, non attraente. Tu sei magnifica, non dolce », disse lui.
« E tu sei un bastardo, un bastardo senza scrupoli e senza cuore. »
Lothar si alzò e andò dove aveva lasciato i vestiti.
« Cosa vuoi fare? » gli domandò.
« Vestirmi e andarmene », le disse.
« Perché? »
« Mi hai chiamato bastardo. »
« Lo sei. » Aveva gli occhi pieni di lacrime. « Un bastardo irresistibile. Non andar via, Lothar, ti prego, non andare. »
Isabella fu contenta quando suo padre le disse che non sarebbe potuto andare a Londra con lei e Michael. Rivedere sua madre do-po tutti quegli anni, e dopo quello che Lothar le aveva detto di lei, sarebbe stato già abbastanza difficile senza suo padre li a complica-re ulteriormente le cose e confondere i suoi sentimenti. Anzi, lei stessa aveva cercato di evitare il viaggio a Londra per stare vicina a Lothar, ma alla fine era stato proprio lui a insistere perché ci andasse.
« Io devo tornare a Johannesburg, quindi non ci vedremmo lo stesso », le disse. « E poi ricorda qual è il tuo dovere, e ricorda che mi hai dato la tua parola. »
« So che papà mi darebbe volentieri un lavoro di PR per la ditta a Johannesburg. Potrei mettere su casa li e stai tranquillo che ci si vedrebbe un sacco. »
« Quando torni da Londra », le promise lui.
Dei rappresentanti della South Africa House e della sede di Londra del gruppo Courteney vennero all'aeroporto di Heathrow a prendere Isabella e Michael con una limousine della ditta, per ac-compagnarli a Dorchester.
« Nostro padre esagera sempre », osservò Michael, imbarazzato dall'accoglienza. « Potevamo prendere un tassì. »
Isabella non era d'accordo: « A che serve essere un Courteney, se non impari ad apprezzare queste cose? ».
Quando Isabella entrò nella sua suite, che dava su Hyde Park, trovò un enorme mazzo di fiori che l'aspettava, con un biglietto: Mi spiace di non essere con te, tesoro. La prossima volta ci diverti-remo un sacco insieme in questa città.
Il tuo vecchio papà.
Ancor prima che il facchino le portasse su i bagagli, Isabella formò il numero che le aveva dato Tara, e le risposero al terzo squillo.
« Kitchener Hotel. »
Era strano essere accolti da un accento africano in una lontana città europea.
« Posso parlare con la signora Malcomess, per favore? »
Nella lettera Tara l'aveva avvertita che dopo il divorzio aveva riassunto il nome da ragazza.
« Ciao, mamma. » Isabella cercava di essere naturale, quando Tara rispose: ma la felicità di sua madre non fu imbarazzata da nessuna considerazione.
« Bella, tesoro, dove sei? C'è anche Michael? Quanto ci mettete a venire qui? Avete l'indirizzo, no? E' facilissimo arrivarci. »
Isabella cercò di condividere l'entusiasmo e l'eccitazione di Michael durante la corsa in tassì, mentre l'autista cercava di fare da ci-cerone sui monumenti che sfilavano, ma la prospettiva di rivedere la madre la metteva in agitazione.
L'albergo era uno di quegli albergucci per turisti dall'aria un pò squallida, in una via laterale che partiva da Crornwell Road. L'insegna al neon era parzialmente bruciata.
Tara corse fuori a incontrarli mentre stavano ancora pagando il tassì. Abbracciò prima Michael, il che diede a Isabella qualche momento per osservare sua madre.
Era ingrassata. Nei jeans sbiaditi che indossava abitava ora un culone, e il petto s'indovinava informe sotto il maglione senza pretese.
"E' una vecchia sciattona." Isabella era sbigottita. Anche se Tara non si era mai curata troppo del suo aspetto, aveva sempre avuto un'aria fresca e pulita. Ma adesso aveva i capelli grigi: si vedeva che aveva cercato senza troppa convinzione di restituire loro con l'hen-né il colore originale, ma poi aveva rinunciato. Il grigio aveva dunque delle striature rossastre di diverse tonalità, dalle piú spente alle piú accese. I capelli erano raccolti in una crocchia fatta alla meglio da cui sfuggivano cernecchi multicolori.
I lineamenti le si erano appesantiti quasi al punto di oscurare la struttura ossea che era un tempo una delle sue attrattive, e benché gli occhi fossero ancora grandi e luminosi, la pelle intorno era ri-gonfia e piena di rughe.
Infine, lasciò andare Michael e si rivolse a Isabella.
« Bambina mia, non ti avrei nemmeno riconosciuto, sai? Sei diventata una bellissima ragazza. »
Si abbracciarono. Isabella ricordava l'odore di sua madre, era uno dei ricordi piacevoli dell'infanzia, ma quella donna puzzava di profumi a buon mercato, fumo di sigaretta e cavolo bollito, e - Isabella stentava a credere ai propri sensi - di biancheria indossata troppo a lungo senza essere cambiata.
Si sciolse dalla stretta, ma Tara la trattenne per il braccio, e con Michael dall'altra parte li accompagnò nel Lord Kitchener Hotel. Il centralinista era un negro, e Isabella riconobbe la sua voce.
« Anche Phineas è di Città del Capo », disse Tara nel presentarli. « E' un fuoruscito anche lui. Se n'è andato dopo i fatti del '61 e, come tutti gli altri, non ha ancora nessuna voglia di tornare. E adesso lasciate che vi faccia vedere l'albergo ... Avevo pensato di cambiargli nome, è così coloniale, imperiale ... »
Continuando a chiacchierare allegramente, Tara li accompagnò in giro per l'hotel. I tappeti nei corridoi erano lisi fino alla trama: nelle camere c'erano i lavandini, ma bagno e gabinetto erano in comune, a ogni piano in fondo al corridoio.
Tara li presentò a tutti gli ospiti che incontravano. « Questi sono i miei figli, arrivati da Città del Capo », e loro stringevano la mano a turisti tedeschi e francesi che non parlavano inglese, a pakistani e cinesi, kenioti e sudafricani negri.
« Dove state? » volle sapere Tara.
« Al Dorchester. »
« Figuriamoci », disse roteando gli occhi. « Cinquanta ghinee al giorno, pagate dal sudore dei minatori del gruppo Courteney.
Scommetto che l'ha scelto vostro padre. Ma perché non venite a stare qui? Ho due belle camere libere all'ultimo piano. Conoscereste un sacco di gente interessante e ci vedremmo di piú. »
Isabella rabbrividì al pensiero di dover usare come gli altri la toilette in fondo al corridoio, e intervenne battendo sul tempo Michael.
« Chissà come si arrabbierebbe papà: è già tutto pagato! Comunque, adesso sappiamo la strada. E' una corsetta in tassì. »
« Tassì », brontolò Tara. « Perché non prendere l'autobus o il metrò come tutti gli altri? »
Isabella la guardò senza parole. Ma non capiva che loro non erano persone ordinarie? Erano dei Courteney. Stava per dirglielo, quando Michael, che aveva intuito le sue intenzioni, intervenne con calma.
« Naturalmente hai ragione tu, mamma. Basta che ci spieghi che numero prendere e dove scendere. »
« Ma chiamami Tara anche tu, tesoro! » l'invitò.
« Va bene. Sarà un pò strano da principio, ma vedrai che mi abituerò. »
« E' quasi ora di pranzo », disse allegramente Tara. « Avevo detto alla cuoca di fare un budino da mangiare con pane e burro, so che ti piace moltissimo, Mickey. »
« Non è che abbia una gran fame, mam... Ehm, Tara », annunciò Isabella. « Dev'essere il fuso orario, o qualcosa del genere... »
Michael le diede un pizzicotto. « Ah, che bello, Tara! Siamo contentissimi di restare a pranzo. »
« Lasciatemi solo dare un'occhiata in cucina, per assicurarmi che tutto sia sotto controllo. Su, venite. »
Entrando in cucina, un ragazzino corse incontro a Tara. Forse stava aiutando la cuoca irlandese, perché aveva le mani bianche di farina fino ai gomiti. Tara l'abbracciò tutta contenta, senza badare alla farina che le macchiava il maglione.
Una lanugine opaca gli copriva la testa. La sua pelle era color caffellatte. Gli occhi erano grandi e scuri, e aveva simpatici lineamenti da monello. A Isabella sembrava uno qualsiasi dei bambini dei braccianti di Weltevreden. Gli sorrise, e lui le restituì un sorriso sfacciato ma amichevole.
« Questo è Benjamin », disse Tara. « E questi, Benjamin, sono tuoi fratellastri Mickey e Isabella. »
Isabella fissò il bambino. Aveva cercato di dimenticare o di non credere a quello che le aveva detto Lothar, e in una certa misura c'era riuscita. Ma adesso tutto le tornò in mente di colpo, e le sue parole rimbombarono nelle orecchie come acque scroscianti.
« Il tuo fratellastro è di un bel color caffellatte », le aveva detto Lothar, e a lei veniva voglia di urlare: « Come hai potuto, mamma, come hai potuto farci questo? ». Ma Michael aveva superato subito l'evidente sorpresa, e adesso porgeva la mano al bambino dicendogli:
« Ehilà, Ben. Bello essere fratelli, ma che ne dici se diventiamo anche amici? »
« Ehi, mi piaci, amico! » si disse subito d'accordo Benjamin. A peggiorare la delusione e l'irritazione di Isabella, il ragazzino parlava con un forte accento del sud di Londra.
A pranzo, Isabella disse sì e no una dozzina di parole. La zuppa di piselli era ispessita con farina non tanto cotta, che si attaccava al palato. Il pesce bollito era acquoso e il cavolo si spappolava.
Erano a tavola con Phineas, il centralinista, e altri cinque ospiti di Tara, tutti fuorusciti sudafricani negri che conducevano la conversazione nel piú stretto gergo di sinistra. Il governo di cui l'amato papà di Isabella faceva parte veniva chiamato sempre "il regime razzista". Michael si unì allegramente alla discussione sulla redistribuzione della ricchezza e il ritorno della terra a chi la lavorava, che sarebbero avvenuti dopo la vittoria della rivoluzione e l'istituzione della Repubblica Popolare di Azania. Isabella voleva urlargli:
« Dannazione, Mickey, quelli stanno parlando di Weltevreden e della miniera di Silver River. Sono terroristi e rivoluzionari, e il loro unico scopo è distruggere il nostro mondo e noi! ».
Quando arrivò il budino, non riuscì piú a resistere. « Mi dispiace, Tara », le sussurrò. « Ho un terribile mal di testa, e mi converrà tornare subito al Dorchester a sdraiarmi. » Era così pallida e a disagio che Tara fece qualche protesta poco convinta e si preoccupò davvero. Isabella rifiutò che Michael l'accompagnasse. « Non voglio rovinarti tutto il divertimento. Sono anni e anni che non vedi la mamma. Io prendo un tassì. »
Forse era stata davvero la stanchezza a indebolirla, ma in tassì si ritrovò a piangere di vergogna, dolore e rabbia. « Maledetta lei!
Che vada all'inferno! » ripeteva sottovoce. « Ci ha disonorati e ro-vinati tutti. Il papà, la nonna, me e i fratelli. »
Appena arrivata in camera chiuse la porta a chiave, si gettò sul letto e prese in mano il telefono. « Vorrei chiamare Johannesburg in Sudafrica », disse al centralino, fornendo il numero.
Meno di mezz'ora dopo squillò il telefono e le rispose, col suo accento afrikaans, il centralinista della polizia.
« Voglio parlare con il colonnello Lothar De La Rey. »
« De La Rey. »
Nonostante le migliaia di chilometri che li separavano, la sua vo-ce arrivava chiara e forte, e con l'immaginazione lo rivide nudo sulla spiaggia all'alba, simile alla statua di un atleta greco ma con quegli occhi d'oro scintillanti... Gli sussurrò: « Oh mio Dio, Lothie, quanto sento la tua mancanza... Voglio tornare a casa, odio questo posto ».
Lui le parlò tranquillamente, rassicurandola e consolandola, e quando si fu calmata le ordinò: « Parlami un pò del posto ».
« Avevi ragione, tutto quello che avevi detto è vero. Anche il bastardo caffellatte ho visto, e quelli che ospita in albergo sono tutti rivoluzionari e terroristi. Cosa vuoi che faccia, Lothie? Sono pronta a fare tutto quello che vuoi. »
« Voglio che resti lì tutto il tempo previsto, due settimane. Potrai telefonarmi anche tutti i giorni, ma devi rimanere. Promettilo, Bella. »
« Va bene... Ma, Dio, come sento la tua mancanza e quella di casa. »
« Ascolta, Bella, voglio che tu vada all'Ambasciata sudafricana, appena puoi. Non dirlo a nessuno, nemmeno a tuo fratello Michael.
Alla South Africa House chiedi del colonnello Van Vuuren, l'addetto militare. Ti mostrerà delle foto e ti chiederà di identificare le persone che conoscerai. »
« Va bene, Lothie... Ma io ti ho già detto due volte quanto mi manchi, mentre tu, maiale, non hai detto una parola. »
« Ho pensato a te tutti i giorni da quando sei partita », disse Lothar. « Sei bella e spiritosa e mi tieni allegro. »
« Non smettere », implorò Isabella. « Continua così! »
Adrian Van Vuuren sembrava un arzillo nonnino, un agricoltore dello Stato Libero di Orange piú che un membro del servizio segreto. La condusse dall'ambasciatore e gliela presentò. Sua eccellenza conosceva bene Shasa, e chiacchierarono per qualche minuto. La invitò alle corse di Ascot per quel sabato, ma il colonnello Van Vuuren intervenne in tono di scusa.
« La signorina Courteney attualmente sta facendo un lavoretto per noi, eccellenza. Non sarebbe prudente una pubblica apparizione insieme. »
« Molto bene », accettò con riluttanza l'ambasciatore, « ma verrà a pranzo da noi, signorina Courteney. Ben di rado godiamo della compagnia di una ragazza così bella all'Ambasciata. »
Van Vuuren le mostrò i tesori d'arte dell'Ambasciata prima di portarla nel suo ufficio al terzo piano. « E ora, mia cara, abbiamo del lavoro per lei. »
Sulla scrivania c'era una catasta di album tutti pieni di foto segnaletiche di uomini e donne. Sedettero l'una accanto all'altro e Van Vuuren scelse le foto delle persone che poteva aver conosciuto al Lord Kitchener Hotel.
« Ci facilita le cose, se sa i nomi », osservò Van Vuuren, e prese una foto di Phineas, il centralinista-portiere.
« Sì, è lui », confermò Isabella, e Van Vuuren le lesse i precedenti da un altro fascicolo. « Phineas Mophoso. Nato nel 1941.
Membro del PAC. Condannato per violenze in una dimostrazione il 16 maggio 1961. Ha violato i termini della sorveglianza speciale.
Fuoruscito illegalmente alla fine del 1961. Si ritiene rifugiato nel Regno Unito. »
« Pesce piccolo », grugnì Van Vuuren, « ma forse va dietro a quelli grossi. » Si offrì di farla accompagnare al Dorchester da un'auto dell'Ambasciata.
« Grazie, andrò a piedi. »
Prese il tè da sola da Fortnum & Masons e quando rientrò in albergo trovò Michael preoccupatissimo.
« Per l'amor del cielo, Michael, non sono mica una bambina. So badare a me stessa. Avevo voglia di andare un pò a spasso per mio conto. »
« La mamma dà una festicciola per noi al Lord Kitchener stasera. Dice di essere là per le sei. »
« Vuoi dire Tara, non la mamma. E il Lord Kitchener, sappilo, viene elegantemente abbreviato in Lordy. Cerca di non essere sempre talmente coloniale e bourgeois, mio caro Michael. »
In sala dei Lordy c'era una calca di una cinquantina di persone per la festa di Tara, che aveva messo a disposizione fiumi di birra e vino rosso spagnolo per agevolare l'ingestione degli indimenticabili stuzzichini della cuoca irlandese. Michael entrò subito nello spirito dell'occasione. Era sempre al centro di capannelli impegnati in ani-mate discussioni. Isabella invece si rifugiò in un angolino e assunse un'espressione gelida e altera per scoraggiare ogni approccio da parte degli altri ospiti. Quando però Tara glieli presentava, cercava di imprimersi nella memoria nome e connotati.
Dopo un'ora quell'atmosfera chiusa e fumosa, in cui tutti gridavano scaldati dal rosso beverone ispanico, cominciò a farle venire il mal di testa. Le bruciavano gli occhi. Tara era scomparsa e Michael si stava ancora divertendo.
"Per stasera ho fatto il mio dovere patriottico" si disse, e scivolò verso la porta attenta a non farsi vedere da Michael.
Passando davanti al banco della reception, che era deserto, udì delle voci dietro la porta in vetro smerigliato dell'ufficietto di Tara.
La coscienza le rimorse.
"Non posso andarmene senza ringraziare la mamma" decise.
«Come festa è stata orrenda, ma lei si è data da fare, e poi sono un'ospite d'onore."
Passò dietro il banco e stava per bussare alla porta quando sentì sua madre dire: « Ma, compagno, non mi aspettavo certo che arrivassi stasera ». Le parole erano banali, ma il tono di Tara no. Era piú che agitata, aveva paura, una paura da morire.
Le rispose una voce d'uomo, ma troppo rauca e bassa perché Isabella potesse cogliere le parole. Poi Tara disse: « Ma sono i miei bambini. Non c'è nessun pericolo ».
Stavolta la risposta dell'uomo fu piú netta. « Il pericolo c'è sempre. Ricordati che sono anche figli di tuo marito, e tuo marito fa parte dei regime fascista e razzista. Noi adesso ce ne andiamo, tor-neremo quando i tuoi figli saranno partiti di qui. »
Isabella agì d'istinto. Corse fuori dell'albergo, nella viuzza piena di macchine parcheggiate, fra cui un furgone dietro il quale poteva nascondersi. Lo fece.
