« Il vecchio sgabuzzino delle scope », disse Shasa. « In verità era uno scherzo, ma il pivello l'ha presa sul serio e non ho avuto piú il coraggio di... »
« Il giovane Garry prende tutto sul serio », osservò Centaine.
« E l'unico. Ha un carattere alquanto sviluppato. »
« Andiamo, mamma! Garry! »
« Ieri abbiamo fatto una lunga chiacchierata. Anche tu dovresti parlarci un pochino, sai? Lo sapevi che è uno dei primi tre studenti del suo corso? »
« Sì che lo so, ma è al primo anno di Economia e Commercio.
Come si fa a prendere sul serio una cosa simile? »
« Non ti sembra il caso? » chiese innocentemente Centaine. Shasa restò in silenzio, un pò a disagio, per qualche istante.
Il venerdì seguente Shasa mise la testa nel vecchio sgabuzzino delle scope in fondo al corridoio, che faceva da ufficio a Garry quando, dopo l'università, veniva a lavorare alla Courteney. Come vide il padre, Garry saltò in piedi, mettendosi a posto gli occhiali.
« Ciao, fenomeno, che stai facendo? » gli chiese Shasa dando un'occhiata alle carte che aveva sulla scrivania.
« Qualche controllo. » Garry si trovava in imbarazzo, combattuto fra il desiderio di far colpo su suo padre e la consapevolezza che era molto difficile e forse a lui impossibile.
« Lo sai che il mese scorso abbiamo speso piú di cento sterline in materiale di cancelleria? » Era così ansioso di impressionare suo padre che si era rimesso a tartagliare, cosa che ormai faceva soltanto quando era molto emozionato.
« Calmati, calmati, campione », disse Shasa. In quel bugigattolo c'era appena posto per due. « Parla lentamente e spiegami tutto. »
Uno dei compiti di Garry era quello di tenere in ordine il materiale di cancelleria, che pensava anche a ordinare. Negli scaffali dietro la sua scrivania erano immagazzinate le risme di carta e le buste.
« Ritengo che si potrebbe ridurre questa spesa a meno di ottanta sterline. Così ne risparmieremmo venti al mese. »
« Fammi vedere come. » Shasa si sedette sull'angolo della scrivania e cercò di far mente locale, trattando la questione con la stessa serietà che avrebbe riservato all'impianto di una nuova miniera d'oro.
« Hai proprio ragione », disse poi approvando i suoi conti. « Ti autorizzo a mettere in atto il nuovo sistema. » Shasa si rialzò in piedi. « Bravo, ben fatto », disse, e Garry s'illuminò di soddisfazione.
Shasa prese subito la porta, per celargli l'espressione divertita, ma poi tornò a voltarsi.
« A proposito, domani vado a Walvis Bay a parlare con i pro-gettisti della fabbrica di sardine in scatola. Vuoi venire con me? »
Per l'emozione, Garry si mise ad annuire in modo esagerato.
Non voleva aprir bocca per paura di balbettare.
Shasa fece pilotare Garry. Aveva preso il brevetto due mesi prima, ma gli mancavano ancora diverse ore di volo per poter pilotare un bimotore. Sean, che aveva un anno piú di Garry, aveva passato subito l'esame: volava come cavalcava e sparava, con naturalezza, grazia e incoscienza. Era uno di quei piloti che, a Dio piacendo, vo-lano a naso. Invece Garry era di una meticolosità incredibile, e quindi, doveva ammettere Shasa, un pilota migliore. Garry compi-lava i piani di volo come fossero tesi di laurea. I suoi controlli prima del decollo duravano tanto che Shasa doveva trattenersi dall'e-sclamare: « Via, Garry, facciamola finita! ».
Tuttavia era un chiaro segno di fiducia dargli i comandi del Mosquito. Shasa era pronto a intervenire al primo segno di difficoltà, ma si sentì piú che ricompensato dal lampo di profonda soddisfazione che vide negli occhi di suo figlio alla cloche della bellissima macchina volante, che conduceva su, tra le nuvole d'argento, per sbucare nel profondo azzurro del cielo africano. Lì Shasa condivise con lui un profondo sentimento di armonia familiare.
Arrivati a Walvis Bay, Shasa tendeva però a dimenticare che Garry era con lui. Si era abituato alla vicinanza del figlio mediano, e dava per scontata ormai la sua presenza assidua. Garry sembrava prevedere ogni suo piú piccolo desiderio, che si trattasse di accen-dergli la sigaretta o passargli carta e penna per annotare un'idea da mostrare all'ingegnere. Tuttavia Garry era tranquillo e per nulla ingombrante, alieno dal far domande stupide o battute inopportune.
Quella fabbrica era diventata uno dei fiori all'occhiello del gruppo Courteney. Da tre stagioni pescava per intero la propria quota di sardine; e da poco c'era stato uno sviluppo imprevisto. In un incontro privato Manfred De La Rey aveva suggerito a Shasa un aumen-to di capitale, che doveva essere sottoscritto da una certa persona di Pretoria. Così fu fatto, e poco dopo, guarda caso, il ministero della Pesca aumentò notevolmente la quota di sardine spettante alla ditta. Sicché adesso il tonnellaggio di pescato annuo ammesso era quasi il doppio di prima.
« Per trecento anni gli afrikaner sono stati esclusi dagli affari », sorrise cinicamente Shasa, « ma stanno recuperando in fretta il terreno perduto, e con tutti i mezzi. Ebrei e anglosassoni faranno bene a non dormire sugli allori! » E si mise a pianificare lo sviluppo e il finanziamento dei nuovi stabilimenti.
Nel tardo pomeriggio Shasa finì con ingegneri e architetti, ma in quella stagione restavano ancora diverse ore di luce.
« Perché non andiamo a farci una nuotata a punta Pellicano? »
propose a Garry. Presero una Land Rover della ditta e, seguendo la battigia compatta, si inoltrarono sul promontorio. In fondo alla baia le acque puzzavano di zolfo e pesce marcio, ma oltre il capo le grandi dune dorate e le montagne aride si alzavano in uno scenario di possente desolazione. Sull'acqua ferma volavano i fenicotteri ro-sa, spettacolo così suggestivo da sembrare finto.
« Allora, cos'hai imparato oggi di bello? »
« Che per sciogliere la lingua alla gente bisogna ascoltarla in silenzio con l'aria scettica », rispose Garry, e Shasa lo guardò sbalordito. Era sempre stata una sua precisa tecnica, questa, ma non avrebbe mai creduto che una persona così giovane e inesperta potesse accorgersene. « Senza dire niente, hai indotto l'ingegnere ad ammettere che in realtà non sa ancora bene dove sistemare la grande autoclave », continuò Garry. « E perfino io mi sono accorto che la sua proposta attuale non è altro che un compromesso molto costoso. »
« Davvero? » A Shasa c'era voluta una giornata intera di colloqui per giungere alla stessa conclusione, ma non intendeva certo ammetterlo. « Sicché tu cosa faresti? »
« Non sono sicuro, papà », disse Garry. Aveva un modo pedan-te di esprimere il proprio parere, che dapprima aveva irritato Shasa, ma ormai lo divertiva, soprattutto perché poi in genere suo figlio tirava fuori delle idee sensate. « Comunque, invece di installare un'altra caldaia studierei la possibilità di adottare addirittura il nuovo procedimento Patterson. »
« E tu che ne sai del nuovo procedimento Patterson? » disse un pò piccato Shasa, che l'aveva appena sentito nominare. A un tratto si ritrovò a discutere con Garry da pari a pari. Il ragazzo aveva letto tutti i dépliant illustrativi, imparando a memoria le cifre. Da solo si era reso conto di vantaggi e svantaggi del nuovo sistema rispetto al metodo tradizionale di bollitura e inscatolamento.
Girando attorno al promontorio sabbioso che chiudeva la baia, stavano ancora discutendo. Oltre il faro, la spiaggia deserta, tutta bianca e pulita, si stendeva tremolando curva fino all'orizzonte. Qui le acque dell'Oceano Atlantico erano mosse, vive, verdissime, pulite, fredde ed effervescenti. I cavalloni si abbattevano sulla sabbia con ritmo regolare.
Si svestirono e, nudi, si gettarono nel mare tumultuoso, nuotando e tuffandosi nel cavo dell'ondata che arrivava crosciando su di loro. Quando finalmente uscirono, lividi dal freddo, ridevano esila-rati e senza fiato.
Asciugandosi di fianco alla Land Rover, Shasa osservò ben bene suo figlio. Anche bagnati, i suoi capelli formavano ispide ciocche puntute. Senza occhiali aveva lo sguardo un pò sperduto dei miopi.
Il suo torso era molto sviluppato, aveva un torace che pareva un ba-rile su cui cresceva una peluria nerastra che confondeva le fasce mu-scolari sullo stomaco, simili ai rilievi di un'antica corazza.
"A guardarlo chi lo direbbe un Courteney? Io no di sicuro, ma qualcun altro potrebbe addirittura pensare sia il frutto di qualche capriccio di Tara." Shasa la credeva capace di tantissime cose, ma non mai di scostumatezza e infedeltà. "Non ha proprio l'aria di famiglia" pensò, poi abbassò lo sguardo e sogghignò. « Be', in fondo un dono dei Courteney l'hai ereditato, Garry. Hai un uccello da fa-re invidia anche a quel famoso cazzone di tuo nonno generale. »
Subito Garry si coprì con l'asciugamano e prese le mutande nella Land Rover, ma era segretamente compiaciuto. Finora aveva sempre considerato con sospetto questa parte della sua anatomia.
Sembrava una creatura aliena, dotata di volontà ed esistenza sue proprie, che si divertisse a metterlo in imbarazzo e umiliarlo nei momenti piú impensati. Come quando, a un esame universitario, parlando di fronte a una platea di belle compagne di scuola, a un tratto le aveva viste scoppiare a ridacchiare; e quell'altra volta che in piscina aveva dovuto battere in ritirata, sorpreso dall'interesse che la co-sa si era messa a manifestare, nel modo piú ingombrante, per i panorami circostanti. Se però suo padre ne parlava con rispetto, evocando addirittura l'ombra del compianto generale, evidentemente Garry doveva riconsiderare la faccenda e far buon viso all'uccellac-cio che si ritrovava.
L'indomani mattina presero l'aereo e andarono alla miniera H'ani. Come era successo anche a Shasa, tanti anni prima, gli eredi avevano dovuto studiare nei minimi particolari il procedimento di estrazione e lavorazione; e tanto era bastato a disgustare per sempre della miniera H'ani Michael e Sean, che si sarebbero ben guardati dal rimettervi piede. Ma Garry faceva eccezione anche in questo.
