WILBUR SMITH.

La grande e avventurosa saga della famiglia

Courteney ci porta alla soglia dei nostri

giorni. Per il Sud Africa non sono giorni belli:

l'intero paese è spezzato dai fuochi dei

conflitto razziale, dalla marea montante

della rabbia nera. I fratellastri Manfred De

La Rey e Shasa Courteney, sempre

continuando a ignorare il loro vincolo di

parentela, separati da un odio atavico ma

uniti dalla stessa divorante ambizione di

potere, si alleano sui banchi di un governo

che vorrebbe i diversi popoli dei Sud Africa

liberi di svilupparsi e prosperare

separatamente. In questa illusione, cozzano

contro la feroce realtà dell'apartheid, che

rischia di far esplodere il paese e di

mandare a gambe all'aria ogni personale

progetto. Scontri di piazza, bombe, attentati,

linciaggi: il sangue scorre copioso da una

parte come dall'altra, mentre le spedizioni di

caccia grossa di un tempo si trasformano in

battute di caccia all'uomo e le vendette

tribali si consumano in sordide baraccopoli.

La morsa dei terrore attanaglia

indistintamente bianchi e negri, e fa sì che

amore, odio e rabbia raggiungano il

parossismo nel romanzo che conclude il

ciclo dei Courteney e segna il momento più

intenso della capacità narrativa di Wilbur

Smith.

WILBUR SMITH.

E' nato nello Zambia nel 1933 e ha compiuto

gli studi in Sud Africa alla Rodhes

University. Cominciò con brevi racconti,

sotto lo pseudonimo di Lawrence perché

Smith gli sembrava poco romantico.

Poi fu la volta dei romanzi.

Entusiasta cacciatore, giocatore di golf,

pescatore e alpinista, Smith ha una rara

capacità di concentrazione che gli permette

di lavorare, spesso, a più libri

contemporaneamente.

E i risultati, eccellenti, si vedono: 13 romanzi

tradotti in tutto il mondo, per un totale di 13

milioni di copie, due film tratti dalle sue

storie e altri in progetto.

Ma qual è la formula dei suo successo?

Smith ammette che i suoi compagni -

vigorosi uomini d'azione - sono un misto di

se stesso e di ciò che vorrebbe essere. Più

precisamente, possiamo dire, di ciò che

ogni uomo vorrebbe essere e ogni donna

vorrebbe amare.

Definito il più grande scrittore d'avventure di

oggi, Smith vive con la terza moglie

Danielle, impiegando il tempo libero a

studiare il comportamento di animali e

uccelli.

Tra i successi di Smith ricordiamo: Come il

mare, Il destino dei Leone, L'orma del

califfo, La voce del tuono, Gli eredi

dell'Eden, Dove finisce l'arcobaleno, La

notte del leopardo, Un'aquila nel cielo, La

spiaggia infuocata, Quando vola il falco, Il

potere della spada, Stirpe di uomini, Ci

rivedremo all'inferno, Gli angeli piangono.

Wilbur Smith.

I fuochi dell'ira.

Titolo originale:

Rage.

Traduzione di: Carlo Brera.

I FUOCHI DELL'IRA.

Dedico questo libro a mia moglie Danielle.

Mano nella mano abbiaino attraversato i continenti di questa terra, ma nessuno era vasto come il mio amore per te.

Insieme abbiamo navigato tutti gli oceani,

ma nessuno era profondo come il mio amare per te.

Tara Courteney non vestiva di bianco dal giorno delle nozze.

Il suo colore preferito era il verde, che meglio si adattava ai folti capelli castani.

Tuttavia l'abito bianco tornava a farla sentire una sposa, oggi, tremula e un pò impaurita, ma con un senso di gioia e dedizione profondo. Colletto alto e polsini erano impreziositi da pizzi, i capelli erano stati spazzolati fino a emettere bagliori rosso rubino nella chiarità solare del Capo. Le guance erano accese dall'eccitazione: benché avesse partorito quattro figli, aveva la vita sottile di una vergine. Ancora piú incongruo risultava dunque il fazzoletto nero che portava sulle spalle: era un'immagine di gioventú e bellezza ferita dal lutto. Nonostante il batticuore e il turbamento interiore, stava a capo chino e mani giunte, ferma e silenziosa.

Era una delle cinquanta donne, tutte vestite di bianco, tutte con lo scialletto nero, tutte nello stesso atteggiamento dolente, che si trovavano ordinatamente disposte sul marciapiede di fronte all'ingresso principale del Parlamento dell'Unione Sudafricana.

Erano quasi tutte giovani signore dell'alta società, come Tara: ricche, privilegiate e annoiate dalla stessa facilità della loro vita.

Molte di loro si erano unite alla protesta per il brivido di sfidare l'autorità costituita e scandalizzare i propri pari. Alcune miravano a riguadagnare le attenzioni del marito, che dopo una decina d'anni di matrimonio le trascurava, piú interessato ormai agli affari, al golf, o ad altre attività extraconiugali. C'era però un nucleo duro di militanti, soprattutto anziane, ma anche giovani come Tara e Molly Broadhurst, che erano mosse soltanto dal loro rifiuto dell'ingiustizia.

Tara aveva cercato di esprimere i suoi sentimenti alla conferenza stampa di quel mattino, quando una giornalista del Cape Argus le aveva domandato: « Perché fa questo, signora Courteney? » otte-nendo la risposta: « Perché non mi piacciono i prepotenti né gli imbroglioni ». La manifestazione era intesa a dargli il fatto loro.

« Ecco che arriva il lupo cattivo », disse sottovoce la donna che stava cinque passi a destra di Tara. « Pronte a far catena, ragazze! » Molly Broadhurst era una delle fondatrici del Black Sash, il movimento delle donne in lutto, ed era una trentenne minuta e decisa che Tara ammirava molto e cercava di imitare.

Una Chevrolet nera con targa del governo, infatti, si era fermata all'angolo di Parliament Square. Scesero quattro uomini. Uno era un fotografo della polizia, che cominciò subito a fotografare le manifestanti con una Hasselblad. Lo seguivano altri due funzionari, con taccuino e penna. Erano vestiti in borghese, meno le scarpe che erano quelle in dotazione alla polizia: il loro comportamento era brusco e professionale. Sfilavano lungo le manifestanti chiedendo a ognuna nome e indirizzo. Tara, che stava rapidamente diventando un'esperta, indovinò che probabilmente erano sergenti della squadra speciale. Ma il quarto uomo lo conosceva già di nome e aspetto, come tutte le compagne.

Era vestito di un abito estivo leggero, grigio a disegnini marrone; marrone era anche la cravatta, mentre il cappello tornava al grigio. Benché fosse di altezza media e lineamenti anonimi, aveva la bocca larga e amichevole, pronta al sorriso. Salutò Molly scappel-landosi.

« Buongiorno, signora Broadhurst. Siete in anticipo: la processione arriverà tra un'ora. »

« Ha intenzione di arrestarci tutte anche oggi, ispettore? » gli chiese senza complimenti Molly.

« Lungi da me! » L'ispettore alzò un sopracciglio. « Sa, questo è un paese libero. »

« Ma guarda un pò! Chi l'avrebbe mai detto », ribatté Molly.

« Ah, cattiveria », disse l'ispettore scuotendo la testa. « Lei sta cercando di provocarmi, signora Broadhurst! » Parlava inglese benissimo, con appena una traccia di accento afrikaans.

« No, ispettore. Stiamo protestando contro le patenti violazioni elettorali di questo governo perverso, l'erosione della legalità e l'abrogazione dei diritti umani fondamentali della maggioranza dei nostri connazionali sudafricani, solo a causa del colore della loro pelle. »

« Signora Broadhurst, ho l'impressione che lei si stia ripetendo.

Queste cose me le ha già dette l'altra volta. » L'ispettore ridacchiò.

« Insomma, volete farvi arrestare di nuovo. Ma non roviniamo questa bella festa... »

« L'apertura del Parlamento, organo dedito all'ingiustizia e al-l'oppressione, è da lamentare e non da celebrare. »

L'ispettore si toccò la tesa del cappello. Dietro il suo comportamento disinvolto e scherzoso non era difficile scorgere un rispetto vero e forse addirittura una certa ammirazione per le manifestanti.

« Be', buona permanenza, signora Broadhurst », mormorò.

« Sono sicuro che ci rivedremo presto », e continuò la rivista, finché non arrivò davanti a Tara.

« Buongiorno a lei, signora Courteney. » Si fermò ancora, e stavolta non provò nemmeno a nascondere la sua ammirazione. « Che ne pensa il suo illustre marito, l'onorevole, del suo comportamento proditorio? »

« E' forse tradimento opporsi agli eccessi del National Party, e alla sua legislazione basata sulla razza e il colore della pelle, ispettore? »

Il suo sguardo si posò sul seno della donna, grosso eppure ben fatto, sotto il pizzo bianco. Poi tornò a guardarla in faccia.

« Lei è troppo graziosa per queste sciocchezze », le disse. « Le lasci alle vecchie carampane. Vada a casa a badare ai suoi figli. »

« La sua arroganza maschile è insopportabile, ispettore. » Fremeva di rabbia, senza accorgersi che anche questo accresceva il suo fascino agli occhi del funzionario.

« Vorrei che tutte le traditrici del nostro Paese le somigliassero.

Renderebbe il mio lavoro piú piacevole. Grazie, signora Courteney. » Fece un sorriso da schiaffi e passo oltre.

« Non lasciarti irritare dall'ispettore, cara », le disse Molly, sottovoce. « E' un esperto in queste cose. Ricordati che è una manifestazione non violenta. Pensa al Mahatma Gandhi. »

Con qualche difficoltà Tara domino la propria ira e riassunse l'atteggiamento da penitente. Sul selciato, dietro di lei, cominciavano a raccogliersi gli spettatori. La fila di donne in abito bianco e fazzoletto nero attirava la curiosità di tutti. Qualcuno le approvava ma i piú erano contrari.

« Maledette comuniste », ringhiò un uomo di mezz'età a Tara.

« Volete dare il Paese in mano a un branco di selvaggi. Bisognerebbe mettervi tutte in galera. » Era ben vestito, e il suo modo di parlare denotava una certa istruzione. All'occhiello aveva addirittura il distintivo di volontario: nell'ultima guerra aveva dunque combattuto contro il nazifascismo. Il suo atteggiamento confermava che la politica del National Party trovava il tacito consenso di molti bianchi di lingua inglese.

Tara si morse le labbra e si costrinse a tacere, e tenne la testa china anche quando qualche astante di colore si mise ad applaudire ironicamente la battuta del volontario. La folla si accalcava.

Cominciava anche a far caldo. Il sole e la luce erano quasi medi-terranei, accecanti: c'era un pò di foschia, ma in cima al gran tavo-liere della Table Mountain si addensavano le nubi che facevano pre-sagire il levarsi del vento di sudest, che però non era ancora arrivato ai piedi del monte, nella città. Ormai la folla era fitta e rumorosa, e Tara si prese una gomitata, forse data di proposito. Mantenne la compostezza e si concentrò sull'edificio dall'altra parte della strada.

Disegnato da Sir Herbert Baker, quel campione degli architetti imperiali, era massiccio e imponente, di mattoni rossi con colonne bianchissime. Quanto mai lontano dai gusti di Tara, moderni e in-clini piuttosto alla razionalità rettilinea del vetro e dei mobili in pi-no scandinavo. La costruzione sembrava incarnare tutto quanto v'era di inflessibile e fuori moda nel passato, tutto quanto Tara voleva vedere abbattuto e scardinato.

I suoi pensieri furono interrotti da un crescente ronzio della folla che la circondava.

« Arrivano », disse Molly ad alta voce. La folla si mise a ondeggiare in punta di piedi, tendendo lo sguardo e acclamando. Sul la-strico risuonavano gli zoccoli dei cavalli. La scorta di poliziotti montati trottava sul viale, coi gagliardetti al vento in cima alla lancia. Erano tutti abili cavalieri, su animali scelti i cui fianchi brillavano come metallo brunito.

Fra loro venivano le carrozze scoperte con rumor di cerchioni.

Sulla prima c'era il governatore generale assieme al primo ministro.

Eccolo li, Daniel Maian, campione degli afrikaner, con la sua faccia da batrace cocciuto. Quell'uomo aveva un solo dichiarato intento, mantenere il suo volk al posto supremo in Africa per mille anni: nessun prezzo era eccessivo, per lui, a questo scopo.

Tara lo fissò con odio quasi palpabile. Incarnava quanto c'era di piú repellente in quel governo che ora reggeva le sorti di quella terra e dei popoli che lei amava tanto. Mentre la carrozza la superava, i loro occhi per un attimo si incontrarono, e lei cercò di comunicargli la forza dei suoi sentimenti, ma l'uomo ricambiò l'occhiata con olimpica indifferenza, senza nemmeno un lampo di irritazione.

L'aveva guardata, ma non l'aveva vista. Ora, oltre alla rabbia, Tara provava anche disperazione.

"Che fare perché questa gente almeno ci ascolti?" si domandò.

Ma già le autorità erano scese dalle carrozze e, sull'attenti, ascoltavano gli inni nazionali. Anche se Tara non poteva saperlo era l'ultima volta che le note di "Dio salvi il re" echeggiavano all'apertura del Parlamento sudafricano.

La banda eseguì poi una fanfara di trombe e i ministri s'accodarono al governatore generale e al primo ministro sulla scalinata. Furono immediatamente seguiti dai principali esponenti dell'opposizione. Era il momento che Tara temeva, perché del corteo facevano parte, qui, anche dei membri della sua famiglia. Il primo, subito dietro al capo dell'opposizione, era il padre di Tara, con la matrigna al braccio. Erano la coppia piú imponente. Suo padre era un uomo alto e solenne, patriarcale e leonino. Al suo fianco, Centaine de Thiry Courteney-Malcomess era snella e graziosa in un abito di seta gialla, perfetto per l'occasione. Indossava un cappellino con ve-letta sulle ventitré: non pareva nemmeno tanto piú anziana di Tara, benché tutti sapessero che si chiamava Centaine perché era nata il primo giorno del ventesimo secolo.

Tara pensò d'esser passata inosservata, perché non aveva detto a nessuno che avrebbe partecipato alla manifestazione di protesta; ma in cima alla scalinata la fila di notabili del governo e dell'opposizione si fermò un momento e, prima di entrare nel palazzo, Centaine si voltò apposta per guardarla. Dall'alto vedeva sopra la testa dei di-gnitari e della scorta: individuò subito Tara, dall'altra parte della strada, e la guardò negli occhi per qualche istante. Benché la sua espressione non mutasse affatto, la forza della sua disapprovazione, anche a quella distanza, fu per Tara come una sberla in faccia. Centaine considerava l'onore, la dignità e il buon nome della famiglia come la cosa forse piú importante: aveva ripetutamente ammonito Tara a non dar spettacolo di sé, e contrariare Centaine era una faccenda seria, perché di Tara non era soltanto matrigna ma anche suocera, oltre che decana della famiglia Courteney e titolare del suo patrimonio.

Ancora a metà scalinata, Shasa Courteney colse la direzione e l'intensità dello sguardo materno, e si vollò di scatto. Anche lui vi-de Tara, sua moglie, nella fila di manifestanti in scialletto nero. La mattina, quando gli aveva detto che non aveva nessuna voglia di partecipare, come moglie di un deputato, alla cerimonia di apertura del Parlamento, Shasa aveva appena alzato lo sguardo dalla pagina finanziaria del giornale.

« Fa' come vuoi, mia cara. Sarà una bella barba » aveva borbot-tato. « Ma ora dammi un'altra tazza di caffè, se non ti dispiace. »

Adesso, riconoscendola, fece un sorrisetto e scosse la testa mimando disperazione, come si fa coi bambini che le combinano grosse. Poi si girò dall'altra parte e continuò a salire la scalinata.

Era un uomo di sconvolgente bellezza. La benda nera da pirata, sull'occhio che aveva perduto in guerra, gli conferiva un fascino a cui ben poche donne sfuggivano. I due erano una delle coppie piú belle dell'alta società di Città dei Capo. In pochi anni, tuttavia, la vampa dell'amore che li aveva uniti era diventata cenere grigia.

« Fa' come vuoi, mia cara », le aveva detto, come capitava ormai spessissimo.

Gli ultimi deputati sparirono inghiottiti dal palazzo, la scorta di cavalieri e le carrozze vuote filarono via trotterellando e la folla cominciò a sciogliersi. La dimostrazione era finita.

« Vieni, Tara? » la chiamò Molly, ma Tara scosse la testa.

« Devo vedere Shasa », disse. « Ci vediamo venerdì pomeriggio. » Tara si tolse il fazzoletto nero, lo ficcò in borsetta e, fenden-do la folla, attraversò la strada.

Non vide alcuna ironia nel tendere ora la sua tessera di riconoscimento per entrare in Parlamento, lo stesso organo che aveva appena vigorosamente contestato. Salì per la scala laterale e guardò nella galleria del pubblico. Era piena di mogli e ospiti importanti. Si affacciò a contemplare l'aula rivestita di legno, dagli scranni rico-perti di pelle verde su cui sedevano, severamente abbigliati, i deputati, tutti compresi dalla cerimonia. Nonostante tutte queste pretese, lei però sapeva che i discorsi sarebbero stati banali, piatti e noiosi fino alla disperazione; e, quella mattina, si era alzata molto presto.

Aveva un gran bisogno di andare alla toilette.

Sorrise all'usciere e si ritirò di soppiatto, imboccando in fretta il corridoio. Uscendo dal gabinetto, si diresse verso l'ufficio del padre, che usava a suo piacimento.

Girando l'angolo quasi si scontrò con un uomo che veniva dalla direzione opposta. Lo evitò all'ultimo momento e lo guardò; era un negro alto, in divisa da inserviente. Stava per superarlo con un cenno del capo e un sorriso, quando fu colta dal pensiero che un inserviente non poteva trovarsi in quell'ala del palazzo mentre la Camera era in riunione, perché in fondo al corridoio c'erano l'ufficio del primo ministro e quello del capo dell'opposizione. Inoltre, benché l'inserviente avesse in mano secchio e spazzolone, in lui c'era qualcosa di strano: insomma, non sembrava il tipo. Lo guardò bene in faccia.

Con un brivido elettrico lo riconobbe. Erano passati tanti anni, ma quella faccia era indimenticabile. Erano lineamenti da faraone egizio, nobile e fiero, gli occhi brillanti e vivi d'intelligenza. Ricordò la sua voce, profonda e toccante, e rabbrividì. Le vennero in mente perfino le sue precise parole: « C'è una generazione dai denti affilati come spade... Per divorare i poveri della Terra! ».

Era stato quell'uomo a farle capire cosa volesse dire nascere negro in Sudafrica. Il suo impegno, in realtà, era nato il giorno in cui l'aveva sentito parlare, un giorno ormai lontano. Con poche parole, quell'uomo aveva cambiato la sua vita.

Si fermò, parandoglisi davanti, e cercò di comunicargli in qualche modo i suoi sentimenti: ma le si era chiusa la gola, e si accorse di tremare per l'emozione. Appena capì di essere stato riconosciuto, lui mutò, come un leopardo che si accorga dei cacciatori e si metta in guardia. Tara intuì di essere in pericolo: da lui emanava adesso un'aura di crudeltà tutta africana; ma la donna non temeva.

« Sono un'amica », disse sottovoce, e si tolse dalla sua strada per farlo passare. « La nostra causa è la stessa. »

Per un attimo egli non si mosse, e la guardò. Lei sapeva che non avrebbe mai dimenticato quello scrutinio che l'infiammava: un attimo dopo, l'uomo annuì.

« Sì, ti conosco », ammise. Ancora una volta, la sua voce la fece rabbrividire, profonda e melodiosa com'era, e piena di ritmo e ca-denze africane. « Ci rivedremo. »

Poi proseguì e senza voltarsi girò l'angolo del corridoio rivestito di legno. Lei rimase a guardarlo col batticuore: il fiato le bruciava in gola.

« Moses Gama », sussurrò. «Messia e guerriero d'Africa... »

Poi tacque e scosse la testa. « Cosa fai qui? Proprio in questo posto ... ? »

Le possibilità l'intrigavano e l'eccitavano, perché ormai sapeva per intimo istinto che la crociata cominciava, infine, e voleva farne parte con tutta l'anima. Voleva fare ben altro che starsene a manifestare impalata in mezzo a una strada, con uno scialle nero sulle spalle. Sapeva che a Moses Gama sarebbe bastato far schioccare le dita, e lei l'avrebbe seguito, come milioni di altri.

« Ci rivedremo », le aveva promesso, e lei gli credeva.

Piena di gioia proseguì per il corridoio. Aveva la chiave dell'ufficio di suo padre e, mentre l'inseriva nella serratura, aveva davanti agli occhi la targa:

COLONNELLO BLAINE MALCOMESS

VICECAPO DELL'OPPOSIZIONE.

Con sorpresa scoprì che la porta era già aperta: la spinse ed entrò.

Centaine Courteney-Malcomess stava guardando fuori della finestra dietro la scrivania. Subito si girò ad affrontarla. « Ti aspettavo, signorina. » L'accento francese di Centaine era un'affettazione, e irritava Tara. Era tornata in Francia soltanto una volta in trentacinque anni, pensò, alzando il mento in atteggiamento di sfida.

« E' inutile che te la prendi, chérie », continuò Centaine. « Se ti comporti come una bambina, devi aspettarti di esser trattata come tale. »

« No, mamma, ti sbagli. Non mi aspetto affatto che tu mi tratti da bambina, né ora né mai. Sono una donna sposata di trentatré anni, madre di quattro bambini e padrona in casa mia. »

Centaine sospirò. « Molto bene », annuì. « La preoccupazione mi ha indotta alle cattive maniere, e me ne scuso. Non rendiamo questa discussione ancora piú difficile per entrambe di quanto già lo è. »

« Non pensavo che noi due si dovesse discutere di qualcosa. »

« Siediti, Tara », ordinò Centaine, e Tara obbedì istintivamente, anche se subito dopo se la prese con se stessa. Centaine si accomodò sulla poltrona del marito dietro la scrivania, e Tara si irritò anche di questo: era il posto di papà, e quella donna non aveva alcun diritto di occuparlo.

« Mi hai appena detto che sei madre di quattro bambini », continuò tranquilla Centaine. « Dunque hai delle responsabilità... »

« I bambini sono ben accuditi», ribatté con foga Tara. « Non puoi accusarmi di trascurarli. »

« Parliamo allora di tuo marito e del tuo matrimonio..

« Cosa c'entra Shasa? » disse Tara, già sulla difensiva.

« Dimmelo tu », l'invitò Centaine.

« Non sono affari tuoi. »

« Direi proprio di sì », la contraddisse Centaine. « A Shasa ho dedicato tutta la mia vita. Ho i miei piani per lui: intendo che diventi uno dei leader di questo Paese. » Tacque e uno sguardo so-gnante le si dipinse brevemente in volto, e parve sciogliersi per un attimo. Tara aveva già notato in lei questa espressione, quando Centaine rifletteva, e stavolta volle irrompere brutalmente nel suo pensiero.

« Questo è impossibile e lo sai benissimo. »

Lo sguardo di Centaine tornò di colpo a fuoco, negli occhi di Tara. « Niente è impossibile... Non per me, non per noialtri. »

« Figuriamoci! » sogghignò Tara. « Sai benissimo che i nazionalisti hanno in mano l'elettorato, l'hanno praticamente ipnotizzato, e il Senato è loro. Sono andati al potere e nessuno glielo toglierà piú.

Il capo di questo Paese non sarà mai piú altri che un nazionalista afrikaner, fino al giorno della rivoluzione... E dopo comanderà un negro », sbottò Tara, ripensando fuggevolmente a Moses Gama.

« Sei ingenua », disse seccamente Centaine. « Non capisci queste cose. I tuoi discorsi di rivoluzione sono puerili e irresponsabili. »

« Pensala come vuoi, mamma, ma in fondo anche tu sai bene che è così. Il caro Shasa non realizzerà mai il tuo sogno. Comincia a stufarsi di essere confinato all'opposizione: sta perdendo interesse nell'impossibile. Non mi stupirei che alle prossime elezioni decidesse di non presentarsi, rinunciando alle ambizioni politiche che sei stata tu a fomentare in lui, e si accontentasse di dedicarsi a fare un altro miliardo di sterline. »

« No », scosse la testa Centaine. « Non cederà. E' un lottatore, come me. »

« Non diventerà mai nemmeno ministro, altro che capo del governo », dichiarò piatta Tara.

« Se credi questo, non sei la moglie giusta per mio figlio », disse Centaine.

« L'hai detto tu, non io », commentò tranquillamente Tara.

« Oh, mia cara, mi dispiace. » Centaine si sporse sulla scrivania, ma non arrivò a toccare la mano di Tara, essendo il piano troppo largo. « Perdonami. Ho perso le staffe. Sono cose importantissime per me, ma non ce l'ho con te: io voglio soltanto aiutarvi. Sono molto preoccupata per te e per Shasa. Vorrei darvi una mano, Tara, me lo permetti? »

« Non mi pare che abbiamo bisogno di aiuto », mentì Tara.