Dopo qualche minuto uscirono due uomini. Indossavano entrambi degli impermeabili scuri, ma erano a testa nuda. Si avviarono insieme di buon passo verso Cromwell Road. Acquattata dietro il furgone, li vide passare sotto un lampione e ne distinse le facce.
L'uomo piú vicino a lei era un negro dalla faccia energica e risoluta, naso grosso e labbra spesse, africane. Il suo compagno era bianco e molto piú vecchio. La sua carnagione era slavata, pareva fatto di stucco. I capelli neri erano lisci e senza vita, con l'attaccatura bassa sulla fronte, e gli occhi erano scuri e inespressivi come pozze di bitume. Isabella capì la paura di sua madre. Quell'uomo ben poteva ispirarla.
Il colonnello Van Vuuren sedette accanto a lei con la pila di fotografie. « Un bianco. Questo ci facilita parecchio le cose », disse prendendo in mano uno degli album.
« Questi sono tutti bianchi », le spiegò. « Ci sono le foto di tutti anche di quelli che in prigione non possono piú nuocere, come Bram Fischer. »
Trovò subito la foto, era la terza. « E' questo. »
« Ne è sicura? » le chiese Van Vuuren. « La foto non è molto riuscita. »
Doveva essergli stata scattata mentre saliva in macchina, perché lo sfondo era costituito da una via. Stava guardando indietro, e gran parte del suo corpo era nascosta dalla portiera. Il movimento aveva leggermente confuso i tratti del volto.
« Sì, sì, è proprio lui », ripeté Isabella. « Ha degli occhi incon-fondibili. »
Van Vuuren prese l'altro fascicolo. « La fotografia è stata fatta dalla CIA a Berlino Est, due anni fa. E' un pezzo grosso, e molto astuto, tant'è vero che questa è l'unica sua foto che abbiamo. Si chiama Joe Cicero ed è il segretario del Partito Comunista Sudafricano, oltre a essere un colonnello del KGB. E' uno dei capi dell'ala militare del disciolto ANC, l'Umkhonto we Sizwe. » Van Vuuren sorrise. « Sicché, mia cara, il pesce grosso è arrivato. Adesso dobbiamo cercare di identificare il suo compagno. Questo sarà un pò piú difficile. »
Occorsero quasi due ore. Isabella sfogliava lentamente gli album. Finita una pila, gliene portavano un altra. Van Vuuren sedeva pazientemente accanto a lei, ordinando del caffè e incoraggiandola con un sorriso e una parola ogni volta che dava segni di stanchezza.
« Sì », disse quando fu sicura di averlo trovato. « E' proprio questo qua. »
« E' stata magnifica. Grazie. » Van Vuuren prese la scheda di quel tale.
« Raleigh Tabaka », lesse ad alta voce. « Segretario del PAC per il Vaal e membro dei Poqo. Organizzatore dell'attacco alla stazione di polizia di Sharpeville. Sparito tre anni fa prima dell'arresto. Da allora si dice che l'abbiano visto in campi d'addestramento in Ma-rocco e Germania Orientale. E' considerato un esperto e pericoloso terrorista. Due pesci grossi insieme. Adesso bisognerebbe scoprire che cosa hanno in mente! »
Tara Courteney restò alzata parecchio dopo la fine della festa.
Gli ultimi ospiti erano usciti barcollando dalla porta a vetri, e Michael le aveva dato il bacio della buona notte prima di uscire a cercare un tassì in Cromwell Road.
Da quando l'aveva conosciuto, Joe Cicero era sempre stato un menagramo che annunciava pericolo, sofferenze e perdite. Intorno a lui c'era sempre un'aura di mistero e gelida malvagità. La terrorizzava. L'uomo che era con lui quella sera non l'aveva mai visto prima. Joe Cicero gliel'aveva presentato solo come Raleigh, ma il cuore di Tara aveva capito subito. Benché molto piú giovane, assomigliava al suo Moses. Aveva la stessa presenza imponente, lo stesso fuoco, lo stesso portamento maestoso e autoritario.
Tornarono poco dopo le due del mattino, e Tara li fece entrare e li accompagnò alla loro camera sul retro dell'albergo.
« Raleigh starà con te per le prossime due o tre settimane. Poi tornerà in Sudafrica. Gli darai tutto quello che gli serve, specialmente le informazioni che ti chiederà. »
« Sì, compagno », sussurrò Tara. Benché fosse proprietaria e ge-rente dell'albergo di cui era titolare, i soldi per comprarlo glieli aveva dati Joe Cicero e riceveva gli ordini direttamente da lui.
« Raleigh è nipote di Moses Gama », le disse Joe, guardandola attentamente con quei suoi occhi neri inespressivi. Tara osservò il giovane.
« Oh, Raleigh, non mi ero resa conto... Siamo quasi di famiglia.
Moses è il padre di mio figlio Benjamin. »
« Sì », rispose Raleigh, « Io so. Questa è la ragione per cui posso rivelarti l'obiettivo della mia missione in Sudafrica. La tua lealtà è provata e nessuno ne dubita. Io torno in Africa a liberare tuo marito e mio zio Moses Gama dalla prigione in cui l'ha rinchiuso il regime fascista e razzista di Verwoerd perché possa condurre il nostro popolo alla rivoluzione democratica. »
La gioia si diffuse pian piano in lei insieme alla comprensione.
Poi corse da Raleigh Tabaka e l'abbracciò piangendo di felicità.
« Farò tutto quello che potrò perché tu riesca », gli sussurrò tra le lacrime. « Anche la vita sacrificherei, se necessario. »
Il venerdì mattina Jakobus Stander aveva solo due lezioni, e l'ultima finiva alle 11,30. Subito dopo uscì dall'università dei Witwatersrand e prese l'autobus per Hillbrow. Era un percorso di quindici minuti e raggiunse casa sua poco dopo mezzogiorno.
La valigia era ancora sul basso tavolino dove l'aveva lasciata la sera prima, finito di lavorarci. Era una valigetta marrone da pochi soldi, in cuoio sintetico, con la serratura di metallo.
Restò lì a guardarla con gli occhi giallastri. Erano l'unico tratto notevole del suo viso, per il resto era un giovane qualunque. Benché alto, era troppo magro, e i pantaloni grigi di flanella gli andavano larghi. Aveva i capelli lunghi e pieni di forfora che gli cadeva sulle spalle della giacca di fustagno con le pezze di cuoio ai gomiti. Non portava cravatta, ma un dimesso maglione dolcevita. Insomma, aveva deliberatamente scelto l'uniforme dell'intellettuale di sinistra, sull'esempio del professore di sociologia di cui era assistente.
Senza togliersi la giacca sedette sul lettino a contemplare la valigia.
"Sono uno dei pochi rimasti" pensò. "Adesso tocca a me. Hanno preso Baruch, Randy e Berny: ormai tutto dipende da me."
Anche ai bei tempi non erano mai stati piú di una cinquantina.
Un manipolo di veri patrioti, campioni del proletariato, quasi tutti giovani e bianchi, studenti, assistenti e professori delle università di lingua inglese di Città del Capo e del Witwatersrand. Kobus era l'unico afrikaner tra loro.
Da principio si chiamavano Comitato Nazionale di Liberazione, e i loro metodi erano un pò piú sofisticati di quelli dell'Umkhonto we Sizwe e del gruppo di Rivonia. Usavano la dinamite e i timer a pila, strumenti con cui avevano conseguito incoraggianti successi.
Avevano fatto saltare sottostazioni elettriche e centraline ferroviarie degli scambi, e perfino una diga idroelettrica: nell'umore trionfali-stico di quei giorni si erano ribattezzati Movimento di Resistenza Africana.
Alla fine erano stati distrutti nello stesso identico modo di Mandela e il suo gruppo di Rivonia, dall'inefficienza della vigilanza e dall'incapacità dei membri arrestati di resistere agli interrogatori della polizia segreta.
Lui era uno dei pochi superstiti, ma sapeva che i giorni di libertà erano contati. Berny era stato arrestato due giorni prima e a quest'ora indubbiamente aveva parlato. Non era di stoffa eroica Berny, era un ometto pallido e spaurito, dal cuore troppo tenero per la causa. Jakob era stato contrario al suo reclutamento: ma ormai era troppo tardi. L'ufficio di sicurezza dello Stato aveva in mano Berny, e Berny sapeva il suo nome. Dunque gli restava pochissimo tempo, eppure rimandò ugualmente. Era l'una. A quest'ora sua madre era in casa a far da mangiare a suo padre. Prese in mano il telefono.
Sarah Stander era ai fornelli. Si sentiva stanca e scoraggiata, ma ormai le succedeva quasi sempre. Il telefono squillò e, asciugandosi le mani, la donna andò a rispondere nello studio di suo marito.
Era pieno di polverosi libri di giurisprudenza che un tempo avevano rappresentato per lei una speranza di successo e miglioramento della loro condizione, ma ormai le sembravano la zavorra che manteneva lei e Roelf in condizioni di penuria e mediocrità.
Alzò il telefono. « Pronto, parla Mevrou Stander. »
« Ciao mamma », rispose Jakobus, e lei fece un'esclamazione di gioia.
« Ragazzo mio, dove sei? » Ma, alla sua risposta, tornò demora-lizzata come prima.
Era a Johannesburg, a mille miglia da lì. Aveva una gran voglia di vederlo.
« Speravo fossi venuto... »
« Sentì, mamma », l'interruppe lui. « Ti devo parlare. Devo spiegarti... Presto succederà qualcosa di terribile. Volevo dirtelo...
non voglio che t'arrabbi con me, non vorrei che mi odiassi. »
« Mai! » gridò lei. « Io ti voglio tanto bene, ragazzo mio! »
« Non dovrete rattristarvi mai, tu e papà: quel che faccio io non è colpa vostra. Quindi, per favore, capite e perdonate. »
« Kobus, figlio mio, ma che c'è? Non capisco cosa mi stai dicendo. »
« Non te lo posso dire, mamma. Ma presto capirai. Volevo dire a te e papà che vi voglio bene. Ricordatelo, per piacere. »
« Kobus! » gridò lei. « Kobus! » Ma lui aveva già riagganciato.
Freneticamente, telefonò chiedendo il collegamento interurbano, ma ci volle un quarto d'ora, e a Johannesburg non rispose nessuno.
Sarah rimase sconvolta. Si mise a smaniare in cucina, tormentando il grembiule, cercando disperatamente il modo di mettersi in contatto coi figlio. Quando tornò a casa il marito gli corse incontro e gli rivelò le sue paure.
« Manie! » disse Roelf . « Adesso gli telefono. Lui può mandare uno dei suoi uomini a cercarlo. »
« Perché non ci ho pensato io? » singhiozzò Sarah.
La segretaria di Manfred disse però che il ministro non c'era fi-no a lunedì mattina.
« Allora, come facciamo? » Roelf era preoccupato quanto Sarah ormai.
« Lothie! » s'illuminò Sarah. « Lavora alla polizia di Johannesburg. Telefoniamogli, saprà lui che fare. »
Jakobus Stander aveva riagganciato ed era balzato in piedi. Sapeva che adesso doveva agire con rapidità e decisione. Aveva già perso anche troppo tempo; quanto prima sarebbero venuti a cercarlo.
Prese la valigia e uscì di casa, chiudendo la porta a chiave. Scese in ascensore reggendo la pesante valigia, la cui maniglia gli mordeva il palmo della mano. In ascensore c'erano due ragazze che lo ignorarono, continuando a chiacchierare fittamente tra loro. Le sogguardò. Pensò che poteva toccare anche a loro, come a chiunque.
Le ragazze sciamarono fuori dell'ascensore e lui le seguì, camminando a fatica per il peso.
Prese l'autobus all'angolo e sedette accanto alla portiera, tenendo sempre in mano la valigia.
L'autobus si fermò di fianco alla stazione ferroviaria di Johannesburg, e Jakobus fu il primo a scendere. Con la valigia in mano si diresse verso l'ingresso, e c'era quasi arrivato quando gli si seccò la bocca per la paura. C'era un agente di polizia ferroviaria all'ingresso della stazione e, proprio mentre Jakobus esitava, lo guardò. Jakobus provò l'impulso di gettare la valigia e darsela a gambe, ma ormai era nel flusso di persone che lo spingevano avanti.
Voleva evitare lo sguardo dell'agente. Proseguì a testa china, concentrandosi sui tacchi della grassona che lo precedeva. Tornò ad alzare gli occhi quando passò per la soglia, e vide che l'agente si stava allontanando con le mani dietro la schiena. Si sentì mancare per il sollievo. Ricacciò il malessere e proseguì in mezzo ai pendolari.
Proprio al centro della folla, sotto le alte arcate a vetri, c'era una vasca coi pesci rossi circondata da panchine di legno. Benché quasi tutti i posti fossero già occupati da gente in attesa del treno, riuscì a sedersi.
Mise la valigia tra i piedi. Era tutto sudato e ansimava. Ondate di nausea continuavano ad assalirlo e sentiva un saporaccio in bocca.
Si asciugò il viso col fazzoletto e cominciò a inghiottire vigorosamente fino a riprendere il controllo di sé. Poi si guardò intorno.
Tutte le panche erano affollatissime. Davanti a lui c'era una madre con due figlie. La minore era quasi una lattante, sedeva in braccio alla mamma col ciuccio in bocca. L'altra aveva le gambette abbronzate sotto la vestina e si appoggiava alla mamma assaporando un lecca-lecca che le aveva tinto tutte le labbra di rosso vivo.
Tutt'intorno a Jakobus c'era un continuo flusso di umanità, che andava e veniva dallo scalone che portava in strada. Come colonne di formiche si separavano imboccando i vari marciapiedi, mentre gli altoparlanti strepitavano e le locomotive sotto pressione lanciavano sbuffi di vapore.
Guardò la valigia. Aveva praticato un buchino nel finto cuoio, e da quello usciva una corda di pianoforte attaccata a un anello d'ottone che aveva assicurato con lo scotch alla valigia, sotto la maniglia.
Adesso strappò il nastro adesivo, infilò l'indice nell'anello e tirò delicatamente. Nell'interno si produsse un piccolo scatto. Sobbalzò, arrossì e si guardò intorno. La bambina con il lecca-lecca l'aveva visto. Gli sorrise timidamente e poi tornò a incollarsi alla madre.
Con i calcagni, pian piano, Jakobus spinse la valigia sotto la panchina. Poi si alzò e si avviò di buon passo verso il gabinetto degli uomini, dall'altra parte dell'atrio. Davanti all'orinatoio guardò l'orologio. Le due e dieci. Chiuse la patta e uscì.
La mamma e le due bambine erano ancora là dove le aveva lasciate. Mentre passava, la bimba lo riconobbe e gli sorrise ancora.
Lui non rispose al sorriso e proseguì fino all'uscita. Andò all'albergo Langham, all'angolo, e si fermò al bar. Ordinò una birra e si mi-se a sorseggiarla lentamente, guardando l'orologio ogni minuto. Si domandava se la mamma e le bambine erano ancora là o se n'erano già andate.
La potenza dell'esplosione lo sbalordì. Era a quasi un isolato di distanza, ma gli rovesciò il bicchiere sul banco del bar, dove in un attimo si sparse la costernazione. Imprecando stupiti e preoccupati, tutti corsero fuori.
Jakobus seguì gli altri in strada. Il traffico si era bloccato, la se-de stradale era occupata dalla gente che si riversava fuori degli edifici. L'ingresso della stazione era oscurato da una nuvola di polvere in cui vagolavano figure indistinte, bianche di polvere e con gli abiti ridotti a brandelli. Da qualche parte una donna cominciò a gridare, mentre tutt'attorno echeggiavano domande urlate.
« Cos'è stato? Cos'è successo? »
Jakobus girò sui tacchi e se ne andò. Si sentivano avvicinarsi le sirene della polizia e dei pompieri. Non si voltò.
« No, Tannie Sarie, non ho piú visto Kobus da quel giorno che ci siamo incontrati a Waterkloof. » Lothar De La Rey si esortò mentalmente alla pazienza. Gli Stander erano vecchi amici dei suoi genitori, e con loro da bambino aveva passato tante belle giornate al mare. Ma poi lo zio Roelf aveva dovuto vendere la fattoria. « Sì, sì, Tannie. Lo so, ma adesso io e Kobus viviamo in mondi diversi.
Capisco che tu sia preoccupata. Sì, è naturale. »
Lothar riceveva la telefonata nel suo ufficio privato al quartier generale di Marshall Square, e mentre Sarah Stander continuava a smaniare guardò l'orologio. Le due.
« A che ora ti ha telefonato? » le chiese Lothar, e sentì la risposta. « Un'ora fa. Da dove ha detto che chiamava? Va be', va be', dammi il suo indirizzo... » Lo annotò. « E ora dimmi, zietta, cosa ti ha detto esattamente? Qualcosa di terribile... Che dovevi perdonar-lo... Credo tu abbia ragione di preoccuparti. Suicidarsi? No, zia Sarah, non credo che avesse in mente questo, ma manderò un agente al suo indirizzo a vedere. Perché tu intanto non telefoni all'università? »
Un altro telefono si mise a squillare sulla sua scrivania, ma lo ignorò. « Cos'hanno detto all'università? » le chiese. « Va bene, zietta, vi telefono appena avrò qualche notizia. » Ormai suonavano tutti e tre i telefoni sulla scrivania. Il capitano Lourens, il suo assistente, gli faceva grandi cenni dalla soglia dell'ufficio.
« Sì, capisco, zietta. Sì, ti prometto che ti telefono. Ma adesso scusami, ho da fare, ciao. » Mise giú la cornetta e guardò Lourens.
« Allora che c'è? »
« Un'esplosione alla stazione centrale. Pare sia un'altra bomba. »
Lothar saltò in piedi afferrando la giacca. « Ci sono stati dei morti? »
« Cadaveri e sangue dappertutto. »
« Maledetti macellai », imprecò Lothar.
La polizia non lasciava passare nessuno. Lasciarono la macchina alle transenne e Lothar, che era in borghese, dovette esibire la tessera. Il sergente lo salutò. Fuori della stazione aspettavano cinque ambulanze con il lampeggiatore acceso.