Sembrava condividere il profondo amore che Centaine e Shasa nu-trivano per queste apre e remote montagne. Voleva sempre tornarci con suo padre quando andava a ispezionare i lavori. In pochi anni si era fatto un'idea molto precisa della produzione. Sicché l'ultima sera alla miniera H'ani, sul ciglio della profonda conca già immersa nel buio, mentre il sole tramontava, i due gettarono lo sguardo in quelle tenebre circondate dal deserto.
« E' così strano pensare che tutto è venuto fuori da qui », disse sottovoce Garry. « Tutto quello che tu e la nonna avete costruito.
Ti fa sentire umile. A me sembra di stare in chiesa. » Tacque per un lungo momento e poi proseguì. « Amo questo posto. Vorrei che po-tessimo restarci di piú. »
Sentire così espressi quelli che erano anche i suoi sentimenti commosse profondamente Shasa. Dei suoi tre figli questo era l'unico che capiva, che pareva capace di provare lo sbigottimento quasi religioso che l'immane voragine, e la ricchezza che produceva, ride-stavano in lui. Questa era la sorgente di tutto, e solo Garry se n'era accorto.
Circondò col braccio le spalle del figlio e cercò le parole, ma do-po un momento disse solo: « So quello che sentì, campione. Ma dobbiamo tornare a casa. Lunedì devo presentare al Parlamento il bilancio del mio ministero ». Non era questo che aveva voluto dire, ma avvertì che Garry aveva capito lo stesso: tornando giú per il ripi-do sentiero, si sentirono vicini spiritualmente come non mai.
Il bilancio del ministero di Shasa, quello dell'Industria e delle Miniere, quest'anno era quasi raddoppiato, e si sapeva che l'opposizione intendeva sottoporlo a uno scrutinio molto critico. Non gli avevano mai perdonato di aver cambiato bandiera. Era dunque piuttosto teso quando per invito del presidente dell'assemblea si al-zò a fare la sua relazione. Subito, istintivamente, levò lo sguardo verso la galleria del pubblico.
Centaine era in prima fila, come sempre quando Blaine o Shasa dovevano parlare. Indossava un cappellino piatto con una gran più-
ma gialla dell'uccello del paradiso spavaldamente piegata all'indietro. Quando incontrò i suoi occhi gli fece un sorriso d'incoraggiamento.
Di fianco a lei sedeva Tara. Questo sì che era strano. Non ricordava piú nemmeno quand'era venuta a sentirlo l'ultima volta.
« Il nostro accordo non comprende la tortura della noia », gli aveva detto, ma eccola qui, tutta elegante - incredibile! - con un cappellino di paglia dal nastro rosa, i guanti bianchi lunghi fino al gomito e il binocolo da teatro in mano. Tara si portò la mano alla tesa del cappello in una parodia di saluto militare, a cui Shasa rispose alzando un sopracciglio prima di volgere lo sguardo alla tribuna stampa proprio sopra lo scranno dei presidente. I cronisti parlamentari e gli editorialisti politici dei quotidiani di lingua inglese c'erano proprio tutti, con la penna in mano minacciosamente bran-dita come una baionetta, pronti a sbudellarlo sul giornale. Era una delle loro vittime preferite. Ma proprio i loro attacchi servivano a consolidare sempre piú la sua posizione in seno al Partito Nazionalista: la loro meschinità e il loro malanimo facevano risaltare l'efficienza e l'accortezza della sua attività di governo.
Amava lo strepito e le polemiche del dibattito parlamentare, e gli brillò l'occhio buono mentre assumeva la solita posizione, con le mani in tasca, e si lanciava nella sua relazione.
Lo attaccarono subito, come cagnacci lanciati ad azzannargli i polpacci, interrompendolo con espressioni di incredulità e sdegno, gridando: « Vergogna, vergogna! » e: « Scandalo! ». Il sogghigno di Shasa li faceva infuriare e li induceva a eccessi che lui scartava con gesti di sprezzo, sviluppando facilmente i suoi argomenti che pian piano diventavano preponderanti; riusciva a riversare il ridicolo sugli oppositori, fra gli incitamenti dei colleghi del governo e del partito che sorridevano soddisfatti e ammirati, sottolineando le sue battute migliori con dei grandi: « Hoor, Hoor! Sentì, sentì! ».
Quando si andò al voto, il partito lo spalleggiò compatto, e il bilancio fu approvato con la maggioranza prevista. Il discorso aveva accresciuto grandemente il suo prestigio. Non era piú il pivello del governo, e il dottor Verwoerd gli passò un bigliettino.
"Avevo ragione a tenerla in squadra. Bravo!"
Nella galleria del pubblico, Centaine incontrò il suo sguardo e unì le mani nel gesto di vittoria dei pugili, che non si sa come riuscì a trasformare in qualcosa di addirittura regale, piú che degno, quindi, della gran signora che era. Il sorriso di Shasa svanì quando si accorse che Tara non era piú accanto a sua madre. Se n'era andata, e fu sorpreso che gli dispiacesse così. Avrebbe gradito che avesse assistito al suo trionfo.
Ora il Parlamento passava ad altri affari che non lo riguardava-no, sicché d'impulso Shasa si alzò e lasciò la Camera. Salì lo scalone e imboccò il corridoio che portava al suo ufficio. Avvicinandosi alla porta principale della sua suite ministeriale, si fermò di colpo e d'impulso girò l'angolo del corridoio e si recò alla porticina posteriore, che non dava nell'occhio.
Era la via di fuga che serviva a evitare i visitatori sgraditi, l'aveva fatta fare lo stesso Cecil Rhodes anche per poter conferire nella maniera piú riservata con i suoi. Anche Shasa la trovava utilissima.
La usava di tanto in tanto il primo ministro, come del resto Manfred De La Rey: ma la maggior parte delle persone che l'adoperavano erano donne, che ben di rado intendevano trattare con Shasa affari politici.
Shasa introdusse la chiave silenziosamente, aprì la serratura e quindi spinse di scatto la porta. Dentro, era abilmente mimetizzata nel rivestimento ligneo del suo ufficio, e pochissimi ne conoscevano l'esistenza.
Vide Tara, che gli dava le spalle, china sulla cassa d'altare. Non sapeva che c'era quella porta. Dopo il dono della cassa d'altare, non si era quasi piú interessata dell'arredamento del suo ufficio. Le occorse qualche secondo per capire che non era piú sola: e la sua reazione fu strana. Saltò indietro dal mobile e si girò a fronteggiarlo; nel riconoscere Shasa, invece di mostrare sollievo, impallidì per l'agitazione e cominciò a farfugliare una spiegazione.
« Stavo guardandola... Che opera meravigliosa, un capolavoro.
Avevo dimenticato quant'era bella... »
Shasa si rese subito conto che aveva qualcosa sulla coscienza. Il suo comportamento era quello del mariuolo colto in flagranza di qualche grave delitto, però non riusciva a capire qual era. Aveva ogni diritto - di trovarsi nel suo ufficio, di cui aveva anzi la chiave (che apriva la porta principale): la cassa, poi, era un suo dono e poteva ammirarla quando voleva.
Restò zitto e continuò a fissarla, sperando di indurla a parlare piú chiaro, ma lei si allontanò dal mobile e andò alla finestra dietro la sua scrivania.
« Te la sei cavata molto bene in aula », gli disse. Era ancora un pò sconvolta, ma il colore le era tornato e stava recuperando la compostezza. « Sai sempre dare un grande spettacolo. »
« E' per quello che te ne sei andata via? » le chiese, chiudendo la porticina e dirigendosi con decisione verso la cassa.
« Sai bene che con le cifre non mi ci ritrovo proprio. Verso la fi-ne ho tagliato la corda. »
Shasa si mise a osservare attentamente la cassa. "Che stava facendo?" si chiese tra sé, poiché non ci vedeva niente d'insolito. Il bronzetto del boscimano di Van Wouw era ancora al suo posto: non poteva quindi averla scoperchiata.
« E' un magnifico mobile », disse Shasa accarezzando l'effigie di San Luca, sull'angolo.
« Non avevo idea che ci fosse quella porticina », disse Tara, chiaramente cercando di cambiar discorso per distoglierlo dalla cassa. Il tentativo servi solo a incuriosirlo ancor piú. « Mi hai fatto spaventare, sai? » Shasa rifiutò di farsi distrarre e passò le dita sul coperchio intagliato della cassa.
« Dovrei farle dare una buona occhiata dal dottor Findlay della National Gallery », disse Shasa. « E' un grande esperto d'arte sacra medievale e rinascimentale. »
« Ah, ho promesso a Tricia di avvertirla del tuo arrivo », disse in tono quasi disperato Tara. « Ha un messaggio importante per te. » Andò subito alla porta che dava nell'ufficio della segretaria e l'aprì. « Tricia, il signor Courteney è arrivato. » La segretaria di Shasa fece capolino nell'ufficio.
« Conosce un certo colonnello Louis Nel? » gli chiese. « E' tutta la mattina che la cerca. »
« Nel? » disse Shasa, sempre osservando la cassa. « Nel? Non mi pare proprio di conoscerlo. »
« Lui dice di conoscerla, signore. Dice che avete lavorato insieme durante la guerra. »
« Oh, mio Dio, si! » Adesso Shasa l'ascoltava con grande attenzione. « E' stato tanto di quel tempo fa che me n'ero dimenticato, ma è vero, lo conosco bene. Allora non era colonnello, sa? »
« Adesso dirige il CID della provincia dei Capo », l'informò Tricia. « E ha detto se può telefonargli appena può. Dice che è urgen-tissimo: ha parlato anzi di "una questione di vita o di morte". »
Shasa sogghignò. « Allora vorrà un prestito. Be', lo chiami, Tricia. »
Andò a sedersi alla scrivania, accanto al telefono. Invitò con un gesto Tara ad accomodarsi sul divano, ma lei scosse la testa.
« Vado a pranzo con Sally e Jenny », disse dirigendosi alla porta con visibile sollievo. Ma lui non se ne accorse, stava guardando fuori della finestra le querce sulle pendici di Signal Hill. Non voltò nemmeno la testa quando lei uscì in silenzio accostando la porta alle sue spalle.
La telefonata di Louis Nel aveva riportato Shasa indietro di quasi vent'anni. "Fu davvero tanto tempo fa?" si domandò stupito.