« Shasa e io siamo molto felici. Abbiamo quattro bellissimi bambini... »

Centaine fece un gesto d'impazienza. « Tara, io e te la pensiamo diversamente, ma io ti sono amica, davvero sai? Desidero il meglio per te, Shasa e i bambini. Non vuoi lasciare che ti aiuti? »

« Come, mamma? Dandoci del denaro? Quant'è che ci hai già dato, dieci o venti milioni di sterline? o trenta? Sai, certe volte perdo il conto. »

« Non vuoi condividere la mia esperienza? Ascoltare i miei consigli? »

« Sì, mamma, ascolterò. Non ti prometto di accettarli, ma li ascolterò. »

« Per prima cosa, mia cara Tara, devi abbandonare la tua folle militanza di sinistra. Macchia la reputazione di tutta la famiglia.

Dai spettacolo, e metti in piazza anche noi, girando a far manifestazioni. Inoltre, è pericoloso. Come sai, oggi il comunismo è fuorileg-ge: potresti esser dichiarata tale e messa al bando. Pensaci: perdere-sti tutti i diritti umani, diventeresti una non-persona, priva di qualunque dignità. Infine c'è la carriera politica di Shasa. Ciò che fai tu si riflette su di lui. »

« Mamma, ho promesso di ascoltarti », disse con durezza Tara.

« Ma adesso ritiro la promessa. So quello che faccio. » Si alzò e an-dò alla porta, dove si fermò e guardò indietro. « Non hai mai pensato, Centaine Courteney-Malcomess, che mia madre morì di crepacuore a causa dello sfacciato adulterio di mio padre con te? E poi hai il coraggio di pontificare sulla mia condotta, sconveniente alla reputazione tua e del tuo prezioso figlio! » Uscì e richiuse, senza sbatterla, la pesante porta di legno.

Shasa Courteney, con le mani in tasca, dai banchi dell'opposizione, ascoltava attentamente il ministro degli Interni che parlava della legislazione da presentare al Parlamento nella attuale sessione.

Era costui un coetaneo di Shasa, il piú giovane membro del governo. La cosa era straordinaria. Gli afrikaner venerano l'età, e non si fidano dell'inesperienza e dell'impeto della gioventú. L'età media degli altri membri del governo nazionalista era sessantacinque anni, rifletté Shasa, e però ecco lì Manfred De La Rey, a meno di quarant'anni, esporre il contenuto generale dei Criminal Law Amendment Bill, la legge di riforma del codice penale che aveva presentato e che stava conducendo per i vari gradi dell'approvazione.

« Chiede il diritto di dichiarare lo stato di emergenza, che porrà la polizia al di sopra della legge, negando al cittadino ogni possibilità di ricorrere al giudice », borbottò accanto a lui Blaine Malcomess, e Shasa annuì senza guardare il suocero. Guardava invece l'uomo che gli stava di fronte, dall'altra parte dell'aula del Parlamento.

Manfred De La Rey parlava in afrikaans, come faceva quasi sempre. Il suo inglese era stentato e pieno di inflessioni, e lo parlava malvolentieri, sacrificando di malavoglia al bilinguismo della Camera. D'altro canto, quando parlava la sua lingua era persuasivo ed eloquente: le sue attitudini oratorie e le sue ricercatezze erano o sembravano naturali e innate, e piú di una volta dai banchi dell'opposizione si alzavano sogghigni ammirati a qualche sua frase, mentre la maggioranza lo acclamava.

« Ha una bella faccia tosta », disse Blaine Malcomess scuotendo la testa. « Vuole abolire le garanzie del codice e istituire uno stato di polizia, dominato dal suo partito. Dovremo batterci contro questa legge con le unghie e coi denti. »

« Puoi dirlo », assentì distrattamente Shasa. In realtà invidiava l'altro uomo, e se ne sentiva, al contempo, misteriosamente attratto. Era strano come i loro destini paressero inesorabilmente incrociati.

La prima volta che aveva incontrato Manfred De La Rey era stato vent'anni prima, e quasi senza ragione si erano scagliati l'uno contro l'altro come galli da combattimento e avevano fatto a pugni.

Shasa fece una smorfia ripensando a com'era finita; la lezione gli bruciava ancora. Da allora le loro strade s'erano incrociate piú volte.

Nel 1936 erano entrambi nella nazionale olimpionica sudafricana, ed erano andati a Berlino a gareggiare sotto gli occhi di Hitler.

Era stato proprio Manfred a vincere l'unica medaglia d'oro della squadra, mentre Shasa era tornato a mani vuote. In seguito si erano trovati di fronte anche alle elezioni, disputandosi il seggio con acrimonia e calore, nel 1948. Anche quella volta Manfred l'aveva battuto, sull'onda nazionalista che aveva spedito al potere il National Party. Per assicurarsi un seggio all'opposizione, Shasa aveva dovuto aspettare un'altra occasione, un'elezione parziale in un collegio sicuro dell'United Party. E si era trovato in Parlamento, nuovamente di fronte al suo rivale. Adesso Manfred era ministro, posizione che Shasa gli invidiava con tutto il cuore, e l'indubbio ingegno, il fiuto politico crescente e una solida base di sostenitori nel partito gli aprivano un futuro glorioso. Invidia, ammirazione e antagonismo: questo provava dunque Shasa Courteney mentre ascoltava l'uomo alzatosi a parlare dai banchi del governo. Lo studiò con attenzione.

Manfred De La Rey aveva ancora un fisico da pugile, spalle larghe e collo possente, ma stava ormai ingrassando e anche il mento era diventato un pò carnoso. Non si teneva in forma, i muscoli si stavano afflosciando. Shasa guardò i propri fianchi ancora snelli e il ventre incavato da levriero con autocompiacimento, poi tornò a concentrarsi sul suo avversario politico e personale.

Il naso di Manfred De La Rey era storto e su un sopracciglio aveva una cicatrice biancastra... Cazzotti rimediati sul ring. Tuttavia gli occhi erano di uno strano colore chiaro, come topazi gialli, implacabili come occhi di gatto e pure brillanti di intelligenza acuta e vera. Come tutti i ministri del governo nazionalista, con l'eccezione del primo ministro stesso, era un uomo molto istruito e pieno d'ingegno, devoto alla causa e instancabile, assolutamente convinto del diritto divino del suo partito e del suo popolo, il Volk.

« Credono davvero di essere gli strumenti di Dio in terra. E' questo che li rende così pericolosi. » Sbasa sogghignò abbattuto al termine del discorso di Manfred, salutato da grandi acclamazioni dei suoi. Gli arrivavano continuamente bigliettini di congratulazioni dai banchi della maggioranza. Il primo ministro si scomodò per battergli sulla spalla in segno di approvazione.

Shasa approfittò del momento per scusarsi col suocero. « Non avrai bisogno di me per il resto della giornata, ritengo, ma se dovesse capitare ti farò sapere dove trovarmi. » Poi si alzò in piedi, si inchinò al presidente della Camera e, cercando di non farsi notare, si diresse verso l'uscita. Tuttavia, Shasa era alto uno e novanta, e con la pezza nera sull'occhio e il bell'aspetto che aveva si attirò piú d'u-no sguardo femminile dalla galleria del pubblico, nonché qualche commento polemico dai banchi dei governo.

Manfred De La Rey alzò gli occhi dal bigliettino che stava leggendo mentre Shasa passava, e lo sguardo che si scambiarono fu intenso ma enigmatico. Poi Shasa uscì dalla Camera, si tolse la giacca e se la mise in spalla, quindi salutò il portiere e sbucò fuori al sole.

Shasa non teneva l'ufficio in Parlamento, perché Casa Centaine, il quartier generale della Courteney Mining and Finance Co. Ltd., un edificio di sette piani, era a due minuti di strada, dall'altra parte dei giardini pubblici. Mentre passeggiava sotto le querce, mentalmente cambiava marcia, passando dalla politica agli affari. Shasa cercava di vivere a compartimenti stagni, concentrandosi sull'occupazione del momento e badando a non disperdere le energie su troppi fronti.

Quando entrò dalla porta girevole in vetro di Casa Centaine, po-co dopo esser passato davanti alla cattedrale di San Giorgio, stava già pensando a miniere e finanza, valutando cifre e scelte, pesando fatti e intuizioni, e godendosi il gioco dei soldi come prima si era goduto i riti del confronto politico in Parlamento.

Le due ragazze carine al banco della reception, nell'atrio dal pavimento e dalle colonne di marmo, gli fecero un sorriso radioso.

« Buon pomeriggio, signor Courteney », dissero in coro, mentre filando verso l'ascensore lui le sopraffaceva col dono di un sorriso.

La sua reazione nei loro riguardi era istintiva: amava aver intorno belle femmine, anche se non avrebbe mai corteggiato una dipendente. Era quasi un incesto, oltreché antisportivo come sparare a un uccello fermo, perché non si sarebbero azzardate a dirgli di no. Con tutto ciò le due ragazze della reception, quando le porte dell'ascensore si richiusero dietro Shasa, fecero un profondo sospiro, levando gli occhi al cielo.

Janet, la segretaria, aveva sentito arrivare l'ascensore e l'aspettava fuori della porta. Era piú il tipo di Shasa: matura, posata, brava ed efficiente. Ma, pur se non provava nemmeno a nascondere la sua adorazione per lui, anche qui prevalevano le norme autoimposte di Shasa.

« Cosa abbiamo da fare oggi, Janet? » le domandò e, mentre lo geguiva in ufficio, la segretaria gli lesse il programma del pomeriggio.

Shasa andò subito alla telescrivente, in un angolo, e controllò le quotazioni di Borsa alla chiusura. Le Anglo erano scese di due scellini, era quasi ora di rimettersi a comprare.

« Telefona ad Allen e annulla l'appuntamento. Non sono ancora pronto per lui », disse a Janet, andando alla scrivania. « Dammi un quarto d'ora di tempo e poi telefona a David Abrahams. »

Mentre la segretaria lasciava la stanza, Shasa si mise a sfogliare la pila di messaggi e telegrammi urgenti sulla scrivania. Rapidamente sbrigò tutto, senza lasciarsi distrarre dal magnifico panorama della Table Mountain al di là della finestra del suo studio, che occupava quasi tutta la parete di fronte. Quando il telefono suonò, era pronto per David.

« Olà, Davie, che si fa a Jo'burg? » Era una domanda retorica, sapeva benissimo che cosa si faceva e qual era la sua parte là. Il rapporto quotidiano era sotto i suoi occhi, irto di cifre e previsioni, ma ascoltò con attenzione il riassunto di David.

David era il direttore generale del gruppo. Era con Shasa dal tempo dell'università, amico suo come nessun altro e poco meno intimo di sua madre Centaine.

Benché i diamanti della miniera H'ani, presso Windhoek, su nel nord, fossero ancora il fondamento della prosperità del gruppo, co-me lo erano sempre stati fin da quando Centaine Courteney l'aveva scoperta trentadue anni prima, sotto la direzione di Shasa la società si era espansa e diversificata, finché era stato costretto a spostare il quartier generale da Windhoek a Johannesburg. Johannesburg era la capitale commerciale del Paese - da qui l'inevitabilità del trasloco

-, ma anche una città grigia, senz'anima e senza cuore. Centaine Courteney-Malcomess aveva rifiutato di abbandonare il bel Capo di Buona Speranza per andare a vivere là, sicché la direzione finanziaria e amministrativa della società era rimasta a Città del Capo. Era una soluzione goffa e costosa, un doppione, ma Centaine riusciva sempre a fare come voleva lei. Però, siccome anche a Shasa conve-niva stare vicino al Parlamento, e amava il Capo come sua madre, non aveva cercato di farle cambiare idea.

Shasa e David parlarono per dieci minuti prima che Shasa dices-se: « Be', non si può decidere una cosa del genere per telefono. Verrò su ».

« Quando? »

« Domani pomeriggio. Sean domattina ha una partita di rugby e gli ho promesso di andare a vederlo. Non posso deluderlo. »

David tacque un momento, confrontando l'importanza dell'impresa sportiva di uno scolaro con il possibile investimento di piú di dieci milioni di sterline nello sviluppo delle opzioni della società sui nuovi giacimenti auriferi dello Stato Libero di Orange.

« Dammi un colpo di telefono prima del decollo », disse rassegnato David. « Vengo a prenderti io all'aeroporto. »

Shasa riappese e guardò l'orologio. Voleva tornare a Weltevreden in tempo per passare un'oretta con i bambini prima del bagno e della cena. Poteva finire il lavoro di sera. Cominciò a mettere le carte nella borsa nera di coccodrillo di Hermès, quando Janet bussò alla porta ed entrò in ufficio.

« Mi spiace disturbarla, signore. E' stato appena consegnato a mano questo messaggio.. . Il latore è un commesso parlamentare, e dice che è urgente. »

Shasa prese la busta chiusa, in carta pesante, di ottima qualità.

Era quella che adoperavano i membri dei governo. C'era sopra lo stemma dell'Unione, uno scudo quadripartito sostenuto da antilopi rampanti, con il motto Ex Unitate Vires, Forza attraverso l'Unità.

« Grazie, Janet. » Aprì la busta e ne trasse un unico foglio. Re-cava l'intestazione: Ufficio del ministro degli Interni, e il messaggio era scritto a mano in afrikaans.

Caro signor Courteney,

conoscendo la sua passione per la caccia, un importante personaggio mi ha chiesto di invitarla a una battuta all'antilope saltante nella sua tenuta il prossimo week-end. Sulla tenuta c'è una pista d'atterraggio alle seguenti coordinate: 28° 32' S, 26° 16' E.

Le assicuro fin d'ora una buona partita di caccia e una compagnia interessante. Mi faccia sapere se verrà, per favore.

Cordialmente

MANFRED DE LA REY.

Shasa sogghignò e fece una zufolatina tra i denti andando a vedere, sulla grossa carta geografica appesa alla parete, dove si trovava la tenuta. Piú che di un invito si trattava di una convocazione, e aveva già capito chi poteva essere quell'importante personaggio. Vi-de che la tenuta era nello Stato Libero di Orange, appena a sud delle miniere d'oro di Welkom: tornando da Johannesburg, bastava una lieve deviazione per andarci.

"Chissà cos'hanno in mente" rifletté, con curiosità. Era il genere di misteri che gli piacevano. Si affrettò a vergare una risposta sulla sua carta da lettera personale.

Grazie del gentile invito a caccia questo week-end. La prego di in-formare il nostro ospite che accetto con grande piacere.

Chiudendo la busta mormorò: « Dovreste inchiodarmi mani piedi per non farmi venire! ».

Al volante della sua Jaguar SS verde, Shasa entrò dal gran cancello bianco di Weltevreden. Il frontone era stato disegnato nel 1790

dall'architetto e scultore olandese Anton Anreith, della Compagnia delle Indie Orientali, che poi l'aveva anche eseguito in maniera squisita: davvero un ingresso all'altezza della gran tenuta.

Da quando Centaine gliel'aveva affidata, andando a vivere con Blaine Malcomess dall'altra parte delle montagne di Constantia, Shasa era stato colto dalla stessa amorosa passione per Weltevreden che aveva in precedenza contraddistinto sua mamma. Il nome, tra-dotto, significa "Ben contento" e tale si sentiva ora Shasa, rallentando per non impolverare le vigne ai lati dei viale d'accesso.

La vendemmia era in corso e nei filari si affollavano le braccianti con i loro scialli multicolori. Le foglie erano rosse e dorate. Le donne si giravano sorridendo al passaggio dell'auto, e salutavano il padrone. Anche gli uomini, curvi sotto il peso delle cavagne piene di grappoli, gli sorridevano.

Il giovane Sean era su un carro in mezzo alla vigna, alle redini, e faceva andare avanti piano i cavalli da tiro mentre gli uomini cari-cavano l'uva. I grappoli maturi formavano una bella montagna, rosso rubino dove la patina polverosa degli acini era stata strofinata via.

Quando vide suo padre, Sean passò le redini al contadino che aveva sorvegliato con tatto la sua collaborazione non troppo esperta, e corse giú per i filari per intercettare la Jaguar verde. Aveva soltanto undici anni, ma era alto e grosso per la sua età. Aveva ereditato la pelle chiara di sua mamma e l'aspetto di Shasa, e benché i suoi arti fossero massicci correva come un'antilope, agile e rapido.

Guardandolo, Shasa si sentì scoppiare il cuore d'orgoglio.

Sean aprì la portiera della macchina e saltò su accanto a suo padre, recuperando immediatamente tutta la sua dignità.

« Buonasera, papà », disse, e Shasa gli passò un braccio al collo e gli diede una ruvida carezza.

« Ciao, bello. Com'è andata oggi? »

Proseguirono oltre le vigne e le stalle, e Shasa parcheggiò nel vecchio granaio dove teneva una vera collezione di automobili di lusso. La Jaguar era un regalo di Centaine, e la preferiva anche alla Rolls Royce Phantom I del 1928, con selleria di Hooper, accanto al-la quale la parcheggiò.

Gli altri bambini avevano assistito al suo arrivo dalle finestre della nursery, e gli corsero incontro attraverso il prato. Michael, il maschietto piú giovane, era in testa, mentre Garrick, quello di mezzo, era staccato di dieci metri buoni. I figli avevano una differenza d'età di meno di un anno fra loro. Michael era il sognatore della famiglia, un bambino sensibile capace di perdersi per ore nella lettura dell'Isola del tesoro, o di pasticciare con gli acquerelli, immemore del mondo esterno. Shasa l'abbracciò con lo stesso affetto dimostrato al maggiore, e poi arrivò anche Garrick, anfanando per l'asma, pallido e magrolino, coi capelli a ciocche ritte da porcospino.

« Buon pomeriggio, papà », balbettò. Era proprio bruttino, pensò Shasa. Chissà da dove gli venivano, l'asma e la balbuzie.

« Ciao, Garrick. » Shasa non lo chiamava mai "figliolo", o "bello" o "ragazzo mio" come faceva con gli altri due. Era sempre e soltanto Garrick, e gli diede una carezza distratta sulla testa. Non gli era mai successo di abbracciare quel suo bambino, un piscione che a dieci anni bagnava ancora il letto.

Shasa si voltò con sollievo ad accogliere la figlia.

« Vieni, angelo, vieni dal tuo papà! » E lei gli corse tra le braccia, emettendo gridolini di piacere quando il padre la sollevò in al-to. Gli mise le braccine intorno al collo e gli coprì di umidi baci tutta la faccia.

« Cosa vuoi fare adesso il mio angelo? » chiese Shasa, senza ri-metterla giú.

« Volio cavalcale », dichiarò Isabella, che già indossava le bra-chette nuove da amazzone.

« Anch'io volio », sorrise Shasa. Tara l'accusava di incoraggiare la figlia a persistere nel linguaggio infantile, evitando di correggerla, ma lui rispondeva: « E' piccola! ».

« E' una volpe che ti fa fare tutto quello che vuole, e tu glielo permetti! »

Se la mise in spalla, e lei si aggrappò a una ciocca di capelli.

Sobbalzava, canticchiando: « Come volio bene al mio papà! ».

« Forza, venite tutti », ordinò Shasa. « Andiamo a farci una ca-valcatina prima di cena. »

Sean era troppo grande e grosso per farsi tenere ancora per ma-no, ma si mantenne gelosamente al fianco destro del padre; Michael, dall'altra parte, gli dava la mano senza vergogna, mentre Garrick arrancava a cinque nassi di distanza, guardando suo padre con adorazione.

« Oggi sono stato il piú bravo in aritmetica, papà », gli disse, ma Shasa, che stava ridendo e scherzando con gli altri, non lo udì nemmeno.

Gli stallieri avevano già preparato i cavalli, perché la cavalcata serale era un rito. Nel magazzino delle selle Shasa si tolse le scarpe da città e s'infilò dei vecchi e comodi stivali, poi prese in braccio Isabella e la caricò sul suo pony. Quindi montò in sella al proprio stallone e lo stalliere gli porse le redini del pony di Isabella.

« Compagnia avanti! Passo, marcia, trotto! » Levò la mano al di sopra della testa e quindi l'abbassò, nel gesto canonico del comandante di cavalleria che faceva sempre squittire di gioia Isabella, e uscirono trotterellando dal cortile delle stalle.

Fecero il solito giro della tenuta, fermandosi a parlare con tutti i soprastanti negri che incontravano, scambiando saluti a gran voce con le squadre di braccianti che tornavano a casa dopo la vendemmia. Sean discuteva del raccolto col padre con serietà da adulto, sedendo in sella ritto e fiero, finché Isabella, sentendosi trascurata, intervenne e subito Shasa si chinò sulla cavalcatura a sentire quale importantissima cosa aveva da dirgli.

Come sempre i ragazzi terminarono la cavalcata con un folle galoppo per il campo di polo, poi su per la salita fino alle stalle. Sean, che montava come un centauro, era in testa di parecchie lunghezze.

Michael era di animo troppo gentile per adoperar la frusta, e Garrick era goffo in sella e cavalcava male. Nonostante tutti gli insegnamenti di Shasa, la sua posizione era atroce, con gomiti e piedi sporgenti ad angoli di rara ineleganza.

"Sembra un sacco di patate" pensò Shasa con irritazione, se-guendoli ora al lento passo imposto dal pony di Isabella, di cui ancora teneva le redini. Shasa era un campione internazionale di polo, e per lui la goffaggine di Garrick in sella era un'offesa personale.

Tara, in cucina, stava terminando gli ultimi preparativi della ce-na quando rientrarono. Alzò gli occhi e salutò distrattamente Shasa.

« Com'è andata oggi? » Portava quegli orridi pantalonacci di te-la azzurra che Shasa detestava. Le donne gli piacevano femminili.

« Non male », rispose, cercando di divincolarsi da Isabella che portava ancora appesa al collo. La tese alla "tata".

« Siamo in dodici a cena stasera. » Tara tornò a rivolgere la propria attenzione al cuoco malese, che l'ascoltava con deferenza.

« Dodici? » chiese Shasa, un pò irritato.

« Ho invitato all'ultimo momento i Broadhurst. »

« Oh, mio Dio! » sbuffò Shasa.

« Tanto per cambiare, volevo un pò di conversazione stimolante a tavola. Si parla sempre di caccia, cavalli e affari! »

« L'ultima volta che è venuta a cena la tua cara Molly, con la sua conversazione stimolante ha fatto scappare tutti prima delle no-ve. » Sbasa guardò l'orologio. « Sarà meglio cominciare a vestirsi. »

« Papà, mi imbocchi? » gli gridò Isabella dalla sala da pranzo dei bambini, accanto alla cucina.

« Sei grande, angelo, devi imparare a mangiare da sola. »

« Sono già capace, ma se mi imbocchi tu mi piace di piú. Pel piacele imboccami! »

Shasa sorrise e andò a imboccarla.

« La vizi », gli disse Tara. « Sta diventando insopportabile. »

« Lo so », rispose Shasa. « Me lo dici sempre. »

Shasa si rase in fretta mentre il cameriere negro gli preparava lo smoking in guardaroba e gli infilava ai polsini della camicia i gemelli di platino e zaffiri. Nonostante le veementi proteste di Tara, lui insisteva a cambiarsi per cena.

« E' un'abitudine balorda, antiquata e snob. »

« Pura civiltà », la contraddiceva lui.

Una volta abbigliato, attraversò il gran corridoio coperto di tappeti orientali, con acquerelli di Thomas Baines alle pareti, bussò al-la porta di Tara e, quando si sentì dire « avanti », entrò.

Tara si era trasferita in quelle stanze quand'era incinta di Isabella, e poi ci era rimasta. L'anno prima le aveva ridecorate, abolendo i tendaggi di velluto pesante e i mobili antichi, i tappeti Qum di seta e i magnifici dipinti di De Jong e Naudé, togliendo la tappezzeria in raso e facendo carteggiare il parquet per asportare la vernice ambra-ta che a suo giudizio impreziosiva troppo il legno biondo.

Adesso le pareti erano nude e bianche, con un solo quadro enorme di fronte al letto: era una mostruosità geometrica a colori primari, un pò nello stile di Miró, ma dovuta al pennello di un anonimo studente di belle arti dell'Accademia di Città del Capo e di nessun valore. Per Shasa i dipinti dovevano essere decorazioni piacevoli, e nello stesso tempo pregevoli investimenti a lungo termine. Quel quadro non era né l'uno né l'altro.

I mobili scelti da Tara per il suo boudoir erano di vetro e acciaio inossidabile, spigolosi e pochi: il letto era bassissimo e sembrava fatto direttamente sul pavimento.

« Design svedese », gli aveva spiegato.

« Rimandali in Svezia », le aveva consigliato lui.

Adesso si accomodò su una delle sedie d'acciaio inossidabile e si accese una sigaretta. Sua moglie gli fece un'occhiataccia nello specchio.

« Ah, scusami. » Si alzò e andò a gettare la sigaretta dalla finestra. « Dopo cena devo lavorare fino a tardi », disse tornando da lei, « e ti volevo dire, prima di dimenticarmene, che domani vado a Johannesburg e starò via qualche giorno, magari cinque o sei. »

« Bene. » Tara sporse le labbra e si mise il rossetto, di un color viola chiaro che gli faceva orrore.

« Un'altra cosa, Tara. La banca di Lord Littleton si prepara a sottoscrivere l'emissione di azioni per lo sfruttamento dei nuovi giacimenti dello Stato di Orange. Ti sarei grato se tu e Molly evitaste di sventolargli in faccia i vostri fazzoletti neri e di propinargli le solite storie sull'ingiustizia dei bianchi e la sanguinosa rivoluzione che faranno i negri. »

« Non posso parlare per Molly, ma ti prometto che io farò la brava. »

« Perché non metti i diamanti stasera? » suggerì lui, cambiando discorso. « Ti stanno benissimo. »

Ma lei non li aveva piú messi da quando era entrata nel movimento dei fazzoletti neri. La facevano sentire una specie di Maria Antonietta.