In cima alla scala, prima di scendere alle banchine, Lothar si fermò a guardare l'atrio. Era una scena tremenda. In alto si vedeva il cielo, perché tutti i vetri delle arcate erano esplosi e ora i frantumi coprivano il pavimento di marmo, brillando come una distesa di ghiacci.
Il ristorante era stato trasformato in un ospedale di fortuna do-ve medici e infermieri si occupavano del pronto soccorso. I barellie-ri andavano e venivano con i loro tristi carichi dall'androne alle ambulanze in attesa.
Il funzionario responsabile delle indagini era un maggiore di Marshall Square: aveva già sguinzagliato in cerca di indizi una squadra di agenti che rastrellavano a palmo a palmo tutto il pavimento dell'androne. Riconobbe subito Lothar e gli andò incontro.
Il vetro crepitava sotto i piedi.
« Quanti morti? » gli chiese senza preamboli.
« Abbiamo avuto una fortuna incredibile, colonnello. Ci sono quaranta feriti, quasi tutti per colpa delle schegge di vetro, ma solo un morto. »
Alzò un lembo della plastica nera che lo copriva. Era una bambina con addosso un vestitino di pizzo tutto insanguinato. Aveva perso le gambe e un braccio.
« Sua madre è rimasta accecata. Alla sua sorellina dovranno am-putare un braccio », disse il maggiore. Lothar guardò il volto rimasto miracolosamente indenne. Sembrava che dormisse. Aveva la bocca tutta rossa e nella mano che le restava stringeva ancora il lecca-lecca.
« Lourens », disse con calma Lothar al suo assistente. « Telefona all'ufficio segnaletico, dal ristorante, e digli di farmi trovare sulla scrivania l'elenco computerizzato di tutti i militanti rivoluzionari bianchi... Da questa parte della stazione doveva essere per forza un bianco. »
Guardò andar via Lourens e poi tornò a guardare la povera bambina morta.
« Io questo bastardo lo becco », ringhiò. « Questo qua non se la cava di sicuro. »
Quaranta minuti dopo, di nuovo in ufficio, trovò i collaboratori in attesa. Avevano già depennato dallo stampato del computer fuorusciti, detenuti e militanti di cui si poteva presumere l'assenza dal Witwatersrand.
Restavano 396 nomi, elencati in ordine alfabetico, da controllare. Erano quasi le quattro quando dall'ultimo foglio del tabulato un nome saltò in faccia a Lothar.
STANDER, JAKOBUS PETRUS.
Nello stesso istante gli tornò in mente la voce preoccupata di Sarah Stander.
"L'hanno aggiunto adesso" capì. L'elenco era uno dei principali ferri dei suo mestiere, e l'aveva consultato anche la sera prima.
Tutti i nomi gli riuscivano ormai familiari, e ognuno gli evocava una fisionomia precisa. Quello di Kobus non c'era mai stato.
Il capitano Lourens telefonò all'ufficio segnaletico e parlò col responsabile; dopo qualche minuto riappese e si rivolse a Lothar.
« Il nome di Stander è stato fatto da un membro dell'African Resistance Movement, Bernard Fischer, arrestato due giorni fa. E'
un assistente universitario qui a Johannesburg. »
« So chi è. » Lothar uscì in fretta dalla sala operativa e andò nel suo ufficio, dove strappò il primo foglio del taccuino degli appunti.
« E so dov'è. » Controllò che la pistola a tamburo fosse carica e si mise a dare ordini. « Voglio quattro agenti speciali piú una squadra addestrata in irruzioni negli appartamenti, con giubbotto antiproiet-tile e fucili a pompa. Poi voglio subito qualche foto delle vittime...
quella bambina... »
L'appartamento era al quinto piano, alla fine di una lunga ringhiera. Lothar piazzò degli uomini all'ingresso, sulle scale, che con quella antincendio erano tre, e sui pianerottoli a curare le porte dell'ascensore. Con Lourens, poi, seguì la squadra speciale che doveva fare irruzione.
Con la pistola in pugno, stando al riparo del muro, suonò il campanello.
Nessuno rispose.
Suonò ancora, poi aspettò, teso. Stava per suonare un'altra volta quando sentì uno scalpiccio dall'altra parte della porta.
« Chi è? » chiese una voce quasi afona.
« Kobus? Sono io, Lothie. »
« Liewe Here! Buon Dio! » Si sentì che scappava di corsa.
« Avanti! » disse Lothar, e un agente si fece avanti con la mazza da dieci chili. La serratura saltò al primo colpo e la porta si spalancò.
Lothar fu il primo a entrare. L'atrio era deserto. Corse fino in camera da letto.
Lourens da dietro gli gridò: « Attento! Può essere armato! » ma Lothar voleva solo impedirgli di raggiungere una finestra e buttarsi.
La porta del bagno era chiusa, e si sentiva scrosciar l'acqua. Ci si buttò contro con la spalla e facilmente la sfondò.
Jakobus era davanti al lavabo, intento a ingoiare pillole che si versava in mano da una bottiglietta. Aveva già le guance gonfie di pastiglie, che inghiottiva senza posa.
Lothar gli diede un colpo sul polso con la pistola e la bottiglietta si fracassò nel lavandino. Prese Jakobus per i capelli lunghi e lo mi-se in ginocchio. Con pollice e indice lo costrinse ad aprire la bocca e a sputare la poltiglia di pillole mezzo masticate.
« Chiamate un'ambulanza col necessario per la lavanda gastri-ca », gridò a Lourens. « E fate analizzare il contenuto di questa boccetta. »
Jakobus si dimenava e Lothar gli assestò due schiaffoni. Il giovane si arrese piagnucolando e Lothar gli ficcò profondamente l'indice in gola.
Jakobus ricominciò a lottare, ma Lothar lo teneva a bada facilmente. Continuò a solleticargli la strozza con l'indice, anche quando il vomito caldo cominciò a riversarglisi sulla mano. Finalmente soddisfatto, lasciò Jakobus a giacere in una pozza di vomito mentre si lavava le mani al lavabo.
Si asciugò e prese Jakobus per la collottola. Lo tirò in piedi, lo trascinò di là e lo sbatté su una poltrona.
Lourens e la scientifica stavano già perquisendo la casa.
« Hai qua le foto? » chiese Lothar, e Lourens gliene passò il plico.
Jakobus sedeva raggomitolato, con la camicia sporca di vomito e gli occhi rossi che roteavano smarriti. Tremava tutto e aveva una ferita all'angolo della bocca, dove Lothar aveva fatto leva per fargliela aprire.
Lothar fece passare le foto e ne scelse una, che mise sul tavolino davanti a Jakobus.
Jakobus la fissò. Era la bambina dal corpo mutilato, tutta coperta di sangue, col lecca-lecca ancora in mano. Il giovane cominciò a piangere singhiozzando, voltandosi dall'altra parte. Lothar girò attorno alla poltrona e, prendendolo per i capelli dietro la nuca, lo costrinse a guardare.
« Guardala! » ordinò.
« Non ho fatto apposta », mormorava Jakobus. « Non volevo che succedesse questo... »
Tutta l'ira svanì in Lothar, che lasciò andare i capelli di Jakobus e fece vacillando due passi indietro. Erano le precise parole che in un'altra occasione, a Sharpeville, aveva adoperato anche lui. Non ho fatto apposta: non volevo che succedesse. Così aveva detto al ragazzo negro che teneva in grembo la testa della giovane donna morta che sanguinava nella polvere della via a Sharpeville.
Di colpo Lothar si sentì stanco e disgustato. Voleva fuggire via da se stesso. Ormai poteva sostituirlo Lourens, ma cercò di farsi forza per non soccombere alla disperazione.
Mise la mano sulla spalla a Jakobus con una strana delicatezza e compassione.
« Ja, Jakobus, non si fa mai apposta, eppure muoiono. Adesso tocca a te, Kobus, tocca a te morire. Vieni, andiamo. »
L'arresto dell'attentatore era stato effettuato sei ore dopo l'esplosione, e anche la stampa anglofila lodò l'efficienza della polizia.
Su tutti i giornali la foto del colonnello Lothar De La Rey era in prima pagina.
Sei settimane dopo la corte suprema di Johannesburg condannò a morte Jakobus Stander, che si era dichiarato colpevole. Due settimane dopo la corte d'appello di Bloemfontein respinse il ricorso confermando la sentenza. Quasi contemporaneamente veniva annunciata la promozione di Lothar a generale di brigata.
Raleigh Tabaka arrivò a Città del Capo mentre il processo Stander era ancora in corso. Era tornato com'era partito, a bordo di una nave liberiana dove era registrato come marinaio con tutta la disinvoltura consentita dalla bandiera-ombra.
I suoi documenti, che pure lo spacciavano per tale Goodwill Mhlazini, erano autentici e lo fecero passare senza difficoltà dai cancelli del porto. Eccolo dunque salire in treno alla centrale di Città del Capo col sacco da marinaio in spalla.
La sera dopo arrivò nel Witwatersrand, prese l'autobus per Dra-kels Farm e andò a trovare Victoria Gama a casa sua. Gli aprì la porta tenendo per mano il figlio. In casa c'era un buon odorino di roba da mangiare.
Come lo vide sussultò. « Presto, vieni dentro, Raleigh. » Poi mi-se subito la catena alla porta.
« Non dovevi venire qui. Lo sai che sono diffidata, magari sor-vegliano la casa », gli disse, andando subito a tirare le tende. Poi tornò da lui e si mise a osservarlo con attenzione.
« Sei cambiato », disse. « Adesso sei un uomo. » L'addestramento e la disciplina dei campi avevano lasciato il segno: era eretto e vigile e sembrava emanare un'intensità e una forza che le ricordavano Moses Gama.
"E' diventato un leone" pensò, e gli chiese: « Perché sei venuto, Raleigh? Cosa posso fare per aiutarti? ».
« Sono venuto a liberare Moses Gama dalla prigione dei boeri, e ti dirò come puoi aiutarmi. »
Victoria emise un gridolino di gioia, stringendo a sé il bambino.
« Dimmi cosa debbo fare! » l'implorò.
Ma lui rifiutò di fermarsi a cena, rifiutò perfino di sedersi un momento su una delle sue seggiole dozzinali.
« Quando torni a trovare Moses? » le chiese sottovoce, ma con ardore.
« Tra otto giorni », rispose Victoria, e lui annuì.
« Sapevo che era presto, abbiamo pianificato tutto con cura.
Ora sta' a sentire cosa devi fare tu... »
Quando il battello della prigione partì dal molo di Città del Ca-po, portando Victoria e il bambino a esercitare il diritto di visita se-mestrale, Raleigh Tabaka si trovava a bordo di un peschereccio at-traccato all'estremità del porto, davanti al molo delle riparazioni.
Come gli altri pescatori, indossava maglione blu, tuta impermeabile di gomma gialla e stivaloni. Faceva finta di riordinare le cassette sul ponte, ma in realtà aspettava il traghetto e, quando lo vide passare vicino, diretto all'imboccatura del porto e al mare aperto, distinse la figura regale di Victoria a poppa. Indossava il caffetano giallo, verde e nero, i colori dell'ANC, che sempre faceva infuriare i carcerieri.
Uscito il battello dal porto, diretto verso la lontana Robben Island che si stagliava al limitare della baia come un'enorme balena, Raleigh andò in fretta al timone. Il comandante di quella barca di 24 metri era un uomo di colore, tracagnotto e vestito come Raleigh.
Questi aveva conosciuto suo figlio al Lord Kitchener Hotel a Londra: era un militante, aveva preso parte alla rivolta di Langa e subito dopo era fuggito dal Paese.
« Grazie, compagno », disse Raleigh, e il comandante lasciò il timone e si fece sulla soglia della cabina di pilotaggio, togliendosi la pipa di bocca.
« Hai scoperto quello che volevi? »
« Sì, compagno. »
« Quando avrai bisogno di me per il prossimo passo? »
« Nel giro di dieci giorni », rispose Raleigh.
« Avvertimi almeno un giorno prima. Devo procurarmi il permesso per pescare nella baia. »
Raleigh annuì. « Lo sapevo. » Girò la testa verso la poppa del peschereccio. « La barca resisterà? »
« Come no! » ridacchiò il comandante. « Una barca che resiste alle tempeste invernali dell'Atlantico meridionale può resistere a tutto. » Porse a Raleigh la borsa di tela che conteneva i suoi vestiti.
« Allora ci rivedremo presto, amico mio? »
« Puoi starne certo, compagno », disse tranquillamente Raleigh, e sbarcò sul molo.
Si cambiò in un gabinetto pubblico vicino ai cancelli del porto e andò al parcheggio dietro la dogana. La vecchia Toyota di Ramsami aspettava accanto al recinto, e Raleigh montò sul sedile posteriore.
Sammy Ramsami alzò gli occhi dal giornale che stava leggendo.
Era un giovane avvocato indú di bell'aspetto, specializzato in processi politici. Erano anni che rappresentava Vicky Gama nelle sue incessanti battaglie contro l'autorità. Era venuto ad accompagnarla dal Transvaal per la visita al marito.
« Ce l'hai fatta? »
Raleigh rispose con un grugnito che non significava niente.
« Non voglio mica sapere di che si tratta », disse ancora Sammy Ramsami, e Raleigh sorrise freddamente.
« Non preoccuparti, compagno, non porterai il fardello di questa conoscenza. »
Non parlarono piú per le successive quattro ore, aspettando il ritorno di Vicky dall'isola. Alla fine arrivò, alta e maestosa in caffetano e turbante, col bambino accanto. Gli scaricatori negri al lavoro sulla banchina la riconobbero e la salutarono al passaggio.
Arrivò alla Toyota e salì davanti col bambino in grembo.
« Sta facendo un altro sciopero della fame », disse. « E' così magro che pare uno scheletro. »
« Questo renderà piú facile il nostro lavoro », disse Sammy Ramsami accendendo il motore.
Alle nove del mattino dopo Ramsami presentò alla corte suprema un'istanza di far visitare il detenuto Moses Gama da un medico di fiducia. La motivazione era una testimonianza di Victoria Dinizulu Gama e del rappresentante locale della Croce Rossa Internazionale che denunciavano il deterioramento delle condizioni fisiche e mentali del detenuto.
La corte suprema emanò un'ordinanza in cui si chiedeva al ministero di esprimere un eventuale parere contrario nel giro di venti-quattr'ore. Il pubblico accusatore cercò in tutti i modi di opporsi, ma i giudici della corte, sentito Ramsami, disposero che la visita fosse concessa.
Il medico era il dottor Chetty Abrahamji, che aveva anche assistito Tara durante il parto. Era aiuto all'ospedale Groote Schuur. Il dottor Abrahamji prese il traghetto per Robben Island insieme al medico provinciale, con cui fece una visita di tre ore al detenuto nell'infermeria della prigione.
Alla fine della visita disse al medico provinciale che era molto preoccupato. « Il paziente è molto sottopeso, lamenta dispepsia e stitichezza cronica. Non serve dirle quale quadro generale suggeri-scono questi sintomi. »
« Lei sa benissimo che il prigioniero sta facendo lo sciopero della fame. Infatti, pensavo di sottoporlo ad alimentazione forzata. »
« No, dottore », l'interruppe Abrahamji. « A mio parere i sintomi sono ben piú gravi. Bisogna fargli una TAC e intendo prescri-verla. »
« Sull'isola non c'è l'attrezzatura necessaria. »
« E allora gliela faremo al Groote Schuur. »
Ancora una volta il pubblico accusatore si oppose all'ordinanza di trasferimento all'ospedale Groote Schuur, ma il giudice di sorveglianza, influenzato dalla perizia del dottor Abrahamji come dalle preoccupazioni che gli espresse a voce, ancora una volta diede il permesso.
Moses Gama fu portato in terraferma sotto il piú rigoroso segreto e con una buona scorta. Nessuno oltre alle guardie coinvolte fu informato del trasferimento, per evitare manifestazioni e rendere vano l'intenso desiderio della stampa di pubblicare una foto di questo patriarca delle aspirazioni dei negri.
Fu tuttavia necessario avvertire il dottor Abrahamji ventiquat-tr'ore prima perché assicurasse la disponibilità delle apparecchiature dell'ospedale. La polizia andò a presidiare l'ospedale e i dintorni la sera prima. Stanze e corridoi per i quali doveva transitare il prigioniero furono liberati, mantenendo soltanto il personale essenziale, che fu interrogato attentamente e perquisito in cerca di armi o esplosivi.
Il dottor Abrahamji telefonò a Raleigh Tabaka in casa di Molly Broadhurst a Pinelands dal telefono pubblico nell'atrio dell'amministrazione.
« Avrò compagnia domani alle due del pomeriggio », si limitò a dire.
« Il nostro amico non deve andarsene di lì prima che faccia notte », rispose Raleigh.
« Si può fare », concordò Abrahamji e riappese.
All'una del pomeriggio il traghetto della prigione entrò in porto.
Tutti gli oblò erano chiusi e in coperta vigilavano secondini armati, da prua a poppa. Raleigh vide benissimo dal peschereccio che la sorveglianza era effettiva. Non dormivano affatto.
Il traghetto attraccò al molo A, il solito. C'era in attesa un cellulare blindato, scortato da quattro motociclisti in uniforme e da una Land Rover grigia della polizia. Dietro le reti antisommossa Raleigh distinse gli elmetti e i fucili a pompa tenuti a bracciarm.
Come il traghetto sfiorò il molo, il cellulare fece manovra e la porta di dietro si aprì. Saltarono fuori altri agenti di sorveglianza, pronti a ricevere il prigioniero. Raleigh lo intravide per un attimo: alto, magrissimo, nell'uniforme cachi dei detenuti. Fu subito caricato sul furgone, ma Raleigh fece in tempo ad accorgersi che aveva ormai i capelli tutti bianchi, anche se si trovava dall'altra parte del porto. Era ammanettato e camminava a fatica a causa delle catene.
Le porte del furgone si chiusero. Gli agenti in moto si avvicinarono al cellulare, e la Land Rover lo seguì da presso mentre accelerava verso l'uscita della zona portuale.