"Sì, sì. Mio Dio, come passano gli anni!"
Shasa era allora un giovane comandante di squadriglia, che durante un'azione di guerra in Abissinia era rimasto ferito all'occhio, riuscendo a malapena a tornare col suo aereo alla base. L'avevano congedato e si trovava in una situazione poco allegra. Cieco dell'occhio destro, si sentiva un invalido e temeva di essere di peso alla famiglia e agli amici. Si era isolato e aveva cominciato a ubriacarsi, lasciandosi andare. Era stato Blaine Malcomess a riscuoterlo con parole sprezzanti e severe, per poi offrirgli un posto nel servizio segreto che aveva il compito di smascherare l'organizzazione filonazista Ossewa Brandwag impedendo che sabotasse lo sforzo bellico. Si trattava di una società segreta di nazionalisti afrikaner, acerrimi oppositori del governo Smuts entrato in guerra a fianco degli Alleati.
Qui Shasa aveva collaborato con Louis Nel, scoprendo l'identità dei capi della cospirazione filonazista e ponendo le basi per farli in-ternare. Le sue indagini sulle attività dell'Ossewa Brandwag l'avevano messo in contatto con una misteriosa informatrice, una donna con cui aveva parlato solo al telefono, che prendeva ogni precauzione per celare la propria identità. Shasa ignorava ancora chi fosse, e se vivesse ancora.
Questa informatrice gli aveva rivelato che la OB rubava i fucili prodotti dalla fabbrica statale di armi e munizioni di Pretoria, rendendo possibile sferrare un gran colpo all'organizzazione sovversi-va. Poi la stessa informatrice aveva avvertito Shasa della cospirazione di Spada Bianca. Era un audace piano per eliminare il capo del governo Smuts, e nella susseguente confusione impadronirsi del potere mediante un colpo di Stato militare, proclamare la Repubblica e schierarsi a fianco di Adolf Hitler e le potenze dell'Asse.
Shasa era riuscito a sventare l'attentato all'ultimissimo momento, ma a prezzo della vita di suo nonno, Sir Garrick Courteney, scambiato dal sicario per Smuts, era morto col cuore trapassato da un proiettile, salvando però la vita del capo del governo, l'illustre amico a cui somigliava e che devotamente imitava anche nella barba e nel modo di vestire, il maresciallo Smuts.
Da tanti anni Shasa non ripensava a quei giorni perigliosi. Ma adesso gli tornarono in mente tutti i particolari. Rivisse tutto quanto, aspettando lo squillo del telefono: la scalata a perdifiato sulla Table Mountain, per raggiungere il nonno e il capo del governo prima che si affacciassero all'altopiano dove li aspettava l'assassino; il senso di tremenda impotenza provato nel sentire lo sparo echeggiare per i contrafforti rocciosi, accorgendosi di essere arrivato in ritardo; l'orrore di vedere il nonno morto, col petto dilaniato dalla pallottola, e il capo del governo che si chinava addolorato sul vecchio amico ucciso al posto suo.
Shasa aveva inseguito l'assassino, mettendo a profitto la sua grande conoscenza della montagna per tagliargli la strada proprio sul ciglio del burrone. Si erano battuti corpo a corpo, lottando per la vita. Spada Bianca, grazie alla sua forza fisica di gran lunga superiore, era riuscito a fuggire, ma Shasa l'aveva colpito, gli aveva piantato nel petto un colpo della sua Beretta calibro 6,5. Spada Bianca era poi svanito, e il golpe sfumato. Non erano mai riusciti a metter le mani sul sicario, e a Shasa bruciava ancora la brutta morte del nonno, che aveva amato tanto da dare il suo nome al secondo-genito.
Finalmente il telefono suonò e Shasa lo prese subito.
« Louis? » chiese.
« Shasa! » Riconobbe all'istante la sua voce. « Quanto tempo! »
« Che piacere risentirti! »
« Sono contento anch'io, ma purtroppo non ho buone notizie da darti. Mi dispiace. »
« Cosa c'è? » chiese Shasa, subito serio.
« Non te lo posso dire al telefono. Potresti venir subito in Caledon Square? »
« Ci sarò fra dieci minuti », disse Shasa, e riappese.
Il quartier generale del CID era a quattro passi di distanza dalla Camera, e s'incamminò di buona lena. L'episodio di Tara misteriosamente china sulla cassa gli passò di mente, cancellato dalle brutte novità che Nel aveva da dirgli: non aveva idea di che cosa potesse trattarsi...
Il sergente di piantone era stato avvertito e riconobbe subito Shasa.
« Il colonnello la sta aspettando, ministro. La farò subito accompagnare da qualcuno al suo ufficio », e chiamò un agente in divisa.
Louis Nel era in maniche di camicia. Venne alla porta ad accogliere Shasa e lo fece accomodare in poltrona.
« Gradisci qualcosa da bere? »
« E' ancora prestino per me », scosse la testa Shasa, accettando la sigaretta che Louis gli offriva.
Il poliziotto era sempre magro, ma aveva perso quasi tutti i capelli e quelli che gli restavano erano candidi. Aveva delle profonde occhiaie nere, e dopo il sorriso di benvenuto la sua bocca tornò ad affilarsi in una smorfia preoccupata. Pareva un uomo pieno di crucci, che lavorasse troppo e dormisse male. Shasa pensò che probabilmente aveva già superato l'età della pensione.
« Come sta tua moglie? » gli domandò. L'aveva vista due o tre volte e non ricordava neanche il nome, per non parlare dell'aspetto.
« Abbiamo divorziato cinque anni fa. »
« Mi spiace », disse Shasa, e Louis alzò le spalle.
« E' stato un brutto colpo, ma l'ho superato. » Poi si chinò verso l'ospite. « Tu invece hai tre maschi e una bambina, vero? »
« Caspita, ci hai fatto sorvegliare », scherzò Shasa, ma Louis non rise. La sua espressione restò seria allorché proseguì.
« Il tuo maggiore... Si chiama Sean, vero? »
Shasa annuì, smettendo di ridere, colto da un presentimento improvviso.
« Intendi forse parlarmi di Sean? » chiese sottovoce.
Louis si alzò in piedi di scatto e andò a guardare fuori della finestra.
« Quanto ora ti dico è ufficioso, Shasa. Di solito non ci regolia-mo certo così: ma qui entrano in gioco fattori straordinari. Un tempo abbiamo lavorato insieme, e poi oggi sei ministro... » Si girò a guardarlo in faccia. « Se no, una faccenda del genere non sarebbe neanche finita sul mio tavolo, almeno in questo stadio delle indagini. »
La parola "indagini" sbalordì Shasa. Avrebbe desiderato che Louis Nel gli desse la brutta notizia senza cincischiare tanto, ma controllò impazienza e agitazione e aspettò con calma.
« Da qualche tempo si registrano colpi ladreschi a ripetizione nelle case della buona società... Ne avrai letto sicuramente sui giornali. La chiamano "banda Lupin"... »
« Sì, certo », disse Shasa. « Alcuni miei buoni amici ne sono rimasti vittime: i Simpson, i Weston. A Mark Weston hanno rubato la collezione di monete d'oro. »
« E alla signora Simpson gli smeraldi », confermò Louis Nel.
« Qualcosa però è saltato fuori, e precisamente gli orecchini, presso un ricettatore meticcio del District Six. L'abbiamo arrestato - come copertura aveva un negozietto di elettricista - e dopo due settimane di cella ha cominciato a collaborare con noi. Ci ha dato una lista di nomi, uno dei quali è Rufus Constantine. Ti giunge nuovo? E' un piccolo delinquente... »
Shasa scosse la testa. « Cosa c'entra mio figlio? »
« Ci sto arrivando. Questo Constantine è quello che ha venduto al ricettatore gli smeraldi e altra refurtiva. L'abbiamo arrestato e abbiamo cominciato a interrogarlo. E' uno scimmiotto abbastanza ostinato, ma abbiamo trovato il modo di farlo parlare un pò. Purtroppo la canzone che ci ha cantato non è tanto bella. »
« Sean? » chiese Shasa, e Louis annuì.
« Temo proprio di sì. Pare che fosse lui il capo, e di una banda ben organizzata. »
« Ma è assurdo. Sean! »
« Mi risulta che si è già fatto una certa reputazione. »
« Sì, una volta era un pò ribelle », ammise Shasa, « ma adesso ha messo la testa a posto, lavora. Perché mai dovrebbe impegolarsi in una faccenda del genere? Voglio dire, non ha mica bisogno di soldi. »
« Non credo che gli impiegati siano pagati poi tanto bene. »
« Ma glieli do io. » Shasa si mise a scuotere la testa. « Macché, non ci credo. Come può fare lo scassinatore? Non ne sa niente. »
« Non lo fa lui, lo fa fare dai suoi complici. Lui è il basista. »
« Il basista? E cos'è? »
« Tuo figlio sarà ricevuto in tutte le case eleganti della città, immagino. E' vero? »
« Be', sì, credo », ammise Shasa, fin troppo cauto.
« Appunto. Secondo il giovane Rufus, è tuo figlio che studia la casa e fa il piano, dice quali preziosi rubare, indica la localizzazione di casseforti, nascondigli e così via. Poi avvia una relazione con una della famiglia, la madre o la figlia, e ne approfitta per far entrare il complice in casa mentre la signora di suo gradimento è occupata di sopra con lui. »
Shasa lo guardò a bocca aperta.
« Pare che il sistema funzioni benissimo, e in piú di un caso non c'è stata nemmeno denuncia: le signore erano piú preoccupate della loro reputazione e dell'ira dei mariti che dei gioielli rubati. »
« Marge Weston... è forse una delle signore? »
« Così ci risulta. »
"Piccolo bastardo..." ringhiò Shasa fra sé. Era sbigottito, ma non dubitava già piú. Tutto coincideva: non poteva non essere vero.
Marge e Sean, suo figlio e una delle sue amanti. Intollerabile. « Stavolta ha proprio esagerato. »
« Direi di sì », concordò Louis. « Anche se è incensurato, rischia di beccarsi cinque o sei anni. »
Shasa sobbalzò, ricominciando a dedicargli tutta la propria attenzione. Lo shock era stato tale da sconvolgerlo: si sentiva disonorato, offeso nelle sue idee piú sacre, concernenti la proprietà; ma non aveva ancora pensato alle conseguenze penali. L'idea che suo figlio fosse processato e condannato a lunga detenzione gli fece sbollire tutta la rabbia.