« Stasera no », disse. « Sono un pò eccessivi per una cenetta familiare. » Si incipriò il naso e lo guardò dallo specchio. « Perché non scendi, caro? Il tuo prezioso Lord Littleton arriverà da un momento all'altro. »

« Prima voglio dare la buonanotte a Bella. » Le si avvicinò. Si guardarono dentro lo specchio, seri.

« Che cosa ci è successo, Tara? » le domandò sottovoce.

« Non so che intendi dire, caro », rispose lei, ma abbassò lo sguardo, aggiustandosi con cura il davanti del vestito.

« Ci vediamo da basso », disse lui. « Non tardare, e ti raccomando Littleton. Trattalo bene; gli piacciono le belle donne. »

Uscì e chiuse la porta. Tara guardò l'uscio per un pò, poi ripeté ad alta voce la sua domanda: « Cosa è successo, Shasa? E' semplicis-simo: sono cresciuta, e non sopporto piú le banalità con cui ti riempi la vita ».

Scendendo, diede un'occhiata nelle camere dei ragazzi. Isabella dormiva con l'orsacchiotto sulla faccia. Tara la salvò dall'asfissia e andò dai maschi. Solo Michael era ancora sveglio: stava leggendo.

« Spegni la luce », gli ordinò.

« Dài, mamma, fammi finire il capitolo. »

« Spegni! »

« Almeno la pagina... »

« Ho detto spegni. » Lo baciò affettuosamente.

In cima alle scale trasse un profondo sospiro, come chi stia per tuffarsi dal trampolino alto, fece un bel sorriso e scese nella sala azzurra, dove già i primi invitati stavano sorseggiando sherry.

Lord Littleton era meglio di quanto si aspettasse: alto, benevolo e con capelli d'argento.

« Lei va a caccia? » gli chiese Tara, alla prima occasione.

« Non sopporto la vista del sangue, ahimè! »

« Va a cavallo? »

« Detesto quegli stupidissimi animali », sbuffò lui.

« Credo che diventeremo buoni amici », disse lei.

A Weltevreden c'erano molte stanze che Tara non amava; soprattutto la sala da pranzo, con tutti quei trofei alle pareti, animali massacrati da Shasa tanto tempo prima, che la guardavano dall'alto in basso coi loro occhi di vetro. Quella sera decise di correre un rischio, e piazzò Molly dall'altro fianco di Littleton. Nel giro di pochi minuti la sua amica stava facendo ridere a crepapelle il Lord.

Quando abbandonarono gli uomini ai loro sigari e liquori e si ri-fugiarono nella sala delle donne, Molly, eccitatissima, prese da parte Tara.

« E' tutta la sera che aspetto di parlarti da sola », le sussurrò.

« Non hai idea di chi attualmente si trova da queste parti. »

« Dimmelo dunque. »

« Il segretario dell'African National Congress. Moses Gama, ec-co chi c'è! »

Tara si irrigidì, pallidissima, e si mise a fissarla.

« Verrà a casa nostra per una riunione ristretta, e mi ha chiesto espressamente di invitare anche te. Non sapevo che vi conosceste. »

« Oh, l'ho visto una volta sola... Anzi due », si corresse.

« Verrai? » insisté Molly. « E... be', naturalmente è meglio che tu non lo dica a Shasa. Capirai... »

« Quando? »

« Sabato sera alle otto. »

« Shasa è via, e io ci sarò », disse Tara. « Non vorrei mancare per tutto l'oro del mondo. »

Sean Courteney fece quattro mete per la sua squadra, la rappresentativa delle medie superiori della Provincia Occidentale, e le trasformò tutte, cooperando attivamente a stracciare la rappresentativa di Rondebosch. Suo padre e i due fratelli piú piccoli erano venuti a fare il tifo per lui, poco oltre la linea di meta.

Al fischio finale, Shasa si trattenne il tempo necessario a congratularsi con Sean, evitando con qualche sforzo di cedere alla tentazione di abbracciarlo. Sarebbe stata una grave mortificazione, di fronte ai compagni di squadra. Si limitarono quindi a stringersi la mano. Il ragazzo rideva, tutto sporco di erba e fango e con una sbucciatura sul ginocchio.

« Hai giocato bene, bello mio. Sono fiero di te », disse Shasa.

« Mi dispiace che questo week-end devo partire, ma ci sarà un'altra occasione. » Se ne andò verso l'aeroporto di Youngsfield, tutto eccitato e su di morale. L'aereo era già stato preparato da Dicky, il meccanico, per il decollo, all'inizio della pista.

Shasa scese dalla Jaguar e, mani in tasca e sigaretta in bocca, si mise a guardare molto compiaciuto la snella fusoliera dell'apparecchio.

Era un cacciabombardiere Mosquito DH98. Shasa l'aveva comprato a una svendita della P-kF a Biggin Hill, e l'aveva fatto completamente rigenerare dagli specialisti della De Havilland, che avevano addirittura reincollatto i montanti lignei della struttura con la nuova e fenomenale colla Araldite. Anche i cavi dei comandi erano stati sostituiti. La colla originale Rodux si era dimostrata inaffidabile in condizioni tropicali. Liberato di tutte le armi e gli ammennicoli militari, il già velocissimo apparecchio era diventato quasi un razzo.

Nemmeno la Courteney Mining Co. poteva ancora permettersi uno dei nuovi reattori civili, ma questa era l'alternativa migliore che ci fosse sul mercato.

La bella macchina era appollaiata in fondo alla pista come un falcone che stia per lanciarsi nei cieli. I due motori Rolls Royce Merlin ben presto ce l'avrebbero proiettata con un rombo. L'aereo era dipinto di azzurro e argento; al sole del Capo splendeva, e sulla fusoliera dove un tempo c'erano le insegne della RAF adesso campeggiava il marchio della Courteney Co., un diamante stilizzato, argenteo, con le iniziali della ditta sulle sfaccettature.

« Come va il magnete di destra? » chiese Shasa a Dicky che gli saltabeccava intorno in tuta blu. L'ometto si illuminò.

« Liscio come una macchina per cucire », rispose. Amava quella macchina come e forse piú di Shasa, e ogni difetto, per minimo che fosse, lo feriva profondamente. Quando Shasa ne denunciava uno, ci restava male. Aiutò Shasa a caricare la borsa, la valigia e la cassetta dei fucili nel vano delle bombe trasformato in portabagagli.

« Tutti i serbatoi sono pieni », disse, e si fece da parte con aria di superiorità mentre Shasa insisteva a controllarli personalmente a vista, e poi continuava teatralmente a verificare i vari organi dell'apparecchio.

« Può andare », disse Shasa alla fine, e non riuscì a resistere alla tentazione di accarezzare un'ala come se fosse un arto di una bella donna.

A quattromila metri Shasa aprì l'ossigeno e continuò a salire fi-no a settemila - "dagli angeli" come si diceva in guerra nel gergo dei piloti -, quota alla quale si raddrizzò puntando verso la meta a velocità di crociera e controllando tutti gli indicatori. Poi si accinse a godersi il volo.

La sua gioia di volare era però piú propriamente un'esultanza dello spirito e una febbre del sangue. L'immenso continente color mantello di leone si stendeva sotto di lui, lavato da un milione di so-li e bruciato dai venti del Karrú, roventi e profumati d'erbe, con la vecchia pelle corrugata, segnata e solcata da valli, canyon e antichi letti di fiumi. Solo qui, contemplandolo dall'alto, Shasa si rendeva conto di appartenergli totalmente, di amarlo profondamente. Tuttavia era una terra dura e crudele, che nutriva uomini duri, neri e bianchi; e lui sapeva di essere uno di loro. "Qui non c'è posto per i deboli" pensò, "soltanto i forti possono fiorire."

Forse era l'ossigeno puro che stava respirando, potenziato dall'ebbrezza del volo: fatto sta che, li sopra, gli sembrava di essere piú lucido. Problemi prima confusi ora gli parevano chiari, incertezze si risolvevano, e le ore passavano in fretta, mentre la bella macchina sfrecciava nell'azzurro. Sicché quando atterrò a Johannesburg sapeva con certezza che cosa doveva fare. David Abrahams l'aspettava, magro e nervoso come sempre, ma ormai sulla via di andare in piazza, e costretto a indossare occhiali cerchiati d'oro che gli davano un'espressione sempre un pò perplessa. Shasa saltò sull'ala del Mosquito, quindi a terra, e i due si abbracciarono felici. Erano piú che fratelli. Poi, David accarezzò l'ala dell'aereo.

« Chissà quando potrò volare di nuovo anch'io », sospirò. In guerra era stato pilota; abbattuto dal nemico sul deserto occidentale, si era salvato col paracadute; anche in Italia se l'era cavata per un pelo. Era decorato. Aveva abbattuto nove apparecchi nemici, terminando la guerra col grado di comandante di stormo. Shasa invece era rimasto un semplice comandante di squadrone, il grado che aveva quando era stato ferito all'occhio in Abissinia e rimpatriato.

« Ah, troppo bello per te questo aereo », scherzò Shasa, sbattendo le valigie sulla Cadillac di David.

Mentre David usciva dai cancelli dell'aeroporto, si scambiarono notizie sulla famiglia. David era sposato con Mathilda Janine, sorella minore di Tara Courteney, sicché David e Shasa erano anche cognati. Shasa si vantò di Sean e Isabella, senza nominare gli altri due rampolli, dopo di che passarono allo scopo del loro incontro.

Gli argomenti erano diversi. Il primo in ordine di importanza era decidere se esercitare o no l'opzione sulla concessione mineraria dei Silver River, nello Stato Libero di Orange. Poi c'erano le grane dello stabilimento chimico della società, sulla costa dei Natal. Un gruppo di pressione locale li accusava di avvelenare le acque e la costa scaricando sostanze tossiche nell'oceano. Infine c'era la fissazio-ne di David, che voleva per forza fargli sbatter via una barca di soldi per comprare uno di quei pachidermici calcolatori elettronici.

« Gli americani hanno fatto tutti i calcoli per la bomba atomica con una di queste macchine », ribatté David alle sue obiezioni. « Li chiamano computer, non calcolatori », lo corresse.

« Andiamo, Davie, cosa vuoi che facciamo scoppiare noialtri? »

protestò Shasa. « Non stiamo mica progettando la bomba atomica. »

« Quelli dell'Anglo American ce l'hanno già. E' l'onda del futuro, Shasa, bisogna prenderla. »

« Costa un pò troppo: un quarto di milione di sterline, nientemeno! » obiettò Shasa. « E proprio quando ci servono tutte le risorse per il Silver River. »

« Se avessimo avuto uno di quei computer per analizzare i carotaggi del Silver River, ce lo saremmo già ripagato, e adesso saremmo molto piú sicuri della decisione da prendere. »

« Come può una macchina esser meglio di un cervello umano? »

« Dalle almeno un'occhiata », implorò David. « L'università ha appena fatto installare un IBM 701. Ho fissato una dimostrazione per te questo pomeriggio. »

« D'accordo, Davie », capitolò Shasa. « Vengo a vedere, ma ciò non significa che la compro, bada. »

La macchina era sistemata nei sotterranei della facoltà di ingegneria. La responsabile dell'IBM non aveva piú di ventisei anni.

« Sono tutti ragazzini », gli spiegò David. « E' una scienza giovane. »

La scienziata strinse la mano a Shasa, poi si tolse gli occhiali cerchiati di tartaruga. D'improvviso Shasa si sentì molto piú interessato di prima alla. Cibernetica. Gli occhi della donna erano luminosi e verdissimi, e i suoi capelli erano del colore del miele grezzo di mimosa. Indossava un golfino verde di lana d'angora, molto ade-rente, e una gonna scozzese che le lasciava scoperti i polpacci lisci e abbronzati. Era evidentissimo che si trattava di una grande esperta, e rispose senza mai esitare a tutte le domande di Shasa con un tremendo accento del sud.

« Marylee è specializzata in ingegneria elettrotecnica al Politec-nico del Massachusetts », gli sussurrò David, e l'attrazione iniziale di Shasa si tinse di rispetto.

« Diavolo, è così grosso », protestò. « Riempie tutto il sotterraneo dell'università. E' grosso come una casa di otto stanze. »

« Colpa del raffreddamento », spiegò Marylee. « Produce una gran quantità di calore, che bisogna disperdere. E' l'impianto di raffreddamento a olio che occupa tanto posto. »

« Che cosa state facendo al momento? »

« Un'analisi dei materiali archeologici del professor Dart, dalle caverne di Sterkfontein. Stiamo paragonando i suoi duecentomila dati a quelli relativi all'Africa Orientale, che sono piú di un milione. »

« E quanto ci vorrà? »

« Abbiamo cominciato venti minuti fa, finiremo prima di staccare alle cinque di sera. »

« Come? Ma se manca appena un quarto d'ora... » ridacchiò Shasa. « Non prendetemi in giro. »

« Non ci penso nemmeno », sfotté Marylee. Aveva un sorriso bellissimo, la bocca larga e umida sembrava invocar baci.

« Ha detto che stacca alle cinque? » chiese lui. « E quando riprende il lavoro? »

« Domattina alle otto. »

« E di notte la macchina sta ferma? »

Marylee diede un'occhiata dall'altra parte del sotterraneo. David era lontano, stava guardando gli stampati che uscivano dal computer. Il ronzio della macchina copriva le loro voci.

« Proprio così. Stanotte la macchina non ha niente da fare, co-me me del resto. » Chiaramente la signora sapeva quello che voleva e come procurarselo. Lo guardò dritto in faccia, in atteggiamento di sfida.

« Questo è intollerabile », disse Shasa serissimo, scuotendo la testa. « E' un vero e proprio spreco, e la mia mamma non lo ammette.

Conosco un posticino chiamato Stardust... C'è un'orchestra incredibile. Sono pronto a scommettere una sterlina contro un week-end a Parigi che sono capace di farti ballare ininterrottamente finché non chiedi pietà. »

« Accetto la scommessa », disse subito lei, con altrettanta serietà. « Ma di' un po, non barerai per caso? »

« Ma certo », rispose lui. David però stava tornando da loro, sicché dovette proseguire cambiando discorso, ma nello stesso tono svagato: « E ora mi parli un pò dei costi di gestione ».

« In tutto, compresa assicurazione e ammortamento, un pò me-no di quattromila sterline al mese », gli disse con la solita professio-nalità.

Quando si salutarono, stringendogli la mano, lei gli passò un bigliettino. « Il mio indirizzo », gli sussurrò.

« Alle otto? » fece lui.

« Ci sarò. »

Nella Cadillac, Shasa accese una sigaretta e proiettò un perfetto anello di fumo contro il parabrezza.

« D'accordo, David. Domattina per prima cosa chiama il preside di ingegneria e proponigli di noleggiare il mostro dalle cinque del pomeriggio alle otto del mattino, tutti i giorni, anche nei week-end.

Offrigli quattromila sterline al mese e sottolinea che l'offerta copre i costi di gestione. Lui lo adopera gratis e noi paghiamo. »

David si voltò a guardarlo sbalordito. Quasi uscì di strada, riprendendo il controllo della Cadillac all'ultimo momento.

« Ma perché non è venuto in mente a me? » disse poi.

« Perché tu dormi », sogghignò Shasa; poi, serio, proseguì:

« Una volta che sappiamo per quanto tempo ci serve il computer, possiamo subaffittarlo a società non concorrenti che magari già pensano di procurarsene uno. In questa maniera anche noi potremo utilizzarlo gratis, e quando la IBM sarà riuscita a migliorarlo e a farlo un pò piú piccolo lo compreremo ».

« Figlio d'un cane! » disse ammirato David. Poi gli venne un'idea. « Potremmo assumere la giovane Marylee... »

« No », disse seccamente Shasa. « Trova qualcun altro. »

David lo guardò di nuovo e l'entusiasmo sbollì. Conosceva troppo bene il cognato.

« Debbo arguire che stasera non accetterai l'invito a cena di Matty... » azzardò malizioso.

« Infatti stasera non posso », confermò Shasa. « Scusami tu con lei e salutamela tanto. »

« Basta che stai attento. E' una città piccola e ti conoscono tutti », lo mise in guardia David, lasciandolo davanti al Carlton, dove la società teneva una suite in permanenza. « Credi che domani sarai in condizione di lavorare? »

« Ci vediamo alle otto in punto », disse Shasa.

Di comune accordo decisero di abbandonare ben presto la gara di ballo allo Stardust, e rientrarono prima di mezzanotte, insieme, alla suite del Carlton.

Il corpo della ragazza era giovane, liscio e compatto. Poco prima di cadere addormentata, con la chioma color miele sparsa sul se-no nudo, sussurrò roca: « Penso proprio che questa sia l'unica cosa che non sa fare il mio IBM ».

Shasa arrivò alla sede della Courteney un quarto d'ora prima di David la mattina dopo. Gli piaceva far queste cose, tenevano la gente sulla corda. Gli uffici occupavano tutto il terzo piano dell'edificio della Standard Bank in Commissioner Street. Benché Shasa possedesse un bel lotto edificabile sull'angolo di Diagonal Street proprio di fronte alla Borsa e a un tiro di sasso dalla sede della Anglo American Corporation, non si era ancora deciso a costruirci: tutti i soldi che avanzavano alla società venivano impiegati per acquistare opzioni e concessioni minerarie, o sviluppare le miniere esi-stenti oppure le altre attività che apportavano profitti immediati.

Il sangue giovane, nel consiglio d'amministrazione e nella direzione della Courteney, era giudiziosamente equilibrato da qualche testa grigia. Il dottor Twentyman-Jones era sempre sulla breccia, coi suoi abiti lugubri e attillati, e continuava a nascondere il suo affetto per Shasa dietro i modi da becchino. Era stato lui a eseguire le prime prospezioni per Centaine, aveva progettato e diretto la miniera H'ani fin dagli anni Venti, ed era uno dei maggiori esperti di diamanti del Sudafrica, ossia del mondo intero.

Il padre di David, Abrabam Abrahams, era sempre il direttore dell'ufficio legale, appollaiato al fianco del figlio, brillante e chiac-chierino come un piccolo sparvierp argenteo. Sulla scrivania aveva pile e pile di carte, che ben di rado era costretto a consultare. Assieme agli altri cinque o sei, scelti a uno a uno da Centaine e da Shasa, il gruppo costituiva una squadra efficiente e affiatata.

« Per prima cosa parliamo dello stabilimento chimico di Chaka's Bay », disse Shasa aprendo l'incontro. « Cosa possono rimpro-verarci, Abe? »

« Che versiamo in mare acido solforico concentrato all'uno per mille al ritmo di sedici tonnellate al giorno », rispose in tono oggettivo Abe. « Mi sono fatto fare una perizia da un biologo marino indipendente. » Diede un colpetto con la mano al dossier. « I risultati non sono affatto buoni. Abbiamo alterato l'acidità del mare per cinque miglia lungo la costa. »

« Non avrai mica reso pubblica la perizia? » chiese Shasa seccamente.

« Ma cosa credi? » scosse la testa Abe.

« Va bene, David. Quanto ci costerà cambiare il processo di fab-bricazione dei fertilizzanti per liberarci dell'acido in qualche altro modo? »

« Ci sono due possibilità », disse David. « La piú semplice e me-no costosa è caricare l'acido su autobotti, ma resta il problema di come disfarsene. La soluzione ideale sarebbe riciclare l'acido. »

« Costi? »

« Centomila sterline l'anno per le autobotti: un esborso del tri-plo in un colpo solo per l'altro metodo. »

« Il profitto di un anno gettato via », disse Shasa. « Inaccettabile. Che tipo è 'sta Pearson che capeggia la protesta? Si può ragionare con lei? »

Abe scosse la testa. « Ci abbiamo già provato. E lei che tiene insieme il comitato, se no si affloscerebbe. »

« E chi è costei? »

« La moglie del panettiere. »

« Compriamogli l'esercizio. Se non vuol venderlo, fategli sapere che ne apriremo uno in concorrenza, e faremo prezzi così bassi da farlo fallire. Voglio che questa signora Pearson non ci dìa mai piú fastidio. Qualche domanda? » Scrutò il tavolone. Tutti stavano prendendo appunti, nessuno lo guardava. Aveva voglia di chiedere loro, con la massima ragionevolezza: « Perché, voi tirereste fuori trecentomila sterline tanto per dare una casa pulita alle ostriche e ai paguri della baia di Chaka? ».

« Nessuna domanda », disse invece. « Va bene, adesso passiamo alle cose importanti. Il Silver River. »

Si mossero tutti quanti sulla sedia, e sospirarono nervosi simultaneamente.

« Signori, abbiamo tutti letto e studiato il rapporto geologico del dottor Twentyman-Jones basato sui carotaggi e le prospezioni in lo-co. E' una perizia magnifica, e non c'è bisogno di dirvi che è del migliore specialista che ci sia al mondo. Adesso voglio sentire l'opinione di tutti i capi divisione. Cominciamo da te, Rupert. »

Rupert Horn era il membro piú giovane del consiglio direttivo.

Come tesoriere e capo della contabilità, era un esperto di questioni finanziarie.

« Se lasciamo scadere l'opzione, perdiamo i due virgola tre milioni di sterline che abbiamo investito nelle prospezioni negli ultimi diciotto mesi. Se decidiamo di comprare, dovremo sborsare quattro milioni di sterline alla firma del contratto. »

« Possiamo prenderle dalle riserve d'emergenza », intenenne Shasa.

« Disponiamo di quattro virgola tre milioni in quel fondo », concordò Rupert Horn. « Sono però investiti in azioni Escom (ne abbiamo il sette per cento). Una volta smobilizzati quelli, ci troveremo alquanto esposti. »

Uno dopo l'altro, in ordine di anzianità crescente, i manager di Shasa espressero il parere della loro divisione, e David alla fine riassunse il tutto.

« Dunque sembra che ci restino ventisei giorni prima della scadenza dell'opzione, e quattro milioni da tirar fuori se decidiamo per il sì. Poi resteremo in bolletta, ma dovremo sborsare ugualmente tre milioni solo per il pozzo principale, piú altri cinque per lo stabilimento, gli interessi e i costi di gestione, per arrivare alla fase di produzione fra quattro anni, ossia nel 1956. » Si fermò e tutti lo guardarono tesi e intenti, mentre Shasa si sceglieva una sigaretta e la pic-chiettava leggermente sul coperchio d'oro del portasigarette.

La sua espressione era mortalmente seria. Sapeva meglio di chiunque altro che questa decisione poteva rovinare la società, o farle fare un gran salto qualitativo. Nessuno poteva prenderla per lui. Provava tutta la solitudine e la responsabilità del comando.

« Sappiamo che li sotto c'è l'oro », disse infine. « Una vena grossa e ricca. Se la raggiungiamo, potremo sfruttarla per cinquant'anni. Tuttavia l'oro adesso vale solo trentacinque dollari all'oncia: gli americani hanno inchiodato il prezzi, e minacciano di tenerlo sempre lì. Trentacinque dollari l'oncia, mentre a noi, a quella profondità, verrà a costare sui venti-venticinque l'oncia. E' un margine scarso, signori, ben scarso. »

Si accese la sigaretta e tutti sospirarono e si rilassarono, a un tempo delusi e sollevati. Sarebbe stato bello gettarsi nell'impresa, ma terribile fallire. Adesso, non si sarebbe mai saputo... Ma Shasa non aveva ancora finito. Sbuffò un perfetto anello di fumo sopra il tavolo, e proseguì.

« Ma io non penso che gli americani siano in grado di mantenere all'infinito un prezzo così basso. Il loro odio per l'oro è piú emotivo che basato su seri fondamenti economici. Io sono sicuro, visceral-mente sicuro, che non è lontano il giorno in cui vedremo l'oro a sessanta dollari l'oncia, e presto - piú presto di quanto pensiamo! - arriverà a centocinquanta, forse anche duecento! » Tutti si agitarono increduli sulle sedie. Twentyman-Jones sembrava sul punto di scoppiare in pianto davanti a un tale ottimismo infondato, ma Shasa l'ignorò e si rivolse ad Abe Abrahams.

« Abe, a mezzogiorno del 18 del mese prossimo, dodici ore prima della scadenza dell'opzione, consegnerai un assegno di quattro milioni di sterline ai proprietari delle tenute agricole del Silver River, e prenderai possesso dei terreni a nome di una società da costituire. » Shasa si rivolse a David. « Contemporaneamente, metteremo sul mercato di Londra e di Jobannesburg azioni da una sterlina per dieci milioni, da sottoscrivere in relazione alla costituenda società aurifera dei Silver River. Tu e il dottor Twentyman-Jones comin-cerete oggi a stilare i prospetti della società. La Courteney Mining acquisirà, mediante un concambio di azioni, cinque milioni di titoli della nuova società. Ci occuperemo noi anche di personale e sviluppo. » Rapidamente, succintamente, Shasa delineò la struttura, il finanziamento e la direzione della nuova società, e piú d'una volta i suoi esperti dovettero guardarlo sbalorditi, ammirando questo o quell'accorgimento utile e inaudito.

« Ho dimenticato qualcosa? » chiese infine Shasa, e quando tutti scossero la testa sogghignò. A David tornò in mente il film che aveva visto quel sabato con Matty e i bambini, Lo sparviero del mare, interpretato da Errol Flynn nella parte di un pirata molto meno convincente del guercio che presiedeva il suo Consiglio d'amministrazione.