Raleigh sbarcò dal peschereccio. Molly Broadhurst l'aspettava oltre i cancelli del porto. Imboccarono le prime pendici della Table Mountain dove sorgeva il Groote Schuur, un grande complesso ospedaliero, con muri intonacati di bianco e tegole di cotto, che si trova appena sotto i prati del parco di Rhodes Estate, dimora oltre la quale comincia la nuda roccia del monte.
Raleigh prese accuratamente nota del tempo che ci voleva per andare dal porto all'ospedale. Procedevano un pò piano per via del traffico. Passando davanti all'ingresso dell'ospedale videro il cellulare, la Land Rover e le moto della polizia parcheggiati nel cortile davanti all'ambulatorio. Alcune guardie che aspettavano lì si erano tolte gli elmetti e sembravano finalmente piú rilassate.
« Come farà Abrahamji a tenerlo lì fino a buio? » voleva sapere Molly.
« Non so, non gliel'ho chiesto. Immagino che continuerà a fargli esami, oppure cercherà di sabotare i macchinari. Non ho idea. »
Raleigh fece una svolta a "U" davanti all'ospedale e tornò indietro.
« Sei sicura che non c'è nessun'altra strada oltre a questa per lasciare l'ospedale? » le chiese Raleigh.
« Sicurissima », rispose Molly. « Il cellulare deve passare di qui.
Lasciami alla fermata dell'autobus. Ci sarà molto da aspettare e po-trò almeno sedermi. »
Raleigh accostò al marciapiede. « Hai il numero di telefono del porto e le monete? » Lei annuì.
« Qual è il telefono piú vicino? » insisté Raleigh.
« Ho controllato tutto con attenzione. C'è una cabina telefonica all'angolo. » Gliela indicò. « Mi ci vorranno due minuti ad arrivarci, e se la trovo guasta od occupata c'è un altro telefono nel bar di fronte. Mi sono già fatta amica del proprietario. »
Raleigh la lasciò alla fermata dell'autobus e tornò in centro.
Parcheggiò la macchina di Molly nella via concordata, per non essere notato arrivando al porto come un signore, e proseguì a piedi.
Giunto ai cancelli, mostrò il lasciapassare da marittimo.
Il comandante del peschereccio era al timone e diede a Raleigh una tazza di caffè dolcissimo. Bevendolo, riparlarono del piano.
« Sono pronti i miei uomini? » chiese Raleigh mettendosi in piedi, e il capitano alzò le spalle. « Questi sono affari tuoi. »
Erano in fondo alla stiva, dove faceva un caldo tremendo. Robert e Changi erano in canottiera e mutande. All'arrivo di Raleigh balzarono in piedi.
« Finora va tutto bene », assicurò loro Raleigh. Erano vecchi compagni dei tempi del Poqo e del PAC, e Changi era a Sharpeville il terribile giorno in cui era morta Amelia.
« Siete pronti? » chiese Raleigh.
« Rifacciamo tutti i controlli », suggerì Changi. « Una volta di piú non ci farà male. »
Il gommone Zodiac nella stiva era quello da sei metri, capace di trasportare facilmente dieci persone adulte. Il fuoribordo Evinrude da cinquanta cavalli era in grado di spingerlo a trenta nodi. Il coperchio del motore era stato verniciato in nero opaco.
L'imbarcazione con tutta l'attrezzatura era stata rubata due giorni prima da Robert e Changi dal cortile di un commerciante, e non c'era modo di risalire a loro attraverso di essa.
« Va il motore? » domandò Raleigh.
« L'ha controllato e rifornito Robert. »
« Sì, ho cambiato anche l'olio », disse Robert. « Funziona benissimo. »
« I serbatoi? »
« Pieni tutti e due », disse Robert. « Abbiamo un'autonomia di cento miglia e piú. »
« Le mute da sub? »
« Eccole qua », disse Changi. « E questa è una termocoperta per il capo. »
« Gli attrezzi? » chiese Raleigh, e Changi aprì la borsa galleg-giante e li dispose in bell'ordine sul pavimento, sollevandoli man mano che Raleigh spuntava l'elenco.
« Bene », disse alla fine Raleigh. « Adesso potete riposarvi. Per ora non c'è nient'altro da fare. »
Raleigh uscì fuori della stiva. Era ancora presto. Guardò l'orologio: nemmeno le quattro. Scese dal peschereccio e andò al telefono pubblico in fondo al molo.
Telefonò alle informazioni chiedendo un numero di Johannesburg, che non corrispondeva a nessuno, tanto per accertarsi che il telefono funzionasse. Poi sedette sul molo con le gambe penzoloni a guardare i gabbiani che mangiavano i rifiuti galleggianti sulle acque del porto.
Alle sette e quaranta di sera era buio, ma passarono altri venti minuti prima che il telefono della cabina suonasse. Raleigh balzò in piedi.
« Arrivano », disse Molly con voce contraffatta.
« Grazie, compagno », rispose in tono semiserio Raleigh. « Ora va' a casa. »
Tornò di corsa verso il peschereccio e il comandante lo vide.
Mentre saltava a bordo, i due marinai tolsero gli ormeggi. Il grosso motore prese a sospingere velocemente il peschereccio verso l'ingresso del porto.
Raleigh irruppe nella stiva dove Robert e Changi erano già in muta subacquea. Aiutarono Raleigh a indossare la sua. « Pronti? »
chiamò un marinaio da sopra. « Giú il paranco », gridò Raleigh.
Contro il cielo nero tempestato di stelle si stagliò il braccio del paranco, e la cima calò dal boccaporto.
Si misero ad agganciare lo Zodiac, lavorando in fretta, ma, prima che avessero terminato, il motore del peschereccio si spense e il movimento dello scafo cominciò a seguire sempre piú inerte l'onda.
Raleigh e gli altri salirono in coperta. La notte era senza luna, ma le stelle splendevano. Spirava una brezza da sudest, sicché il bel tempo non rischiava di rompersi. Tutti i fanali di navigazione del peschereccio, come pure le luci di bordo, erano spenti.
Città del Capo sfolgorava lontana. La montagna era illuminata e sembrava una massa argentea e spettrale sotto le stelle, mentre nel mare nero occhieggiavano basse le luci di Robben Island. Raleigh giudicò che si trovassero a metà strada tra la città e l'isola.
Il capitano li aspettava sul ponte. « Adesso bisogna sbrigarsi », disse.
Robert e Changi salirono sul gommone. Avevano la muta nera, le fiancate del gommone erano nere, la copertura del fuoribordo era nera. Sulle acque nere, sarebbero risultati pressoché invisibili.
« Grazie, compagno », disse Raleigh porgendo la mano al comandante.
« Amandla! » esclamò stringendogliela il comandante. « Potere! » e Raleigh prese posto a poppa del gommone.
Il paranco lo sollevò sferragliando e lo calò fuori bordo. Il gommone si spiattellò agevolmente sull'onda lunga.
« Accendi il motore », disse Raleigh, e Robert ci riuscì al primo strappo.
« Sgancia », ordinò Raleigh, e Changi sganciò la cima del paranco, mentre Robert teneva il gommone accostato al peschereccio mediante una cimetta che tagliò dopo aver scaldato il motore per cinque minuti.
I due battelli attesero accostati in silenzio e a luci spente, in un crescendo di tensione.
A un tratto il comandante del peschereccio gridò loro: « Li ho avvistati ».
« Sei sicuro? » chiese Raleigh con le mani a megafono per farsi sentire meglio.
« Quel traghetto lo vedo tutti i giorni della mia vita », disse il comandante, affacciato alla murata. « Accendete il motore e stacca-tevi. »
L'Evinrude si fece sentire rombando e lo Zodiac si affacciò a poppa del peschereccio. Raleigh vide il traghetto. Veniva dritto verso di loro, perché si vedeva sia la luce rossa sia la luce verde.
Il peschereccio avanzò forte lasciando a poppa una scia piú bianca. Era ancora a luci spente e accelerava sempre piú. Il comandante aveva assicurato a Raleigh che poteva fare quattordici nodi.
Fece una larga virata nelle acque nere e puntò dritto contro il ferry che si avvicinava a tutta forza.
Robert si scostò alquanto dal peschereccio, restando indietro di una sessantina di metri.
Il traghetto mantenne la rotta. Evidentemente non avevano visto il peschereccio, troppo basso sull'orizzonte per stagliarsi contro le stelle. Raleigh si attaccò alla cima che correva lungo la fiancata del gommone, facendosi due giri intorno alla mano, mentre guardava i due battelli avvicinarsi a tutta forza in rotta di collisione. Il peschereccio oceanico era lungo il doppio del traghetto e aveva lo scafo d'acciaio; era anche piú alto sull'acqua.
All'ultimissimo momento qualcuno a bordo del ferry gridò e subito dopo la prua del peschereccio lo speronò. Raleigh aveva detto al capitano di badare a non danneggiare proprio la cabina, col rischio di far male a chi ci stava.
Il peschereccio rallentò alzando la prua e sommergendo la barca piú piccola, che si capovolse in un turbine di schiuma, mentre l'altra le passava sopra, si disimpegnava dal suo scafo sfondato, e in breve scompariva nella notte.
« Le catene lo tireranno sotto », gridò Raleigh. « Fate in frettal » Si mise la maschera.
Robert si portò a tutta velocità di fianco al traghetto che affondava. Si era capovolto e mostrava al cielo il disotto dello scafo pit-turato di minio rosso anticorrosione. Aveva le luci ancora accese sott'acqua, e tre o quattro guardie nuotavano intorno cercando di aggrapparsi a qualcosa.
Raleigh e Changi si tuffarono con un piede di porco in mano e si immersero. Facendo leva, Raleigh riuscì subito a svellere la porta chiusa a chiave della cabina. Intorno alla testa gli scoppiò un tripu-dio di bolle d'aria rimasta imprigionata dentro.
La cabina si allagò, ma le luci continuavano a restare accese, creando un'atmosfera d'acquario. Diverse persone si dibattevano confusamente, imprigionate nella cabina. Tra le uniformi delle guardie carcerarie Raleigh distinse quella d'un prigioniero. Afferrò un lembo di quella tela cachi e tirò fuori Moses Gama.
Changi lo prese per l'altro braccio e lo trasportarono a nuoto fuori della cengia formata dallo scafo rovesciato e poi a galla. Dal momento dello speronamento non era passato neanche un minuto.
Robert li vide subito e accorse col gommone. Prese Moses Gama per il braccio e, con l'aiuto degli altri due che spingevano da sotto, lo issò a bordo.
Raleigh e Changi si attaccarono alle apposite cime e si issarono a bordo a loro volta. Nello stesso istante Robert diede manetta all'Evinrude e schizzarono via dalla barca che affondava, lasciandosi indietro in breve le grida e gli spruzzi alzati dai naufraghi. Robert puntò verso terra in direzione della deserta spiaggia di Woodstock, una striscia un pò meno scura di sabbia e spuma.
Raleigh si tolse la maschera e si chinò sollecitamente sull'uomo steso sulle assicelle di legno. Lo aiutò a sedersi, mentre Moses Ga-ma tossiva dolorosamente.
« Ti vedo, zio », disse a bassa voce Raleigh.
« Raleigh? » Moses aveva la voce rauca per tutta l'acqua salata che aveva bevuto. « Sei tu, Raleigh? »
« Saremo a riva entro dieci minuti, zio », disse Raleigh, mettendogli addosso la termocoperta. « Il piano della tua fuga è stato accuratamente studiato. Tutto è pronto per te, zio. Ben presto sarai al sicuro dove nessuno può farti del male. »
Robert puntò a tutta velocità sul bagnasciuga e il gommone si arenò sulla spiaggia. Quando si fu arrestato, tirarono Moses Gama giú dallo Zodiac e corsero in fondo alla spiaggia trascinandolo in modo da non fargli nemmeno posare a terra i piedi incatenati.
Tra le dune era parcheggiato un furgoncino, di cui Raleigh aprì gli sportelli posteriori. Moses fu adagiato sul materasso predisposto nel furgone. Changi saltò dentro con lui e Raleigh chiuse gli sportelli. Intanto Robert si preoccupava di andare ad affondare il gommone da qualche parte.
Raleigh si tolse la parte superiore della muta. Aveva la chiave del furgone assicurata al collo. Si mise al volante e partì senza fretta in direzione del sobborgo negro di Langa.
A Città dei Capo la residenza ufficiale del ministro degli Interni era disposta proprio accanto a quella del primo ministro, a Groote Schuur. Simili doppioni, costosissimi, si dovevano alla divisione delle attività di governo fra le capitali di Pretoria e Città del Capo.
Durante il periodo in cui il Parlamento si riuniva a Città del Capo, tutti i ministeri e tutto il corpo diplomatico dovevano trasferirsi ar-mi e bagagli da Pretoria, distante milleottocento chilometri, sicché bisognava mantenere residenze ufficiali in entrambe le città spendendo un mare di soldi.
La residenza ministeriale di Manfred De La Rey era un'elegante costruzione edoardiana immersa in un vasto parco riservato. Quando Roelf Stander parcheggiò la sua piccola Morris davanti a un tale edificio ebbe l'impressione di fare una gaffe. Sarah Stander aveva cercato disperatamente di farsi ricevere in forma privata da Manfred fin da quando il figlio era stato processato e condannato a morte. Ma Manfred era sempre stato occupatissimo a Pretoria, oppure nella sua tenuta agricola nello stato di Orange, oppure a inaugurare il monumento alle donne morte nei campi di concentramento britannici durante la guerra boera, o anche al congresso del Partito Nazionalista, e quindi non aveva mai potuto vederlo.
Sarah aveva insistito, telefonandogli al ministero tutti i giorni, telefonando a casa a Heidi per implorarla, finché Manfred aveva accettato di incontrarla alle sette del mattino, prima di recarsi al ministero.
Sarah e Roelf erano venuti con la Morris da Stellenbosch, partendo a notte fonda per non arrivare in ritardo. Quando il maggior-domo negro li fece entrare, trovarono Manfred e Heidi in sala da pranzo a far colazione.
Heidi si alzò e andò a baciare sulla guancia Sarah.
« Mi spiace che non ci si veda da tanto tempo, Sarie. »
« Sì, spiace anche a me », disse amaramente Sarah. « Ma, come mi hai spiegato, Manfred era troppo occupato per riceverci. »
Manfred, a capotavola, si alzò. Era in maniche di camicia, col tovagliolo infilato nella cintola dei pantaloni scuri.
« Roelf », sorrise, e si strinsero la mano da vecchi amici.
« Grazie di aver voluto riceverci, Manie », disse umilmente Roelf. « So come devi essere impegnato in questi giorni. » Gli anni non erano stati leggeri per Roelf Stander. Si era ingrigito e fatto curvo, e Manfred, guardandolo, provò una segreta soddisfazione.
« Accomodati, Roelf », disse Manfred indicandogli una sedia.
« Heidi ha predisposto la colazione anche per voi. Cominci con del porridge? »
Poi Manfred si rivolse a Sarah, ancora in piedi accanto a Heidi, con qualche riluttanza.
« Ciao, Sarie », disse. E pensare che era stata una ragazza così carina. Nei suoi occhi, e nella forma del viso, c'era ancora qualcosa di quella bellezza giovanile. Gli tornò il ricordo dell'amore che un tempo avevano condiviso, e gli venne una fitta di nostalgia per la gioventú. Se la ricordava benissimo nuda, sdraiata sugli aghi di pi-no, sulle montagne Hottentots Holland, il giorno in cui si erano amati per la prima volta.
Cercò nel suo cuore una traccia di quel che aveva provato per lei ma non ne trovò. Tutto l'amore che un tempo era fiorito tra loro era stato cancellato dalla notizia del suo tradimento. Per piú di due decenni aveva atteso la vendetta, accontentandosi di scavarle pian piano la terra sotto i piedi, riducendola allo stato attuale, per darle l'ultimo colpo al momento giusto. Era venuto, e l'assaporava.
« Ciao, Manie », sussurrò lei, pensando: "E' stato malvagio. Ha riempito la mia vita di dolori intollerabili. Adesso vengo a chiedergli la vita di mio figlio: non può negarmi anche questo".
« Allora, perché siete venuti a trovarmi? » chiese Manie, mentre Heidi faceva accomodare a tavola Sarah. Prese la teiera di mano al servo di colore e lo congedò, poi versò del caffè fumante nella tazza di Sarah.
« Sì, Sarie », disse anche lei. « Diteci perché siete venuti. »
« Lo sapete, è per Kobus », disse Sarah.
Si creò un penoso silenzio per qualche secondo, poi Manfred sospirò.
« Ja », disse. « Kobus. E perché vi rivolgete a me per Kobus? »
« Voglio che tu l'aiuti, Manie. »
« Kobus è stato processato e condannato per un atto atroce », disse lentamente Manfred. « Il piú alto tribunale dei Paese l'ha condannato a morte per impiccagione. Come posso aiutare Kobus? »
« Nello stesso modo in cui hai aiutato quel terrorista negro, Moses Gama. » Sarah era pallidissima e reggendo la tazza la faceva tremare sul piattino. « A lui hai salvato la vita: ora salva quella di mio figlio. »
« Nel caso di Gama c'è stata la grazia del governatore della provincia... »
« Il quale ha fatto quello che gli hai detto di fare tu. Lo so, Manie. Hai il potere di salvare Kobus. »
« No », scosse la testa lui. « Non ho un simile potere. Kobus è un assassino, e del tipo peggiore, privo di compassione e di rimorso.