« L'avete già denunciato? » chiese. « C'è un mandato di cattura? »
« Non ancora », rispose Louis in tono altrettanto circospetto.
« Siamo stati informati poche ore fa. » Andò alla scrivania a prendere la cartellina azzurra del verbale d'interrogatorio.
« Cosa posso fare? » chiese sottovoce Shasa. « C'è qualcosa che è possibile fare? »
« Io ho fatto tutto quello che potevo », gli rispose Louis. « Che è già troppo. Non potrei mai giustificare l'insabbiamento delle informazioni, né l'avvertimento che ti ho dato nel corso delle indagini. Ci rischio il collo, Shasa, e lo faccio soltanto perché non dimentico che ho lavorato con te, e i tuoi grandi meriti nella vicenda di Spada Bianca. Ecco perché corro questo rischio. » Si interruppe per fare un profondo sospiro, e Shasa, capendo che aveva ancora qualcosa da dirgli, restò in silenzio. « Non posso fare nient'altro, però.
Nessuno può fare nient'altro a questo livello. » Sottolineò col tono le ultime parole, e poi aggiunse un'informazione apparentemente incongrua: « Il mese prossimo vado in pensione, e questo ufficio andrà in mano a qualcun altro ».
« Quanto tempo ho a disposizione? » chiese Shasa, senza curarsi di dissimulare. Si capivano bene.
« Posso bloccare la pratica per qualche ora ancora, diciamo fino alle cinque, dopo di che le indagini dovranno proseguire. »
Shasa si alzò. « Sei un amico, un buon amico. »
« Ti accompagnerò da basso », disse Louis, e parlarono di nuovo solo nell'ascensore. Shasa aveva avuto bisogno di tanto tempo per calmare la sua agitazione.
« Da anni non pensavo a Spada Bianca », disse cambiando discorso. « Fino a oggi. Tutto ciò sembra lontanissimo, passato, anche se costò la vita a mio nonno. »
« Invece io non l'ho mai dimenticato », disse sottovoce Louis Nel. « Quell'uomo era un assassino. Se fosse riuscito a uccidere Smuts, molte cose sarebbero andate diversamente in questo Paese, e staremmo sicuramente peggio di come stiamo. »
« Mi chiedo che fine abbia fatto. Chi era Spada Bianca? Dove si trova ora? Forse è morto anche lui da tanto tempo... »
« Io non credo. C'è qualcosa che me ne fa dubitare. Qualche an-no fa, volevo consultare il suo incartamento... »
L'ascensore arrivò a pianterreno e Louis s'interruppe. Poi, mentre attraversavano l'atrio e uscivano al sole, tacque. Sui gradini dell'edificio ministeriale si guardarono in faccia.
« Allora? » disse Shasa. « Che stavi dicendo dell'incartamento su Spada Bianca? »
« L'incartamento non c'è piú », rispose Louis tristemente.
« Non capisco. »
« Il dossier è sparito », gli spiegò Louis. « Non c'è piú niente al riguardo, né negli archivi della polizia né in quelli dei ministeri interessati. E come se ufficialmente Spada Bianca non fosse mai esistito. »
Shasa lo guardò con gli occhi sbarrati. « Ci dev'essere pure una pratica da qualche parte... Voglio dire, ci abbiamo lavorato insieme a quest'inchiesta... C'era un incartamento alto così... » disse facendo il gesto con due dita. « Come può essere scomparso? »
« Credimi, non c'è piú. Parola mia. » Louis gli porse la mano.
« Fino alle cinque », disse con gentilezza. « Non piú tardi, intesi?
Ma fino alle cinque sarò in ufficio, nel caso qualcuno mi telefoni. »
Shasa gli strinse la mano. « Non lo dimenticherò mai. » Guardò l'orologio, nell'andarsene. Mancava qualche minuto a mezzogiorno, e per un caso fortunato aveva appuntamento a pranzo con Manfred De La Rey. Prese la strada del Parlamento e il cannone di mezzogiorno sparò proprio mentre ci entrava. Nell'atrio tutti, compresi gli uscieri, per istinto stavano controllando l'orologio all'echeggiare lontano della cannonata.
Shasa si diresse verso la sala da pranzo dei parlamentari, ma era molto in anticipo. C'erano solo i camerieri in giacca bianca. Al bar dei deputati ordinò un gin aromatizzato e aspettò con impazienza, guardando l'orologio ogni dieci secondi, ma il suo appuntamento con Manfred era per le dodici e trenta e non era il caso di andare a cercarlo prima: poteva essere dappertutto, il palazzo era vastissimo, sicché Shasa passò quel tempo a rimuginare, arrabbiandosi sempre piú.
"Bastardo!" pensava. "Per tutti questi anni gli ho consentito di ingannarmi. I segni c'erano tutti, ma non li ho mai voluti vedere. E'
marcio, marcio fino al midollo..." Poi la sua indignazione cambiò indirizzo. "Marge Weston è abbastanza vecchia da esser sua madre.
Quante altre amiche mie si sarà scopato? Non c'è dunque niente di sacro per quel demonio!"
Manfred De La Rey arrivò con qualche minuto di anticipo. En-trò nel bar dei deputati sorridendo e salutando tutti, nella parte del politico cordiale e simpatico, così che gli ci volle qualche minuto a raggiungere Shasa. Costui cercò di dominare l'impazienza. Voleva che nessuno si accorgesse della sua agitazione.
Manfred chiese una birra. Shasa non l'aveva mai visto ordinare un liquore. Solo dopo il primo sorso Shasa gli disse, semplicemente:
« Sono nei guai, guai grossi ».
Manfred non smise di sorridere benignamente. Era troppo astuto per tradire le sue emozioni in un luogo pieno di avversari e potenziali rivali, ma i suoi occhi si fecero freddi e pallidi come quelli del basilisco.
« Non qui », disse, e condusse Shasa nel gabinetto degli uomini.
Lì, a fianco a fianco nell'orinatoio, Shasa gli parlò sottovoce, con-citato, e quando finì Manfred restò ancora un attimo a fissare la ce-ramica bianca.
« Qual è il suo numero? »
Shasa gli diede un biglietto con su il numero di Nel alla sede centrale del CID.
« Dovrò usare la linea riservata del ministero. Dammi un quarto d'ora. Ci vediamo poi al bar. » Manfred chiuse la lampo della patta e uscì dal gabinetto.
Nel giro di dieci minuti era ricomparso al bar. Shasa stava chiacchierando con gli altri quattro commensali, tutti parlamentari in-fluenti. Finito di bere, Shasa propose: « Si va a pranzo? » e mentre si dirigevano al ristorante Manfred lo prese per il braccio e si avvicinò sorridendo come per dirgli una barzelletta all'orecchio.
« La faccenda è risolta, ma dovrà uscire dal Paese entro venti-quattr'ore e non voglio che ci torni piú. D'accordo? »
« Ti sono grato », annuì Shasa, e la sua ira contro il figlio aumentò ancor piú per questo favore che, come si usa, avrebbe dovuto ricambiare con gli interessi.
La moto di Sean era parcheggiata davanti alla palestra privata che Shasa aveva fatto costruire per i ragazzi come regalo di Natale.
Comprendeva un campo di squash, una piscina coperta di venticinque metri, attrezzi ginnici di ogni tipo, docce e spogliatoi. Avvicinandosi, Shasa sentì il rimbombo della palla da squash che picchia-va contro le pareti, e si diresse verso la tribunetta degli spettatori.
Sean stava giocando con un suo amico. Indossava solo dei calzoncini di seta bianca e una fascia sulla fronte per fermare il sullo-re, oltre alle scarpe da tennis. Il torso nudo scintillava di sudore: era abbronzatissimo. Era un uomo splendido, quasi un personaggio d'un quadro romantico, e si muoveva con la grazia e l'agilità del leopardo, scagliando la palla di gomma contro il muro con forza che sbalordiva, tanto il movimento pareva sciolto. La palla però tornava come una fucilata. Vide subito Shasa nella tribunetta e gli indirizzò un sorriso, denti candidi e occhi verdi, sicché nonostante la furia Shasa provò una fitta di dolore all'idea della separazione imminente.
In spogliatoio, Shasa congedò con poche parole il compagno di gioco: « Voglio parlare con Sean, a quattr'occhi ». Appena fu andato, si rivolse al figlio. « La polizia sta per arrestarti » gli disse bruscamente. « Sanno tutto. » Aspettò una sua reazione, che non ci fu.
Sean continuò tranquillamente ad asciugarsi il collo. « Scusa, papà, non capisco bene: cos'è che saprebbe la polizia? » Parlava con calma, senza affatto scomporsi, e Shasa esplose.
« Non fare il furbo con me. Quello che sa la polizia può farti finire in galera per una decina d'anni. »
Sean abbassò l'asciugatoio e lo guardò, finalmente serio. « Co-me hanno fatto a beccarmi? »
« Rufus Constantine. »
« Che infame. Lo strozzerò. » Non negava. L'ultima piccola speranza che fosse innocente svanì nel cuore amareggiato di Shasa.
« Se c'è qualcuno da strozzare lo strozzerò io », berciò Shasa.
« Che si fa allora? » chiese Sean, e Shasa restò colpito da tanta disinvoltura.
« Come, che si fa? » protestò. « Cosa ti fa pensare che ti voglia salvare il collo? »
« L'onore della famiglia », dichiarò in tono oggettivo Sean. « Tu non lascerai che mi processino. La famiglia salirebbe sul banco degli imputati con me. Non puoi permetterlo. »
« Ci contavi, per caso? » s'informò Shasa, e alla scrollata di spalle di Sean aggiunse: « Tu non sai nemmeno cos'è l'onore, cos'è la vergogna ».
« Sono parole », rispose Sean. « Io preferisco le azioni. »
« Dio, quanto vorrei dimostrarti che ti sbagli », ringhiò Shasa, sull'orlo della violenza fisica. Solo picchiarlo ormai gli avrebbe dato soddisfazione. « Ti manderei volentieri in galera. » Aveva i pugni stretti che già gli prudevano. Subito Sean si mise in guardia, con gli occhi accesi e i pugni altrettanto contratti. Shasa gli aveva pagato lezioni di boxe coi migliori istruttori, spendendo uno sproposito, e tutti avevano riconosciuto che Sean era un pugile naturale. In breve aveva superato ogni maestro. Lui ne era stato soddisfattissimo: e prima di mandarlo a lavorare dai revisori dei conti l'aveva spedito addirittura in Giappone, perché imparasse le arti marziali.