« La fondatrice della società, la signora Centaine de Thiry Courteney-Malcomess, non ha mai approvato il consumo di alcolici in sala del Consiglio d'amministrazione. Tuttavia... » Sempre sogghignando, Shasa fece un cenno a David, che andò ad aprire la porta introducendo la segretaria già in attesa col carrello pieno di coppe e bottiglie di Dom Perignon nel secchiello del ghiaccio. Tintinnando arrivò il carrello, Shasa aprì una bottiglia consentendole un botto discreto, e, dichiarando che le vecchie usanze cedevano il passo alle nuove, versò il vino nelle coppe.

Shasa tolse gas ai motori Rolls Royee e il Mosquito discese fra i fiocchi di cirri sparsi, mentre la sconfinata pianura dorata degli altipiani gli saliva incontro. A ovest, Shasa distingueva appena la città mineraria di Welcom, al centro dei giacimenti auriferi dello Stato di Orange: fondata pochi anni prima dalla potente Anglo American Corporation, era già abitata da piú di centomila persone ed era considerata una città-modello.

Shasa si levò la maschera a ossigeno e la lasciò pendere sul petto. Sporgendosi in avanti, trattenuto dalla cintura di sicurezza, guardò oltre il muso azzurro del Mosquito.

Distinse il pozzo di perforazione, quasi un ago nel pagliaio della pianura immensa, e orientandosi con quello individuò tutta la rete di steccati delle fattorie del Silver River. Quattromilacinquecento ettari, quasi tutti nudi e spogli. Era stupefacente che i geologi delle grandi compagnie minerarie avessero trascurato quella piccola en-clave: del resto, nessuno poteva ragionevolmente prevedere che la vena aurifera presentasse uno sperone proprio lì. Nessuno, salvo Twentyman-Jones e Shasa Courteney.

Tuttavia la vena si trovava sottoterra a una profondità pari al-l'altezza a cui ora il Mosquito sorvolava il suolo. Sembrava impossibile che l'uomo potesse scavar tanto, ma già Shasa vedeva con gli occhi della mente i pozzi, le torri dei montacarichi alte quaranta metri, e le gallerie che affondavano per piú di due chilometri sboc-cando nell'oro del fiume sotterraneo.

"Gli Yankee non possono resistere all'infinito" pensò. "Prima o poi dovranno liberalizzare il prezzo dell'oro."

Virò. Appeso a un'ala sola del Mosquito, Shasa vide ruotare dolcemente la girobussola. Quando lo rimise in linea, l'apparecchio aveva il naso puntato esattamente sulla rotta per 125°.

« Con questi venti ci vorrà un quarto d'ora », borbottò, consultando la carta sul ginocchio. L'esultanza gli rimase addosso finché vide il fil di fumo della segnalazione che avevano pensato bene di fargli salire nell'aria ferma proprio davanti a lui.

Davanti all'hangar di lamiera ondulata, in fondo alla pista, c'e-ra un Dakota. Il grosso apparecchio aveva le insegne dell'aviazione militare. La pista era di argilla gialla, dura e liscia: il Mosquito ci si posò senza quasi sobbalzare. C'era però voluta un sacco di pratica per riacquistare il senso della distanza dopo la perdita dell'occhio.

Shasa aprì l'abitacolo è rullò verso l'hangar. Vicino alla manica a vento c'era un camioncino Ford verde, e accanto al bidone da cui saliva il fumo che l'aveva guidato all'atterraggio c'era una persona in calzoncini e camiciola. Quando Shasa saltò giú dall'aereo, l'uo-mo si fece avanti e gli porse la destra, ma la sua espressione, solenne e riservata, in parte non si addiceva al gesto di benvenuto.

« Buon pomeriggio, ministro », disse Shasa senza sorridere. Si strinsero la mano con energia, brevemente. Poi, mentre Shasa guardava negli occhi chiari Manfred De La Rey, ebbe una sensazione di déjà vu. Gli sembrava di aver fissato quegli stessi occhi gialli in un'altra circostanza, grave e anzi disperata. Dovette scuoter la testa un attimo per liberarsene.

« Sono contento per entrambi che sia potuto venire. Posso aiutarla a portar le valigie? »

« Non si preoccupi, ce la faccio. » Shasa andò a incatenare l'apparecchio a terra e a prendere i bagagli nel vano delle bombe, mentre Manfred gettava sabbia nel bidone per spegnere il fumogeno.

« Vedo che si è portato il fucile », notò Manfred. « Che arma è? »

« Remington Magnum da sette millimetri. » Shasa caricò i bagagli sul pianale del camioncino e salì davanti.

« Perfetto per questa caccia », approvò Manfred mettendo in moto. « Colpi lunghi su terreno piano. » imboccò un sentiero ster-rato e guidò per qualche minuto senza parlare.

« Il primo ministro non è potuto venire », disse. « Voleva esserci, ma ha dovuto limitarsi a una lettera. Essa comunque le conferma che parlo a suo nome.»

« D'accordo », annuì Shasa mantenendo il viso inespressivo.

« C'è il ministro delle Finanze, e quello dell'Agricoltura che è il padrone di casa. La tenuta è sua, una delle piú grosse dello Stato Libero. »

« Sono compreso e lusingato. »

Manfred annuì. « E con ragione. » Piantò gli occhi in faccia a Shasa. « Non le sembra strano che noi due siamo sempre destinati a confrontarci? »

« Mi è venuto in mente, infatti », ammise Shasa.

« Crede che ci sia qualche ragione particolare per questo, che noi magari ignoriamo? » insisté Manfred, e Shasa alzò le spalle.

« Non direi. Sarà una semplice coincidenza. » La risposta parve deludere Manfred.

« Sua madre non le ha mai parlato di me? »

Shasa parve sbalordito. « Mia madre! Buon Dio, non credo proprio... Può averla nominata per caso... Ma perché me lo chiede? »

Manfred fece finta di non aver udito. Continuò a guardare davanti. « Ecco la residenza », disse poi, in un tono che chiudeva l'argomento.

La pista seguiva la cresta di una valle, e la casa era apparsa sotto di loro. Lì l'acqua doveva essere a poca profondità, perché l'erba era verde e lussureggiante. Per la valle erano sparse una dozzina di enormi girandole su tralicci d'acciaio. Intorno alla casa c'era un boschetto di eucalipti, oltre i quali si intravedeva un edificio molto grande e in perfetto stato. Davanti a una lunga rimessa erano allineati una ventina o piú di trattori nuovi di zecca, e sui prati pascolavano pecore grasse. La pianura oltre la casa, che si stendeva fin quasi all'orizzonte, era già stata arata, migliaia di ettari di zolla bruna pronta per essere seminata a mais. Era il vero e proprio cuore della terra degli afrikaner, dove l'appoggio al Partito Nazionalista era solido e incrollabile, e questa era la ragione per cui sotto i nazionalisti i collegi elettorali erano stati rettificati in modo da spostare i centri di potere dalle concentrazioni urbane per favorire le zone rurali. Ecco perché ormai i nazionalisti sarebbero rimasti al potere per sempre. Shasa fece una smorfia amara. Subito Manfred lo guardò, ma Shasa non gli dette alcuna spiegazione. Parcheggiarono in corte.

Al tavolone di legno biondo della cucina erano seduti una dozzina di uomini che fumavano, bevevano caffè e chiacchieravano, mentre le donne li servivano sollecite. Gli uomini si alzarono ad accogliere Shasa, che strinse la mano a tutti scambiando saluti, se non affettuosi, educati.

Li conosceva già tutti. Li aveva affrontati in Parlamento, sfer-zandoli con le sue battute e le sue critiche, ed essendone cordialmente ricambiato con la stessa moneta. Adesso però gli fecero posto a tavola e la padrona di casa gli versò una tazza di caffè nero forte, accompagnata da un piatto di biscotti e fette di torta. Tutti lo trattavano con quell'innata cortesia e ospitalità che contraddistingue gli afrikaner. Benché indossassero rozzi abiti da caccia e facessero finta di essere semplici e franchi agricoltori, in realtà costituivano un gruppo di astutissimi politici, fra i piú ricchi e potenti personaggi del Paese.

Shasa parlava benissimo la loro lingua, capiva le piú velate allusioni e rideva delle battute che si scambiavano tra loro, ma non era uno di loro. Era l'inglese, il rooinek, il collo rosso, il loro tradizionale nemico, di fronte al quale serravano le file.

Quando ebbe bevuto il caffè, l'ospite, il ministro dell'Agricoltura, gli disse: « Le faccio vedere la sua camera. Vorrà cambiarsi, preparare il fucile. Andremo a caccia non appena farà piú fresco ».

Poco dopo le quattro uscirono su una fila di camioncini, i piú anziani e importanti in cabina, gli altri sul pianale di carico, allo scoperto. Il corteo salì fuori della valle, costeggiò i campi arati e accelerò in pianura, diretto verso una linea di basse colline all'orizzonte.

Si cominciava a vedere della selvaggina, piccoli branchi di antilopi saltanti lontano lontano, come granelli di zafferano sparsi per la pianura biancastra: ma i camion avanzavano, rallentando solo quando arrivarono ai piedi delle colline rocciose. Il primo della fila si fermò un attimo e due cacciatori balzarono giú è saltarono dentro una piccola trincea.

« Buona fortuna! Mirate giusto! » gli gridarono gli altri passando oltre, diretti alle prossime postazioni. Dopo un centinaio di metri altri due cacciatori scesero a terra e scomparvero al riparo.

Nel giro di mezz'ora tutti i cacciatori erano alla posta lungo un fronte irregolare ai piedi delle colline. Manfred De La Rey e Shasa erano insieme in una buca circondata da un parapetto di sassi grigiastri. Si misero a guardare la pianura dove le gazzelle pascolavano a gruppetti, col fucile in grembo.

I camion, guidati dai figli adolescenti dell'anfitrione, scomparvero con un largo giro per non disturbare le bestie, oltre le colline, lasciandosi dietro grosse scie di polvere, e riapparvero alle spalle dei branco, dopo qualche tempo, spingendolo verso i fucili dei cacciatori alla posta.

Shasa e Manfred dovettero aspettare quasi un'ora che le gazzelle arrivassero a portata di tiro, e nel frattempo chiacchierarono, diva-gando, senza affrontare che di striscio argomenti politici, ma parlando soprattutto dell'ospite, il ministro dell'Agricoltura, e degli altri invitati. Poi con grande abilità Manfred cambiò leggermente discorso, osservando quanto poca fosse in realtà la differenza tra la politica e le aspirazioni del National Party al governo e l'opposizio-tic dell'United Party, di cui faceva parte Shasa.

« A pensarci bene le differenze sono soltanto di stile e di grado.

Entrambi vogliamo mantenere il Sudafrica sicuro per l'uomo bianco e per la civiltà europea. Sappiamo entrambi che per tutti noi l'apartheid è questione di vita o di morte. Senza, saremmo tutti inghiottiti dal mare negro. Dalla morte di Smuts, il suo partito si è spostato verso le nostre posizioni, e i sinistrorsi e i liberali hanno cominciato ad abbandonarvi. »

Shasa non disse niente, ma sapeva che era vero e che era un guaio. Nel suo partito apparivano profonde crepe, e ogni giorno diventava piú chiaro che non sarebbero mai tornati al governo. Tuttavia, voleva vedere dove sarebbe andato a parare Manfred De La Rey. Aveva imparato a non sottovalutare mai questo avversario, e capiva che adesso lo stava abilmente preparando al vero scopo per cui l'avevano invitato. Era evidente che l'ospite li aveva sistemati insieme apposta, e che tutti gli altri invitati, membri del partito e del governo, sapevano cosa bolliva in pentola. Shasa dunque parlò po-co, non concesse niente, e aspettò con qualche impazienza che si ri-velasse il vero volto della bestia, per così dire.

« Lei sa che abbiamo garantito la cultura e la lingua dei sudafricani di lingua inglese. Non vi sarà mai alcun tentativo di erodere tali garanzie. Noi consideriamo fratelli quegli anglofoni che si sentono sudafricani. I nostri destini sono legati con catene d'acciaio... »

Manfred si interruppe, portando agli occhi il binocolo. « Stanno avvicinandosi », mormorò. « Meglio prepararsi, ormai. » Abbassò il binocolo e sorrise a Shasa. « Ho sentito dire che lei spara benissimo. Ora ne avremo dimostrazione. »

Shasa restò deluso. Voleva sapere dove portava quella commedia attentamente preparata, ma nascose l'insoddisfazione dietro il suo solito sorriso gaio e sfoderò il fucile.

« Lei ha ragione su una cosa, ministro », disse. « Siamo legati insieme da catene d'acciaio. Speriamo che il peso non ci faccia affondare tutti. » Vide uno strano lampo in quegli occhi di topazio giallo, ira o trionfo, non capì, perché durò solo un attimo.

« Io sparerò a destra, lei a sinistra, d'accordo? » disse Manfred.

« D'accordo », annuì Shasa, già un pò irritato dal fatto che l'altro senza fatica avesse segnato un punto a suo favore: infatti per chi non sia mancino il settore di tiro piú favorevole è il destro.

"Ti servirà, questo vantaggio" pensò Shasa, acido, e ad alta vo-ce disse: « Anch'io ho sentito dire che lei è un buon tiratore. Perché non facciamo una scommessina su chi ne ammazza di piú? ».

« Io non scommetto », rispose disinvolto Manfred. « Il gioco d'azzardo è uno strumento del diavolo. Ma conterò le prede con interesse. » Ciò ricordò a Shasa quanto fosse puritano il calvinismo estremo praticato da Manfred.

Con cura Shasa caricò il fucile. Si faceva le cartucce da sé, non avendo fiducia in quelle prodotte industrialmente. I bossoli d'ottone erano pieni di polvere Norma che avrebbe sparato la pallottola Nosier Partition a poco meno di mille metri al secondo. La pallottola era progettata in maniera da aprirsi quando colpiva il bersaglio.

Dopo aver azionato l'otturatore, alzò il fucile e si mise a perlustrare la pianura col mirino telescopico. I camioncini erano a meno di due chilometri, e andavano di qua e di là per impedire alle bestie di allontanarsi dalle poste, spingendole verso le colline dove i cacciatori le aspettavano. Shasa sbatté rapidamente le palpebre per schiarirsi la vista e cominciò a distinguere gli animali singoli in mezzo al branco che trotterellava scappando davanti ai veicoli.

Erano leggere come fili di fumo, le antilopi, e si sfilacciavano come ombre di nuvole sulla piana. Trottando agilmente a testa alta, con corna che sembravano lire in miniatura, erano bellissime e ag-graziate.

Privo della visione stereoscopica, Shasa aveva qualche difficoltà a stimare le distanze, ma ormai aveva imparato a valutare le gran-dezze relative. A ciò aggiungeva una sorta di sesto senso che gli permetteva di pilotare un aereo, colpire una palla giocando a polo, o anche sparare, come una persona che ci vedesse perfettamente.

Già le prime antilopi erano quasi a tiro. Da un'altra posta qualcuno sparò, e immediatamente il branco intero parve prendere silenziosamente il volo. Ogni creaturina danzava e saltava sulle zampe lunghe, ma non piú grosse del pollice di un uomo. Parevano ormai libere dalla gravità. A balzelloni, nell'aria distorta dalle onde di calore, si confondevano contro lo sfondo tremolante che sembrava mescolare terra e cielo, offrendo lo spettacolo acrobatico a cui dovevano il nome di springbok, antilopi saltanti. In fondo alla groppa si alzava e vibrava preoccupata la coda crinita.

Era piú difficile che abbattere un uccello al volo. Impossibile inquadrare quelle forme eteree e sobbalzanti nel mirino telescopico, inutile mirare al corpo: bisognava piuttosto sparare allo spazio vuoto immediatamente superiore, dove sarebbero capitate una frazione di secondo dopo, insieme alla pallottola.

Per qualcuno sparar bene è una capacità acquisita mediante la pratica e la concentrazione. Per Shasa era una cosa naturale, un talento con cui era venuto al mondo. Mentre girava il torso, la lunga canna del fucile puntava già dritto dove lui stava guardando, e la croce del mirino telescopico inquadrava il centro esatto del suo campo visivo, dove dopo un attimo irrompeva saltabeccando un'antilope. Shasa non si accorgeva nemmeno di premere il grilletto, il fucile sembrava sparare da solo, e il rinculo sbatteva a ritmo perfetto il calcio contro la spalla.

Il maschio morì a mezz'aria; capovoltato dal proiettile, mostrò il ventre candido al sole, ebbe un sussulto quando la pallottola lo raggiunse al cuore e cadde a corna basse e zampe mulinanti al cielo.

Shasa inserì un'altra pallottola in canna, individuò un'altra creatura fuggente e il fucile sparò ancora: gli arrivò alle narici l'acre odore della polvere nera bruciata. Continuò a sparare finché la canna non scottò abbastanza da fargli venire le vesciche, e le orecchie non cominciarono a fargli male.

Infine gli ultimi animali del branco si misero in salvo sulle alture, superando le poste, e la sparatoria cessò. Shasa scaricò il fucile delle pallottole rimaste nel serbatoio e guardò Manfred De La Rey.

« Otto », dichiarò Manfred, « e due ferite. » Era sbalordito per come quelle creaturine fossero in grado di incassare una pallottola mal indirizzata senza restare stecchite sul colpo. Avrebbero dovuto inseguirle: era impensabile lasciar soffrire inutilmente un animale ferito.

« Otto è un bel numero », gli disse Shasa. « Può esser soddisfatto del carniere. »

« E lei? » chiese Manfred. « Quante ne ha prese? »

« Dodici », rispose in tono indifferente Shasa.

« E quante ne ha ferite? » Manfred riuscì abbastanza bene a nascondere il disappunto.

« Oh! » Shasa finalmente si concesse un sorriso. « Non ferisco gli animali, io. Dove miro, prendo. » Così poteva bastare. Non serviva spargere altro sale nella ferita.

Shasa lo lasciò lì e andò presso la carcassa piú vicina. Lo springbok giaceva sul fianco e nella morte la profonda piega della pelle sulla groppa si era aperta: ne spuntava il ciuffo di peli candidi. Shasa mise un ginocchio a terra e accarezzò la bianca peluria morbida.

Dalle ghiandole nella piega della pelle era trasudata una secrezione muschiosa rossobruna, e Shasa ficcò l'indice nella peluria e sfregò la sostanza, poi portò il dito al naso e aspirò l'odore che sapeva di miele. Pareva un odore di fiori, piú che di qualche animale. Poi, fu sopraffatto dalla malinconia del cacciatore, e pianse la bella creaturina che aveva appena ammazzato.

« Grazie d'essere morta per me », sussurrò. Era l'antica preghiera dei cacciatori boscimani, che Centaine gli aveva insegnato tanto tempo prima. Pure, quella tristezza era piacevole, e nel profondo il suo istinto venatorio era, almeno per il momento, soddisfatto.

Nel fresco della sera gli uomini si raccolsero intorno alle fosse scavate in corte, in cui ardevano le braci. Il braaivleis, la cottura della carne, era un rito che seguiva la caccia: erano gli uomini a cucinare, mentre le donne erano relegate alla preparazione di insalate e budini e all'apparecchiare i tavoloni disposti sotto il portico. La selvaggina era stata marinata o lardellata o trasformata in salsic-ciotti piccanti. Fegati, rognoni e trippe erano preparati secondo antiche ricette, tenute gelosamente segrete, prima di essere fatti arrostire sulle griglie. Gli autonominati chef si difendevano dal calore dei fuochi scolando abbondanti dosi di mampoer, la fortissima grappa di pesche di rigore in simili occasioni.

Un'orchestrina di braccianti negri cominciò a suonare arie cam-pagnole tradizionali col banjo e la fisarmonica, e alcuni ospiti si misero a ballare sull'ampio porticato anteriore. Alcune giovani donne erano davvero interessanti, e Shasa le occhieggiò con qualche mezza idea in testa. Erano abbronzate e scoppiavano di salute e di una sensualità per nulla sofisticata, che le rendeva ancora piú attraenti, cresciute com'erano in un calvinismo rigoroso. La loro intoccabilità e probabile verginità le rendeva ancora piú affascinanti per Shasa, che gradiva il corteggiamento quanto l'ultimo atto della commedia.

Tuttavia c'erano cose troppo importanti in gioco per rischiare la minima offesa. Ignorò i timidi ma callidi sguardi che qualcuna gli scoccava, evitò con altrettanto scrupolo la grappa di pesche, e si scolò un bicchierone di ginger. Sapeva che quella sera avrebbe avuto bisogno di tutta la sua lucidità.

Una volta calmata la fame acuita dalla caccia all'aria aperta coi primi piatti di antilope alla griglia, gli avanzi furono portati con gioia dai servitori ai loro quartieri. Shasa si ritrovò seduto a un'estremità del lungo portico, nel punto piú distante dall'orchestrina.

Di fronte a lui sedeva Manfred De La Rey, e al suo fianco gli altri due ministri, radiosi e soddisfatti della mangiata. Nonostante il loro atteggiamento rilassato, lo sogguardavano attentamente.

"Adesso si parlerà di cose serie", previde Shasa, e infatti quasi subito Manfred entrò in argomento.

« Stavo dicendo al signor Courteney che sotto molti aspetti siamo vicini », esordi tranquillamente Manfred, e i colleghi annuirono seri. « Tutti vogliamo proteggere questa terra e salvare quanto c'è in essa di bello e prezioso. Dio ci ha scelti come guardiani, è nostro dovere proteggere tutti i suoi popoli, e mantenere intatta l'identità di ogni gente e della stia cultura, salvandola da ogni influsso esterno. »

Era la linea del partito, quest'idea dei popolo eletto, e Shasa l'aveva già sentita mille volte: sicché, pur annuendo e commentando il discorso con borbottii che non significavano nulla, in cuor suo si stava ormai stufando.

« C'è ancora molto da fare in proposito », gli disse Manfred.

« Dopo le prossime elezioni, ci troveremo di fronte un duro lavoro.

Siamo i muratori che dovranno erigere un edificio tale da durare un millennio. Una società modello in cui ogni gruppo abbia il suo posto, e non ingerisca nello spazio altrui, una vasta e stabile piramide che determini una società unica. » Tutti tacquero per un momento, contemplando la bellezza di questa visione, e, benché Shasa si stu-diasse di mantenere un'espressione indifferente, dentro di sé sorrideva della perfetta immagine della piramide. Non c'era il minimo dubbio riguardo a chi dovesse occupare il vertice, nella loro mente.

« Ma i nemici non mancano », osservò il ministro dell'Agricoltura, porgendo la battuta a Manfred.

« Sì, ci sono nemici, all'interno e all'esterno. Diventeranno sempre piú pericolosi e vociferanti man mano che il lavoro procede. Piú ci avviciniamo al successo, e piú cercheranno di impedircelo. »

« Si stanno già mobilitando. »

« E' vero », ammise Manfred. « E anche vecchi e tradizionali amici ci ammoniscono e ci minacciano. L'America, travagliata dai problemi razziali, dovrebbe ormai comprendere l'errore commesso incoraggiando le innaturali aspirazioni dei negri che ha importato dall'Africa come schiavi. Perfino la Gran Bretagna, alle prese in Kenia coi disordini dei Mau-Mau e in India con la disintegrazione del suo Impero, pretende di dettar legge a noi e distoglierci dalla via che sappiamo esser giusta. »

« Ci credono deboli e vulnerabili. »

« Già accennano a un embargo delle armi, negandoci gli strumenti per difenderci contro l'oscuro nemico che si concentra nell'ombra. »

« Hanno ragione », interloquì brusco Manfred. « E' vero, siamo deboli e militarmente disorganizzati. Siamo alla mercé delle loro minacce... »

« Dobbiamo cambiare questa situazione », disse secco il ministro delle Finanze. « Dobbiamo rafforzarci. »

« Il prossimo bilancio assegnerà alla Difesa cinquanta milioni di sterline. Alla fine di questo decennio lo stanziamento ammonterà a un miliardo. »

« Dobbiamo porci al di sopra delle loro minacce di sanzioni, boicottaggio ed embargo. »

« Forza attraverso l'unità: Ex Unitate Vires », disse Manfred De La Rey. « Tuttavia, per tradizione e carattere, il popolo afrikaner ha sempre preferito la campagna, l'agricoltura. A causa della discriminazione attuata contro di noi per un secolo e passa, siamo stati esclusi dal mercato del commercio e dell'industria, e non abbiamo sviluppato le capacità che ai nostri connazionali di lingua inglese vengono così spontanee. » Manfred fece una pausa, guardò gli altri due, come cercandone l'approvazione, e poi proseguì. « Ciò di cui questo Paese ha un disperato bisogno è la ricchezza necessaria a realizzare il nostro progetto. Si tratta di un'impresa titanica, per cui non abbiamo le capacità. Abbiamo bisogno di un certo tipo d'uo-mo. » Adesso tutti guardavano Shasa. « Abbiamo bisogno di un uo-mo col vigore della gioventú e l'esperienza della maturità, un uomo che abbia dimostrata abilità nel campo della finanza e dell'organizzazione. Nel nostro partito non c'è nessuno che abbia queste qualità. »

Shasa li guardò. Ciò che gli suggerivano era offensivo. Era cresciuto all'ombra di Jan Christian Smuts ed era un naturale sostenitore del partito da lui a suo tempo fondato, il Partito Unito, ancora informato dal carattere di quell'uomo grande e buono. Aprì la bocca per rispondere, sdegnato, ma Manfred De La Rey lo fermò con un gesto della mano.