Non posso aiutarlo. »
« Puoi, so che puoi, Manie, ti prego, ti scongiuro, salva mio figlio. »
« Non posso », ribadì Manfred con viso di pietra, la bocca ridotta a una linea dritta e sottile. « E non lo farò. »
« Devi farlo, Manie. Non hai scelta... Devi salvarlo. »
« Come osi? » Adesso si stava arrabbiando. « Non c'è proprio niente che io debba fare. »
« Devi salvarlo, Manie, perché è anche figlio tuo. E' figlio del nostro amore, Manie, non hai scelta. Devi salvarlo. »
Manfred balzò in piedi e mise una mano protettiva sulla spalla di Heidi. « Vieni in casa mia a insultare me e mia moglie ... » la sua voce tremava di rabbia, « vieni a calunniare e gettar fango ... »
Roelf Stander finora se n'era rimasto zitto e tranquillo, ma adesso alzò la testa e parlò con calma. « E' vero, Manie. Tutto quello che ha detto è vero. Quando l'ho sposata sapevo che era incinta di te. Me l'ha detto francamente. L'avevi lasciata per sposare Heidi, e io l'amavo. »
« Tu sai che è vero », mormorò Sarah. « L'hai sempre saputo, Manie. Non puoi aver guardato negli occhi Kobus senza accorgerte-ne. Entrambi i tuoi figli hanno gli occhi gialli come te, Manie. Lothar e Kobus... Tutt'e due. Lo sai che è tuo figlio. »
Manfred ricadde sulla sedia. Nel silenzio Heidi gli si avvicinò e gli posò la mano sulla mano. Quel tocco rassicurante sembrò riscuoterlo.
« Anche se fosse vero, non farei niente. Di chiunque sia figlio, la giustizia deve fare il suo corso. Ha ucciso e deve morire. E' la pena per l'atto che ha commesso. »
« Manie, ti prego. Devi aiutarci... » Ormai Sarah piangeva, e le lacrime le scorrevano alfine sulle guance pallide. Cercò di buttarsi ai piedi di Manfred, ma Roelf la prese e la trattenne. Si dibatté flebil-mente nella sua stretta, ma lui continuò a bloccarla e guardò Manfred.
« In nome della nostra amicizia, Manie, in nome di tutto quello che abbiamo fatto insieme e condiviso... Non ci vuoi aiutare? »
« Mi dispiace per te, Roelf », disse Manfred rialzandosi in piedi.
« Ora porta a casa tua moglie. »
Roelf condusse con garbo Sarah verso la porta, ma prima di arrivarci Sarah gli sfuggì di mano e tornò a guardare Manfred.
« Perché? » gridò sconvolta. « So che potresti... Perché non vuoi aiutarci? »
« Per colpa tua Spada Bianca fallì », rispose piano. « Ecco perchè non ti aiuto. »
La donna restò impietrita a queste parole, e Manfred tornò a rivolgersi a Roelf. « Adesso portala a casa », gli ordinò. « Infine, ho regolato i conti con lei. »
Durante il lungo viaggio di ritorno a Stellenbosch, Sarah, rin-cantucciata sul sedile, singhiozzò per tutto il tempo. Solo quando Roelf fermò l'auto davanti a casa si raddrizzò e, col viso e la voce devastati dal dolore, disse:
« Lo odio. » E ripeté: « Dio, come lo odio ».
« Stamattina ho parlato con David Abrahams » disse Isabella, chinandosi a carezzare il collo alla giumenta perché suo padre non potesse vederla in faccia. « Mi ha offerto un lavoro a Johannesburg. »
« Precisiamo », disse Shasa. « Sei stata tu a telefonare a David dicendogli che la sede di Johannesburg aveva assoluto bisogno di una responsabile delle pubbliche relazioni dei gruppo. Stipendio duemila sterline al mese, indennità vestiario e auto della ditta... Hai anche specificato che vuoi una Porsche 911, se non sbaglio. Sai, David mi ha telefonato subito dopo. »
« Ma insomma, papà, non essere così pignolo », disse Isabella guardandolo con aria di sfida. « Non vorrai mica che faccia la fa-me, o vada in giro vestita di stracci? »
« Voglio solo che tu stia qui dove posso tenerti d'occhio. »
Guardandola, Shasa provò tutta la pena della perdita incombente.
Era il sale della sua vita, ed era tornata da Londra da un mese appena. Adesso voleva ripartire. Il suo istinto era lottare per trattenerla, ma Centaine l'aveva sconsigliato. « Lasciali andare con buona grazia, e c'è caso che tornino a te. »
« Non è la Siberia, non sono le Ebridi Esterne, paparino. Sii pratico, è a un tiro di schioppo. »
« E' così che chiami mille miglia di distanza? » ribatté Shasa.
« Certo, a Johannesburg sarai piú vicina a un certo stadio Loftus Versveld... »
« Non capisco assolutamente cosa intendi dire », dichiarò lei.
Molto di rado Shasa riusciva a coglierla impreparata, sicché ora continuò crudelmente: « ... Dove si gioca a rugby. Sai? quei bestioni sudati che se le danno... ».
Si riprese molto bene. « Papà, se queste insinuazioni hanno a che fare con Lothar De La Rey, gradirei puntualizzare che trattasi di uno dei piú grandi campioni dei nostro tempo e del piú giovane generale di brigata nella storia della polizia... E che con tutto ciò egli non significa assolutamente nulla per me. »
« La tua monumentale indifferenza mi consola. »
« Intendi dire che posso accettare il lavoro che mi offre David? »
Shasa sospirò, mentre la solitudine gli calava addosso come una sera d'inverno. « Come potrei impedirtelo, Bella? »
Lei emise uno strillo di trionfo e sporgendosi di sella abbracciò suo padre, mentre lo stallone di Shasa trepestava stronfiando da aristocratico offeso.
Bella chiacchierò allegramente per tutta la strada di ritorno fi-no a casa.
« Una cosa che mi sono dimenticata di dire a David è l'indennità casa. A Johannesburg costano un sacco. Non troverei niente di adeguato, con la miseria che mi paga. » Shasa scosse la testa ammirato.
Gli stallieri presero i cavalli, e padre e figlia andarono a far colazione così come stavano, Isabella amorevolmente appesa al braccio di Shasa.
Centaine stava mangiando un piatto di uova strapazzate, dopo aver lavorato tra le sue rose dall'alba. Ora rivolse a Isabella uno sguardo interrogativo, e Isabella le rispose con una strizzata d'occhio felice.
Shasa intercettò il messaggio. « Maledizione! E' un complotto continuo. Mi avete fregato un'altra volta! »
« Naturalmente prima l'ho detto alla nonna », disse Isabella stringendogli il braccio. « Comincio sempre dal vertice, no? »
« Quand'era piccola minacciavo sempre di chiamare un poliziotto se faceva la cattiva », deplorò Centaine con una smorfia. « Adesso il poliziotto è arrivato. Speriamo che se la cavi. »
« Non è un poliziotto, ma un generale di brigata. »
Shasa si servì di uova fritte e pomodoro e andò a sedersi a capotavola, dove trovò come sempre il giornale del mattino. L'aprì. La notizia principale riguardava la proposta di un incontro fra Ian Smith e Harold Wilson, primo ministro britannico, per risolvere la questione rhodesiana. Israele e Giordania continuavano a disputarsi la valle di Hebron e, piú vicino a casa, il traghetto di Robben Island era affondato durante la notte: dieci dispersi.
Suonò il telefono. Centaine alzò gli occhi dalla fetta di pane to-stato che stava imburrando. « Sarà Garry », disse. « Mentre eravate fuori a cavallo ha chiamato due volte. »
« Ma sono solo le otto di mattina », sbuffò Shasa, andando però a rispondere. « Ciao, Garry, dove sei? »
Garry parve sorpreso. « Ma in ufficio, naturalmente. »
« Qual è il problema? »
« Piscine », rispose Garry. « Ho la possibilità di acquistare la licenza di produzione di piscine di nuova concezione, molto meno co-stose. Si chiamano Gunite. Holly e io le abbiamo viste negli Stati Uniti durante la luna di miele. »
« Buon Dio, solo i ricchissimi possono permettersi la piscina privata », protestò Shasa.
« Tutti quanti compreranno le mie piscine. Lasciami fare e vedrai che infesterò il Paese. »
Il suo entusiasmo era contagioso.
« Funzionano, papà. Io le ho viste, e i conti tornano benissimo.
L'unica fregatura è che devo dare una risposta entro mezzogiorno.
Sai, ci sono altri interessati. »
« Quanto? » chiese Shasa.
« Inizialmente quattro milioni, per la licenza e lo stabilimento.
Altri quattro milioni in due anni per i costi di gestione, poi cominciamo a guadagnare. »
« Va bene », disse Shasa. « Procedi pure. »
« Grazie, papà. Grazie della fiducia. »
« Finora non l'hai mai delusa. Come sta Holly? »
« Benissimo. E' qui vicino a me. »
« In ufficio, alle otto del mattino? » rise Shasa.
« Naturalmente! » Ancora una volta Garry parve sorpreso.
« Facciamo squadra, e quella delle piscine è un'idea sua. »
« Tanti bacioni anche a lei, allora », disse Shasa, e riappese.
Mentre tornava a tavola, Centaine disse: « Questo pomeriggio il primo ministro tiene la relazione sul bilancio dello Stato. Credo che farò un salto a sentire ».
« Dovrebbe essere interessante », concordò Shasa. « Credo che Verwoerd intenda fare un importante discorso politico sulla posizione internazionale del Paese. Stamattina ho riunione alla commissione armamenti, ma perché non mangiamo insieme? Così poi puoi sentire il discorso di Verwoerd dalla tribuna del pubblico. Ti faccio procurare un biglietto da Tricia. »
Un'ora dopo, quando arrivò in ufficio, Tricia l'aspettava ansiosamente.
« Il ministro degli Interni vuole vederla subito, signor Courteney. Mi ha detto di avvertirlo appena arrivava, perché verrà lui nel suo ufficio. »
« Benissimo. » Shasa diede un'occhiata alla rubrica. « Gli dica che sono arrivato e poi mi procuri un invito per mia madre, che vuole assistere alla seduta di questo pomeriggio. C'è altro? »
« Niente d'importante », disse Tricia prendendo il telefono per avvertire il ministro degli Interni. Poi s'interruppe. « Ah, stamattina ha telefonato tre volte una donna. Non ha voluto dire come si chiamava, e ha chiesto del comandante di squadriglia Courteney.
Strano, non le pare? e anche buffo. »
« Va bene, se richiama me lo faccia sapere. » Shasa entrò nel suo studio accigliato. Era leggermente inquietante quell'uso del suo vecchio grado in aviazione. Andò alla scrivania e cominciò a sbrigare la posta e le altre cose che Tricia gli aveva segnalato, ma quasi subito l'interfono suonò.
« C'è qui il ministro De La Rey, signore. »
« Lo faccia entrare, Tricia. »
Shasa si alzò e andò incontro a Manfred, ma stringendogli la mano si accorse che era molto preoccupato.
« Hai letto la notizia del traghetto affondato? » Non gli aveva nemmeno restituito il saluto, entrando subito in argomento.
« L'ho vista ma non l'ho letta. »
« A bordo c'era Moses Gama », disse Manfred.
« Buon Dio... » Senza volere lanciò uno sguardo alla cassa d'altare in avorio e foglia d'oro che ancora arredava il suo studio.
« Non si sa che fine abbia fatto », disse Manfred. « Potrebbe essere annegato, ma potrebbe anche essere vivo. In entrambi i casi siamo nei guai. »
« E' fuggito? » chiese Shasa
« Un superstite, una guardia carceraria, dice che c'erano altre due imbarcazioni sul posto. Una grossa, che procedeva senza luci e ha speronato il traghetto, e un canotto giunto subito dopo. Nel buio non è riuscito a vedere altro, ma c'è la possibilità che Gama sia stato liberato. »
« Se è annegato, saremo accusati di averlo assassinato noi », disse sottovoce Shasa, « con disastrose ripercussioni internazionaii. »
« E se è uccel di bosco, bisogna temere rivolte popolari come quelle di Langa e Sharpeville. »
« Che provvedimenti hai preso? » domandò Shasa.
« Ho messo in allarme tutta la polizia. Uno dei nostri uomini migliori, mio figlio Lothar, sta arrivando in aereo dal Witwatersrand per dirigere l'inchiesta. Atterrerà fra pochi minuti. I palom-bari della Marina stanno già cercando il relitto per vedere che fine ha fatto Gama. »
Per altri dieci minuti discussero tutte le conseguenze del disastro, dopo di che Manfred si diresse verso la porta.
« Ti terrò informato delle novità. »
Shasa lo seguì in anticamera e Tricia, vedendolo, si alzò.
« Ah, signor Courteney, quella donna ha richiamato mentre era occupato col ministro De La Rey. » Manfred e Shasa si fermarono, e Tricia proseguì. « Ha chiesto di nuovo del comandante di squadriglia Courteney, signore, e quando ha saputo che era in riunione mi ha detto di dirle che aveva notizie di Spada Bianca. Ha aggiunto che lei avrebbe capito. »
« Spada Bianca! » Shasa si irrigidì fissandola. « Ha lasciato un numero di telefono? »
« No, signore, ma ha detto che questo pomeriggio la potrà trovare alle cinque e mezzo al binario quattro della stazione centrale. »
« E come farò a riconoscerla? »
« Dice che la riconoscerà lei, perché l'ha già visto. Deve solo aspettare al binario, si farà viva lei. »
Shasa era così preoccupato dal messaggio che non si era accorto della reazione di Manfred De La Rey a sentir nominare "Spada Bianca" chiaramente un nome in codice. Dai lineamenti di Manfred era sparito tutto il colore, e aveva il labbro superiore e la fronte imperlati di sudore. Senza dir niente, si girò e uscì nel corridoio.
Per tutta la riunione dell'Armscor, l'industria statale sudafricana degli armamenti, Shasa continuò a ripensare a quel nome, Spada Bianca. Si parlava dei nuovi missili aria-terra per l'aviazione, ma Shasa trovava difficile concentrarsi. Lo tormentava il ricordo di suo nonno, quell'uomo buono e gentile che Shasa aveva amato ed era stato ucciso proprio da Spada Bianca. Quella morte era stata una delle maggiori tragedie della sua giovinezza, e l'ira che aveva provato per quella brutale uccisione gli tornò tutta addosso.
"Spada Bianca" pensava. "Se riesco a scoprire chi sei me la pagherai, anche dopo tutti questi anni; anzi, con gli interessi."
Manfred De La Rey andò subito in ufficio, in fondo allo stesso corridoio. La segretaria gli rivolse la parola mentre le passava davanti, ma lui parve non vederla nemmeno.
Si chiuse nel suo studio, ma non andò a sedersi alla scrivania.
Macinò strada fra quelle quattro pareti, instancabilmente, senza vedere nulla e con la mascella serrata come un bulldog che stringa in bocca un osso. Prese il fazzoletto nel taschino e si asciugò il sudore dal viso, poi si fermò a guardarsi nello specchio dietro la scrivania.
Era così pallido che le guance gli erano diventate azzurrognole, e gli occhi emanavano lampi come quelli di un leopardo ferito e preso nella tagliola.
« Spada Bianca », mormorò. Aveva usato quello pseudonimo venticinque anni prima, ma ricordava benissimo tutto. Si rivide sul ponte del sommergibile tedesco che nel buio puntava verso la costa, dove ardevano i fuochi di segnalazione accesi da Roelf Stander.
Tornava al suo Paese, con i capelli e la barba tinti di nero, dove i suoi camerati l'aspettavano.
Roelf Stander in quei giorni perigliosi di imprese ardite era sempre stato al suo fianco. Avevano fatto i piani di tante e tante operazioni di guerriglia proprio nella cucina degli Stander nel paesino di Stellenbosch. Proprio in quella cucina gli aveva rivelato i particolari dell'azione che doveva costituire per i patrioti afrikaner il segnale della gloriosa insurrezione. E a tutte quelle riunioni Sarah Stander era stata presente, senza disturbare mai, servendo cibo e caffè... Ma ascoltando tutto. Solo tanti anni dopo Manfred si era reso conto di quanto avesse ascoltato.
Nel 1948, quando infine gli afrikaner avevano conquistato alle urne elettorali quel potere che non erano riusciti a ghermire con le armi, il duro e fedele impegno di Manfred era stato ricompensato con un posto di sottosegretario alla Giustizia.
Uno dei suoi primi atti in tal veste era stato cercare la pratica relativa all'attentato a Jan Smuts, fallito ma di cui non si conosceva il responsabile, il quale per sbaglio aveva ucciso invece Sir Garrick Courteney. Prima di distruggere l'incartamento, l'aveva letto attentamente e aveva saputo di essere stato tradito. In quella coraggiosa formazione di patrioti c'era stata una spia... Una donna che aveva telefonato avvertendo la polizia di Smuts dell'imminente attentato.
Aveva capito chi era la donna, ma non l'aveva mai punita, aspettando che il tempo della vendetta maturasse, assaporandone il pensiero per decenni, e osservando con piacere l'infelicità della tra-ditrice, guardandola diventare vecchia e amareggiata, mentre in veste di mentore e consigliere in realtà lui boicottava la carriera di suo marito in giurisprudenza e in politica, portandolo per mano alla rovina e al fallimento su tutti i fronti. Per tutto quel tempo Manfred aveva aspettato il momento buono per il colpo finale, e alla fine era arrivato. Sarah Stander era venuta a implorare la vita del bastardo che le aveva fatto fare, e lui gliel'aveva rifiutata. Un piacere squisi-to, reso piú grande da anni e anni d'attesa.
Adesso la donna si voleva vendicare. Lui non l'aveva previsto, pensava che il colpo la distruggesse. Solo la sua buona fortuna l'aveva messo in guardia dal nuovo tradimento che architettava ai suoi danni.
Distolse gli occhi dallo specchio e sedette alla scrivania. Prese in mano il telefono e con la solita sicurezza chiamò il colonnello Bester dell'ufficio affari riservati.
Era uno dei migliori ufficiali.
« Bester », abbaiò. « Spicchi immediatamente un mandato di arresto. Lo firmerò io stesso e voglio che sia subito eseguito. »
« Sì, signor ministro. Può dirmi il nome della persona da arrestare? »
« Sarah Stander », rispose Manfred. « L'indirizzo è: Eike Laan 16, Stellenbosch. Se non riuscite a trovarla a casa, andate a prenderla al binario quattro della stazione centrale di Città del Capo og-gi pomeriggio alle cinque e mezzo. Prima dell'arresto la donna non deve assolutamente parlare con nessuno, lo raccomandi ai suoi uomini. »
Riappendendo, Manfred sogghignò. La legge gli consentiva di arrestare e trattenere chiunque per novanta giorni in completo isolamento. In quei tre mesi, potevano succedere infinite cose. La situazione poteva cambiare; qualcuno poteva morire. Questione risolta.