Adesso che se lo trovava davanti così minaccioso, gli venne in mente di avere quarantun anni. Se li sentiva tutti addosso, mentre Sean era un giovane in piena forma, un buon pugile e un atleta naturale. Si rese conto che Sean poteva prendersi gioco di lui, umiliarlo: e guardandolo negli occhi capì che non vedeva l'ora di riempirlo di botte. Fece quindi un passo indietro e aprì i pugni.
« Fa' la valigia », disse calmo. « Te ne vai e non torni piú. »
Si diressero a nord con il Mosquito, fermandosi a Johannesburg a far rifornimento e proseguendo fino al confine con la Rhodesia.
Lì c'erano miniere di rame di cui Shasa aveva il trenta per cento.
Trovò quindi ad aspettarli sulla pista il camioncino Ford che aveva ordinato per radio.
Sean gettò la valigia sul pianale di carico e Shasa si mise al volante. Avrebbe potuto arrivare in aereo fino a Salisbury o a Louren-go Marques, ma voleva che il passaggio della frontiera risultasse chiaro e netto: meglio dunque che Sean l'attraversasse via terra.
Guidando per le ultime miglia di boscaglia fino al ponte sul fiume Limpopo, guardò il figlio affondato sul sedile accanto a lui, le mani in tasca e i piedi sul cruscotto.
« Ci ho pensato un pò su », disse in tono disinvolto il ragazzo
« e ho deciso cosa fare. Mi unirò a qualche agenzia di safari in Rhodesia, in Kenia o in Mozambico. Poi, quando avrò imparato bene il lavoro, farò domanda per avere una licenza mia. Penso che si possano fare ancora un sacco di soldi come cacciatore bianco, e dev'essere una bella vita, tutti i giorni a caccia! »
Shasa aveva deciso di mantenersi severo e riservato, e finora era riuscito a tacere, tranne qualche parola insignificante: ma vedere l'assoluta mancanza di rimorsi di Sean, e il suo prender l'esilio co-me un'occasione di egoistico divertimento l'indussero ad abbandonare le buone intenzioni.
« Da ciò che ho sentito dire, non resisterai neanche una settimana senza donne », berciò, e Sean sorrise.
« Non ti preoccupare, papà. Di fica ce ne sarà fin troppa... Rientra nel contratto: i clienti sono vecchi ricchi che si portano dietro le figlie, o le mogli nuove... »
« Buon Dio, Sean, sei completamente amorale! »
« Posso considerarlo un complimento? »
« Progetti di chiedere una licenza di cacciatore professionista...
di fondare una tua agenzia di safari... E come soldi, si può sapere cosa intendi usare? »
Sean apparve perplesso. « Ma tu sei uno degli uomini piú ricchi dell'Africa. Pensa un pò: potrai andare a caccia gratis quando vuoi, con la mia agenzia... Farebbe parte dell'accordo. »
A dispetto di se stesso, Shasa provò una piccola tentazione. Effettivamente aveva già pensato di metter su una piccola agenzia di safari, e i suoi conti mostravano che l'idea di Sean non era poi campata in aria. C'era da fare una fortuna a vendere la natura e la fauna africane ai ricchi del mondo. L'unica cosa che gli aveva impedito di farlo prima era la mancanza di un uomo di fiducia, che compren-desse come andava gestita l'agenzia per funzionare, e la dirigesse per lui.
"Maledizione..." pensò per scacciare questi pensieri. 'Ho generato un demonio. Questo qua sarebbe capace di vendere un'auto usata al giudice che lo manda sulla forca." Sentì che la rabbia si trasformava involontariamente in qualcosa di simile all'ammirazione.
Tuttavia parlò con serietà quasi torva. « Mi sembra che non ci siamo capiti, Sean. Tra noi due tutto finisce qui. »
Mentre lo diceva, imboccava la salita del ponte. Davanti a loro si stese il Limpopo, che a dispetto di Rudyard Kipling non era né oleoso né grigioverde, e non presentava sulle sue rive nemmeno un eucalipto. Era la stagione secca e, benché il fiume fosse largo un chilometro, l'acqua era rappresentata da un piccolo rivolo al centro del letto. Il lungo ponte di cemento era basso e scavalcava il fiume poggiando sui sabbioni e sui canneti.
L'attraversarono in silenzio, e Shasa fermò il camioncino alla frontiera. La dogana era una baracchetta quadrata di lamiera. Shasa tenne il motore acceso. Sean scese e scaricò la valigia, poi girò intorno al veicolo e si affacciò al finestrino del padre.
« No, papà », disse avvicinandosi a lui. « Fra noi due non finirà mai niente. Io sono parte di te, e ti amo troppo perché questo possa mai accadere. Sei l'unica persona o cosa che abbia mai amato. »
Shasa lo guardò per scorgere qualche traccia d'insincerità, ma non ce la vide, e allora, d'impulso, l'abbracciò. Non voleva che questo succedesse, ma si ritrovò a frugare nella tasca interna della sahariana e a dargli in mano una grossa busta piena di soldi e lettere di presentazione che aveva preparato apposta, nonostante tutti i propositi di scacciare Sean senza il becco d'un quattrino.
« Eccoti qualche sterlina per cominciare », disse burbero. « C'è anche qualche lettera di presentazione a gente di Salisbury che potrebbe esserti utile. »
Sean se la mise in tasca senza neanche guardarla, poi prese la valigia.
« Grazie, papà. Non lo meritavo. »
« Lo so anch'io », concordò Shasa. « Non lo meritavi, ma non preoccuparti, di soldi non te ne darò piú. Questo è tutto, Sean. E' la tua eredità. »
Come sempre, il sorriso di Sean parve un piccolo miracolo, che fece dubitare a Shasa che suo figlio potesse essere del tutto cattivo.
« Ti scriverò, papà. Vedrai, un giorno rideremo di tutto questo... Quando saremo di nuovo insieme. »
Con la valigia in mano Sean passò il confine, e quando entrò nella baracca dei doganieri a Shasa cadde addosso una sensazione di grande futilità. Era così che finiva, dopo tutto l'amore e la protezione di anni e anni?
Shasa fu divertito dalla facilità con cui Isabella seppe vincere il suo piccolo difetto di pronuncia. Dopo due settimane di frequentazione della Rustenberg Girls' Senior School, parlava come una piccola lady, e ne aveva anche l'aspetto. Evidentemente né le insegnanti né le compagne apprezzavano il vezzo infantile che a casa ne distingueva la pronuncia.
Broncio e bamboleggiamento ormai li riservava solo a papà, quando doveva strappargli concessioni. Seduta sul bracciolo della sua poltrona, ora gli carezzava i riccioli delle tempie.
« Ho il piú bel papà del mondo », diceva arricciolandogli con l'indice le ciocche argentee sulle tempie, che contrastavano con la massa scura del resto dei capelli e la pelle abbronzata, quasi priva di rughe, con l'effetto di renderlo ancor piú attraente.
« E io ho la figlia piú furba del mondo, sempre con qualche pro-gettino in mente », disse lui, e la bambina si mise a ridere divertita: una musica che gli apriva il cuore. L'alito di lei sapeva di latte, era dolce come quello di un gattino appena nato: cercò tuttavia di resisterle, rinsaldando le proprie difese. « Ho una figlia che ha soltanto quattordici anni... »
« Quindici », lo corresse lei.
« Quattordici e mezzo », ribatté.
« Be', quasi quindici », insisté lei.
« Una figlia che ha meno di quindici anni... Troppo preziosa per lasciarla star fuori di casa dopo le dieci di sera. »
« Ah, brutto orsacchiottone cattivo », gli sussurrò lei nell'orecchio e lo strinse forte. Appoggiando la guancia morbida contro la sua, la ragazzina gli schiacciò i seni sul braccio.
Quelli di Tara erano sempre stati grossi e ben fatti, e lui li trovava ancora molto attraenti. Isabella li aveva ereditati da lei. Negli ultimi mesi, Shasa aveva assistito con orgoglio e interesse alla loro crescita fenomenale, e adesso li sentiva tiepidi e sodi contro il braccio.
« Ci saranno anche dei ragazzi? » le domandò, sentendo già quasi franare le sue difese.
« Oh, ma i ragazzi non mi interessano, papà », disse chiudendo forte gli occhi, alle volte la sfacciata bugia provocasse qualche fol-gore divina. In quel periodo, infatti, non riusciva quasi a pensare ad altro che ai ragazzi: se li sognava anche, e il suo interesse per la loro anatomia era così intenso che Michael e Garry avevano deciso di proibirle l'ingresso in camera loro mentre si stavano cambiando. Le sue indagini candide e affascinate erano troppo sconvolgenti.
« Come farai ad arrivare fin là, e poi tornare? Non vorrai mica che la mamma stia alzata fino a mezzanotte ad aspettarti! E io proprio quella sera devo andare a Johannesburg », disse Shasa, e lei riaprì gli occhi.
« Può accompagnarmi e riportarmi a casa Stephen. »
« Stephen? » chiese secco Shasa.
« Il nuovo autista della mamma. E' simpatico e fidato... Dice la mamma. »
Shasa non si era neanche accorto che Tara avesse assunto un autista. Di solito guidava lei: ma la sua vecchia e orrida Packard aveva finalmente tirato le cuoia, a Sundi, e l'aveva praticamente costretta ad accettare una station-wagon Chevrolet. Era probabile che l'autista ne fosse la prima conseguenza. Avrebbe dovuto consultar-lo: ma ultimamente si erano allontanati sempre piú, e molto di rado parlavano delle faccende di casa.
« No », le disse fermamente. « Non ti lascio scorrazzare la sera in macchina per conto tuo. »
« Ma sarò con Stephen », implorò; tuttavia lui ignorò le proteste. Non sapeva proprio niente di Stephen, se non che era maschio e negro.
« Facciamo così: se riesci a procurarti una garanzia scritta dei genitori dell'altra ragazza, che uno che io conosca viene a prenderti e poi ti riporta a casa prima di mezzanotte, allora ti lascio andare. »
« Oh, paparino! Paparino! » Lo coprì di dolci baci sulla faccia, poi saltò su e fece una piccola piroetta di vittoria nello studio di pa-pà. Sotto la gonnella aveva lunghe gambe flessibili, e un bel culetto sodo nelle mutandine di pizzo.
"Credo che sia..." si disse Shasa, poi bandì il dubbio e dichiarò francamente "anzi è di sicuro la piú bella bambina del mondo."