« Ci lasci finire » disse. « La persona scelta per questo compito patriottico sarà subito nominata ministro di un dicastero che il premier creerà apposta per lui. Diventerà ministro dell'Industria e delle Miniere. »

Shasa chiuse lentamente la bocca. Dovevano averlo studiato con gran cura, analizzandolo fino in fondo e individuando il suo prezzo. Le basi delle sue convinzioni politiche erano scosse, e tutto l'edificio era percorso da crepe. L'avevano posto su una vetta, di li mostrandogli il premio che doveva solo afferrare.

A settemila metri di quota Shasa mise il Mosquito in rotta. Aumentò il flusso di ossigeno nella mascherina per riflettere con piú lucidità. Aveva a disposizione quattro ore di volo fino a Youngsfield, quattro ore per pensarci bene, e cercò di sottrarsi alla tempesta di passioni ed emozioni che ancora lo agitavano. Cercò di pensare freddamente e decidere in base alla logica, ma non ci riuscì. Era troppo eccitato. La prospettiva di detenere un enorme potere, di costruire un arsenale che avrebbe fatto del suo Paese la prima potenza d'Africa e fra le prime del mondo intero, era tale da sbigottire chiunque. Quello era potere. Il pensiero gli scatenò una certa esultanza in mente. Tutti i fili si riunivano; ciò che aveva sempre sognato poteva avverarsi, doveva solo allungare la mano. Tuttavia, c'era un prezzo da pagare in termini di onore e di orgoglio. Come avrebbe potuto spiegare la cosa a chi aveva avuto fiducia in lui?

A un tratto pensò a Blaine Malcomess, suo mentore e consigliere, l'uomo che per tanti anni aveva fatto le veci di padre per lui.

Cosa avrebbe pensato dell'orrendo tradimento che Sbasa meditava?

« Posso giovare di piú unendomi a loro, Blaine », sussurrò nella mascherina. « Dall'interno, potrò farli mutare, moderarli, con piú efficacia che dall'opposizione, perché ora avrò il potere... » Ma sapeva che erano tutte scuse. Il suo era un classico voltafaccia.

Tutto, in ultima analisi, si riduceva a quello, il potere: e lui sapeva che Blaine Malcomess l'avrebbe sempre considerato un traditore, mentre presso un'altra persona poteva trovare comprensione, appoggio e incoraggiamento. In fondo era stata Centaine Courteney-Malcomess a preparare il figlio in tutti i modi, fin da bambino, all'acquisizione e all'uso della ricchezza e del potere.

"Potrebbe avverarsi tutto, mamma. Potrebbe succedere, non proprio come l'avevamo progettato, ma potrebbe ancora succedere ugualmente." Poi un pensiero lo colse, e un'ombra incupì la chiara luce del suo trionfo.

Guardò la cartellina rossa che il ministro dell'Interno Manfred De La Rey gli aveva messo in mano al commiato, sulla pista, poco prima che montasse sul Mosquito, e che adesso stava sul sedile del secondo pilota.

« Avremo a che fare con un solo problema, se accetta la nostra offerta », gli aveva detto Manfred porgendogli il dossier, « ed è un problema serio. Eccolo qua. »

La cartellina conteneva un rapporto della polizia politica intestato a

TARA ISABELLA COURTENEY nata MALCOMESS.

Tara Courteney fece il giro nell'ala dei bambini, mettendo la testa in ciascuna camera da letto. La tata stava infilando la camicina da notte in satin rosa a Isabella, che appena vide la madre lanciò un grido di gioia.

« Mammina, mammina, l'orsacchiotto è stato cattivo. Lo farò dormire sullo scaffale insieme alle altre bambole! »

Tara si sedette sul letto della figlia e la coccolò mentre parlavano delle malefatte dell'orsacchiotto. Isabella era tiepida, rosea e odorava di sapone. I suoi capelli erano serici contro la guancia di Tara, e la mamma dovette fare uno sforzo per darle un bacio e staccarsi da lei.

« E ora di dormire, Bella. »

Appena la luce si spense, Isabella lanciò un urlo che fece venire i brividi a Tara.

« Cosa c'è, bimba mia? » Riaccese la luce e corse di nuovo al lettino.

« Ho perdonato l'orsacchiotto! In fondo può dormire con me, »

L'orsacchiotto di pezza fu cerimoniosamente reinsediato nel favore di Isabella, che lo strinse teneramente a sé con un braccio ficcandosi l'altro pollice in bocca.

« Quando viene a casa il mio papà? » domandò biascicando le parole, gli occhi già chiusi. Quando Tara raggiunse la porta era già addormentata.

Sean sedeva sul torace di Garrick sul pavimento della camera da letto, torcendo i ciuffi di capelli sulle tempie del fratellino con sadico piacere. Tara li separò.

« Sean, torna subito in camera tua, hai capito? Ti ho detto mille volte di non picchiare i tuoi fratelli. Vedrai cosa ti farà tuo padre quando torna! »

Garrick tirava su col naso per arrestare le lacrime, ma dette man forte al fratello.

« Stavamo solo giocando, mamma. Non mi stava picchiando. »

Ma Tara si accorse che era sull'orlo di un attacco d'asma. La sua decisione vacillò. Non era la serata giusta per uscire, con la minaccia di una crisi d'asma, ma la riunione era troppo importante.

"Gli preparo l'inalatore e dico alla tata di dargli un'occhiata ogni ora finché non torno io", si disse, scendendo a un compromesso.

Michael stava leggendo, e alzò appena gli occhi a ricevere il suo bacio. « Alle nove spegni la luce. Promettimelo, tesoro. » Cercava di non farlo capire, ma era sempre stato il suo prererito.

« Te lo prometto, mamma », mormorò lui, ma sotto le coperte incrociò le dita ad annullare l'impegno.

Scendendo le scale, Tara diede un'occhiata all'orologio. Erano le otto meno cinque. Sarebbe arrivata in ritardo. Soffocò i sensi di colpa materni e corse alla sua vecchia Packard.

Shasa detestava quella macchina. Considerava la sua verniciatura sbiadita e i sedili gualciti un affronto alla dignità della famiglia.

Per il suo ultimo compleanno le aveva regalato un'Aston Martin nuova, ma lei la lasciava in garage. La Packard si adattava alla sua auto-immagine spartana di progressista dotata di sensibilità sociale.

Scendendo per il viale, emetteva una scia di furno nero: Tara godeva in modo un pò perverso a impolverare le amate vigne di Shasa.

Era strano come, dopo tanti anni, continuasse a sentirsi un'intrusa a Weltevreden, un'intrusa in mezzo ai tesori d'arte e antiquariato.

Avrebbe potuto restarci altri cent'anni e non sarebbe mai stata casa sua: era casa di Centaine Courteney-Malcomess, il cui tocco e i cui ricordi aleggiavano in tutte le stanze che Shasa non le avrebbe mai consentito di riarredare a modo suo.

Sfrecciò sotto l'arco d'ingresso di Anreith, così pomposo, così eccessivo, e si ritrovò nel mondo reale, dove si soffriva per tante ingiustizie, dove le masse oppresse piangevano e lottavano e invocavano aiuto, e dove lei si sentiva utile e importante; dove in compagnia di altri pellegrini poteva marciare verso un futuro pieno di sfide e mutamenti.

La casa dei Broadhurst era nel sobborgo medioborghese di Pinelands, una casa moderna tipo ranch, col tetto piatto e grandi finestre panoramiche, con mobili fatti in serie e tappeti di tessuto sintetico sul pavimento. Sulle sedie si trovavano peli canini, e c'erano libri dappertutto, a pile nei posti piú impensati, aperti sul tavolo da pranzo, libri letti e vissuti, da intellettuali: nei corridoi c'erano i gio-cattoli abbandonati in disordine dai bambini. Sulle pareti dove si notavano le ditate dei piccini erano appese riproduzioni a buon mercato di Picasso e Modigliani, tutte storte. Qui Tara si sentiva a suo agio, finalmente libera dal tedioso splendore di Weltevreden.

Molly Broadhurst le corse incontro mentre parcheggiava la Packard. Indossava un magnifico caffetano dai vivaci colori.

« Sei in ritardo! » Baciò cordialmente Tara e la tirò in casa. Attraversarono il disordine dell'atrio e giunsero in sala musica, sul retro.

La sala musica era un'appendice aggiunta successivamente alla casa, senza considerazioni di carattere estetico: adesso era piena di ospiti di Molly, invitati a sentire Moses Garna. Tara si rallegrò guardandosi intorno: erano tutte persone vivaci e creative, gente di cultura e di spirito, piena di gioia di vivere e di indignazione per le ingiustizie sociali.

Era il tipo di riunione che Weltevreden non avrebbe mai potuto ospitare. Prima di tutto c'erano anche dei negri, studenti dell'università per negri di Fort Hare e della pericolante università del Capo Occidentale, insegnanti, avvocati e perfino un dottore negro, tutti attivisti politici che, per quanto privi di voce e di voto nel Parlamento dei bianchi, stavano cominciando a urlare la propria presenza con una passione che non si poteva non udire. C'era l'editore della rivista negra Drum, il Tamburo, e il corrispondente locale del quotidiano della grande città negra di Soweto, il Sowetan.

Trovarsi accanto a dei negri le bastava per sentirsi terribilmente ardita socialmente.

I bianchi presenti non erano meno straordinari. Alcuni erano stati membri del Partito Comunista Sudafricano, che da qualche anno era stato disciolto. C'era un uomo chiamato Harris che aveva già incontrato in casa di Molly. Aveva combattuto in Israele con l'Irgun contro gli inglesi e gli arabi, era un uomo alto e fiero che a Tara ispirava deliziosi brividi di timore. Molly le aveva fatto capire che era un esperto di guerriglia e sabotaggio, e certo non faceva che viaggiare in segreto da una parte all'altra del Paese, o negli Stati vicini, per chissà quali missioni.

Colui che stava conversando affabilmente col marito di Molly era un altro avvocato di Johannesburg, Bram Fischer, specializzato nel difendere negri imputati della miriade di reati pretestuosi escogi-tati dal governo per disarmarli e restringerne i movimenti. Molly disse che Bram stava riorganizzando il vecchio Partito Comunista in cellule clandestine, e Tara fantasticò di esserne un giorno cooptata.

Nello stesso gruppo c'era Marcus Archer, altro ex comunista, psicologo industriale dei Witwatersrand, Era responsabile dell'addestramento di migliaia di lavoratori negri per le miniere d'oro, e Molly diceva che aveva collaborato alla eosfituzione del sindacato dei minatori, Molly le aveva anche sussurrato che era un omosessuale, e aveva usato un termine strano, che Tara non aveva mai sentito: « E' gay ». Poiché ciò lo rendeva del tutto inaccettabile nella buona società, Tara ne rimase affascinata.

« Oh Dio, Molly. », le sussurrò Tara. « E' così eccitante... Queste si che sono persone vere, mi fanno sentir viva, finalmente! »

« Eccolo là », disse Molly, sorridendo a questo sloro dell'amica.

tirandola nella calca degli ospiti.

Moses Gama. Appoggiato alla parete di fondo, circondato dagli ammiratori che superava di una testa, fu raggiunto dalle due signore. Tara si ritrovò a fissarlo incantata. Pensò che anche in questa compagnia brillante spicrava come una pantera nera in un branco di gatti randagi. Benché la sua testa sembrasse scolpita in un blocco di onice nera, e i suoi, bei lineamenti nilotici impassibili, tuttavia c'era in lui una forza che sembrava riempire tutta la sala. Era come trovarsi sulle nere pendici di qualche vulcano che poteva dar luogo da un momento all'altro a una catastrofica eruzione.

Moses Gama si voltò e guardò Tara. Non sorrise, ma nei suoi occhi parve passare un'ombra profonda.

« Signora Courteney... Ho chiesto io a Molly di invitarla. »

« Non mi chiami signora Courteney, ma solo Tara, e diamoci del tu! »

« Dopo dobbiamo parlare, Tara. Ti trattieni? »

Non riuscì a rispondere, sopraffatta da questo interessamento, ma soltanto ad annuire in silenzio.

« Se sei pronto, Moses, direi di cominciare », suggerì Molly e, portandolo via dal gruppetto di ammiratori, gli fece strada verso la pedana leggermente rialzata del pianoforte.

« Gente! Gente! Attenzione, prego! » disse Molly battendo le mani. Le chiacchiere si interruppero. Tutti si voltarono verso quel podio improvvisato. « Moses Gama è uno dei piú brillanti e rispet-tati giovani leader africani. Fin da prima della guerra è membro dell'African National Congress, e fondatore del sindacato dei minatori africani. Benché non sia ancora riconosciuto dal governo, e debba quindi mantenersi nella clandestinità, questo sindacato è una delle associazioni piú rappresentative e potenti dei negri, e conta piú di centomila iscritti. Nel 1950 Moses Gama è stato eletto segretario dell'African National Congress, carica in cui da allora si è instancabilmente prodigato, con ottimi risultati, per far sentire il grido di dolore dei nostri connazionali negri, a cui è proibita ogni forma di espressione politica legale e ogni influenza sul proprio destino. Per qualche tempo Moses Gama ha fatto parte del Native's Representative Council, quell'infame tentativo del governo di neutralizzare le aspirazioni politiche dei negri, ma ben presto si dimise con la famosa battuta: "Qui è come parlare in un telefono giocattolo, nessuno ti ascolta dall'altra parte del filo". »

Vi furono risate e applausi, dopo dì che Molly si rivolse a Moses Gama.

« Sappiamo che non hai niente di tranquillizzante e consolatorio da dirci... Tuttavia, Moses Gama, in questa stanza ci sono tanti cuori che battono all'unisono col tuo, e sono anche pronti a sanguinare insieme. »

Tara applaudì finché non le fecero male le mani, poi tese l'orecchio per non perdere neanche una parola di quelle che Moses Gama si accingeva a dire.

Indossava un abito blu e una cravatta dello stesso colore, con camicia bianca. Stranamente risultava la persona vestita piú compi-tamente in una stanza piena di vecchi maglioni e giacche di tweed con le pezze di cuoio ai gomiti, tutte macchiate. Il suo abito era di buon taglio, serio. E cadeva benissimo dalle sue spalle larghe. Tuttavia, il suo portamento imponente era tale che pareva abbigliato col costume regale della sua gente, in pelle di leopardo con il copricapo di penne di airone infilate nei folti capelli crespi. La sua voce era profonda e vibrante.

« Cari amici, vi è un unico ideale a cui aderisco con tutto il cuore, e che difenderò a costo della vita: ed è che ogni africano ha un diritto naturale, primario e inalienabile all'Africa, che è il suo continente e la sua sola patria », cominciò Moses Gama, mentre Tara ascoltava incantata. Poi raccontò in maniera particolareggiata come questo diritto fosse stato negato e conculcato all'uomo negro ormai da trecento anni, e come ultimamente, da quando erano andati al potere i Nazionalisti, questa politica di negazione dei diritti dei negri fosse stata formalizzata in quello spaventoso edificio di leggi, dichiarazioni e regolamenti liberticidi, che era la pratica dell'apartheid.

« Abbiamo sentito dire tutti che lo stesso concetto di apartheid è talmente grottesco, così palesemente folle e infondato da non poter mai funzionare. Ma io vi metto in guardia, amici miei: gli uomini che hanno concepito questo piano pazzesco sono così fanatici, così ostinati, così convinti di essere ispirati da Dio, che cercheranno di praticarlo con la forza. Già hanno formato un vasto esercito di piccoli funzionari statali per amministrare questa follia, e dispongono di tutte le risorse di una terra ricca d'oro e di materie prime. Io vi avverto che non esiteranno a sprecare tutte queste risorse per costruire il loro Frankenstein ideologico. Non c'è prezzo, in ricchezza materiale o sofferenze umane, che non siano pronti a pagare. »

Moses Gama fece una pausa e guardò l'uditorio. A Tara parve che egli sentisse sulla sua pelle tutte le sofferenze del suo popolo, e fosse talmente pervaso dal dolore altrui da riuscire quasi divino.

« Se non ci opponiamo, amici miei, faranno di questa bella terra una desolazione e un abominio; ne faranno una terra priva di compassione e di giustizia, una terra materialmente e spiritualmente in bancarotta. »

Moses Gama aprì le braccia. « Questi uomini chiamano traditori quelli di noi che li sfidano. Ebbene, amici, io chiamo traditore chi non si oppone a loro! E' un traditore dell'Africa! »

Quindi tacque, guardandoli con cipiglio accusatorio, e il pubblico rimase stordito un momento, prima di prendere ad applaudirlo.

Soltanto Tara continuò a tacere, fra le acclamazioni degli altri, e a fissarlo: non aveva piú voce, e le sembrava di avere nel sangue la malaria.

Moses abbassò il capo fino a posare il mento sul petto. Pensaro-no che avesse finito. Poi rialzò quella sua magnifica testa e aprì le braccia.

« Opporsi a loro? E come? Vi rispondo che bisogna opporsi a loro con tutta la nostra energia, tutta la nostra risolutezza e tutto il nostro cuore. Se per loro nessun prezzo è troppo alto da pagare, anche per noi dev'essere così. Vi dico, amici, che non c'è niente... »

fece una pausa d'effetto, « non c'è proprio niente che non farei pur di rafforzare la nostra lotta. Sono pronto a uccidere e morire per questo! »

Di fronte a una tale risolutezza la sala cadde in un silenzio sbigottito. Per gli eleganti habitué della dialettica socialista, i raffinati intellettuali, una simile dichiarazione suonava inquietante e minacciosa. Ci si sentivano gli schiocchi delle ossa rotte e l'afrore del sangue versato.

« Siamo pronti a iniziare la lotta, amici, e già abbiamo fatto i nostri piani. Fra pochi mesi avvieremo una campagna nazionale di difesa contro queste mostruose leggi dell'apartheid. Bruceremo i lasciapassare che il governo ci ha imposto di portare sempre con noi, gli odiosi dompas simili alla stella che gli ebrei erano obbligati a esibire, il documento che ci marchia come razza inferiore. Faremo un falò di questi lasciapassare, e il loro fumo brucerà le nari del mondo civile. Entreremo nei ristoranti e nei cinema riservati ai bianchi, sui vagoni dei treni riservati ai bianchi, andremo a nuotare sulle spiagge riservate ai bianchi. Grideremo alla polizia fascista di venirci ad arrestare. Ingorgheremo i tribunali e le galere dell'uomo bianco con le nostre moltitudini, e tutto l'apparato mostruoso dell'apartheid do-vrà crollare sotto il nostro peso. »

Tara aspettò, come le aveva detto Moses, e, quando ebbe accompagnato alla porta quasi tutti gli ospiti, Molly andò a prenderla a braccetto. « Vuoi correre il rischio dei miei spaghetti alla bolognese, Tara? Come sai, sono la peggior cuoca d'Africa, ma tu sei una ragazza coraggiosa. »

Solo una mezza dozzina di ospiti erano stati invitati a rimanere a cena, e si sedettero nel patio. Le zanzare ronzavano intorno alle teste, e di tanto in tanto un mutare del vento portava zaffate sulfuree dalle fogne in costruzione oltre il Black River. Ma ciò non sembrava toglier l'appetito a nessuno: tutti si gettarono avidamente sui famosi spaghetti alla bolognese di Molly, mandandoli giú con bicchieroni di vino rosso comune. Tara lo trovò un sollievo dagli elaborati rituali di Weltevreden, le cene eleganti accompagnate dalla cerimonia parareligiosa dell'assaggio dei vini pregiati, che costavano alla bottiglia il salario mensile di un operaio. Qui cibo e vino erano solo carburante del cervello e della lingua, non raffinatezze di cui gloriarsi.

Tara sedeva accanto a Moses Gama. Benché egli mangiasse di buon appetito, non toccava quasi il vino. I suoi modi, a tavola, erano africani. Mangiava rumorosamente, sbattendo la bocca, ma stranamente questo non infastidì in alcun modo Tara. In un certo senso confermava la distinzione di lui, uomo che apparteneva a un altro popolo.

Dapprima Moses dedicò la propria attenzione agli altri ospiti, ri-spondendo a domande e commenti che gli venivano rivolti. Poi gradualmente si concentrò su Tara, prima includendola nella conversazione generale, e finalmente, finito di mangiare, voltandosi a fron-teggiarla e abbassando la voce a escludere gli altri.

« Conosco la tua famiglia », le disse. « Li conosco bene, la signora Centaine Courteney e soprattutto tuo marito, Shasa Courteney. »

Tara era sbalordita. « Ma non li ho mai sentiti parlare di te. »

« E perché avrebbero dovuto farlo? Ai loro occhi non sono mai stato importante. Mi avranno dimenticato tanto tempo fa. »

« Come mai li hai conosciuti, e dove? »

« Vent'anni fa, quando tuo marito era ancora un ragazzo, io la-voravo come soprastante nero alla miniera di diamanti H'ani, nell'Africa di Sudovest. »

« La miniera H'ani », annuì Tara. « Sì, la sorgente del patrimonio Courteney. »

« Shasa Courteney era stato mandato lì da sua madre, per imparare il lavoro alla miniera. Lui e io siamo stati insieme per qualche settimana, lavorando a fianco a fianco... » Moses si interruppe e sorrise. « Andavamo d'accordo, o comunque il piú d'accordo che si potesse andare, essendo l'uno un padroncino bianco e l'altro un ca-posquadra negro. Chiacchieravamo molto, e lui mi diede un libro, la Storia d'Inghilterra del Macaulay. Ce l'ho ancora. Ricordo che certe cose che io gli dicevo lo disturbavano e lo rendevano perplesso. Una volta mi disse: "Moses, questa è politica! I negri non se ne occupano, è una faccenda dei bianchi". » Moses ridacchiò al ricordo, ma Tara si accigliò.

« Mi pare di sentirlo », commentò. « Non è molto cambiato, in vent'anni. » Moses smise di ridere.

« Tuo marito è diventato un uomo potente. Ha una grande ricchezza e influenza. »

Tara alzò le spalle. « A che servono ricchezza e potere, se non si usano con saggezza e compassione? »

« Tu hai compassione, Tara », le disse sottovoce lui. « Anche se non sapessi del lavoro che fai per la mia gente, in te l'intuirei. »

Tara abbassò gli occhi sotto il suo sguardo lusinghiero.

« Saggezza. » La sua voce si abbassò ancora di piú. « Credo che tu abbia anche quella. Hai fatto bene a non parlare del nostro ultimo incontro davanti agli altri. »

Tara alzò la testa e lo guardò negli occhi. Nell'eccitazione della serata si era quasi dimenticata del loro incontro nei corridoi proibiti del Parlamento.

« Perché? » gli sussurrò. « Perché eri là? »

« Forse un giorno te lo dirò » le rispose. « Quando saremo diventati amici. »

« Ma lo siamo », disse lei, ed egli annuì.

« Sì, credo che siamo amici, ma l'amicizia dev'essere messa alla prova, e superata. Ora dimmi del tuo lavoro, Tara. »

« Posso fare così poco... » e gli raccontò della clinica e del programma di nutrizione di bambini e vecchi, inconsapevole del proprio entusiasmo e della propria animazione finché lui non tornò a sorridere.

« Avevo ragione, tu conosci la compassione, Tara, la conosci benissimo. Mi piacerebbe vedere questo tuo lavoro. E' possibile? »

« Davvero verresti? Sarebbe magnifico! »

Molly lo accompagnò alla clinica il pomeriggio seguente. La clinica sorgeva al margine meridionale del sobborgo negro di Nyanga.

Il nome significa "alba" in lingua xhosa, ma non era tanto azzeccato. Come la maggior parte dei sobborghi negri, era composto di file e file di casette di mattoni identiche, dal tetto sottile d'amianto, separate da sentierini polverosi; benché esteticamente brutte e per nulla invitanti, erano vivibili e offrivano acqua corrente, fogne e corrente elettrica. Tuttavia, oltre il sobborgo vero e proprio, nella campagna ondulata e cespugliosa della piana del Capo, era sorta una baraccopoli che accoglieva il sovrappiú di emigranti negri che venivano dalle zone rurali impovente, e tra costoro la clinica di Tara trovava la maggior parte dei pazienti.

Orgogliosamente, Tara guidò Moses e Molly intorno al piccolo edificio.

« Siccome è il finesettimana, non c'è nessuno dei dottori volon-lari », spiegò, mentre Moses si fermava a chiacchierare con le infermiere negre e con alcune delle madri che assistevano i bambini piccoli ricoverati in corsia.

Poco dopo fece il caffè per i visitatori nel suo piccolo ufficio, e quando Moses le chiese come era finanziata la clinica Tara gli rispose in modo vago.

« Abbiamo un finanziamento della provincia... » ma Molly Broadhurst interloquì.

« Non crederle. I soldi escono quasi tutti dalle sue tasche. »

« Faccio la cresta sulla spesa », rise Tara, « e rubacchio i soldi a mio marito. »

« Si può fare un giretto in macchina tra le baracche? Mi piacerebbe visitarle », disse Moses guardando Molly, che si morse le labbra e guardò l'orologio.

« Ah, maledizione, io devo proprio andare », e Tara intervenne immediatamente.

« Non preoccuparti. Molly, l'accompagno io a fare questo giro in macchina, e verso sera lo riporto a casa tua. »

Sulla vecchia Packard, sobbalzando sulle dune sabbiose solcate da piste sterrate, dove i salici di Port Jackson erano stati sradicati per far posto alle catapecchie coi tetti di lamiera e le pareti di cartone, i due girarono per la baraccopoli. Ogni tanto si fermavano e facevano due passi tra le baracche. Il vento di sudest soffiava dalla baia, riempiendo l'aria di polvere. Dovevano chinarsi a proteggere gli occhi avanzando.