Quella donna non gli avrebbe dato altri fastidi.
Suonò il telefono e Manfred rispose al volo, aspettandosi di risentire Bester.
« Sì, che c'è? »
« Ciao papà, sono Lothie. »
« Ciao. Dove sei? »
« Piazza Caledonia. Sono atterrato venti minuti fa e ho preso in mano l'inchiesta. Ci sono novità, papà, i sommozzatori hanno trovato il relitto. Non ci sono tracce del prigioniero, ma la porta della cabina è stata forzata. Bisogna presumere che sia scappato. Anzi, che qualcuno l'abbia fatto scappare, che è peggio ancora. »
« Trovatelo », disse a bassa voce Manfred. « Dovete trovare Moses Gama. Se non ci riusciamo, le conseguenze potrebbero essere disastrose. »
« Lo so », disse Lothar. « Lo troveremo. Dobbiamo trovarlo. »
Centaine non volle assolutamente mangiare al ristorante della Camera. « Non sono affatto schizzinosa, chéri, nel deserto mangia-vo le locuste e la carne andata a male, ma... » Così lei e Shasa attraversarono il parco e andarono a mangiare a Greenmarket Square, dove il Cafè Royal annunciava che erano arrivate le prime ostriche della stagione dalla laguna di Knysna.
Centaine ci versò sopra del succo di limone e un pò di tabasco e inghiottì la cosina pulsante con un sospiro di delizia.
« E ora, chéri », disse leccandosi le labbra, « dimmi perché sei così assente da non ridere alle mie migliori battute. »
« Mi spiace, mamma ». Shasa segnalò al cameriere di versargli ancora champagne. « Stamattina ho ricevuto una telefonata strana... E da allora non riesco a concentrarmi su nient'altro. Ti ricordi Spada Bianca? »
« Come no », disse Centaine posando la forchetta. « Sai, Sir Garry mi era piú caro del mio vero padre. Dimmi tutto. »
Per il resto del pranzo non parlarono d'altro, rievocando dolorosi ricordi di quel brutto giorno in cui era morto un uomo nobile e generoso, a cui entrambi dovevano tantissimo.
Infine Shasa chiese il conto. « E' già l'una e mezzo, bisogna sbrigarsi per arrivare in tempo alla Camera. Non voglio perdere l'inizio del discorso di Verwoerd. »
A sessantasei anni Centaine era ancora agile e attiva, e Shasa non fu obbligato a rallentare il passo per lei. Stavano ancora chiacchierando animatamente quando, superata la cattedrale di San Giorgio, svoltarono nel parco.
Davanti a loro due uomini sedevano su una panchina, e c'era qualcosa di così strano in essi che Shasa li notò a cinquanta metri di distanza. Il piú alto era in divisa da commesso parlamentare. Sedeva rigidissimo e guardava dritto davanti a sé con aria incantata.
Al suo fianco c'era un uomo bruno con la faccia grigia come stucco e i capelli spenti che gli ricadevano sulla fronte. Stava parlando all'orecchio del commesso parlamentare, come chi riveli un segreto, ma la faccia inespressiva dell'ascoltatore non mostrava la minima reazione a quanto l'altro stava dicendo.
Passando davanti alla loro panchina, Shasa guardò in faccia il piú basso dei due. Aveva occhi neri e implacabili, che sembravano due pozze di bitume. Ma subito distolse lo sguardo da quello di Shasa. Pure, continuava a parlare a voce così bassa all'uomo in divisa da commesso parlamentare che Shasa non riusciva a sentire il minimo suono.
Centaine gli tirò la manica. « Chéri, non mi stai ascoltando. »
« Scusa, mamma », rispose automaticamente Shasa.
« Mi chiedo perché quella donna abbia scelto la stazione », ripeté Centaine.
« Penso che in un luogo pubblico si senta piú al sicuro », buttò lì Shasa, tornando a guardare i due. Erano ancora sulla panchina, e benché oppresso da altri pensieri Shasa rabbrividì alla gelida cattiveria di quello sguardo al catrame, come se un vento gelido gli sof-fiasse nella nuca.
Svoltando nel vialetto che conduceva al grande edificio del Parlamento, Shasa si sentì improvvisamente confuso e incerto. Accade-vano troppe cose su cui non aveva alcun controllo. Era una sensazione cui non era per niente abituato.
Joe Cicero stava pronunciando sottovoce la formula: « Senti il verme che hai nella pancia ».
« Sì », rispose con lo sguardo fisso l'uomo accanto a lui. Muoveva soltanto le labbra. « Sento il verme. »
« Il verme vuol sapere se hai il coltello. »
« Sì che ho il coltello », disse l'uomo. Di padre greco, era nato illegittimo nel Mozambico portoghese da una mulatta. Il suo sangue misto non era evidente. Sembrava un tipo mediterraneo. Nel Parlamento sudafricano venivano impiegati soltanto commessi di origine europea.
« Senti il verme che hai nella pancia », ripeté Joe Cicero rinfor-zando il condizionamento dell'uomo.
« Sì che lo sento. »
Negli ultimi anni era stato in manicomio otto volte. Durante l'ultimo ricovero era stato scelto e condizionato.
« Il verme vuol sapere se sai dove sta il diavolo », disse Joe Cicero. L'uomo si chiamava Demetrio Tsafendas ed era stato introdotto in Sudafrica l'anno prima, una volta completato il condizionamento mentale.
« Sì », disse Tsafendas. « So dove sta il diavolo. »
« Il verme che hai nella pancia ti ordina di andare subito dove sta il diavolo », disse piano Joe Cicero. « Il verme che hai nella pancia ti ordina di uccidere il diavolo. » Tsafendas si alzò in piedi. Si muoveva come un automa. « Il verme ti ordina di andarci subito! »
A passo lento e regolare Tsafendas si avviò verso il Parlamento.
Joe Cicero lo guardò allontanarsi. Era fatta. Tutti i pezzi erano stati piazzati con gran cura. E finalmente il primo macigno cominciava a rotolare giú dal monte. Ben presto avrebbe preso velocità e avrebbe messo in moto altri macigni. Alla fine un'immensa frana avrebbe cambiato per sempre l'aspetto della montagna.
Joe Cicero si alzò e se ne andò.
La prima persona che Shasa vide entrando con Centaine nell'edificio del Parlamento fu Kitty Godolphin, e il suo cuore batté per l'emozione e il piacere inaspettato. Non la vedeva da un anno e mezzo, quando si erano goduti un interludio illecito nel sud della Francia. Shasa aveva noleggiato un lussuoso yacht col quale erano andati fino a Capri. Quando si erano lasciati, lei aveva promesso di scrivergli, ma non manteneva mai le promesse, ed eccola ricompari-re senza preavviso. Gli rivolse quel suo sorriso da ragazzina innocente, contraddetto dagli occhi diabolicamente maliziosi, e gli andò incontro per salutarlo come se si fossero lasciati con un bacio mezz'ora prima.
« Cosa fai qui? » le domandò senza preamboli, e Kitty si rivolse a Centaine.
« Salve, signora Courteney. Che peccato che una gran dama co-me lei abbia un figlio così maleducato! »
Centaine rise, Kitty le piaceva. Shasa pensava che fossero due spiriti affini. Poi Kitty gli spiegò: « Ero in Rhodesia a fare un servizio su Ian Smith in previsione dell'arrivo di Harold Wilson, e ho fatto un salto qui a sentire il discorso che Verwoerd terrà tra poco.
Naturalmente volevo anche venirti a trovare ».
Chiacchierarono qualche minuto, poi Centaine si scusò. « Vado a cercarmi un posto in galleria. »
Mentre Centaine si allontanava, Shasa chiese sottovoce a Kitty:
« Quando ci vediamo? ».
« Stasera? » suggerì Kitty.
« Sì... Ah, no, maledizione. » Si era ricordato l'appuntamento con l'informatrice a proposito di Spada Bianca. « Dove stai? »
« Al Nellie, come al solito. »
« Posso telefonarti lì stasera? »
« Sicuro », sorrise lei. « Se nel frattempo non ricevo offerte migliori. »
« Puttanella! Perché non ci sposiamo? »
« Te l'ho già detto, sono troppo in gamba per te, fusto. » Era uno dei loro soliti scherzi. « Ma mi piace scopazzarti di nascosto ogni tanto. Ci vediamo dopo. »
Shasa la guardò salire lo scalone, diretta alla tribuna stampa. La conosceva da anni e anni, ma non sembrava affatto invecchiata.
Aveva ancora un corpo da ragazza, e l'andatura agile e svelta della gioventú. Ricacciò il grumo nero di solitudine che minacciava di in-ghiottirlo ed entrò nella Camera.
I banchi si stavano affollando. Shasa vide che il primo ministro era già seduto al suo posto. Stava parlando con Frank Waring, ministro dello Sport e unico altro anglosassone nella compagine governativa.
Verwoerd sembrava vigoroso e in piena forma. Nessuno avrebbe creduto che dopo quei due colpi di pistola nella testa potesse mai riuscire a riprendere una tale padronanza del suo partito e dell'intero Parlamento. Sembrava immortale, il che, ghignò fra sé Shasa, era appunto una caratteristica del diavolo che l'accusavano di essere.
Shasa si avviò verso il proprio posto e Manfred De La Rey gli andò incontro.
Prese per il braccio Shasa e gli parlò all'orecchio. « I sommozzatori hanno recuperato il traghetto. Il corpo di Gama non c'è e la porta della cabina è stata forzata. Sembra quindi che quel bastardo sia riuscito a scappare senza danni. Ma tutte le vie d'uscita del Paese sono sorvegliate e i miei uomini lo beccheranno. Non può scappare. Credo che il primo ministro annuncerà la sua evasione nel discorso di oggi. »
Shasa e Manfred si avviarono verso i loro posti nel banco del governo, quando un tale urtò Shasa così forte da farlo imprecare e guardarsi attorno. Era il commesso parlamentare che aveva visto poco prima sulla panchina del parco.
« E stia un pò attento, giovanotto », berciò Shasa riprendendo l'equilibrio. Ma quello sembrò non averlo nemmeno sentito.
Con l'espressione vacua e gli occhi fissi e attoniti, il commesso procedeva di buon passo, sfiorando Manfred e puntando verso i banchi dell'opposizione.
« Ma che maleducato », disse Shasa fermandosi a guardarlo.
Improvvisamente il commesso parve cambiare idea, attraversò la Camera e puntò verso il posto del primo ministro, dov'era seduto Verwoerd. Egli lo vide arrivare e lo guardò come chi si aspetti che gli consegnino un messaggio. Shasa osservava perplesso il bizzarro comportamento del commesso, che nessun altro dei presenti sembrava aver notato.
Quando il commesso si fermò davanti al dottor Verwoerd, aprì la giacca scura dell'uniforme e Shasa vide scoccare l'argenteo lampo dell'acciaio.
« Cristo! » esclamò. « Ha un coltello! »
Il commesso alzò la mano e colpì una volta, e stranamente il primo ministro sorrideva, come se non si rendesse conto di quanto stava accadendo. La lama uscì rossa di sangue.
Shasa si gettò in avanti, ma Manfred lo trattenne per il braccio.
« L'eroe della Manciuria », sibilò, e Shasa si irrigidì.
L'assassino incombeva sul primo ministro e lo pugnalò altre due volte. A ogni coltellata la camicia bianca dello statista si arrossava di piú. Il dottor Verwoerd aveva ora alzato le mani in una patetica invocazione di aiuto.
Infine, quelli che gli erano vicini capirono cosa stava succedendo e saltarono addosso al sicario. Erano in tanti, ma l'uomo sembrava lottare con forza demoniaca.
« Dov'è il diavolo? » urlava. « Dov'è che lo ammazzo? »
Lo misero a terra, immobilizzandolo.
Il dottor Verwoerd sedeva ancora al suo posto, guardandosi il torace dove la macchia rossa si allargava sempre piú. Poi la coprì con la giacca, come per celarsi l'orrenda vista del proprio sangue, e con un sospiro scivolò a terra a faccia avanti.
Shasa e Manfred De La Rey erano nell'ufficio di Shasa quando Tricia portò loro la notizia.
« Signori, il capogruppo parlamentare ha appena telefonato. Il dottor Verwoerd è morto prima di arrivare all'ospedale. »
Shasa andò al bar e versò due bicchieri di cognac.
Guardandosi negli occhi bevvero in silenzio, poi Shasa abbassò il bicchiere e disse: « Dobbiamo cominciare subito a stendere la lista di quelli che ti appoggeranno di sicuro. Credo che l'uomo da battere per diventare primo ministro sia Vorster, e i suoi sostenitori saranno già all'opera ».
Quel pomeriggio lavorarono insieme alle loro liste, piazzando asterischi, croci e punti interrogativi accanto ai nomi. A tutti telefo-navano, mercanteggiando cariche, ricattando, ricordando favori e stipulando accordi e compromessi. Intanto arrivavano continuamente visitatori importanti, cioè alleati attuali o potenziali.
Mentre lavoravano insieme, Shasa osservava Manfred, e si me-ravigliava, non per la prima volta, che il destino avesse unito due personalità eterogenee come loro in una coppia affiatata di politici in corsa per il potere. A quanto pareva, non avevano proprio niente in comune, tranne quella caratteristica vitale... L'ambizione e la sete di potere.
Be', adesso il potere era a portata di mano, e Manfred sembrava trasfigurato, posseduto dal demone. L'effetto della sua enorme forza di carattere su coloro che passavano da quell'ufficio era evidente. A uno a uno tutti gli giurarono fedeltà.
Pian piano Shasa si convinse che non era piú una possibilità, e nemmeno una probabilità. Avrebbero vinto loro. Lo sentiva nel cuore e nelle viscere. Le cariche principali del Paese erano nelle loro mani: primo ministro e presidente della Repubblica. Stavano vincendo.
Nell'eccitazione inebriante di questa consapevolezza il pomeriggio passò velocemente, scandito dal sommesso pendolo del nonno che Shasa aveva sistemato in un angolo del suo studio. E Shasa non se ne accorse nemmeno, finché non suonò le cinque. Allora diede un'occhiata all'orologio da polso.
« Sono le cinque », disse avviandosi verso la porta.
« Dove vai? Ho bisogno di te qui », gli gridò dietro Manfred.
« Torna indietro, Shasa. »
« Vengo subito », rispose Shasa, e corse in anticamera.
Qui c'erano persone in attesa, persone importanti. Si alzarono a salutarlo, e Tricia fece in tempo a dire: « Signor Courteney... ».
« Non ora. » Shasa passò oltre di corsa. « Torno subito. »
A piedi sarebbe arrivato prima che in macchina nel traffico delle cinque. Shasa si mise a correre.
Capiva che l'informatrice doveva essere impaurita e preoccupata, e che quindi non si sarebbe trattenuta ad aspettarlo. Doveva arrivare prima dell'ora fissata. Correndo si maledisse per aver dimenticato un appuntamento così importante, pur se era vero che erano successe tante cose.
Corse per i marciapiedi affollati di impiegati felici di aver terminato la loro tediosa giornata di lavoro. Shasa si faceva largo a spintoni e correva a zig zag come un giocatore di rugby che non vuoi farsi intercettare. Alcuni di quelli che urtava gli gridavano di andare al diavolo.
Correndo tra le macchine in coda, arrivò all'entrata della stazione in Adderley Street. Sopra l'ingresso l'orologio segnava le cinque e trentasette. Era già in ritardo e il binario quattro era dalla parte opposta rispetto a quell'entrata.
Si mise a correre ancora piú forte nell'atrio della stazione, raggiungendo il binario quattro. Rallentò e scandagliò tutto il marciapiede, guardando in faccia le pendolari che ci si affollavano in attesa. Tutte gli restituivano lo sguardo con indifferenza. Riguardò l'orologio, le cinque e quaranta, era in ritardo di dieci minuti. Se n'era già andata. L'aveva perduta.
Si fermò a metà del marciapiede guardandosi intorno disperatamente, senza sapere che fare. Gli altoparlanti tuonarono un annuncio. « Treno proveniente da Stellenbosch in arrivo al binario quattro - Treno proveniente da Stellenbosch in arrivo al binario quattro. »
Meno male. Shasa provò un gran sollievo. Il treno era in ritardo. Doveva essere sul treno: questo era il motivo dell'appuntamento lì.
Shasa scrutò ansioso il treno che si avvicinava e poi sferragliando si fermava. Le porte si aprirono e i passeggeri defluirono, cominciando a procedere come un fiume solido verso l'uscita.
Shasa saltò in piedi su una panchina, il modo migliore per vedere ed esser visto.
« Signor Courteney... » una voce femminile. La voce dell'informatrice, la riconosceva benissimo anche dopo tutti quegli anni.
Si alzò in punta di piedi, cercando di individuarla nella folla.
« Signor Courteney? » Eccola là, in mezzo alla gente che le si accalcava intorno: sventolava la mano per attirare la sua attenzione.
La riconobbe all'istante. La sorpresa l'immobilizzò per qualche secondo mentre la fissava sbigottito. La signora Stander, che aveva conosciuto anni prima, il giorno in cui era andato alla casa al mare di Manfred per fargli la proposta relativa alla società di pesca. Ricordava che anche in quell'occasione l'aveva chiamato comandante di squadriglia, e avrebbe dovuto capir subito chi era, ma non c'era arrivato. Era stato veramente stupido e ottuso. Shasa era ancora in piedi sulla panchina, e la fissava, quando all'improvviso qualcos'altro attirò la sua attenzione.
Due uomini si facevano largo a spintoni tra la gente. Erano due tipi grandi e grossi, vestiti male di scuro e coi cappelli a lobbia che allora sembravano costituire il marchio del poliziotto in borghese.
Chiaramente stavano dirigendosi verso la signora Stander.