Isabella si fermò di scatto, assumendo un'espressione tragica.
« Oh, papà! » sbottò angosciata.
« Cosa c'è ancora? » disse Shasa appoggiando la schiena alla poltrona, cercando di celare il sorriso.
« Patti e Lenora avranno un vestito nuovo, e io farò la figura di un vero spaventapasseri senza! »
« Uno spaventapasseri? Intollerabile. Assolutamente intollerabile. » La ragazzina corse ancora ad abbracciarlo.
« Vuoi dire che mi regali un vestito nuovo? Caro paparino mio! » Tornò a vezzeggiarlo con le braccia al collo. Il rumore di un'auto che si avvicinava sul viale interruppe l'idillio.
« Arriva la mamma! » Isabella saltò in piedi e, tirandoselo dietro per mano, andò alla finestra. « Glielo diciamo subito della festa e del vestito nuovo, eh paparino? »
La nuova Chevrolet, col gran radiatore cromato e le pinne da bestia marina, si fermò davanti alla scalinata dell'ingresso e il nuovo chauffeur ne scese. Era un uomo imponente, alto, con le spalle larghe, in divisa grigia e berretto di pelle. Aprì la portiera posteriore e Tara uscì dall'auto. Nel passargli davanti gli diede un colpetto sul braccio, un gesto di esagerata confidenza con gli inferiori, così tipico di Tara, che come sempre irritò Shasa.
Tara salì i gradini e scomparve alla vista di Shasa. L'autista tornò al volante e parti verso il garage. Passando davanti allo studio alzò gli occhi. Il viso era seminascosto dal berretto, ma c'era qualcosa di vagamente familiare nella mascella e nell'attaccatura della testa al collo e alle spalle possenti.
Shasa si accigliò, cercando di ricordare dove poteva averlo visto: ma il ricordo era vecchissimo, o fallace, e dietro di lui Isabella stava già chiamandolo con voce vezzosa.
« Oh mammina, paparino e io abbiamo una cosa da dirti », e Shasa si voltò già preparandosi alle solite accuse di Tara di favoriti-smi e soverchia indulgenza nei confronti della figlia.
La porticina riservata d'accesso allo studio di Shasa dava modo di risolvere un problema che li tormentava da settimane, ossia da quando Moses Gama era arrivato a Città del Capo.
Vestito da autista, con in mano tanti pacchetti confezionati dai migliori negozi, era facile per lui entrare nel palazzo del Parlamento: bastava che seguisse Tara oltre la portineria. Il servizio di sicurezza era virtualmente inesistente all'ingresso: non si dovevano firmare registri, lasciar documenti, ricevere lasciapassare. Qualche estraneo avrebbe potuto forse esser fermato e richiesto di esibire il permesso da visitatore: ma come moglie di un ministro Tara era ben conosciuta, riceveva dall'usciere un saluto rispettoso, e aveva l'abitudine di fermarsi qualche volta a parlare con lui della salute dei suoi familiari eccetera, diventando presto, con la sua condiscendenza, una delle personalità favorite degli addetti alla portineria, che in uniforme sorvegliavano l'ingresso.
Non portava sempre dentro Moses: solo quando era sicura che non c'era alcun rischio di incontrare Shasa. Ma lo portava abbastanza spesso da farne una presenza abituale, che in qualche modo aveva il diritto di essere lì. Quando raggiungevano il quartiere di Shasa, Tara gli ordinava di lasciare i pacchi dentro lo studio, mentre lei si fermava a far due chiacchiere con la segretaria di Shasa.
Poi, quando ricompariva a mani vuote nell'anticamera, lo congeda-va subito con disinvoltura.
« Grazie, Stephen. Puoi andare, adesso. Avrò bisogno della macchina alle undici, trovati qui sotto. »
E così Moses scendeva per lo scalone principale, scostandosi rispettosamente per far passare i commessi parlamentari e gli onorevoli: una volta incrociò perfino il primo ministro Verwoerd, e dovette abbassare gli occhi perché non vedesse il lampo d'odio che subito emisero. Aveva una sensazione d'irrealtà a trovarsi a portata di mano questo signore, responsabile delle sofferenze del suo popolo, colui che piú d'ogni altro statista rappresentava tutte le forze dell'ingiustizia e dell'oppressione: un uomo che aveva fatto della discriminazione razziale una filosofia e quasi una religione.
Moses, continuando a scender le scale, si accorse di tremare. Ma superò l'atrio sorvegliato senza degnare di uno sguardo il portiere, che da parte sua smise di leggere il giornale, al suo passaggio, per una frazione di secondo appena. Era fondamentale per il piano di Moses poter uscire da solo dal palazzo, e la costante ripetizione aveva reso ciò possibile: ormai per gli uscieri alla porta d'ingresso era diventato praticamente invisibile.
Tuttavia non avevano ancora risolto il problema dell'accesso al-lo studio interno di Shasa. Moses ci poteva entrare per il tempo necessario a deporre dei pacchetti, ma non poteva rischiare di trattenersi di piú; soprattutto non poteva chiudercisi dentro da solo o con Tara. Tricia, la segretaria di Shasa, era un'attenta osservatrice, fe-delissima al principale; come tutte le sue dipendenti, inoltre, era piú che un pochino innamorata di lui.
Scoprire la porticina segreta fu per loro una benedizione, quando già stavano decidendo di affidare gli ultimi preparativi alla sola Tara.
« Cielo, era così semplice, dopo tutti i mai di testa che ci siamo presi! » rise Tara con sollievo. La volta successiva che Shasa andò a ispezionare la miniera H'ani, portando con sé Garry, come al solito, lei e Moses fecero una delle solite visite al Parlamento, per mettere alla prova il piano.
Dopo che Moses ebbe lasciato giú i pacchetti nell'ufficio di Shasa, Tara lo congedò. « Non avrò bisogno della macchina fino a questo pomeriggio, Stephen, perché mangerò con mio padre al ristorante della Camera. »
Quando se ne andò, Tara tornò a rivolgersi a Tricia. « Devo scrivere delle lettere. Vado nello studio di mio marito, veda che non mi disturbino, prego. »
Tricia assunse un'espressione perplessa. Sapeva che Shasa era molto geloso del suo studio e dei suoi cassetti, ma non le venne in mente alcun modo per impedire con tatto a Tara di far come voleva lei. Mentre quella esitava, Tara entrò decisa nello studio di Shasa, e ci si chiuse bellamente dentro. Era stato creato un altro precedente.
Sentì bussare leggermente da fuori, e le ci volle un pò di tempo per scoprire il modo di aprire la porta segreta. La serratura era mascherata da interruttore della luce. Moses scivolò dentro lo studio.
Subito Tara richiuse a chiave la porta.
« Siamo chiusi dentro da entrambe le parti », gli sussurrò, e poi l'abbracciò forte. « Oh Moses, Moses, quanto tempo... »
Anche se ormai stavano insieme parecchio, i momenti di solitudine erano rari e preziosi. Si strinse a lui.
« Non adesso », le sussurrò. « Abbiamo altro da fare. »
Con riluttanza aprì le braccia e lo lasciò andare. Moses si avvicinò prima alla finestra, dove sbirciò fuori da dietro le tende, che subito chiuse perché nessuno potesse vedere nell'ufficio del ministro.
Poi accese la lampada sulla scrivania e si tolse la giacca da autista, gettandola sulla poltrona di Shasa, prima di dirigersi verso la cassa d'altare. Restò fermo un attimo a capo chino, e a Tara venne in mente qualche strano fedele in atteggiamento di adorazione: aveva la testa china e le mani giunte con reverenza. Si riscosse subito e spostò il pesante bronzetto di Van Wouw dalla cassa. Lo piazzò sulla scrivania di Shasa. Poi tornò ad alzare il coperchio, con un fremito al cigolio delle antiche cerniere.
L'interno era mezzo ingombro di libri e giornali di Shasa. Vecchie riviste, stampa per bianchi e vecchie relazioni parlamentari.
Moses fu scocciato da questo ostacolo imprevisto.
« Mi devi aiutare », sussurrò a Tara, e insieme cominciarono a svuotare la cassa.
« Bisogna tenere lo stesso ordine », l'avvertì Moses, passandole le prime pile di riviste. « Non deve accorgersi di niente. »
La cassa era così profonda che alla fine Moses trovò piú comodo entrarci per passarle le ultime cose. Adesso il tappeto era tutto pieno di roba, ma la cassa era vuota.
« Dammi gli attrezzi », le ordinò. Erano in uno dei pacchetti che Moses aveva portato su. Tara glieli porse.
« Non devi fare il minimo rumore », lo implorò. La cassa era abbastanza grossa da celarlo tutto. Andò alla porta e ci appoggiò l'orecchio. Tricia stava battendo a macchina, suono rassicurante.
Tara tornò allora alla cassa e guardò dentro.
Moses era inginocchiato a svitare qualcosa sul fondo del mobile.
Le viti erano antiche, provenienti da un altro pezzo analogo, sicché non davano nell'occhio come un'aggiunta moderna. Anche il fondo della cassa consisteva di assi di vecchio rovere che solo l'attentissimo esame di un esperto avrebbe rivelato come non originali. Una volta svitate le viti, Moses alzò le assi e scoprì il doppiofondo. Era a scomparti, tutto imbottito con del cotone idrofilo che Moses scostò con attenzione, mettendoci dentro il pacchetto degli attrezzi.
Tara osservò affascinata il contenuto del doppiofondo. Erano lingotti scuri di materiale amorfo che pareva cioccolato o stucco per i vetri, coperti da una pellicola di plastica trasparente che portava un'etichetta in caratteri cirillici.