Tutti conoscevano Tara e sorridevano e la salutavano ad alta vo-ce. I bambini le correvano incontro e danzavano intorno a lei, chiedendo con grazia i dolcini che si portava sempre dietro per loro.

« Dove prendono l'acqua? » chiese Moses, e lei gli mostrò i vecchi bidoni da gasolio che i ragazzi avevano infilato dentro dei pneumatici. Facendoli rotolare sulle gomme andavano a prender l'acqua alla fontana comunale, a due chilometri di distanza, e poi tornavano col bidone pieno alla loro baracca.

« Per scaldarsi bruciano i salici », gli disse Tara, « ma d'inverno tutti i bambini sono sempre pieni d'influenza e polmonite. Quanto alle fogne, non c'è bisogno di chiedere dove sono, basta sentir l'odore... » I cessi erano buchi per terra, schermati in qualche modo da tende di juta vecchia.

Era quasi buio quando Tara parcheggiò la Packard dietro la di-nica e spense il motore. Restarono lì seduti tranquilli per qualche minuto.

« Quella che abbiamo visto non è peggiore di cento altre baraccopoli, posti dove ho vissuto la maggior parte della mia vita », disse Moses.

« Mi dispiace. »

« E perché ti scusi? » le chiese lui.

« Non lo so, ma mi sento colpevole. » Si rendeva conto di quanto inadeguata suonasse una simile affermazione, ma era piú forte di lei. Aprì la portiera della Packard.

« Devo prendere delle carte nel mio ufficio. Ci metto un minuto, poi ti riaccompagno da Molly. »

La clinica era deserta. Le due infermiere avevano chiuso tutto e se n'erano andate a casa un'ora prima. Tara entrò con le sue chiavi e, attraverso l'ambulatorio, passò nel suo studio. Si guardò allo specchio sopra il lavabo dove si lavò le mani. Era tutta rossa, e le brillavano gli occhi. Era così abituata allo squallore della baraccopoli che ormai non la deprimeva nemmeno piú: invece la faceva sentire stranamente viva ed eccitata.

Ficcò le carte nella borsa e chiuse a chiave il cassetto della scrivania, si assicurò che la spina dei fornello elettrico fosse staccata dalla presa a muro, poi spense le luci e tornò nell'ambulatorio. Si fermò sorpresa. Moses Gama l'aveva seguita dentro, e sedeva sul lettino delle visite presso la parete di fronte.

« Oh, sei tu », si riprese Tara. « Mi spiace d'averci messo tanto... »

Lui scosse la testa, poi si alzò e attraversò la stanza dal pavimento di piastrelle. Si fermò a fissarla. Lei si sentiva incerta e sulle spine mentre l'uomo studiava il suo viso con solennità.

« Sei una donna notevole », le disse con una voce calma e profonda che non gli aveva mai udito. « Non ho mai conosciuto un'altra donna bianca come te. »

Non le venne in mente alcuna risposta da dargli, e lui proseguì dolcemente: « Sei ricca e privilegiata. Hai tutto quello che la vita può offrire, eppure vieni qui. Vieni a questa sordida miseria... ».

Si avvicinò e le toccò il braccio. Il suo palmo, e l'interno delle dita erano rosa pallido, e contrastavano vivamente con il dorso e l'avambraccio grosso e muscoloso, molto scuri. La sua pelle era fresca. Si chiese se era davvero così, o se era lei che era calda. Si sentiva scottare, sentiva una vera fornace ardere dentro di sé. Guardò la mano di lui sul suo braccio liscio e pallido. Non era mai stata toccata prima da un negro, mai deliberatamente, mai a lungo come adesso.

Lasciò cadere a terra la borsa che portava a tracolla, che andò giú con un tonfo. Aveva giunto le mani in grembo, istintivamente, come per difesa, ma adesso le lasciò cadere lungo i fianchi, e quasi senza accorgersene inarcò la schiena e spinse il bacino verso di lui.

Nello stesso tempo alzò la testa e lo guardò dritto negli occhi. Socchiuse la bocca e accelerò il respiro. Vide lo stesso desiderio negli occhi dell'uomo e disse:

« Sì. »

Lui le carezzò il braccio, dal gomito alla spalla, e Tara rabbrividì chiudendo gli occhi. Le toccò il seno sinistro e lei non si mosse.

La sua mano si chiuse e Tara sentì che il suo seno la riempiva, e la carne le si indurì, il capezzolo si gonfiò. Era una sensazione così intensa da essere quasi dolorosa, e lei ansimò mentre un brivido le correva lungo la spina dorsale, diramandosi a onde per tutto il suo corpo come quando si getta un sasso in uno stagno.

Il suo desiderio si accese così di colpo da coglierla impreparata.

Non si era mai considerata una persona sensuale. Shasa era l'unico uomo che avesse mai conosciuto, e gli ci voleva tutta l'abilità e la pazienza per scaldarla, ma adesso a un sol tocco di Moses Gama le ossa le si sciolsero di desiderio e i lombi le si fusero come cera sul fuoco. Non riusciva a respirare, tanto grande era il suo bisogno di quest'uomo.

« La porta » balbettò Tara. « Chiudi la porta a chiave. »

Poi si accorse che ci aveva già pensato lui. Il catenaccio era tirato, e gliene fu grata, perché non avrebbe sopportato un attimo di ritardo. Moses la prese rapidamente in braccio e la portò al letto. Il lenzuolo che lo copriva era immacolato, e così inamidato da croc-chiare piano sotto il suo peso.

Moses era così grande da terrorizzarla, e, benché avesse partorito quattro bambini, le parve di essere divelta mentre quella massa nera la riempiva. Poi il terrore passò, sostituito da una strana sensazione di santità. Lei era l'agnello sacrificale, e con quest'atto redi-meva tutti i peccati della sua razza, tutte le angherie che essa aveva commesso contro il popolo di lui nei secoli; con quell'atto si libera-va di tutti i sensi di colpa che l'avevano segnata, per così dire, dalla nascita.

Quando alla fine lui giacque pesantemente su di lei, ansimandole con un rombo nelle orecchie, e quando le ultime convulsioni scossero selvaggiamente i suoi grandi muscoli neri, lei gli si aggrappò con gioiosa gratitudine. Perché egli a un tempo e a un modo l'aveva liberata dalla colpa e l'aveva resa sua schiava per sempre.

In preda alla tristezza che segue l'amore, e sicurissima che tutto il suo mondo sarebbe mutato per sempre, Tara restò in silenzio riportando Moses a casa di Molly. Si fermò a un isolato di distanza, e tenendo il motore acceso si voltò a guardarlo in faccia alla luce dei lampioni.

« Quando ti rivedrò? » Era la domanda che infinite altre donne, nella sua situazione, gli avevano fatto.

« Vuoi rivedermi? »

« Piú d'ogni altra cosa in vita mia. » In quel momento non pensò nemmeno ai suoi bambini. L'unica cosa che contava nella sua vi-ta era lui.

« Sarà pericoloso. »

« Lo so. »

« Se ci scoprono la, pagheremo cara. Disgrazia, ostracismo, prigione. La tua vita ne sarebbe distrutta. »

« La mia vita è uno schifo. La sua distruzione non sarebbe una gran perdita », gli rispose tranquilla.

Lui studiò i suoi lineamenti con attenzione, cercandovi eventuali tracce di insincerità. Alla fine restò soddisfatto.

« Ti manderò a chiamare quando non ci sarà pericolo. »

« Verrò subito, in qualsiasi momento. »

« Adesso devo lasciarti. Portami a casa di Molly. »

Si fermò di fianco alla casa dell'amica, nell'ombra, dove nessuno avrebbe potuto scorgerli dalla strada.

"Ora cominciano i sotterfugi e le dissimulazioni" pensò Tara con calma. "Avevo ragione. Nulla sarà mai piú lo stesso."

Lui non fece alcun tentativo di abbracciarla, non era consuetu-dine africana. La guardò, col bianco degli occhi che scintillavano come avorio nella penombra.

« Ti rendi conto che scegliendo me scegli la mia lotta?» le chiese.

« Sì, lo so. »

« Sei diventata una guerriera, e tu e le tue necessità, perfino la tua vita, non contano piú. Se dovrai morire per la causa, io non alzerò un dito per salvarti. »

Lei annuì. « Sì, lo so. » La nobiltà dell'impegno le colmò il petto, rendendole difficile respirare, sicché la sua voce uscì stentata quando gli sussurrò: « Nessuno è piú amato di te. Farò qualunque sacrificio tu mi chieda ».

Moses andò alla camera degli ospiti dove Molly l'aveva sistemato, e si lavò la faccia nel catino che Marcus Archer gli aveva portato, entrando senza bussare. Aveva chiuso la porta e ci si era appoggiato, guardando Moses nello specchio.

« E allora? » gli chiese infine, anche se non aveva nessuna voglia di sentire la risposta.

« E' andato tutto come previsto », gli disse Moses. Poi si asciugò la faccia nella salvietta.

« Detesto quella stupida vacca », dichiarò sommessamente Marcus.

« Ne abbiamo già parlato e abbiamo concluso che era necessarìo. » Moses prese una camicia pulita in valigia.

« Lo so », disse Marcus. « Se ben ricordi, l'idea è stata mia, ma non per questo deve anche piacermi. »

« E' uno strumento. E' pura follia lasciarsi influenzare dai propri sentimenti e risentimenti personali. »

Marcus Archer annuì. Sperava infine di riuscire ad agire da vero rivoluzionario, come quegli uomini d'acciaio temprato di cui la causa aveva tanto bisogno: ma i suoi sentimenti per quest'uomo, Moses Gama, erano piú forti di tutte le sue convinzioni politiche.

Sapeva che gli interessava una cosa sola. Negli anni, Moses Ga-ma si era servito di lui con lo stesso calcolato cinismo con cui ora si proponeva di usare la Courteney. Il suo gran fascino sessuale era per Moses Gama un'altra freccia al suo arco, un altro modo di ma-nipolare la gente. Poteva usarla su chiunque, uomo o donna, giovani o vecchi, attraenti o insipidi, e Marcus l'ammirava per questa capacità, e allo stesso tempo ne era addolorato.

« Domani si parte per il Witwatersrand », disse, togliendosi dalla porta. Era riuscito a dominare l'attacco di gelosia. « Ho preso tutti gli accordi. »

« Così presto? » gli chiese Moses.

« E' già tutto stabilito. Andremo in macchina. »

Era uno dei problemi che rendevano arduo il loro lavoro. Era difficile per un negro viaggiare per il vasto subcontinente, a ogni richiesta doveva esibire il dompas e giustificare la lontananza dalla sua residenza, con precise ragioni di lavoro certificate dal datore.

L'amicizia di Marcus e l'apparente impiego presso la Camera delle Miniere forniva a Moses una copertura adeguata quando doveva viaggiare, ma avevano sempre bisogno anche di corrieri. E

questa era una delle funzioni che avrebbe ricoperto Tara Courteney.

Inoltre lei, che per nascita e matrimonio godeva di un'alta posizione sociale, poteva fornire informazioni preziosissime. In seguito, dopo che si fosse dimostrata degna di fiducia, poteva sbrigare anche lavori molto piú importanti e pericolosi.

Alla fine Shasa Courteney raggiunse la conclusione che si sarebbe affidato al consiglio di sua madre per accettare o rifiutare l'offerta che gli avevano fatto durante il week-end di caccia allo springbok.

Shasa sarebbe stato il primo a disprezzare qualunque altro uomo della sua età che si dimostrasse ancora legato fino a quel punto al grembiule di mammà, ma non riteneva che la critica potesse riguardare lui. Il fatto che Centaine Courteney-Malcomess fosse anche sua madre era puramente incidentale. Ciò che l'induceva ad affidar-si a lei era la sua grande astuzia politica e finanziaria: era anche la sua socia principale, e la sua unica confidente vera. Prendere una decisione così importante senza consultarla era addirittura impensabile.

Aspettò una settimana, dopo il ritorno a Città dei Capo, per lasciar sedimentare le sue idee, e per poter incontrare Centaine da so-la. Infatti non aveva dubbi circa la reazione del patrigno alla proposta. Blaine Malcomess rappresentava l'opposizione in seno alla commissione parlamentare che doveva esaminare il progetto di estrarre benzina dal carbone, uno dei piani a lungo termine del governo per ridurre la dipendenza del Paese dal greggio importato, La commissione doveva fare dei sopralluoghi, e per una volta Centaine non avrebbe seguito il marito. Era l'occassione che cercava Shasa.

La casa di sua madre era a una mezz'ora di distanza da Weltevreden, dall'altra parte delle montagne di Constantia e in riva all'oceano, in mezzo a una a proprietà tutta coperta di piante di protea. L'edificio risaliva ai tempi della regina Vittoria, quand'era stato costruito da uno degli antichi magnati delle miniere del Rand.

Centaine però l'aveva ristrutturato completamente e riadattato a modo suo.

Lo stava aspettando in veranda, Shasa parcheggiò la Jaguar e corse ad abbracciarla sugli scalini.

« Stai diventando troppo magro », lo rimproverò teneramente.

Aveva indovinato, dalla telefonata ebe le aveva fatto, che aveva un argomento serio da discutere, e in proposito avevano le loro tradizioni. Centaine indossava una camicetta comoda, pantaloni e stivali. Senza nemmeno parlarne, lo prese per il braccio e si avviò per il sentiero che, costeggiando il roseto, saliva per la collina coperta di vegetazione spontanea.

L'ultima parte della salita era ripida e il sentiero difficile, ma Centaine l'affrontò senza esitare e arrivò in cima in testa. Non aveva quasi nemmeno il fiatone, e nel giro di un minuto la sua respirazione tornò normale. "Si tiene in gran forma. Solo il cielo sa quanto spende in trattamenti e pozioni salutari, e si allena come un'atleta professionista", pensò Shasa sorridendo con orgoglio. Le circondò la vita soda e sottile con il braccio.

« Non è bellissimo? » Centaine si appeggiò leggermente a lui e guardò l'oceano percorso dalla verde corrente di Benguela, che lambiva in un turbine di schiuma bianca il tacco dell'Africa, irto di spuntoni di roccia nera come un cavaliere medievale in armatura.

« Questo è uno dei miei posti preferiti. »

« Chi l'avrebbe mai detto », mormorò Shasa, guidandola verso la roccia piatta, coperta di muschio, dove lei si sedeva sempre.

Poi si accoccolò sul muschio, ai suoi piedi. Restarono entrambi zitti per un pò, e Shasa si chiese quante volte s'era ripetuta la stessa scena in quel posto, e quante gravi decisioni vi erano state prese.

« Ti ricordi Manfred De La Rey? » le chiese a un tratto, ma la sua reazione lo trovò impreparato. Centaine sobbalzò e lo scrutò attentamente, impallidendo, con un'espressione indecifrabile in viso.

« C'è qualcosa che non va, mamma? » Fece per alzarsi, ma lei gli accennò di star comodo.

« Perché mi chiedi di lui? » gli domandò, ma Shasa non le rispose direttamente.

« Non è strano come i nostri sentieri si incrocino sempre? Fin dal momento in cui suo padre ci salvò nel deserto, quando io ero appena nato ed eravamo dei reietti sperduti nel Kalahari che vivevano coi boscimani. »

« Non c'è bisogno di riparlarne », lo fermò Centaine, in tono brusco. Shasa capì di non aver mostrato un gran tatto. Il padre di Manfred aveva rapinato diamanti della miniera H'ani per quasi un milione di sterline, per vendicarsi di torti immaginari inflittigli da Centaine. Per quel reato aveva scontato quasi quindici anni di una condanna all'ergastolo, ed era stato graziato dai Nazionalisti appena andati al potere nel 1948. Analogamente i Nazionalisti avevano graziato tanti altri afrikaner condannati per tradimento, sabotaggio e rapina a mano armata dal governo di Smuts che avevano cercato di boicottare, simpatizzando per l'Asse, durante la guerra contro la Germania nazista. Tuttavia i diamanti rubati non erano mai saltati fuori, e la loro perdita aveva quasi rovinato Centaine, che si era costruita una fortuna col duro lavoro, il sacrificio e l'impegno costante.

« Perché hai nominato Manfred De La Rey? » ripeté la domanda.

« Mi ha invitato a un incontro segreto con importanti esponenti del suo partito. »

« Ci sei andato? »

Annuì lentamente.« Ci siamo incontrati in una tenuta nello Stato di Orange. C'erano altri due membri del governo. »

« Hai parlato con Manfred da solo? » gli chiese, e il tono della domanda, come il fatto che avesse usato il nome proprio del ministro degli Interni, aguzzò l'attenzione di Shasa. Gli venne in mente l'inaspettata domanda che gli aveva fatto Manfred De La Rey.

« Tua madre ti ha mai parlato di me? » gli aveva detto. Di fronte a questa strana reazione di Centaine, la faccenda acquistava una rilevanza particolare.

« Sì, mamma, gli ho parlato in privato. »

« E ti ha parlato di me? » gli domandò Centaine. Shasa sobbalzò, perplesso.

« Mi ha fatto la tua stessa domanda... Se mi avevi mai parlato di lui. Come mai siete tanto interessati l'una all'altro? »

L'espressione di Centaine tornò indecifrabile, e Shasa si accorse che aveva chiuso la mente davanti a lui. Era un mistero che non si sarebbe risolto facendo domande dirette, avrebbe dovuto girarci intorno.

« Mi hanno fatto una proposta. » Vide riaccendersi l'interesse della madre.

« Manfred? Una proposta? Dimmi. »

« Vogliono che passi dalla loro. »

Centaine annuì lentamente, senza mostrare sorpresa e senza ri-gettar subito l'idea. Sapeva benissimo che Blaine, se fosse stato presente, avrebbe reagito in tutt'altro modo. Il suo senso dell'onore, i suoi rigidi principi non gli avrebbero lasciato alcuno spazio di manovra. Blaine era un uomo di Smuts, mente e cuore, e anche se il vecchio Maresciallo era morto di crepacuore poco dopo esser stato deposto dai Nazionalisti saliti al potere, Blaine continuava a essere quanto mai fedele alla sua memoria.

« Posso immaginare perché ti vogliono », disse lentamente Centaine. « Hanno bisogno di un grande finanziere, una mente di prim'ordine che conosca il mondo degli affari e sia un buon organizzatore. E' l'unica cosa che manca al governo, »

Lui annuì. L'aveva capito subito, e la sua altissima stima per lei ne risultò confermata.

« Che prezzo intendono pagare? » gli domandò.

« Un posto nel governo. Ministro dell'Industria e delle Miniere. »

Vide il suo sguardo confondersi, e perdersi miope in mezzo al mare. Sapeva cosa significava quell'espressione. Centaine stava l'acendo i suoi conti, giocherellando col futuro: aspettò con pazienza che rimettesse lo sguardo a fuoco.

« Vedi qualche ragione di rifiutare? » gli chiese.

« Be', i miei principi, le mie idee politiche... »

« Sono tanto diversi dai loro? »

« Io non sono un afrikaner. »

« Questo potrebbe tornare a tuo vantaggio. Sarai il loro fiore al-l'occhiello inglese. Ciò ti conferirà uno status speciale. Avrai mano piú libera. Saranno piú riluttanti a cacciarti che se fossi uno dei loro. »

« Non sono d'accordo con la loro politica indigena, quest'affare dell'apartheid dal punto di vista economico è una vera follia. »

« Buon Dio, Shasa, non penserai che i negri meritino uguali diritti politici, spero? Nemmeno Jannie Smuts voleva questo. Vorresti forse veder insediato al governo un altro Chaka, con giudici negri e una polizia negra che lavorano per un dittatore negro? » Centaine rabbrividì. « Ci farebbero fuori subito. »

« No, mamma, non penso certo questo. Ma l'apartheid non è che un pretesto per papparsi tutta la torta. Invece bisogna darne una fetta anche a loro, se no tutto finirà in un bagno di sangue. »

« Benissimo, chéri. Se sarai nel governo potrai assicurarti che anche i negri abbiano la loro parte. »

Lui sembrava ancora perplesso. Prese tempo scegliendosi accuratamente una sigaretta dal portasigarette d'oro.

« Tu hai delle capacità speciali, Shasa », continuò suadente Centaine. « E' tuo dovere usarle per il bene comune. »

Shasa continuava a tacere, perché voleva che si dichiarasse fino in fondo. Doveva sapere se lo desiderava quanto lui.

« Possiamo parlarci francamente fra noi, chéri. Questo è lo scopo per cui abbiamo lavorato fin da quando eri piccolo. Cogli l'occasione e fa' bene il tuo lavoro, non si sa mai cosa può nascerne. »

Poi tacquero entrambi. Sapevano cosa poteva nascerne, e lo speravano di cuore: era nella loro natura mirare sempre al vertice.

« E Blaine? » disse infine Shasa. « Come la prenderà? Ti garan-tisco che non ho nessuna voglia di dargli la notizia. »

« Gliela darò io », gli promise Centaine. « Ma tu dovrai pur dirlo a Tara. »

« Tara », sospirò lui. « Questo sì che è un problema. »

Tacquero ancora, finché Centaine gli chiese: « Come pensi di farlo? Se cambi campo adesso, tradendo il tuo elettorato, ti attirerai un mare di critiche e di pubblicità negativa ».

La decisione, così, fu presa senza altre parole. Alle prossime elezioni si sarebbe candidato per l'altro partito. « Vedrai che mi daranno un collegio sicuro. »

« Sicché abbiamo un pò di tempo per pensare a tutti i particolari. »

Ne parlarono per un'ora, pianificando con la meticolosità che faceva di loro una formidabile squadra da anni in campo finanziario e industriale. Infine Shasa la guardò negli occhi.

« Grazie », disse semplicemente. « Cosa farei senza di te? Sei piú risoluta e intelligente di qualsiasi uomo che abbia mai conosciuto. »

« Ma va' », gli sorrise lei. « Lo sai che odio le lodi, » Entrambi risero di questa palmare assurdità.

« Ti accompagno a casa, mamma. » Ma lei scosse la testa.

« Ho qualcos'altro a cui pensare. Lasciarni qui. »

Lo guardò scendere per il sentiero, con un amore e un orgoglio che rischiavano di soffocarla.

E' il figlio che volevo, ha realizzato tutte le mie aspirazioni mille volte meglio. Grazie, figlio mio, grazie della gioia che mi hai sempre dato."

Poi di colpo le parole "figlio mio" fecero scattare un'altra reazione, e la sua mente tornò alla prima parte della, conversazione.

« Ti ricordi Manfred De La Rey? » le aveva domandato Shasa, ma non poteva certo sapere che risposta avrebbe dovuto dargli.

« Può mai dimenticare suo figlio una donna? » Sussurrò al vento la risposta, mentre in basso un'onda oceanica si schiantava fra-gorosamente sulla scogliera.

Tutte le panche in chiesa erano occupate. Tutte le cuffie femminili erano piene di colori, come un campo di margherite selvatiche di Namaqua in primavera, mentre i vestiti degli uomini erano scuri e severi. Tutti i visi erano rivolti al magnifico pulpito di legno nero istoriato, in cui stava il reverendissimo Tromp Bierman, presule della Chiesa Olandese Riformata del Sudafrica.

Manfred De La Rey considerò per l'ennesima volta quant'era invecchiato lo zio Tromp nel dopoguerra. Non era mai completamente guarito dalla polmonite contratta al campo di concentramento di Koffiefontein, dove quel fantoccio degli inglesi di Jannie Smuts l'aveva rinchiuso con centinaia di altri patrioti afrikaner per tutta la durata della guerra angio-tedesca.

Ora la barba dello zio Trornp era candida come la neve, ancor piú spettacolare dei cespuglio nero che era stata un tempo. Anche i capelli erano bianchi, e pettinati col riporto per nascondere la calvi-zie. La rosea piazza occhieggiava tra chiazze di neve, ma gli occhi erano sempre pieni del fuoco con cui inceneriva i peccatori, e la vo-ce tonante che gli aveva guadagnato il soprannome di "Tromba del Signore" non aveva perso un decibel e tuonava, temporalesca, can-noneggiando l'alto soffitto della casa di Dio.

Lo zio Tromp era ancora capace di riempire la chiesa e Manfred annuiva rispettosamente alla sua predica tonante. Non ascoltava le parole, in realtà, si limitava a godere della sensazione di continuità che stava provando; il mondo era un bel posto sicuro, quando lo zio Tromp predicava dal suo pulpito. Un uomo poteva confidare nel Dio del Volk, che il pastore evocava con tanta certezza, e credere nell'intervento divino che dirigeva la sua vita.

Manfred De La Rey sedeva in prima fila, nella parte destra della navata. Era la posizione piú prestigiosa della congregazione, e aveva tutto il diritto di occuparla, perché era l'uomo piú potente e importante che ci fosse in chiesa. La panca era riservata a lui e alla sua famiglia, e i loro nomi scritti a lettere d'oro spiccavano sui libri di preghiere e inni appoggiati davanti ai loro posti.

Sua moglie Heidi era una magnifica donna, alta e forte, dalle braccia lisce e dure, nude nei manicotti di pelliccia. Il suo seno era grande e ben fatto, il collo lungo e i folti capelli biondi intrecciati e raccolti a crocchia sotto il cappello nero a tesa larga. Manfred l'aveva conosciuta a Berlino, dove aveva vinto la medaglia d'oro di pugi-lato alle Olimpiadi del 1936, nella categoria dei mediomassimi.