Che li vide quasi nello stesso momento di Shasa, e impallidì dal terrore.
« Signor Courteney! » gridò. « Presto... Stanno venendo a pren-dermi! » Scostando la gente a spintoni si mise a correre verso Shasa.
« Venga subito! Venga qui, presto! »
Shasa saltò giú dalla panchina e le corse incontro, ma aveva tra i piedi una vecchia signora carica di pacchetti. La buttò quasi per terra, e quando riuscì a superarla vide che i poliziotti in borghese avevano raggiunto Sarah Stander e l'avevano presa per le braccia.
« Per favore! » gridò disperata. « Venga! » Poi con impeto incredibile riuscì a divincolarsi dagli agenti raggiungendo di corsa Shasa.
« Qua! » disse mettendogli in mano una busta. « Qua c'è tutto! »
I due poliziotti si erano ripresi subito dallo stupore e le erano corsi dietro. Uno la prese per le braccia e la tirò indietro, mentre l'altro affrontò Shasa.
« Siamo funzionari di pubblica sicurezza. Abbiamo un mandato d'arresto per quella donna. » Ansimava per la corsa. « Le ha dato qualcosa, ho visto. Deve consegnarmela. »
« Brav'uomo! » disse Shasa, ergendosi e impartendogli il suo cipiglio piú ministeriale. « Ha idea di chi sia la persona con cui sta parlando? »
« Ministro Courteney! » L'uomo l'aveva infine riconosciuto, e la sua confusione risultò comica. « Mi spiace, signore, io non sapevo... »
« Nome, grado e numero di matricola », ordinò Shasa.
« Tenente Van Outshoorn, numero 138643. » Istintivamente l'uomo si era messo sull'attenti.
« Può star sicuro che avrà mie notizie, tenente », l'avvertì gelido Shasa. « E adesso faccia il suo dovere. » Shasa girò sui tacchi e partì lungo il marciapiede, verso l'uscita, tastando la busta che aveva messo nella tasca interna della giacca, e lasciando il funzionario con un palmo di naso.
Non aprì la busta prima di essere di nuovo nel suo ufficio. Tricia era rimasta ad aspettarlo.
« Meno male! Ero preoccupata, se n'è andato via così di corsa », esclamò rivedendolo. Brava, fedele Tricia.
« Va tutto bene », la rassicurò. « Dov'è il ministro De La Rey? »
« E' uscito subito dopo di lei, signore. Ha detto che se ha bisogno di vederlo può trovarlo alla sua residenza a Groote Schuur. »
« Grazie, Tricia. Ora può andare a casa. »
Shasa entrò nel suo studio e chiuse la porta a chiave. Andò alla scrivania e sedette sulla poltrona imbottita di cuoio. Prese la busta dalla tasca interna e la posò sul piano della scrivania. Per un pò si limitò a contemplarla.
Era una busta di carta comune. Il suo nome era scritto con grafia tonda e un pò infantile.
"Meneer Courteney. "
Gli venne una strana paura di aprirla. Aveva il presentimento di qualche terribile rivelazione, tale da sconvolgergli la vita.
Prese il prezioso tagliacarte e ne saggiò la punta col pollice.
L'infilò nella busta. Conteneva un foglio a righe strappato da un blocco per appunti, con una breve scritta nella stessa grafia infantile.
Shasa guardò quel nome per un pò. Non era affatto colpito.
Nel suo intimo piú profondo doveva aver sempre saputo la verità.
Per via degli occhi naturalmente, gli occhi gialli come topazi di Spada Bianca che quel giorno l'avevano fissato, subito dopo la morte del nonno.
Non dubitò nemmeno per un momento, non provò alcun empito d'incredulità. Aveva visto perfino la cicatrice sul petto di Manfred quella volta al mare, la cicatrice del colpo di pistola che aveva sparato lui stesso a Spada Bianca quel giorno. Tutti i dettagli s'inca-stravano perfettamente.
"Manfred De La Rey è Spada Bianca."
Dal primo incontro da ragazzi sul molo a Walvis Bay il destino aveva sempre guidato i loro passi, fino alla conclusione inevitabile.
"Non c'è niente da fare. Siamo nati per distruggerci a vicenda.»
Prese in mano il telefono.
L'altro rispose dopo tre squilli.
« De La Rey. »
« Sono io », disse Shasa.
« Ja. Me l'aspettavo. » Il tono di Manfred era abbattuto e rassegnato, ben diverso da quello energico e vivace che aveva sciorinato poco prima, quando serrava le file dei suoi sostenitori. « La donna ti ha raggiunto. I miei uomini me l'hanno detto. »
« La donna dev'essere liberata », gli disse Shasa.
« Lo è già stata, per ordine mio. »
« Dobbiamo vederci. »
« Ja. E' necessario. »
« Dove e quando? » chiese Shasa.
« Verrò io a Weltevreden », disse Manfred, e Shasa fu colto troppo alla sprovvista per rispondere. « Ma c'è una condizione. »
« E quale? » chiese stancamente Shasa.
« Dev'esserci anche tua madre. »
« Mia madre? » Stavolta Shasa non riuscì a nascondere il proprio stupore.
« Sì, tua madre, Centaine Courteney. »
« Non capisco. Cosa c'entra mia madre con questa faccenda? »
« Vedrai. Nessuno c'entra di piú. »
Quando Kitty Godolphin tornò in albergo quella sera, era di ottimo umore. La cinepresa di Hank era riuscita a riprendere Verwoerd caricato sull'ambulanza in barella, tutto insanguinato, e il panico e la confusione che si erano subito sparsi nella Camera. Avevano anche fatto un sacco di interviste a caldo alle maggiori personalità sudafricane, amici politici e avversari giurati.
Appena entrata nella sua suite prenotò una telefonata a New York per avvertire la rete NABS dell'eccezionale documentazione televisiva che era riuscita a procurare. Poi si versò un gin and tonic e sedette impaziente vicino al telefono.
Afferrò la cornetta a metà dei primo squillo.
« Kitty Godolphin », disse.
« Signorina Godolphin. » Era una strana voce che parlava col melodioso accento africano. « Moses Gama le manda i suoi saluti. »
« Moses Gama sta scontando l'ergastolo in una prigione di massima sicurezza », rispose brusca. « La prego di non farmi perder tempo. »
« Ieri notte Moses Gama è stato liberato dai guerriglieri dell'Umkhonto we Sizwe sul traghetto per Robben Island », disse la voce, e Kitty si sentì accapponare la pelle. Aveva letto la notizia del naufragio. « Moses Gama si trova in un posto sicuro. Desidera parlare al mondo per mezzo suo. Se accetta di incontrarlo, avrà la possibilità di riprendere il suo messaggio per la televisione. »
Per tre secondi buoni non riuscì a rispondere. La voce l'aveva tradita, ma la mente correva. "Questo è il colpo grosso" pensava.
"Questo è lo scoop che capita una volta in una vita di sforzi e di lavoro. " Si schiarì la gola e rispose: « Verrò ».
« Tra dieci minuti arriverà sotto il suo albergo, all'ingresso della sala da ballo, un furgone blu scuro. Il guidatore lampeggerà due volte. Lei entrerà immediatamente dallo sportello posteriore, senza parlare con nessuno. »
Il veicolo era un furgoncino Toyota adibito alla consegna di pacchi in città, e Kitty e Hank con cinepresa e registratore ci entrarono a stento. Kitty fece in modo di strisciare avanti così da poter parlare all'autista.
« Dove si va? »
L'autista la guardò attraverso lo specchietto retrovisivo. Era un giovane negro non bello ma dalla presenza imponente e dall'energico volto africano.
« Andiamo in un sobborgo negro. Ci saranno blocchi stradali dappertutto perché la polizia ricerca Moses Gama, quindi sarà pericoloso e voi dovrete fare esattamente quello che vi dirò io. »
Per quasi un'ora proseguirono in furgone, percorrendo buie strade secondarie, a volte fermandosi ad aspettare in silenzio che qualche ombra sbucasse dalla notte per bisbigliare poche parole al guidatore, poi ripartendo fino all'ultima fermata.
« Da qui in poi si va a piedi », annunciò la loro guida, e li condusse per le viuzze e scorciatoie segrete della "mala" e dei compagni, scivolando dietro le casette dei negri, nascondendosi due volte al passaggio delle Land Rover della polizia, e finalmente entrando dal retro di una delle mille e mille casette tutte uguali.
Moses Gama sedeva al tavolo della cucinetta sul retro. Kitty lo riconobbe immediatamente anche se adesso aveva i capelli bianchi ed era magrissimo. Indossava una camicia bianca dal colletto aperto e pantaloni blu, e quando si alzò a salutarla vide che, sebbene invecchiato e malconcio, non aveva perso l'intensità messianica dello sguardo né la presenza imponente di una volta.
« Le sono grato di essere venuta », le disse gravemente. « Ma abbiamo pochissimo tempo. La polizia fascista ci sta alle calcagna co-me un branco di lupi. Prima me ne vado da qui e meglio è. »
Hank era già al lavoro con le luci e la cinepresa, e annuì a Kitty.
Quanto a lei, aveva già giudicato che la nudità dell'ambiente avrebbe aggiunto drammaticità alle riprese. I capelli bianchi di Moses e la sua magrezza incredibile avrebbero toccato il cuore al pubblico.
Si era preparata mentalmente qualche domanda, ma non fu necessario fargliela. Moses Gama guardò nella cinepresa e parlò con sincerità e profondità sconvolgenti.
« Non ci sono muri di prigione abbastanza grossi per rinchiudere l'anelito di libertà del mio popolo », disse. « Non ci sono tombe abbastanza profonde per seppellire la verità e nascondervela. »
Parlò per dieci minuti e Kitty Godolphin, che pure era vecchia del mestiere e incallita conoscitrice dei mali di questo mondo birbo-ne, alla fine si ritrovò a piangere come una fontana per la commo-zione. « La lotta è la mia vita. La vittoria sarà nostra. Noi vincere-mo, popolo mio! Amandla! Ngawethu! »
Kitty andò ad abbracciarlo. « Lei mi fa sentire molto umile », gli disse.
« Lei è un'amica », rispose lui. « Vada in pace, figliola. »
« Venga », disse Raleigh prendendola per il braccio e portandola via. « E' stata qua fin troppo, adesso dovete andare. Quest'uomo si chiama Robert: vi guiderà lui. »
Robert aspettava sulla porta di dietro.
« Seguitemi », ordinò, e li guidò per il cortiletto polveroso, tra le ombre, fino all'angolo della strada. Qui inaspettatamente si fermò.
« Cosa succede adesso? » chiese Kitty a voce bassa. « Perché aspettiamo qui? »
« Abbia Pazienza. Presto capirà », rispose Robert.
A un tratto Kitty si rese conto che non erano soli. Tanti altri aspettavano come loro nel buio. Adesso li udiva: facevano un gran mormorio, tranquillo e pieno di attesa. Man mano che gli occhi le si abituavano al buio li scorse anche, tantissima gente a capannelli nascosti dietro le siepi o dietro gli angoli delle case.
Decine, anzi centinaia di persone, uomini e donne che a ogni istante aumentavano di numero sbucando dalle tenebre, raccoglien-dosi intorno alla casa dove stava Moses Gama, come se la sua presenza fosse un faro, una fiamma che come falene trovassero irresistibile.
« Che sta succedendo? » chiese sottovoce Kitty.
« Lo vedrà », rispose Robert. « Tenga pronta la cinepresa. »
La gente cominciava a uscire dal buio, avvicinandosi pian piano alla casetta, e una voce gridò forte:
« Baba! I tuoi bambini sono qui. Parlaci, padre! »
E un'altra voce gridò: « Moses Gama, noi siamo pronti. Gui-daci! ».
Poi cominciarono a cantare, dapprima piano, « Nkosi Sikelel'Afrika... Dio salvi l'Africa! » e le voci si unirono e cominciarono ad armonizzarsi, le belle voci africane, espressive e commoventi.
Quindi si sentì un altro rumore, dapprima lontano, ma poi sempre piú vicino, l'ululato delle sirene della polizia.
« Preparate la cinepresa », ripeté Robert.
Appena l'americana e l'operatore furono usciti Moses Gama si alzò.
« Fatto », disse. « Adesso possiamo andare. »
« Non ancora, zio », lo fermò Raleigh Tabaka. « Prima dobbiamo fare un'altra cosa. »
« E' pericoloso aspettare », insisté Moses. « Siamo già rimasti qui fin troppo. La polizia ha spie dappertutto. »
« Sì, zio. Le spie sono dappertutto », disse Raleigh con un'enfasi particolare. « Ma prima che tu possa proseguire verso un posto do-ve la polizia non ti potrà toccare, noi dobbiamo parlare. »
Raleigh fronteggiava lo zio dall'altra parte del tavolo.
« E' stato pianificato tutto molto bene. Questo pomeriggio il mostro bianco Verwoerd è stato assassinato nel Parlamento razzista. »
Moses sussultò. « E perché non me l'hai detto prima? » protestò, ma Raleigh continuò con calma.
« Il piano era che, nella confusione successiva all'assassinio di Verwoerd, tu emergessi dall'ombra per capeggiare l'insurrezione spontanea del nostro popolo. »
« E perché non me l'hai detto? » chiese fieramente Moses.
« Abbi pazienza, zio. Ascoltami sino alla fine. Gli uomini che hanno ideato questo piano vengono da una terra fredda e lontana, nelle brume del nord, e non capiscono l'anima africana. Non capiscono che il nostro popolo non insorgerà finché non sarà pronto a farlo, con un'ira matura nel cuore. Questo tempo non è ancora venuto. Ci vorranno ancora tanti anni di paziente lavoro per far fruttare appieno questa rabbia popolare. Solo allora potremo raccogliere la ricca messe. Ma oggi la polizia dei bianchi è ancora troppo forte. Ci può distruggere col mignolo nel completo disinteresse del mondo intero, che ci guarderà perire come ha guardato perire gli in-sorti d'Ungheria. »
« Non capisco », disse Moses. « Perché hai fatto tanto se non intendi andare fino in fondo? »
« La rivoluzione non ha solo bisogno di capi. Ha anche bisogno di martiri. Bisogna sbandierarli davanti al mondo, per commuover-lo e indignarlo: senza martiri non potremo mai aver successo. Martiri e capi, zio. »
« Io sono appunto il capo che il nostro popolo si è scelto », disse semplicemente Moses Gama.
« No, zio. » Raleigh scosse la testa. « Ti sei dimostrato indegno.
Hai venduto il tuo popolo. In cambio della tua vita hai consegnato la rivoluzione nelle mani del nemico. Hai fatto arrestare Nelson Mandela e gli eroi di Rivonia. Una volta ti credevo un dio, ma ora so che sei un traditore. »
Moses Gama lo guardava in silenzio.
« Sono contento che non lo neghi, zio. La tua colpa è provata oltre ogni possibile dubbio. Con quell'atto hai rinunciato a ogni pretesa di leadership. Solo Nelson Mandela ha la grandezza che ci vuole per quel ruolo. Tuttavia, zio, la rivoluzione ha bisogno anche di martiri. »
Dalla tasca della giacca Raleigh Tabaka tirò fuori qualcosa avvolto in un panno bianco pulito. L'appoggiò sul tavolo. Lentamente aprì il fagotto badando a non toccare il contenuto.
Fissarono entrambi la pistola a tamburo.
« E' una pistola della polizia. E' stata rubata da un'armeria statale qua vicino poche ore fa. Il numero di matricola è ancora registrato nell'elenco delle armi della polizia. E' caricata con munizioni della polizia. »
Raleigh avvolse il panno intorno al calcio. « Ci sono ancora stampate le impronte dei poliziotti », aggiunse.
Con la pistola in mano fece il giro del tavolo e si mise dietro la sedia di Moses Gama, puntandogli la canna contro la nuca.
Fuori sentirono cominciare il canto.
« Dio salvi l'Africa », ripeté Raleigh. « Sei fortunato, zio. Hai la possibilità di redimerti. Stai per andare in un posto dove piú nessuno ti potrà toccare, e il tuo nome vivrà in eterno, puro e senza macchia, come quello di un gran martire africano morto per la libertà del suo popolo. »
Moses Gama, immobile, continuava a tacere, e Raleigh proseguì sottovoce: « Abbiamo detto alla gente che sei qui. Si sono raccolti a centinaia qui fuori. Saranno i testimoni della tua grandezza. Il tuo nome non sarà mai piú dimenticato ».
Poi, piú forte del canto, si sentirono le sirene della polizia che si avvicinavano.
« Anche alla spietata polizia fascista è stato detto che ti trovi qui », disse piano Raleigh.
Il rumore delle sirene aumentò: poi si sentirono rombare i motori, stridere i freni, sbattere le portiere delle Land Rover, gridare ordini, correre, abbattere la porta di casa con un colpo di mazza.
Mentre il generale Lothar De La Rey irrompeva dall'ingresso principale, Raleigh Tabaka mormorò « Va' in pace, zio », e sparò nella nuca a Moses Gama.
La pesante pallottola proiettò in avanti Moses e gli fece sbattere la testa fracassata sul tavolo. Il suo cervello si spiaccicò sulla parete e sul pavimento della cucina assieme a frammenti del cranio.
Raleigh mise sul tavolo la pistola della polizia e scivolò nel buio cortile posteriore. Si confuse nella folla, aspettando insieme a tutti gli altri che portassero fuori il cadavere in barella.
Poi gridò con voce forte e chiara: « La polizia ha ucciso il nostro capo! Hanno ammazzato Moses Gama! ».
Il grido fu ripreso da cento e cento altre voci. Le donne intonarono il canto funebre coi loro strilli laceranti. Raleigh Tabaka girò sui tacchi e si allontanò nel buio.
Un servitore aprì a Manfred De La Rey la porta principale di Weltevreden.
« Il padrone l'aspetta », disse rispettosamente. « Mi segua, prego. »
Accompagnò Manfred nella sala delle armi e si chiuse dietro le spalle la pesante porta doppia di mogano.
Manfred restò accanto all'ingresso. Nel caminetto ardeva un gran ceppo, e lì vicino, in piedi, stava Shasa Courteney.