Ce n'erano dieci nel primo strato, ma Tara sapeva che sotto, di strati, ce n'erano altri due. Dunque, trenta pacchetti da un chilo l'u-no di plastico, che pur essendo un esplosivo aveva un'aria innocua da prodotto domestico. Ma Moses l'aveva avvertita della sua potenza: « Un chilo spezza un pilone d'acciaio, cinque chili fanno crollare una casa, trenta chili... ». Alzò le spalle. « Bastano e avanzano per quello che vogliamo fare noi. »
Dopo aver controllato per bene il contenuto di questo settore del doppiofondo, Moses rimise a posto il cotone idrofilo e ne scoprì un altro. Qui c'erano i detonatori. Esaminandoli, le spiegò che ce n'erano di quattro tipi diversi, per ogni esigenza che poteva presentarsi. « Questi », le spiegò tirando fuori una scatoletta di latta grossa come un pacchetto di sigarette, « sono detonatori elettrici che si possono collegare a una serie di pile o anche alla normale rete elettrica. Questi altri », disse rimettendo a posto la prima e tirando fuori un'altra scatoletta di latta un pò piú grossa, « sono detonatori a impulsi radio, che possono essere trasmessi da questo miniapparec-chio »; lo indicò a Tara, sembrava una normale radiolina. Moses lo tirò fuori. « Per funzionare ha bisogno soltanto di sei pile. E questi altri sono semplici detonatori a tempo, azionati da una fiala di acido: sono un aggeggio alquanto primitivo, che non ti lascia tanto tempo per, allontanarti; mentre questo qui, invece, è un detonatore a vibrazione: basta la piú piccola scossa, una volta tolta la sicura, per farlo scoppiare innescando l'esplosivo. Soltanto un artificiere molto esperto saprebbe disinnescarlo, una volta inserito. » Fino a quel momento, la donna aveva considerato solo l'aspetto astratta-mente teorico di quanto stavano per fare: ma adesso si trovò a fronteggiare esplosioni concrete. Davanti a lei stavano terribili strumenti di morte e distruzione, il cui aspetto, pur così innocuo, doveva mettere in apprensione come le spire di un mamba addormentato. Vacillò.
« Moses », gli sussurrò. « Nessuno deve farsi male. Niente perdite di vite umane, così avevi detto, ricordi? »
« Ne abbiamo già parlato fin troppo. » La sua espressione era gelida e sprezzante, e lei si vergognò.
« Scusami, scusami. »
Moses l'ignorò e si mise a svitare il terzo e ultimo scomparto, che conteneva una pistola automatica e quattro caricatori. Una volta tolta l'imbottitura, avanzava molto spazio.
« Dammi l'altro pacchetto », le ordinò, e quando glielo porse cominciò a sistemarne il contenuto nel buco. C'era una scatola di lamiera contenente un seghetto e un trapano a mano, una serie di punte e di lame, una confezione di pile per i detonatori, una torcia elettrica, un rotolo di cento metri di filo elettrico di rame sottile, ta-gliavetri a punta di diamante, e barattolini di pittura con pennelli da ritocco. Poi c'erano confezioni di roba da mangiare, carne in scatola e gallette.
« Se mi avessi lasciato fare, ti avrei dato qualcosa di piú appeti-toso. »
« Saranno solo due giorni », disse lui, ricordandole quanto poco apprezzasse le comodità materiali.
Moses rimise a posto il doppiofondo, avvitando le viti in modo che fosse poi facile svitarle a mano.
« Bene, e adesso passami i libri. » Rimise tutto nella cassa nello stesso ordine, in modo che fosse quasi impossibile accorgersi di quello che era avvenuto. Con cura poi la richiuse e rimise al posto preciso di prima la statuina di bronzo. Quindi si mise davanti alla scrivania e cominciò a esaminare attentamente la stanza.
« Mi servirà un posto in cui nascondermi. »
« Dietro le tende », disse Tara, e lui annuì.
« Non molto originale, ma efficace. » Erano di broccato ricama-to, pesanti e lunghe fino a terra.
« Avrò bisogno anche di una chiave di quella porticina. »
« Cercherò di procurartela », cominciò Tara, e fu interrotta da un bussare alla porta. Stava per farsi prendere dal panico, ma fu calmata da Moses che le strinse il braccio.
« Chi è? » disse Tara con voce normale.
« Sono io, signora Courteney. E' l'una, devo andare a mangiare », disse rispettosamente la segretaria, Tricia.
« Vada, vada pure. Io debbo trattenermi ancora un pò. Penserò poi io a chiudere. »
Sentirono scattare la porta esterna e Moses le lasciò il braccio.
« Va' a frugare nella sua scrivania. Magari ha la chiave della porta segreta. »
Tara tornò quasi subito con un piccolo mazzo di chiavi. Le provò: la terza era quella giusta.
Annotarono il numero inciso sulla chiave dal produttore, poi Tara andò a rimettere il mazzo al suo posto.
Quando tornò, Moses stava abbottonandosi la giacca da autista. Ma lei chiuse a chiave la porta dello studio.
« Adesso mi serve una pianta del palazzo. Ce ne dev'essere una al ministero dei Lavori Pubblici, e devi trovare il modo di procurarmela. Basta che lo ordini a Tricia. »
« Che scusa posso tirar fuori? »
« Dille che vuoi cambiare l'illuminazione qui dentro », disse indicando il lampadario appeso al soffitto. « Che ti serve il piano dell'impianto elettrico, che mostri i circuiti e le prese. »
« Sì, posso farlo », ammise lei.
« Molto bene. Per ora qui abbiamo finito. Adesso possiamo andare. »
« Non c'è fretta, Moses. Tricia tornerà fra un'oretta. »
Lui la guardò dall'alto in basso, e a lei parve di scorgere un lampo di disprezzo e forse addirittura disgusto nei suoi occhi scuri e intensi, ma non volle crederci, e si aggrappò a lui, stringendolo, con la faccia affondata nel suo petto. Nel giro di pochi istanti sentì la sua erezione sotto la stoffa che li separava, e tutti i dubbi furono dissipati. Era certa che, al suo strano modo africano, lui l'amava ancora: si chinò a sbottonargli i pantaloni per tirarglielo fuori.
Era così grosso che riusciva a stento a prenderlo in mano. Era caldo e duro come un pezzo di granito nero scaldato al sole di mezzogiorno.
Tara si sdraiò sul morbido tappeto di seta, attirandoselo sopra.
Ormai ogni giorno che passava cresceva il rischio che fossero scoperti, e lo sapevano tutti e due.
« Non ti riconoscerà Shasa? » chiese piú d'una volta Tara a Moses. « Sta diventando sempre piú difficile non farvi incontrare.
Qualche giorno fa mi ha domandato notizie del nuovo autista. »
Evidentemente, Isabella aveva attirato l'attenzione di Shasa sul nuovo dipendente per ragioni sue; ma ora Tara aveva una gran voglia di prenderla a frustate. Però non poteva, perché questo avrebbe sottolineato, alla mente maliziosa della piccola egoista, l'importanza che l'autista negro aveva per lei. Così lasciò passare la faccenda senza commenti.
« Ti riconoscerà? » insisté, e Moses ci pensò sopra.
« E' successo tanto tempo fa prima della guerra. Lui era un ragazzino. » Moses scosse la testa. « Le circostanze erano diversissi-me, il posto lontanissimo: però è vero che, per un pò di tempo, siamo stati vicini. Credo che ci siamo fatti una grossa impressione reciproca. Era una amicizia inconsueta, fra un negro e un ragazzo bianco, ma proprio per questo nacque e fu vera. » Sospirò. « Comunque è evidente che al tempo del processo avrà sicuramente letto i rapporti della polizia politica e il mandato di cattura, che fra parentesi fa di me ancora un ricercato. Avrà collegato l'agitatore rivoluzionario al suo amico di una volta? Non lo so, ma so che non possiamo correre questo rischio. Bisogna fare il lavoro al piú presto. »
« Shasa è andato via tutti i week-end, regolarmente, per cinque anni », deplorò Tara mordendosi il labbro per la rabbia. « E adesso che a me serve che se ne vada fuori dei piedi resta incollato qui.
Colpa di quella maledetta partita di polo. » La nazionale argentina era in tournée in Sudafrica, ospite di Shasa in un albergo di Città del Capo, e la partita d'esordio, un'amichevole di allenamento, doveva avvenire proprio a Weltevreden. « Subito dopo, verrà in visita ufficiale Harold Macmillan, il primo ministro inglese. Shasa non leverà le tende da Weltevreden sino alla fine del mese, come minimo. » Lo guardò in faccia nello specchietto retrovisivo, mentre lui ci pensava.
« Comunque decidiamo di fare, è un rischio », disse piano.
« Aspettare troppo è altrettanto rischioso che agire affrettatamente.
Dobbiamo scegliere il momento giusto. »
Nessuno parlò piú finché non arrivarono alla fermata dell'autobus. Moses parcheggiò la Chevrolet dall'altra parte della strada. Poi spense il motore e le chiese: « Questa partita di polo quando si svolgerà? ».
« Venerdì pomeriggio. »
« Tuo marito gioca? »
« La formazione della nazionale sudafricana non si conosce ancora, ma quasi certamente ne farà parte. Forse lo faranno addirittura capitano. »
« Anche se non gioca, non potrà mancare; è il padrone di casa.
Sarà alla partita di sicuro. »
« Sì », concordò Tara.
« Venerdì... Avrò a disposizione tutto il week-end. » Si decise.
« Lo faremo allora. » Per qualche istante Tara si sentì in trappola, come chi si accorga d'essere incappato nelle sabbie mobili: ma nella faccenda c'era anche una ineluttabilità che in qualche modo faceva sembrare superflua ogni paura. Non c'erano vie d'uscita, e provava un sentimento di snervante adesione.
« Ecco l'autobus », disse Moses, con la voce che vibrava di contenuta eccitazione. Fu una delle rarissime volte in cui vide incrinarsi il suo perfetto autocontrollo.
Quando l'autobus si fermò, Tara vide la donna e il bambino sulla piattaforma posteriore. Entrambi guardavano avidamente la macchina. Quando Tara sventolò la mano, il bambino saltò giú e attraversò la strada. L'autobus ripartì con su Miriam Afrika, che rimase a guardarli fino all'angolo.
Benjamin venne da loro con la faccia illuminata di gioia. Stava diventando un bel ragazzino, e Miriam lo vestiva sempre molto be-ne: camicia bianca pulita, calzoncini corti di flanella, scarpe nere lucide. La sua pelle color caffellatte aveva un'aria pulita, e anche i capelli crespi erano pettinati bene.
« E' bellissimo, non ti pare, Moses? » nostro figlio, pensa, nostro figlio! E' bellissimo! » sospirò Tara.
Il ragazzino aprì la porta e saltò in macchina di fianco a Moses.
Lo guardò con un sorriso raggiante e Moses lo abbracciò brevemente. Poi Tara si chinò a baciarlo dal sedile di dietro, stringendolo affettuosamente per un attimo. In pubblico doveva stare attenta a ogni effusione: e piú cresceva, piú il loro rapporto diventava strano e difficile.