Adolf Hitler in persona era venuto al loro matrimonio. Durante la guerra erano rimasti separati, ma in seguito Manfred l'aveva fatta venire in Africa insieme al loro figlioletto Lothar.

Adesso Lothar aveva quasi dodici anni, ed era un bel ragazzo, forte, biondo come sua madre e robusto come suo padre. Sedeva impettito nel banco di famiglia, coi capelli pettinati con la brillantina e il colletto rigido che gli mordeva la nuca. Come suo padre, voleva diventare un atleta, ma si era dedicato al rugby in cui già eccelleva. Le tre sorelle minori, bionde e carine, dall'aria sana di ragazzine di campagna, sedevano accanto a lui, coi faccini incorniciati dal cappuccio da voortrekker e le gonne alle caviglie del costume tradizionale. Manfred era contento che, la domenica, lo indossassero.

Lo zio Tromp finì con un bombardamento minatorio infernale, che fece accapponar la pelle ai fedeli che già si vedevano in preda a Satanasso. Poi tutti si alzarono a cantar l'inno finale. Dividendo con Heidi il libro di preghiere, Manfred contemplò i suoi bei lineamenti germanici. Era una moglie di cui si poteva andare legittima-mente fieri, una buona madre e massaia, una compagna intelligente di cui ci si poteva fidare, e uno sfavillante ornamento per un marito dedito alla carriera politica. Una donna come lei poteva stare al fianco di chiunque, anche il primo ministro di una ricca e potente nazione. Indulse a quel segreto pensiero. Chissà era ancora giovane, il più giovane Ministro di quel governo, e non aveva mai commesso alcun errore Politico. Anche le sue aattività in tempo di guerra gli conferivano lustro e credito presso i pari, benché poche persone, fuori della cerchia degli intimi, conoscessero appieno il ruolo che aveva svolto nell'esercito segreto dell'Ossewa Bradwag, antibri-tannico e filonazista.

Già stavano sussurrando che era l'uomo del futuro, e ciò era evidente dal rispetto che gli mostrarono alla fine della funzione, quando la congregazione lasciò la chiesa. Manfred si fermò sul prato del sagrato, e uno dopo l'altro tutti i notabili si fermarono a salutarlo, porgendogli inviti, chiedendogli favori, congratulandosi per il discorso con cui aveva introdotto il nuovo Criminal Law Amendment Bill, la riforma del diritto penale, o semplicemente per porgergli omaggio. Solo dopo venti minuti buoni poté tornarsene a casa.

La famiglia ci andò a piedi. C'erano da percorrere soltanto due isolati, all'ombra delle grandi querce che costeggiavano le vie di Stellenbosch, la cittadella della cultura e dell'intellighenzia afrikaner. Le tre ragazzine camminavano in testa, Lothar le seguiva e poi venivano a braccetto Heidi e Manfred, fermandosi ogni pochi passi a salutar qualcuno o a scambiare qualche parola con un vicino, un amico o un elettore di Manfred.

Manfred aveva acquistato la casa nel dopoguerra, quando erano rientrati dalla Germania. Benché il giardino fosse piccolo, e desse quasi sulla strada, si trattava di una grande casa, con stanze spazio-se e dai soffitti alti in cui la famiglia si trovava molto bene, Manfred non aveva mai visto la necessità di cambiarla, e gli piacevano molto i mobili seri, teutonici, che aveva scelto Heidi per arredarla.

Adesso Heidi e le ragazze corsero avanti per dare una mano ai servitori in cucina, e Manfred fece il giro della casa e andò in garage.

Non usava mai la vettura ufficiale con l'autista nei week-end, ma la Chevrolet personale, con cui andava a prendere il padre per pranzare insieme, in famiglia.

Il vecchio non andava quasi mai in chiesa, soprattutto quando predicava il reverendo Bierman. Lothar De La Rey viveva solo nella casetta che Manfred aveva comprato per lui nelle ultime propaggini della città, ai piedi del passo di Helshoogte. Lo trovò tra gli alberi di pesche, intento a curare gli alveari. Manfred si fermò a guardarlo dal cancello, col cuore stretto dalla pietà e dall'affetto.

Lothar De La Rey era stato un tempo alto e diritto come il nipote che rinnovava il suo nome, ma l'artrite che aveva preso in prigione a Pretoria l'aveva incurvato e deformato, facendo dell'unica ma-no che gli restava una specie di uncino grottesco. Il braccio sinistro era amputato sopra il gomito, troppo in alto per applicare un arto artificiale. Aveva perso il braccio in seguito a una ferita riportata durante la rapina che l'aveva mandato in prigione. Era vestito di calzonacci blu e camicia di tela da contadino, con una manica fermata da una spilla di sicurezza. In testa aveva un informe cappello marrone.

Manfred aprì il cancello ed entrò nel frutteto dove il vecchio era chino su un alveare di legno.

« Buongiorno, papà », gli disse piano Manfred. « Non sei ancora pronto. »

Suo padre si raddrizzò e lo guardò confuso poi si riscosse con un pò di sorpresa.

« Manie! E' già domenica? »

« Vieni, papà, che ti mettiamo un pò in ordine. Heidi fa l'arrosto di maiale, quello che ti piace tanto. »

Prese per mano il vecchio, che si lasciò portare in casa senza protestare.

« Ehi, ma che disordine. » Manfred si guardò intorno con una smorfia. La piccola camera da letto era in uno stato tremendo. Il letto con tutta evidenza non veniva rifatto da tempo: vestiti sporchi erano sparsi dappertutto sul pavimento, e sul comodino giacevano piatti e tazze usati. « Che ne è della domestica nuova che ti ha mandato Heidi? »

« Non mi piaceva, quella negretta insolente », brontolò Lothar.

« Rubacchiava lo zucchero e mi beveva il brandy. L'ho licenziata. »

Manfred andò a vedere nell'armadio e trovò una camicia bianca pulita. Aiutò il vecchio a toglier l'altra.

« Quand'è l'ultima volta che ti sei fatto il bagno, papà? » gli chiese gentilmente.

« Eh? » Lothar lo scrutò vago.

« Non importa. » Gli abbottonò la camicia. « Heidi ti troverà un'altra domestica. Cerca di tenerla piú di una settimana, stavolta. »

Non era colpa del vecchio, ricordò a se stesso Manfred. La prigione gli aveva rovinato il cervello. Era stato un uomo libero e orgoglioso, soldato e cacciatore, una creatura del duro Kalahari. Non si può mettere in gabbia un animale selvatico. Heidi aveva invitato il vecchio a vivere con loro, e Manfred si era sentito in colpa per il suo rifiuto. Avrebbe imposto l'acquisto di una casa piú grande, ma questo era il meno. Manfred non poteva permettersi la sua presenza in giardino, vestito come un bracciante negro, le sue irruzioni im-provvise in studio, mentre riceveva qualche persona importante, le sue maniere a tavola e i suoi commenti a sproposito allorché intratteneva gli ospiti. No, era meglio per tutti, e soprattutto per il vecchio, che vivesse per conto suo. Heidi gli avrebbe trovato un'altra cameriera; tuttavia, prendendolo a braccetto e accompagnandolo alla macchina, si sentì terribilmente in colpa.

Guidò pianissimo, quasi a passo d'uomo, indurendosi per far quello che non era mai riuscito a fare in tutti questi anni, da quando Lothar era stato graziato e liberato dalla prigione, per interces-sione di Manfred.

« Ti ricordi i vecchi tempi, papà? Quando andavamo a pesca nella baia di Walvis? » gli chiese, e gli occhi del vecchio brillarono.

Il lontano passato era piú reale del presente per lui, e amava ricordare, citando senza errore avvenimenti, posti e persone di un'altra epoca.

« Parlami di mia madre, papà », l'invitò infine Manfred. Si odiò per aver condotto il vecchio nella trappola accuratamente preparata.

« Tua madre era una bella donna », annuì felice Lothar, ripetendo quello che tante volte aveva detto a Manfred fin da quando era bambino. « Aveva i capelli color delle dune del deserto, quando il sole del mattino le illumina. Era una bella donna tedesca di nobile nascita. »

« Papà », gli disse sottovoce Manfred. « Non mi stai dicendo la verità, vero? » Gli parlava come a un bambino sventato. « La donna che chiami mia madre, la donna che fu tua moglie, morì qualche anno prima che io nascessi. Ho una copia del suo certificato di morte, firmato dal dottore del campo di concentramento inglese. Morì di difterite. »

Non riusciva a guardare il padre mentre così gli parlava, ma teneva gli occhi fissi sulla strada, finché non udì un suono soffocato di fianco e si girò, in allarme. Lothar stava piangendo: le lacrime gli scorrevano lungo le guance raggrinzite.

« Mi dispiace, papà. » Manfred accostò al marciapiede e spense il motore. « Non avrei dovuto dirlo. » Tirò fuori il fazzoletto pulito e lo porse al padre.

Lothar si asciugò il viso lentamente, ma con mano salda. La mente, che di solito continuava a divagare, sembrava stavolta bloccata dallo shock.

« Da quanto tempo sai che è la tua vera madre? » gli chiese il padre con voce ferma e sicura. L'anima di Manfred vacillò. Aveva sperato di sentirglielo negare.

« Venne a trovarmi la prima volta che mi candidai alle elezioni.

Mi ricattò, per il bene dell'altro suo figlio. L'avevo in mio potere.

Minacciò di divulgare il fatto che anch'io ero un suo figlio illegittimo, distruggendo la mia candidatura, se agivo contro l'altro figlio.

Mi sfidò a chiedere a te se era o non era vero, ma non ho mai osato farlo finora. »

«E' la verità », annuì Lothar. « Mi spiace, figlio mio. Ti ho mentito soltanto per proteggerti. »

« Lo so. » Manfred prese la mano ossuta del vecchio padre, che continuò il discorso.

« Quando la trovai nel deserto, era giovanissima e indifesa. Era bella. Anch'io ero giovane e solo... Eravamo soli insieme, nel deserto, col suo bambino appena nato. Ci innamorammo. »

« Non devi spiegarmi niente », disse Manfred, ma Lothar sembrò non udirlo.

« Una notte vennero nel nostro accampamento due boscimani selvaggi. Pensai che intendessero rubare i cavalli o le altre bestie. Li inseguii, e all'alba li raggiunsi. Gli sparai prima di arrivare a tiro delle loro frecce avvelenate. Era così che si trattavano quelle piccole bestie gialle e feroci a quel tempo. »

« Sì, papà, lo so. » Manfred conosceva la storia della guerra di sterminio condotta dal suo popolo contro le tribú boscimane.

« Allora non lo sapevo, ma prima che io la trovassi lei era vissuta con quegli stessi due boscimani. L'avevano aiutata a sopravvivere nel deserto e a partorire il primo figlio. Ormai li amava, tanto che li chiamava "vecchio nonno" e "vecchia nonna". » Scosse la testa sbalordito, ancora incapace di comprendere questo rapporto di una donna bianca con due selvaggi. « Ma io non lo sapevo, e li uccisi senza rendermi conto di che cosa rappresentavano per lei. Il suo amore per me si trasformò in odio. Adesso so che il suo amore non poteva essere profondo, forse era solo solitudine, abbandono, gratitudine, e niente affatto amore. Ma dopo cominciò a odiarmi, e il suo odio si estese al mio bambino di cui era incinta. Si estese anche a te, Manie. Ti affidò a me subito dopo la tua nascita. Ci odiava entrambi così profondamente che non voleva nemmeno vederti. Da allora, di te mi sono sempre occupato io solo. »

« Fosti padre e madre per me. » Manfred chinò il capo, vergo-gnoso e pentito di aver costretto il vecchio a rievocare quegli eventi tragici e crudeli. « Ciò che mi hai raccontato spiega tante cose che non avevo mai capito. »

« Ja », disse Lothar asciugandosi nuove lacrime. « Lei mi odiava, ma vedi, io l'amavo ancora. Anche se mi aveva trattato crudel-niente, non riuscivo a dimenticarla. Per questo commisi quella follia della rapina. Fu una vera follia, e mi costò questo braccio. » Sollevò la manica vuota. « E la libertà. E' una donna dura, una donna senza pietà. Non esita a distruggere chi le taglia la strada. E' tua madre, ma sta' attento a lei, Manie. Il suo odio è terribile. » Il vecchio si chinò verso il figlio e gli prese il braccio, scuotendolo per l'agitazione. « Non devi aver nulla a che fare con lei, Manie, o ti distruggerà come ha distrutto me. Promettimi che starai lontano da lei e dalla sua famiglia. »

« Mi dispiace, papà », scosse la testa Manfred. « Sono già legato a lei, attraverso suo figlio », esitò prima di pronunciare le parole successive, « ossia mio fratello, il mio fratellastro Shasa Courteney.

Sembra che i nostri destini e il nostro sangue siano così intrecciati che non potremo mai liberarci l'uno dell'altro. »

« Oh, figlio mio, figlio mio », lamentò Lothar De La Rey. « Stai attento. Ti prego, stai attento. »

Manfred prese in mano la chiave per avviare il motore, ma esitò ancora.

« Dimmi, papà. Cosa provi oggi per questa donna, per mia madre? »

Lothar tacque un attimo prima di rispondere: « La odio quasi quanto l'amo ancora ».

« E' strano che si possa amare e odiare allo stesso tempo. » Mari-fred scosse la testa lentamente, meravigliato. « Io la odio per quello che ti ha fatto. La odio per tutto ciò che rappresenta, pure sento il richiamo del sangue. Alla fine, a parte tutto il resto, Centaine Courteney è mia madre e Shasa Courteney è mio fratello. Odio e amore... Quale dei due prevarrà, papà? »

« Vorrei saperlo anch'io, figliolo », sospirò miseramente Lothar.

« Posso solo ripeterti quello che ti ho già detto. Attento a quei due, Manie. Madre e figlio, sono avversari pericolosi. »

Erano quasi vent'anni che Marcus Archer possedeva la vecchia fattoria a Rivonia. Aveva comprato la piccola tenuta di un paio d'ettari prima che la zona diventasse di moda. Adesso confinava coi Club del Golf di Jobannesburg, il piú esclusivo del Witwatersrand.

I soci gli avevano offerto quindici volte il prezzo che aveva pagato a suo tempo, piú di centomila sterline, ma Marcus si era sempre te-stardamente rifiutato di vendere.

Su tutti gli altri grossi appezzamenti di Rivonia, i nuovi proprietari - ricchi imprenditori, agenti di cambio, medici di successo -

avevano costruito grandi residenze, generalmente basse e tipo ranch, come andava di gran moda, oppure copie fantasiose di ha-ciendas messicane o ville mediterranee, circondando l'edificio principale di scuderie e campi d'equitazione, campi da tennis e piscine e grandi prati all'inglese che le gelate invernali dell'altopiano bruciavano rendendoli color marrone come foglie di tabacco lavorato.

Marcus Archer aveva rifatto il tetto della vecchia fattoria, imbiancato le pareti, e piantato frangipani, bougainvillee e altri rampi-canti all'esterno; poi aveva abbandonato a se stesso il giardino, al punto che ora dallo steccato la casa non si vedeva neanche più.

Benché la zona fosse ora un vero e proprio bastione della ricca élite bianca, il Club del Golf dava lavoro a una quantità di negri, come sguatteri, caddies e camerieri, sicché nei dintorni nessuno faceva caso a una faccia nera, contrariamente a quanto avveniva in altri sobborghi di bianchi ricchi. Amici e compagni di Marcus potevano andare e venire senza destare alcun sospetto. Puck's Hill, co-me Marcus aveva recentemente ribattezzato la fattoria, era così diventato pian piano il luogo d'incontro dei piú attivi militanti nazionalisti africani, le avanguardie della coscienza nera e i loro alleati bianchi, membri del disciolto Partito Comunista.

Era naturale, quindi, che Puck's Hill fosse scelto come quartier generale della preparazione e del coordinamento della campagna di disobbedienza dei negri che andava a incominciare. Tuttavia, non era un gruppo unificato quello che si incontrava sotto il tetto di Marcus Archer, perché, sebbene il loro obiettivo finale dichiarato fosse lo stesso, le varie visioni del futuro differivano parecchio.

In primo luogo c'era la vecchia guardia dell'African National Congress, guidata dal dottor Xuma. Erano i piú conservatori, e portavano avanti trattative coi funzionari statali bianchi nel quadro del chiuso sistema sociale e razziale vigente.

« Voialtri perseguite invano questa strada fin dal 1912, quando l'ANC fu fondato », rinfacciò a Xuma Nelson Mandela. « Ma adesso è ora di andare al confronto, di imporre ai boeri la nostra volontà. »

Nelson Mandela era un giovane avvocato, che stava facendo il tirocinio nel Witwatersrand assieme a un altro attivista di nome Oliver Tambo. Nella gerarchia dei Congresso costituivano l'ala emergente dei giovani ribelli che, sfidavano la leadership.

« E' tempo di passare all'azione diretta », disse Nelson Mandela chinandosi in avanti e guardando le altre personalità sedute al tavolone. Erano in cucina, la stanza piú grande di Puck's Hill, dove tenevano tutte le riunioni. « Abbiamo steso un programma di boicottaggio, sciopero e disobbedienza civile. » Mandela parlava in inglese, e Moses Gama, seduto vicino all'altro capo del tavolo, lo osservava impassibile. Ma la sua mente correva avanti, precedendo l'oratore e valutando le proposte. Come tutti gli altri presenti conosceva benissimo i retroscena politici della riunione. Tra i leader negri lì riuniti non ce n'era uno che non sognasse di essere lui a guidare un giorno tutti i popoli indigeni del Sudafrica.

Tuttavia il fatto che Mandela parlasse in inglese sottolineava la realtà piú importante con cui dovevano fare i conti: le loro divisio-ni. Mandela era un tembu, Xuma uno zulu, Moses Gama un ovambo, e nella stanza erano rappresentate una mezza dozzina di altre tribú.

"Sarebbe cento volte piú facile se noi negri fossimo un popolo solo" pensò Moses, e a dispetto di se stesso subito dopo guardò, un pò a disagio, il gruppetto degli zulu che sedevano tutti insieme dall'altra parte del tavolo. Erano la maggioranza, noti soltanto in quella stanza, ma anche nel paese in generale. Che sarebbe successo se si fossero alleati in qualche modo coi bianchi? Era un pensiero inquietante, ma lo mise recisamente da parte. Gli zulu erano i piú fieri e indipendenti fra le tribú guerriere. Prima dell'arrivo dei bianchi avevano conquistato tutti i popoli vicini e li avevano soggiogati. Il re zulu Chaka li aveva chiamati "i miei cani". A causa del numero e delle tradizioni guerriere, era quasi sicuro che il primo presidente negro del Sudafrica sarebbe stato uno zulu, o una persona che avesse legami molto stretti con la nazione zulu. Legami di matrimonio...

A questa possibilità Moses si mise a pensare, non per la prima volta, con gli occhi socchiusi. Era comunque tempo che si sposasse.

Ormai aveva quasi quarantacinque anni. Una principessa zulu? Accantonò l'idea, per ripensarci meglio in scguito, e tornò a concentrarsi su quanto stava dicendo Nelson Mandela.

L'uomo aveva carisma e presenza, ed era intelligente e persuasivo. Un rivale, un rivale molto pericoloso. Moses riconobbe questo fatto come tante altre volte in precedenza. Erano tutti rivali. Nondimeno, la Lega dei Giovani dell'ANc era la base di potere di Nelson Mandela: guidava le teste calde, i giovani avidi di colpi di mano; eppure, ecco che adesso invitava alla cautela, moderando di riserve il suo appello all'azione.

« Non devono esserci violenze gratuite », stava dicendo. « Non bisogna danneggiare la proprietà privata, mettere a repentaglio vite umane... » e, benché Moses Gama annuisse con serietà, si chiedeva quale efficacia avrebbe avuto questo appello moderato fra i giovani della Lega. Non avrebbero preferito una vittoria sanguinosa e gloriosa? Era una possibilità da considerare.

« Dobbiamo indicare la strada alla nostra gente, dimostrare che non siamo affatto soli in questa lotta », stava ora dicendo Mandela, e Moses Gama sorrise dentro di sé. I membri dell'ANC erano in tutto settemila, mentre il suo sindacato clandestino di minatori contava quasi dieci volte tanti aderenti. Era il caso di ricordare a Mandela e a tutti gli altri il suo schiacciante e indiscusso potere presso i lavoratori negri meglio pagati e del settore piú importante per il Paese.

Moses si girò appena e guardò l'uomo che gli sedeva a fianco, provando un intimo moto d'affetto. Erano vent'anni che Hendrick Tabaka lo fiancheggiava così.

Swart Hendrick era un uomo grande e grosso, alto come Moses ma con le spalle piú larghe e la pancia. I suoi arti erano molto muscolosi. Aveva la testa rotonda come una palla di cannone, e piena di cicatrici di vecchie battaglie. Gli mancavano gli incisivi, e Moses ricordava la brutta fine fatta dal bianco che glieli aveva strappati.

Erano figli dello stesso padre, un capo ovambo, ma di madri diverse. Era l'unico uomo al mondo di cui Moses si fidasse, una fiducia non data a cuor leggero, ma conquistata nell'arco del ventennio precedente. Era l'unico negro in quella stanza che non fosse un rivale, ma un compagno e insieme un servitore fedele. Swart Hendrick gli fece un cenno, senza sorridere, e Moses si accorse che Nelson Mandela aveva finito di parlare e che tutti guardavano lui, in attesa della sua risposta. Si alzò lentamente in piedi, ben consapevole dell'impressione che stava facendo, e colse il rispetto nell'espressione degli astanti. Nemmeno gli avversari politici riuscivano a celare interamente la reverenza che ispirava.

« Compagni », esordì, « Fratelli. Ho ascoltalo ciò che ha detto il buon fratello Nelson Mandela e sono d'accordo con ogni sua parola. Ci sono soltanto due o tre cose che sento di dover agginge-re... » e poi parlò per quasi un'ora.

Dapprima propose un piano dettagliato di scioperi a gatto selvaggio nelle miniere controllate dal suo sindacato.

« Gli scioperi avverranno a sostegno della campagna di disobbedienza civile, ma non indiremo uno sciopero generale che darebbe ai boeri la scusa per intervenire con mano pesante. Fermeremo poche miniere per volta, e per brevi periodi, prima di tornare al lavoro, quanto basta insomma per boicottare gravemente la produzione d'oro ed esasperare la direzione. Gli morderemo le caviglie come fa il cagnolino col leone, pronto a scappare appena quello si volta. Ma sarà un avvertimento. Capiranno che siamo forti, e avranno paura di ciò che potrebbe succedere in caso di sciopero generale. »

Vide come erano rimasti colpiti dal suo piano, e, quando la proposta venne messa ai voti, fu approvata all'unanimità. Era un'altra piccola vittoria, un'altra aggiunta al suo prestigio e alla sua influenza in seno al gruppo.

« Oltre agli scioperi, proporrei un boicottaggio degli esercizi commerciali dei bianchi del Witwatersrand per la durata della campagna di disobbedienza. La nostra gente dovrà comprare cio che gli serve soltanto nei negozi dei negri. »

Hendrick Tabaka possedeva più di cinquanta grandi empori nelle città negre della zona mineraria, e Moses Gama era il suo socio occulto. Vide gli altri sussultare alla proposta, e Mandela fece un'o-biezione.

«Questo potrebbe causare inopportune difficoltà alla nostra gente», disse. «Tanti vivono in zone servite solo da negozi bianchi. »

« Allora dovranno andare da un'altra parte, dove c'è qualche negozio di fratelli. Alla nostra gente non farà male imparare che la lotta chiede sacrifici a tutti », gli rispose tranquillo Moses.

« Un boicottaggio come quello che proponi sarebbe praticamente irrealizzabile », insisté Mandela, e stavolta gli rispose Hendrick Tabaka.

« Per assicurarci che la gente obbedisca faremo entrare in azione i Bufali », ruggì, mettendo chiaramente a disagio i membri piú prudenti della riunione.

I Bufali erano il braccio del sindacato. Capeggiati da Hendrick Tabaka, avevano fama di agire rapidamente e spietatamente. Somigliavano troppo a un esercito politico privato per la tranquillità di mente di qualche altro partecipante alla riunione, e Moses Gama si accigliò leggermente. Forse era stato uno sbaglio di Hendrick men-zionare i Bufali. Moses nascose il proprio disappunto quando la proposta di boicottare i negozianti bianchi, e di far rispettare a tutti il boicottaggio mediante i Bufali, non passò. Era una vittoria di Mandela e dei suoi moderati. Fin lì erano dunque in parità, ma Moses non aveva ancora finito.

« C'è un altro argomento che vorrei sollevare prima che la riunione sia aggiornata. Vorrei considerare le prospettive che si stendo-no al di là della campagna di disobbedienza civile. Che cosa farem-mo se la campagna venisse soffocata da una decisa azione della polizia, e seguita dal massacro dei dirigenti negri e dalla promulgazio-ne di leggi di dominio ancor piú draconiane? » chiese. « La nostra risposta sarà sempre mite e timida, continueremo a toglierci il cappello e borbottare: "Sì, padrone bianco! No, padrone bianco!"? »

Fece una pausa, e osservò gli altri, scorgendo l'inquietudine che si aspettava nel volto del vecchio Xuma e dei conservatori; ma non aveva affatto parlato per loro. All'altro capo del tavolo c'erano due giovani ancora sui vent'anni: erano osservatori della Lega dei Giovani dell'ANC, e Moses sapeva che erano entrambi militanti che aspiravano a un'azione piú risoluta. Quanto stava per dire adesso era diretto a loro, e sapeva che le sue parole sarebbero state tra-smesse a tanti altri giovani guerrieri. Poteva iniziare di qui un'erosione del potere di Mandela presso i giovani, trasferendo poi questo potere a un altro leader piú pronto a dar loro il fuoco e il sangue di cui erano assetati.