Indossava smoking e cravatta nera e si era cambiato anche la benda di seta sull'occhio. Era alto e florido d'aspetto, coi capelli inargentati alle tempie, ma la sua espressione era spietata.
Centaine Courteney sedeva alla scrivania sotto la rastrelliera dei fucili. Anche lei era in abito da sera, un tessuto di seta cinese della sua tonalità preferita di giallo. Al collo aveva una collana di fantastici diamanti gialli della miniera H'ani. Spalle e braccia nude ri-splendevano nella luce bassa e soffusa come quelle di una ragazza.
« Spada Bianca », l'accolse sottovoce Shasa.
« Ja », ammise Manfred. « Ma tanto tempo fa, e in un'altra guerra. »
« Uccidesti un uomo innocente. Un nobile vecchio. »
« Il proiettile era destinato a un altro, un traditore, un afrikaner che aveva consegnato il suo popolo al giogo inglese. »
« Fosti un terrorista allora come Gama e Mandela lo sono oggi.
Perché la tua punizione dovrebbe essere diversa? »
« La nostra causa era giusta, e Dio era dalla nostra parte. »
« Quanti innocenti saranno morti per ciò che altri chiamano
«giuste cause"? Quante atrocità saranno state commesse in nome di Dio? »
« Non mi fai sentire affatto in colpa », scosse la testa Manfred.
« Quello che ho tentato di fare allora era giusto e sacrosanto. »
« Vedremo se i nostri tribunali ti daranno ragione », disse Shasa, e guardò Centaine. « Per piacere, telefona a quel numero annotato lì. Chiedi del colonnello Bothma del servizio segreto. L'ho già avvertito di prepararsi a venire qui. »
Centaine non mosse muscolo. Guardava Manfred De La Rey con espressione tragica.
« Per piacere, fallo, mamma », insisté Shasa.
« No », intervenne Manfred. « Non può farlo, e non puoi farlo neanche tu. »
« Cosa te lo fa credere? »
« Diglielo, mamma », disse Manfred.
Shasa avvampò di rabbia, ma Centaine lo zittì con un gesto della mano.
« E' vero », mormorò. « Manfred è mio figlio come te, Shasa.
L'ho partorito nel deserto. Anche se suo padre l'ha portato via con sé appena nato, e io non l'ho piú visto per quasi tredici anni, resta sempre mio figlio. »
Nel silenzio, uno dei ceppi che bruciavano nel camino si dissolse crepitando in una valanga di cenere e brace.
« Sono piú di vent'anni che tuo nonno è morto, Shasa. Vuoi spezzarmi il cuore mandando tuo fratello sulla forca? »
« Il dovere... L'onore... » balbettò Shasa.
« Un tempo fu Manfred a risparmiare te. Poteva distruggere sul nascere la tua carriera politica. Poiché glielo chiesi io, e sapendoti suo fratello, se ne astenne. » Centaine parlava a voce bassa ma senza esitazioni. « Tu vuoi essere da meno? »
« Ma... Non è che il tuo figlio bastardo », sbottò Shasa.
« Anche tu sei bastardo come lui, Shasa. Tuo padre morì il giorno in cui dovevamo sposarci, prima della cerimonia. Manfred l'aveva scoperto e avrebbe potuto usare questo fatto per distruggerti. Ti aveva in suo potere, come tu adesso hai lui. Che cosa farai, Shasa? »
Shasa distolse lo sguardo da lei, e rimase a testa china a fissare il fuoco. Quando infine parlò la sua voce era rotta dal dolore.
« L'amicizia... La stessa fratellanza... Non sono che illusioni. Sei tu che io debbo onorare, mamma », dichiarò.
Nessuno gli rispose, e tornò a rivolgersi a Manfred.
« Informerai la direzione del partito che ritiri la candidatura a primo ministro e lasci la politica », disse tranquillamente, e vide Manfred sussultare disperato per il crollo di tutti i suoi sogni. « E'
l'unica punizione che posso infliggerti, ma forse è piú dolorosa e piú penosa della forca. Tu l'accetti? »
« Stai distruggendo anche le tue ambizioni », gli disse Manfred.
« Senza di me non arriverai mai alla presidenza. »
« Questa sarà la mia punizione », ammise Shasa. « L'accetto. Tu accetti la tua? »
« L'accetto », disse Manfred De La Rey. Si girò verso la porta doppia di mogano, l'aprì con un gesto secco e uscì dalla stanza.
Shasa lo seguì con lo sguardo. Solo quando sentì passare la sua macchina nel vialetto d'accesso tornò a guardare Centaine. Stava piangendo come il giorno in cui le aveva dato la notizia della morte di Blaine Malcomess.
« Figlio mio », mormorò. « Figli miei. » E Shasa andò a consolarla.
Una settimana dopo la morte del dottor Hendrik Verwoerd il congresso del Partito Nazionalista elesse primo ministro del Sudafrica Balthazar Johannes Vorster.
Egli doveva l'elezione al timore reverenziale che aveva saputo ispirare a tutti quanti come ministro della Giustizia. Era un uomo energico, dello stesso stampo del suo predecessore, e fin dal primo discorso affermò fieramente: « Il mio compito è quello di proseguire senza paura lungo la strada tracciata da Hendrik Verwoerd ».
Tre giorni dopo la sua elezione mandò a chiamare Shasa Courteney.
« Volevo ringraziarla di persona per il gravoso impegno da lei fedelmente assolto per tutti questi anni, con capacità pari allo spirito di dedizione, allo Stato e al Paese. Credo tuttavia che per lei sia ora di prendersi un ben meritato riposo. Pertanto, la nominerei ambasciatore sudafricano a Londra. Confido sia in grado di rappresentare al meglio il governo e il Paese in quella importantissima sede. »
Era il classico calcio nel sedere, ma Shasa sapeva che per i politici la regola d'oro è non rifiutare mai niente.
« Grazie, primo ministro », rispose.
Trentamila persone seguirono il funerale di Moses Gama a Drake's Farm.
L'organizzò Raleigh Tabaka, che capeggiò anche la guardia d'onore dell'Umkhonto we Sizwe schierata di fianco alla tomba a fare il saluto dell'ANC quando interrarono la cassa.
Vicky Dinizulu Gama, nel suo lungo caffetano giallo, verde e nero, violò la diffida per tenere un discorso ai partecipanti.
Fiera e piú bella che mai, disse loro: « Dobbiamo inventare una punizione per i collaborazionisti e le spie, una punizione così atroce e grottesca che nessun membro del nostro popolo osi piú diventare un traditore ».
Il dolore della folla era così terribile che quando una giovane donna presente fu additata come spia della polizia, la denudarono e la picchiarono fino a farla svenire. Poi l'irrorarono di benzina, le diedero fuoco e mentre bruciava la presero a calci. Quindi i bambini orinarono sul suo corpo carbonizzato. La polizia disperse la folla con i lacrimogeni e i manganelli.
Kitty Godolphin riprese tutto. Montato insieme all'intervista di Moses Gama, e alle scene del suo brutale assassinio da parte della polizia, ciò costituì il documento piú atroce e commovente mai visto dai telespettatori americani.
Kitty Godolphin diventò capo di tutti i servizi giornalistici della rete NABS, e la piú pagata dei mezzibusti americani.
Prima di insediarsi come ambasciatore a Londra, Shasa andò col figlio maggiore a fare un mese di safari nella valle dello Zambesi. La concessione dell'Agenzia di Safari Courteney copriva mille chilometri quadrati circa di territorio faunisticamente ricchissimo.
Matatu guidò Shasa ad ammazzare un leone, un bufalo e un magnifico vecchio elefante maschio.
Intanto la guerriglia in Rhodesia diventava un affare sempre piú serio. Sean era stato decorato con la Silver Cross al valore, e attorno al fuoco da campo raccontò come l'aveva meritata.
« Matatu e io stavamo seguendo un grosso elefante maschio quando abbiamo incrociato le tracce di dodici guerriglieri dello ZA-NU. Abbiamo lasciato perdere l'elefante e siamo andati dietro ai terroristi. Pioveva molto, le nuvole erano bassissime e non si poteva chiamare l'aviazione ad aiutarci. I terroristi stavano avvicinandosi allo Zambesi, sicché bisognava raggiungerli in fretta. Accelerammo il passo e ci accorgemmo che ci avevano teso un'imboscata solo quando vedemmo i lampi delle raffiche nell'erba a pochi metri da noi.
« Matatu era in testa e si beccò la prima raffica nella pancia. La cosa mi rattristò alquanto e andai dietro a quei banditi col vecchio 577. Mancavano otto chilometri al fiume e correvano come lepri, ma ho fatto fuori gli ultimi due nell'acqua prima che raggiungessero la sponda nello Zambia. Quando mi sono voltato indietro ho visto Matatu alle mie spalle. Quel vecchio rottinculo mi aveva seguito per otto chilometri con le budella in mano. »
Dall'altra parte del fuoco, la faccia del piccolo ndorobo si era il luminata al sentirsi citare, e Sean gli disse in swahili: « Fa' vedere il tuo nuovo ombelico al Bwana Makuba ».
Ubbidiente, Matatu scostò i lembi della camicia sbrindellata e fece vedere a Shasa le orride cicatrici che gli avevano fatto sulla pancia le pallottole del kalashnikov.
« Che grandissimo coglione! » gli disse severo Sean. « Correre per otto chilometri con le budella in mano, invece di crepare subito lì come avrebbe fatto chiunque avesse avuto un pò di cervello al tuo posto. Sei un vero coglione, Matatu. »
Matatu si sdilinquiva dalla gioia. « Grandissimo collione », rideva. Sapeva che era la massima distinzione che poteva sperare dall'unico vero dio del suo universo.
Mentre Shasa riempiva casse e bauli di libri e quadri in previsione del trasferimento a Londra, Garry e Holly vennero a stare a Weltevreden.
« Resterò là almeno tre anni », disse Shasa. « Al mio ritorno ne riparleremo, ma probabilmente mi prenderò un appartamento in città. Per starci da soli questo posto è veramente troppo grosso. »
Holly era incinta e convinse Centaine a restare ad aiutarla « solo finché nasce il bambino ».
« Holly è l'unica donna con cui la mamma riesce a convivere a meno di un chilometro di distanza », osservò Shasa con Garry, mentre le due signore di Weltevreden andavano a progettare insieme la risistemazione della nursery.
La storia d'amore di Isabella con Lothar De La Rey proseguì tempestosamente per tutta la durata dell'istruttoria relativa alla morte di Moses Gama.
La commissione d'inchiesta decreto infine che il generale di brigata Lothar De La Rey era « non colpevole ». La stampa inglese, come quella internazionale, sghignazzò lungamente su questo verdetto. Un'assemblea generale straordinaria dell'ONU condannò il Sudafrica a dure sanzioni, che com'era prevedibile furono vanifica-te dal veto in Consiglio di Sicurezza. Tuttavia tra la sua gente la po-polarità di Lothar andò alle stelle e la stampa afrikaans l'esaltò co-me il suo eroe preferito.
Meno di una settimana dopo il verdetto della commissione d'inchiesta Isabella si svegliò in camera da letto nel suo lussuoso appartamento di Sandton e vide Lothar già tutto vestito, che in piedi accanto al letto la guardava con una tale espressione di rimpianto che si rizzò subito a sedere, sveglissima, facendo cadere alla vita le lenzuola di seta rosa.
« Cosa c'è, Lothie? » proruppe. « Come mai te ne vai così presto? Perché mi guardi così? »
« Ci sarà fra poco un'elezione parziale nel collegio di Doorn-berg. E' uno dei nostri collegi sicuri, e il partito me l'ha offerto. Ho accettato. Mi dimetto dalla polizia ed entro in politica. »
« Ma è meraviglioso! » gridò Isabella, tendendogli le braccia.
« Io me ne intendo un sacco, sai, formeremo una squadra fenomenale, Lothie. Vedrai quanto ti aiuterò! »
Lothar alzò gli occhi dai suoi seni nudi, ma non la strinse, e lei abbassò le braccia.
« Cosa c'è? » Aveva cambiato espressione.
« Torno in seno al mio popolo, Bella », disse lui con calma. « Al mio Dio e al mio Volk. Io so quello che voglio: riuscire un giorno dove mio padre ha fallito. Aspiro al primato che lui era quasi riuscito a raggiungere, ma per questo ho bisogno di una moglie della mia gente. Una brava ragazza afrikaner. L'ho già scelta. Sto per andare da lei. Quindi dobbiamo dirci addio, Bella. Grazie. Non ti dimenticherò mai, ma ora tutto è finito fra noi. »
« Vattene », gli disse lei. « Vattene, e non tornare mai piú. »
Lothar esitava. Isabella si mise a gridare. « Fuori, bastardo!
Fuori di qui! »
Uscì dalla porta e la richiuse senza sbatterla. Isabella prese il bicchiere sul comodino e lo scagliò a infrangersi contro l'uscio. Poi affondò la faccia nel letto e si mise a piangere.
Pianse tutto il giorno, e la sera andò in bagno e riempì la vasca di acqua calda. Lothar aveva lasciato un pacchetto di lamette sulla mensola. Ne scartò lentamente una e l'alzò davanti agli occhi. Aveva un aspetto veramente malefico. Il filo brillava riflettendo la luce.
L'abbassò fino a toccar la pelle del polso. Pungeva come uno scorpione. Allontanò il polso di scatto.
« No, Lothar De La Rey, non ti darò la soddisfazione », disse con rabbia, e buttò la lametta nella tazza del gabinetto. Tornò in camera da letto e prese il telefono.
Quando sentì la voce di suo padre, si mise a tremare al pensiero di ciò che era stata sul punto di fare.
« Voglio tornare a casa, papà », gli disse in un sospiro.
« Mando l'aereo a prenderti » disse subito Shasa. « Macché, macché, vengo io immediatamente. »
Corse ad abbracciarlo sulla pista. A metà strada verso Città del Capo le sfiorò la guancia e disse: « Avrò bisogno di una padrona di casa a Highveld ». Era il nome della residenza dell'ambasciatore a Londra. « Sono capace perfino di aumentarti lo stipendio. »
« Oh, papà », disse lei. « Perché gli uomini non sono tutti come te? »
Jakobus Stander fu impiccato nella prigione centrale di Pretoria. Sarah Stander e suo marito aspettavano fuori quando al cancello fu affissa la notizia dell'avvenuta esecuzione.
La notte del loro ritorno a Stellenbosch, Sarah Stander si alzò lasciando il marito addormentato a letto. In bagno inghiottì una gran quantità di barbiturici.
Quando Roelf Stander si svegliò, la mattina dopo, trovò la moglie morta a letto accanto a sé.
Manfred e Heidi andarono a vivere nella tenuta che avevano nello stato di Orange, dove allevavano merinos di razza pura.
Per tre anni di fila Manfred vinse il primo premio per i suoi montoni alla fiera di Bloemfontein.
Sempre corpulento, ora Manfred ingrassò parecchio, perché mangiava piú per noia che per fame. Solo Heidi sapeva quanto gli costava l'inattività, quanto rimpiangeva i corridoi del potere, e quanto giudicava amara e inutile ormai la sua vita.
Mentre girava da solo per il veld gli venne un infarto. L'indomani i pastori lo trovarono morto dov'era caduto. Centaine andò al suo funerale con l'aereo del gruppo. Era l'unica Courteney presente quando Manfred fu sepolto con tutti gli onori al Camposanto degli Eroi, in mezzo alle tombe di tanti altri eminenti afrikaner tra cui il dottor Hendrik Verwoerd.
Sulla limousine dell'ambasciata Shasa Courteney tornava da Buckingham Palace dove aveva presentato le proprie credenziali a Sua Maestà la regina Elisabetta II. Mentre l'autista guidava con solennità, lui contemplava la pioggerella che bagnava le grigie vie di Londra.
Nonostante il brutto tempo i dimostranti l'aspettavano coi cartelli a Trafalgar Square: MOSES GAMA VIVE e APARTHEID CRIMINE
CONTRO L'UMANITA.
Quando Shasa scese dalla limousine davanti all'ambasciata, i dimostranti cercarono di avvicinarsi, ma una fila di poliziotti glielo impedì.
« Shasa Courteney! » Al suono di una voce familiare Shasa si fermò in mezzo al marciapiede e si guardò intorno.
Da principio non la riconobbe, poi la vide nella prima fila di di mostranti e tornò indietro. In abito da cerimonia e cilindro, alto e snello com'era, riusciva a essere molto elegante. Si fermò davanti a lei e parlò con un agente.
« Grazie, agente, conosco questa signora, può lasciarla passare. » Poi, mentre lei si chinava per passare sotto il braccio dell'agente, la salutò. « Ciao, Tara. »
Gli riusciva difficile credere che fosse tanto cambiata. Era una trasandata grassona di mezza età, solo gli occhi erano ancora belli.
Glieli puntò addosso, ardenti come sempre.
« Moses Gama è vivo. I mostri dell'apartheid possono uccidere i nostri eroi, ma la vittoria sarà nostra. Alla fine erediteremo la terra. » La sua voce era stridula.
« Sì, Tara », le rispose. « Ci sono gli eroi e ci sono anche i mostri, ma siamo quasi tutti comuni mortali, coinvolti in avvenimenti troppo feroci per noi. Forse alla fine di tutte queste lotte non erediteremo che le ceneri di una terra già bella. »
Girò sui tacchi ed entrò nell'ambasciata senza voltarsi piú.
NOTA DELL'AUTORE.
Ancora una volta mi sono preso delle piccole libertà cronologiche con la storia, in particolare riguardo alla data di nascita dei movimenti Umkhonto we Sizwe e Poqo, al primo processo di Nelson Mandela, al discorso dei "Venti di cambiamento" di Harold Macmillan.
Spero che il lettore me le perdoni, comprendendo le esigenze narrative.
WILBUR SMITH.
Questo volume è stato impresso
nel mese di luglio dell'anno 1988
presso la Nuova Stampa di Mondadori
Cles (TN)
Stampato in Italia - Printed in Italy.