« Propongo la costituzione di un'ala militare dell'ANC », disse Moses, « una forza combattente di uomini addestrati, pronti a morire per la nostra lotta. Chiamiamo questo esercito Umkhonto we Sizwe, la Lancia della Nazione. Forgiamo questa lancia nel segreto; affiliamola come un rasoio, e teniamola nascosta, ma sempre pronta a colpire. » Usò il suo tono di voce piú vibrante, e vide che i due giovani guerrieri lo guardavano coi visi illuminati di speranza.

« Scegliamo i nostri giovani piú arditi e intelligenti, e formiamo con loro gli impi, i reggimenti, come hanno fatto i nostri antenati. » Fe-ce una pausa e la sua espressione divenne sdegnosa, « Ci sono dei vecchi fra noi, e son saggì. Io rispetto i loro capelli grigi e la loro esperienza. Ma ricordate, compagni, il futuro è dei giovani. C'è un tempo per le belle parole - ed è un pezzo che ne sentiamo nelle nostre riunioni - e un tempo per l'azione - l'azione decisa e decisiva, e questo è il mondo dei giovani. »

Quando infine Moses Gama tornò a sedersi, vide che aveva toccato proprio tutti, sia pure in maniera diversa. Il vecchio Xuma scuoteva la testa grigia, e gli tremavano le labbra. Sapeva che il suo tempo era passato. Nelson Mandela e Oliver Tambo lo guardavano impassibili, ma vide balenare negli occhi la furia che aveva suscitato nel loro cuore. Gli schieramenti si erano delineati, e il nemico era stato riconosciuto. Però, e questa era la cosa piú importante, vedeva l'espressione dei due rappresentanti della Lega dei Giovani. Erano uomini che avevano appena trovato una nuova stella da seguire.

« Da quando in qua ti interessa tanto la palcoantropologia? »

domandò Shasa Courteney voltando le pagine dei Cape Times per passare dalla sezione finanziaria a quella sportiva.

« Non ti ricordi che l'ho studiata all'università? » ribatté Tara, sbuffando con qualche ragione. « Vuoi un'altra tazza di caffè? »

« Grazie, carissima. » Lo bevve e ripresu a parlare. « Quante, tempo hai intenzione di star via? »

« Il professor Dart terrà un corso settimanale, parlando di tutti gli scavi che ha effettuato, dalla scoperta dei cranio di Taungs fino alle piú recenti. Ha avuto la possibilità di trattare il materiale con una di quelle nuove macchine elettroniche che chiamano computer. »

Dietro il giornale, Shasa ridacchiò pensando a Marylee e al suo IBM 701. Anche lui aveva voglia di fare un salto a Johannesburg quanto prima.

« Pare abbia raggiunto risultati fenomenali », gli stava raccontando Tara. « Tutto concorda con le ultime scoperte di Sterkfontein e di Makapansgat. Sembra proprio che il Sudafrica sia stato la culla dell'umanità, e che l'Australopithecus sia il nostro diretto progeni-tore. »

« Allora starai via una settimana? » l'interruppe Shasa. « E i bambini? »

« Ho parlato con tua madre, sarà lieta di venire a Weltevreden mentre io sono via. »

« Purtroppo io non potrò raggiungerti», disse Shasa. «Si sta ancora discutendo la riforma del codice di diritto e procedura penale, e in Parlamento abbiamo bisogno di tutti i voti. Se no potevo ac-compagnarti io col Mosquito: invece dovrai prendere il volo di linea col Viscount. »

« Che peccato », sospirò Tara. « Ti saresti divertito, sai? Il professor Dart è un ottimo parlatore. »

« Scendi alla suite del Carlton, beninteso. E' libera. »

« Molly mi ha fatto invitare a casa di una sua amica a Rivonia. »

« Una compagna bolscevica, ci scommetto », disse Shasa accigliandosi un tantino. « Be', cerca di non farti arrestare un'altra volta. » Era un pò che aspettava l'occasione di introdurre un discorsetto sulle sue attività politiche. Abbassò quindi il giornale e la guardò pensosamente, poi decise che non era il momento e si limitò ad annuire. « Il vedovo bianco e i figli derelitti cercheranno di sopravvivere senza di te per qualche giorno. »

« Con tua madre in arrivo e i sedici servitori, non dubito che ve la caverete », gli disse lei seccamente, lasciando trasparire per un attimo la propria irritazione.

Marcus Archer andò a prenderla all'aeroporto. Era affabile e divertente, e mentre andavano verso Rivonia ascoltando musiche di Mozart alla radio, Marcus le parlò della vita e delle opere del com-positore. Sapeva di musica molto piú di lei, ma benché Tara ascol-tasse la sua dissertazione con piacere e attenzione, Marcus avvertiva con chiarezza il suo astio. Era ben nascosto, ma emergeva da una battutina pungente, da uno sguardo sdegnoso. Non fece mai il no-me di Moses Gama, e lei neppure. Molly le aveva detto che era un omosessuale, il primo che avesse mai conosciuto, a quanto ne sapeva, e si domandò se odiassero tutti le donne.

Puck's Hill era una delizia, col suo tetto irsuto e il giardino incolto, così diverso dallo splendore pettinato di Weltevreden.

« Lo troverai in fondo alla veranda », le disse Marcus, parcheggiando la macchina sotto uno degli eucalipti che crescevano dietro la casa. Era la prima volta che si riferiva a Moses, ma anche qui non aveva adoperato il suo nome. La piantò in asso dicendo che aveva da fare.

Era stata parecchio in dubbio su come vestirsi. I pantaloni quasi sicuramente non gli piacevano addosso alle donne. Così alla fine aveva scelto una gonna lunga di tela stampata, coloratissima, che aveva comprato a buon mercato nello Swaziland, con una camicetta sempre di cotonina verde e dei sandali. Un altro problema era il trucco: si era poi decisa per un rossetto rosa chiaro e appena un tocco di mascara. Spazzolandosi i lunghi capelli a onde castani, nella toilette dell'aeroporto, si era vista abbastanza bella: ma ora a un tratto si preoccupava che lui potesse trovare la sua pelle chiara insipida e per nulla attraente.

Adesso, in piedi, sola al sole, fu colta nuovamente dai dubbi, e da quel terribile senso di inadeguatezza. Se Marcus fosse rimasto accanto a lei, gli avrebbe forse chiesto di riaccompagnarla subito al-l'aeroporto, ma se n'era andato chissà dove... Così prese il coraggio a due mani e girò lentamente intorno all'angolo della casa.

Si fermò a sbirciare nella lunga veranda. All'altro capo di essa, Moses Gama, seduto a un tavolino, le dava le spalle. Il tavolo era pieno di libri e del necessario per scrivere. Lui indossava una camiciola bianca che contrastava magnificamente con il meraviglioso color antracite della sua pelle. Aveva la testa china e scriveva rapidamente su un blocco di fogli.

Timidamente salì sulla veranda e, benché si avvicinasse senza rumore, lui avvertì la sua presenza e si voltò di scatto quand'era arrivata a metà strada. Non sorrise, ma a Tara parve di scorgere un lampo di gioia nei suoi occhi quando si alzò e le venne incontro.

Non cercò di abbracciarla, o di baciarla, e lei ne fu lieta, perché questo confermava il suo essere diverso. Invece, l'accompagnò al-l'altra seggiola del tavolino e la fece accomodare.

« Stai bene? Stanno bene i bambini? » Fra l'innata cortesia africana, che si esprimeva in queste domande subito seguite dall'offerta di un rinfresco. « Ti do una tazza di tè. » Gliela verso dalla teiera già pronta sul piano ingombro di carte, e lei bevve con piacere.

« Grazie di essere venuta », le disse.

« Sono partita appena ho ricevuto il tuo messaggio da Molly, come ti avevo promesso. »

« Manterrai sempre le promesse con me? »

« Sempre », gli rispose con semplice sincerità, e lui studiò il suo voltro.

« Sì », annuì poi. « Credo che lo farai. »

Tara non riusciva a sostenere il suo sguardo. Sembrava entrarle nell'anima e metterla a nudo. Abbassò gli occhi sul piano del tavolo, vedendo ciò che stava scrivendo.

« E un manifesto », le disse. « Sono piani per il futuro. »

Scelse una mezza dozzina di fogli e glieli porse, lei posò la tazza e glieli prese di mano, rabbrividendo un pò quando le dita si sfiora-rono. La sua pelle era fresca. Una delle cose che ricordava.

Lesse i fogli, con attenzione sempre piú concentrata man mano che proseguiva nella lettura, e quando ebbe finito alzò gli occhi a guardarlo.

« Scegli sempre parole così poetiche da far risplendere la verità ancora di piú », gli sussurrò.

Restarono seduti in veranda, mentre fuori il gran sole dell'altopiano proiettava ombre nere e nette come silhouette ritagliate nella carta. Parlarono nel meriggio afoso.

Nella loro conversazione non c'erano banalità. Tutto quello che lui diceva era appassionante e logico, e sembrava suggerirle anche le risposte. Tuttavia Tara si accorse che apprezzava le sue osservazioni lucide e misurate, che avevano ridestato in lui un vero interesse.

Non pensava piú alle piccole vanità dei vestiti e dei cosmetici, ora importava solo quel che si dicevano, la trama e l'ordito di ciò che riuscivano a tessere in due. Con un soprassalto si accorse che era passata tutta la giornata, perché su di loro incombeva il rapido crepuscolo africano. Marcus venne a chiamarla per mostrarle la sua camera sommariamente arredata.

« Tra venti minuti usciamo per andare al museo », le disse.

La prima conferenza del professore si svolgeva nella sala di riunione del museo dei Transvaal. I tre sedettero in una delle ultime fi-le. La sala era affollata, e c'era qualche altro negro (una mezza dozzina in tutto), ma Marcus si sedette fra di loro. Un negro seduto vicino a una donna bianca avrebbe destato sicuramente curiosità e ostilità. Tara trovò difficile concentrarsi su quanto diceva l'eminente professore, e, benché gli lanciasse uno sguardo solo una volta o due, continuava a pensare soltanto a Moses Gama.

Tornati a Puck's Hill sedettero fino a tardi nella grande cucina, che sembrava una spelonca, mentre Marcus faceva da mangiare. Di quando in quando partecipava anche lui alla conversazione: poi portò in tavola un pasto che, pur pensando a tutt'altro, Tara giudicò assolutamente degno di quanto compicciava lo chef di Weltevreden.

A mezzanotte passata Marcus si alzò bruscamente.

« Ci vediamo domattina », disse, rivolgendo a Tara un altro sguardo avvelenato. Non riusciva a capire cosa poteva avergli fatto, ma ben presto non le importò piú, perché Moses la prese per mano.

« Vieni », disse piano, e lei pensò che le cedessero le gambe.

Molto tempo dopo, giaceva abbracciata a lui, col corpo inondato di sudore e i nervi che ancora spasimavano pulsando incontrolla-bilmente.

« Mai », gli sussurrò quando ritrovò la parola, « mai ho conosciuto un uomo come te. Mi insegni cose di me stessa che non avevo mai sospettato. Sei un mago, Moses Gama. Come fai ha sapere tanto di una donna? »

Lui ridacchiò piano. « Sai, noi abbiamo diritto a tante mogli. Se un uomo non è capace di accontentarle sempre tutte, la sua vita fa in fretta a diventare un inferno. Quindi siamo costretti a imparare. »

« Tu hai tante mogli? » gli chiese.

« Ancora no », le rispose. « Ma un giorno... »

« Quanto le odierò! »

« Mi deludi », le disse. « La gelosia sessuale è uno stupido sentimento europeo. Se lo riscontrassi in te, io ti disprezzerei. »

« Per favore », gli disse piano, « non disprezzarmi mai. »

« Allora non darmene mai ragione, donna », le ordinò, e intimamente lei gliene riconobbe tutto il diritto. Era sua.

Capì subito che quel primo giorno passato interamente con lui era da considerarsi eccezionale. Capì anche che doveva avere riservato apposta tutto quel tempo solo per lei, e che la cosa doveva essergli riuscita alquanto difficile, perché tanti altri, a centinaia, recla-mavano la sua attenzione.

Era come uno degli antichi re africani, che dava udienza e amministrava la giustizia da quella veranda. C'erano sempre uomini e donne in attesa sotto gli alberi in giardino, che aspettavano pazientemente di potergli parlare. Erano persone di tutti i tipi e di tutte le età, dai campagnoli appena inurbati dai villaggi ai laureati in abito scuro che arrivavano in macchina. Avevano una sola cosa in comune: la deferenza e il rispetto che mostravano a Moses Gama. Alcuni di loro battevano le mani nel saluto tradizionale, e lo chiamavano Baba o Nkosi, padre o padrone, altri gli stringevano la mano all'u-so europeo, ma Moses li accoglieva tutti parlando nella loro lingua.

« Deve parlarne una ventina », stupì Tara.

In genere permetteva a Tara di sedere al tavolo vicino a lui, in silenzio, e spiegava la sua presenza con poche parole: « E' un'amica, puoi parlare ».

Tuttavia in due occasioni le chiese di lasciarlo solo, prima di conferire con i visitatori piú importanti. Una volta, quando venne a trovarlo un omaccione pelato a cui mancavano i denti davanti, ma con una Ford nuova fiammante, si allontanarono scusandosi.

« Questo è mio fratello Hendrick Tabaka », le disse, e andò a passeggiare con lui per il giardino inondato di luce, appena fuori portata d'orecchio.

Ciò che vide in quei giorni l'impressionò immensamente e confermò i suoi sentimenti di reverenza per quell'uomo. Tutto ciò che faceva, tutto ciò che diceva lo segnalavano diverso, e il rispetto e l'adulazione che gli dimostravano i visitatori africani facevano ben intendere che lo consideravano un gigante che avrebbe forgiato il futuro.

Tara si sentiva sbigottita che l'avesse scelta per dedicarle un'attenzione speciale, e contemporaneamente rattristata perché sapeva con certezza che non avrebbe mai potuto averlo tutto per sé. Egli apparteneva al suo popolo, e le toccava esser grata dei minimi ritagli di tempo che quella personalità le dedicava.

Anche le serate successive, a differenza della prima, furono affollate di gente e di eventi. Fino a ben oltre mezzanotte sedevano al tavolone di cucina, a volte anche in venti, a fumare, ridere, mangiare e parlare. Quelle conversazioni, quelle idee illuminavano la stanza come aureole angeliche. Poi, nelle ore del buio e della pace, facevano l'amore, e lei aveva l'impressione che il suo corpo non le appartenesse piú, ma fosse diventato proprietà di lui, che lo divorava come una sorta di scuro, amato predatore.

In quei pochi giorni dovette conoscere centinaia di facce nuove.

Benché alcune le risultassero sfocate, e non le producessero un'impressione duratura, era come se fosse entrata a far parte di una enorme e ramificata famiglia, dove essendo presentata da Moses Gama veniva accettata immediatamente e onorata dell'incondizio-nata fiducia di tutti, negri o bianchi che fossero.

L'ultima sera prima del suo ritorno nel paese delle bambole, a Weltevreden, si sedette accanto a lei una donna con cui Tara simpatizzò immediatamente. Era giovane, aveva almeno dieci anni meno di lei, dunque aveva appena varcato la ventina, ma denotava una maturità insolita.

« Mi chiamo Victoria Dinizulu », le disse. « Ma gli amici mi chiamano Vicky. So che tu sei la signora Courteney. »

« Tara », corresse subito lei. Nessuno usava il suo cognome, da quando aveva lasciato Città del Capo, e a sentirlo nominare lì le pareva stridente.

La ragazza fece un sorriso timido, accogliendo l'invito a una maggiore confidenza. Aveva la bellezza serena di una Madonna ne-ra, la classica faccia di luna degli zulu d'alto lignaggio. Aveva grandi occhi a mandorla e labbra piene, e la pelle del colore dell'ambra scura. I capelli erano pettinati a treccine ritorte sul cranio.

« Sei parente dei Courteney dello Zululand? » chiese a Tara. « Il vecchio generale Sean Courteney e Sir Garrick Courteney di Theuniskraal, vicino a Ladyburg? »

« Sì. » Tara cercò di non far trapelare la sorpresa a sentirle men-zionare quei nomi. « Sir Garrick era il nonno di mio marito. I miei figli si chiamano Sean e Garrick per rinnovare i loro nomi. Perché me lo chiedi, Vicky? Conosci bene la famiglia? »

« Oh sì, signora Courteney... Anzi Tara. » Quando sorrideva il volto della ragazza zulu splendeva come una luna scura, « Tanto tempo fa, nel secolo scorso, mio nonno combatté al fianco del generale Sean Courteney nelle guerre zulu contro l'usurpatore Cetywayo, che rubò alla mia famiglia il titolo di re degli zulu. Doveva es-serlo mio nonno Mbejane, che divenne invece servitore del generale Courteney. »

« Mbejane! » gridò Tara. « Oh, sì. Sir Garrick Courteney ne scrisse nella sua Storia dello Zululand. Fu un fedele seguace di Sean Courteney fino alla sua morte. Ricordo che vennero insieme qui nella zona aurifera, e piú tardi andarono in quella che adesso si chiama Rhodesia a caccia di elefanti per l'avorio. »

« Allora sai tutto! » rise Vicky con piacere. « Mio padre mi raccontava queste storie quand'ero piccola. Mio padre vive ancora, presso Theuniskraal. Dopo la morte di mio nonno, Mbejane Dinizulu, fu mio padre a prendere il suo posto quale attendente personale del vecchio generale. Andò con lui perfino in Francia nel 1916, e restò al suo servizio fino a quando il generale fu assassinato. Nel testamento, il generale gli lasciò una parte di Theuniskraal in godimento vita natural durante, e una pensione di mille sterline all'an-no. Sono una bella famiglia i Courteney. Il mio vecchio padre piange ancora ogni volta che nomina il generale... » Vicky si interruppe e scosse la testa, improvvisamente rattristata e perplessa. « La vita doveva essere ben piú semplice a quel tempo. Mio nonno e mio padre erano capi per diritto di nascita, eppure si rassegnarono a servire fedelmente per tutta la vita un uomo bianco, che stranamente amavano; e anch'egli, a modo suo, sembrava amarli. A volte mi chiedo se non fosse il sistema migliore, il loro... »

« Non pensarlo nemmeno per scherzo », sibilò Tara. « I Courteney sono sempre stati avidi e spietati baroni, sfruttatori del tuo popolo. Le vostre lotte hanno il diritto e la giustizia dalla loro. Non dubitarne mai nemmeno per un momento. »

« Hai ragione », annuì seria Vicky. « Ma a volte fa piacere pensare all'amicizia del generale e mio nonno. Forse un giorno potremo tornare a essere amici, come dei pari, entrambi rafforzati dal legame. »

« Questa speranza svanisce a ogni nuova oppressione, a ogni nuova legge liberticida che passa », disse tristemente Tara. « Io mi vergogno sempre piú di essere bianca. »

« Ma stasera non parliamo di tristezze e cose gravi, Tara. Parliamo di cose liete. Hai detto che hai dei figli, parlami di loro, per piacere. »

Tuttavia il pensiero dei figli, dei marito e della casa fece sentir colpevole e a disagio Tara, che alla prima occasione cambiò discorso.

« Adesso parlami tu di te, Vicky », insistette. « Cosa fai a Johannesburg, così lontano dallo Zululand? »

« Lavoro all'ospedale di Baragwanath », le disse Vicky.

Tara sapeva che era uno dei maggiori ospedali del mondo, e certo il piú grande dell'emisfero meridionale, con 2400 letti e piú di 2000 fra infermiere e dottori, quasi tutti negri, essendo l'ospedale riservato a questa razza. Tutti gli ospedali, come le scuole, i trasporti e quasi ogni altro servizio pubblico, erano strettamente segre-gati per legge, in base alla concezione generale dell'apartheid.

Vicky Dinizulu era così modesta a proposito dei propri successi che Tara dovette strapparle quasi a forza l'ammissione di essere infermiera specializzata.

« Ma sei così giovane, Vicky! » protestò.

« Ce ne sono di piú giovani ancora », rise la ragazza zulu. La sua risata aveva un carattere quasi musicale, gradevolissimo.

"E' davvero una ragazza simpatica" pensò Tara, sorridendo con lei. "No, non è una ragazza: è una giovane donna intelligente e preparata."

Così Tara le parlò della sua clinica a Nyanga, e dei problemi di denutrizione, ignoranza e miseria con cui aveva a che fare. Vicky le parlò delle sue esperienze, e delle soluzioni che avevano trovato per i terribili problemi che dovevano fronteggiare per il benessere fisico di una popolazione contadina appena inurbata.

« E' stato bello parlare con te », disse alla fine Vicky. « Non mi era mai capitato di fare simili discorsi con una donna bianca. Invece noi due abbiamo parlato, con naturalezza e tranquillità », esitò,

« come si parla con una sorella maggiore o una cara amica. »

« Una cara amica. Sì, così mi piace », concordo Tara. « E

Puck's Hill è probabiltmente uno dei pochi posti in questo Paese do-ve ciò è possibile. »

Involontariamente alzarono lo sguardo e incontrarono gli occhi di Moses Gama, che da capotavola le stava guardando intensamen-te. Tara ebbe una specie di giramento di testa. Per qualche tempo era rimasta così assorta nella conversazione con la ragazza zulu da dimenticare i suoi sentimenti per Moses Gama, che però adesso tornarono a investirla a tutta forza. Dimenticò Vicky finché la giovane non aprì bocca.

« E' un grand'uomo, la nostra speranza per il futuro. »

Tara si voltò a guardarla. Il viso di Vicky Dinizulu splendeva, era in adorazione dell'eroe e gli sorrideva timidamente: la gelosia colse Tara alla sprovvista, serrandole la bocca dello stomaco. Per un attimo pensò di star fisicamente male.

La gelosia e il terrore della separazione imminente non l'abbandonarono nemmeno quando, a notte alta, rimase sola con Moses.

Quando fecero l'amore, provò il desiderio di imprigionarlo in lei per l'eternità, sapendo che era l'unico momento in cui le apparteneva davvero. Troppo presto sentì esplodere la gran diga, e inondarla, e gridò, implorando che noti finisse mai: ma il suo grido era inarti-colato e senza senso. Poco dopo egli era fuori di lei, che si sentì sola e abbandonata.

Pensò che si fosse addormentato, e giacque ascoltando il suo respiro tranquillo, tenendolo abbracciato, ma Moses era ancora sveglio e, parlando, la stupì.

« Stavi discutendo con Victoria Dinizulu », le disse, e Tara dovette fare un certo sforzo per tornare con la mente alla prima parte della serata. « Che ne pensi? » le chiese.

« E' una ragazza molto simpatica. Intelligente e piena di dedizione. Mi piace molto. » Cercava di essere obiettiva, ma la gelosia le dilaniava il basso ventre.

« L'ho invitata apposta », disse Moses. « Per conoscerla. »

Tara voleva chiedergli: « Perché? Perché volevi conoscerla? »

ma rimase zitta, temendo la sua risposta. Era sicura che i propri istinti non l'ingannavano.

« Appartiene alla famiglia reale zulu », le disse ancora, piano.

« Sì, me l'ha detto », sussurrò Tara.

« E' piena di qualità, e sua madre ha avuto molti figli. I Dinizulu sono fecondi. Sarà una buona moglie. »

« Moglie? » sospirò Tara. Non se l'aspettava.

« Ho bisogno dell'alleanza degli zulu, sono la tribú piú numerosa e potente. Comincerò subito le trattative con la famiglia. Manderò Hendrick a Ladyburg a parlare con suo padre e a mettersi d'accordo. Sarà difficile, perché è uno della vecchia scuola, contrario ai matrimoni intertribali. Dovrà trattarsi di una cerimonia tale da impressionare la tribú, e spetta a Hendrick convincere il vecchio della saggezza di una scelta simile. »

« Ma... Ma... » Tara si accorse di balbettare. « Non la conosci nemmeno. In tutta la sera avrai scambiato con lei non piú di due o tre parole. »

« E questo che c'entra? » Il suo tono era sinceramente perplesso.

Rotolò via da lei e accese la luce, abbagliandola.

« Guardami! » le ordinò, prendendola per il mento e sollevando il suo viso alla luce. L'osservò per un attimo e poi la lasciò andare, come se avesse toccato qualcosa di ripugnante con le dita. « Ti avevo mal giudicato », disse con disprezzo. « Credevo che fossi una persona eccezionale. Una vera rivoluzionaria, una sincera amica dei popoli negri di questa terra, pronta a fare qualunque sacrificio per loro. Invece vedo che sei una donnetta debole e gelosa, piena di pregiudizi bianchi e borghesi. »

Il materasso si sollevò sotto di lei. Moses si era alzato dal letto.

« Ho perso tempo con te », disse. Prese in mano i vestiti e si av-viò nudo verso la porta.

Tara si lanciò a tagliargli la strada. Lo abbracciò disperatamente.

« Scusami, non volevo. Perdonami, perdonami ti prego », implorò, mentre lui restava gelido, distaccato e altero. Lei si mise a piangere, a gemere mugolando, finché i suoi discorsi diventarono affatto incomprensibili.