Il ragazzino credeva ancora d'esser figlio di Miriam Afrika, ma ormai aveva quasi sei anni, e un'intelligenza molto vivace. Dunque, sospettava qualcosa di strano nei legami che aveva da tempo imme-morabile con loro. Questi incontri clandestini erano troppo regolari, e carichi di significato affettivo, per non fargli intuire che c'era sotto qualcosa che dovevano ancora spiegargli bene.
A Benjamin era stato detto solo che erano buoni amici di famiglia: ma anche alla sua tenera età doveva rendersi conto dei tabú sociali che infrangevano. Tutta la sua esistenza, per forza di cose, era permeata dalla coscienza che sia bianchi sia negri erano diversi, rispetto alla sua carnagione color caffellatte: e a volte guardava Tara con un'espressione meravigliata, come se fosse una creatura favolosa venuta direttamente da un libro di fate.
Tara non desiderava che prenderlo tra le braccia e dirgli: « Tu sei il mio bambino, il mio bambino vero, e io ti amo quanto amo tuo padre ». Ma non ardiva nemmeno farlo sedere in macchina accanto a sé. Potevano vederli.
Attraversarono la pianura dei Capo verso Somerset West, ma prima di entrare in paese Moses svoltò in una strada secondaria in un fitto bosco di salici, che infine sboccava sulla lunga spiaggia deserta di False Bay, di fronte alla distesa di acque verdi, fra i due promontori che la chiudevano.
Moses parcheggiò la Chevrolet e tirò fuori dal portabagagli il cestino da pic-nic. Poi seguirono il sentiero che costeggiava la spiaggia, fino al loro posto preferito. Lì, chiunque si fosse avvicinato, si sarebbe visto da mezzo chilometro di distanza, mentre verso l'interno c'era un fitto intrico di vegetazione impenetrabile. Gli unici esseri umani che a volte si avventuravano fin li erano i pescatori che in-sidiavano con le lenze kob e steenbras; oppure gli amanti in cerca di solitudine. Dunque anche loro lì si sentivano sicuri.
Tara aiutò Benjamin a mettersi il costume da bagno, e andarono tenendosi per mano alla piscina naturale che si era formata tra gli scogli, dove il ragazzino poteva sguazzare in acqua senza pericolo.
Quando cominciò ad avere troppo freddo, Tara lo asciugò e lo rivestì. Poi aiutò Moses a fare un fuoco per arrostire le salsicce e le braciole che avevano portato.
Dopo mangiato, Benjamin voleva tornare a fare il bagno, ma Tara, gentilmente, glielo proibì. « No, hai lo stomaco pieno, tesoro. » Così andò a cercar conchiglie sulla battigia, mentre Tara e Moses, dalla duna, lo guardavano. Tara era felice e contenta come non mai, e rimase tale finché Moses non ruppe il silenzio.
« E' per questo che ci battiamo », disse. « Dignità, e una possibilità di essere felici per tutti coloro che vivono in questo Paese. »
« Sì, Moses », gli sussurrò.
« Nessun prezzo è troppo alto da pagare per questo. »
« Oh, sì! » esclamò lei con fervore. « Hai ragione! »
« Di questo prezzo fa parte l'esecuzione dell'artefice della nostra miseria », continuò secco Moses. « Non te l'ho ancora detto, ma sappi che Verwoerd deve morire, e con lui i suoi tirapiedi. Il destino mi ha scelto come loro giustiziere e successore. »
A queste parole Tara impallidì. Era una tal sorpresa che non riuscì a parlare. Moses le prese la mano con una gentilezza strana e insolita. « Per te, per me e per il bambino, che possa vivere con noi nella luce della libertà. »
Lei cercò di parlare, ma le si ruppe la voce. L'uomo aspettò pazientemente che la ritrovasse.
« Moses! Avevi promesso! »
« No davvero », scosse la testa. « Te ne sei convinta da sola, e non era il momento di disilluderti. »
« Oh Dio, Moses! » L'enormità della cosa la schiacciava. « Pensavo volessi far saltare l'edificio vuoto come gesto simbolico: invece hai sempre avuto intenzione di ... » S'interruppe, incapace di finir la frase, e lui non negò. « Moses ... Mio marito Shasa sarà sul banco del governo accanto a Verwoerd! »
« E' tuo marito? » le chiese Moses. « O non è invece uno di loro, un nemico? » Lei abbassò gli occhi. Questo era verissimo. Poi, subito, si agitò di nuovo.
« Mio padre. Anche lui sarà alla Camera! »
« Tuo padre e tuo marito fanno parte della tua vecchia esistenza. Te la sei lasciata dietro le spalle da tempo. Adesso, Tara, io so-no tuo padre e tuo marito; e la tua nuova vita è la lotta. »
« Moses, non c'è modo di risparmiarli? » implorò.
Lui non parlò, ma la risposta gli si leggeva chiara negli occhi.
Tara si coprì il volto con le mani e scoppiò in lacrime. Piangeva in silenzio, ma i sussulti della sofferenza le scuotevano tutto il corpo.
Sulla spiaggia il bambino gridava eccitato a ogni bella conchiglia che trovava, e le sue urla felici arrivavano debolmente fin lì, dove Moses sedeva guardandola impassibile. Dopo un pò, lei alzò la testa e con i palmi delle mani si asciugò le guance.
« Mi dispiace, Moses. Sono stata debole », gli sussurrò. « Perdonami, stavo piangendo mio padre: ma adesso sono di nuovo forte e pronta a fare quello che vuoi tu. »
L'amichevole di polo contro gli argentini era la cosa piú eccitante accaduta a Weltevreden da una decina d'anni a quella parte.
Quale padrona di casa, l'organizzazione dell'evento sarebbe dovuta spettare a Tara, ma la sua indifferenza per lo sport e le sue scarse capacità organizzative indussero Centaine Courteney-Malcomess a subentrarle. Cominciò col dare qualche discreto consiglio, e finì, esasperata, col sollevarla di tutte le responsabilità. Il risultato fu, in quell'occasione, un grandioso successo. Sotto la stretta supervisione di Centaine, con i consigli esperti di Blaine Malcomess, il giardiniere africano riuscì a rendere il terreno di gioco quanto di meglio si potesse desiderare per una manifestazione sportiva di quel rilievo: il prato diventò un tappeto, né duro da spezzar le zampe ai cavalli, né molle da rallentarli troppo. Le porte furono dipinte coi colori delle squadre, il biancoazzurro dell'Argentina e l'arancione-bianco-blu del Sudafrica, mentre dalla tribuna sventolavano centinaia di bandiere dagli stessi colori.
Anche la tribuna fu ridipinta, come i recinti e le scuderie. Fu rizzato uno steccato per tenere il pubblico fuori della parte privata del parco di Weltevreden, ma Centaine pensò a far installare dei gabinetti per gli spettatori e un ristorante all'aperto da duecento posti.
Le scuderie furono allargate fino a poter ospitare cinquanta cavalli, e furono approntate delle camere per gli stallieri. Gli argentini se li erano portati dietro, e indossavano il tradizionale costume da gau-cho, col cappellone e i gambali decorati con monetine d'argento.
Garry si strappò dal suo nuovo ufficio, che adesso era in cima all'edificio della Centaine House, a tre sole porte di distanza da quello di suo padre, e passò due giorni alle scuderie, a guardare e imparare da quei maestri del polo e dell'equitazione.
Michael alla fine riuscì a farsi ingaggiare come cronista da un giornale. Ingenuamente, credeva che il Golden City Mail l'avesse nominato corrispondente locale per i suoi meriti di giornalista in er-ba: Centaine, che aveva fatto una discreta telefonata all'editore, glielo lasciava credere volentieri. Michael sarebbe stato pagato cinque ghinee al giorno di compenso fisso, piú uno scellino per parola effettivamente pubblicata sul giornale. Intervistò tutti i membri di entrambe le squadre, comprese le riserve, gli stallieri e gli arbitri.
Compilò la storia degli incontri fra le due nazionali dalle Olimpiadi del 1936 in poi, e studiò le linee di sangue di tutti i cavalli impiegati, mostrando senso della misura nel limitarsi a risalire di due sole generazioni. Prima ancora dell'incontro aveva scritto tanto che a paragone Via col vento sembrava uno striminzito pamphlet. Poi insisté per dettare il tutto allo stremato stenografo del giornale. La telefonata gli costò molto piú di cinque ghinee.
« Be', comunque se ti pubblicano tutto quello che hai scritto a uno scellino a parola, diventerai milionario », lo consolò Shasa.
La grossa delusione per la famiglia arrivò quando fu annunciata la formazione sudafricana. Shasa giocava, ma non era stato fatto capitano della squadra. Il posto andò a Max Theunissen, vecchio rivale di Shasa fin dai tempi del loro primo incontro in un torneo ju-niores lì a Weltevreden. Era un miliardario, con uno sterminato latifondo nel Natal.
Shasa nascose la delusione dietro un bel sorriso. « Per lui la fascia ha piú importanza che per me », disse a Blaine, che faceva parte dei selezionatori della nazionale, e Blaine annuì.
« Proprio così », disse. « Per questo l'abbiamo data a lui e non a te. »
Isabella si innamorò disperatamente del numero 4 argentino, un campione di virilità dalla carnagione olivastra, gli occhi scuri fiam-meggianti, i folti capelli ondulati e i denti bianchissimi.
Si cambiava tre o quattro volte al giorno, cercando gli abiti piú sofisticati che le aveva regalato papà. Cominciò addirittura a truc-carsi, un pò di rouge e rossetto, non al punto da attirare l'attenzione di Shasa ma abbastanza, sperava, per destar l'interesse di José Jesús Gongalves De Santos. Impiegò tutta la sua astuzia per farsi incontrare e reincontrare da lui per caso, gironzolando senza posa intorno alla scuderia e assumendo le pose piú languide ogni volta che lo intravedeva.
L'oggetto della sua adorazione era un uomo sui trenta, convinto che il maschio argentino fosse il piú grande amatore del mondo e lui, José Jesús Gongalves De Santos, il campione nazionale in carica. Aveva sempre intorno una dozzina di signore mature e ben disposte che si disputavano le sue attenzioni: non si accorse nemmeno delle manovre della piccola Isabella, ma Centaine sì.
« Stai dando spettacolo, Bella », le disse. « D'ora in poi ti proibisco di avvicinarti alle stalle, e se ti becco ancora a metterti il rossetto sta' sicura che lo dico a tuo papà. »
Nessuno ardiva contravvenire agli ordini di Nana, nemmeno i piú coraggiosi e innamorati, sicché Isabella dovette rinunciare al sogno di tendere un agguato a José nel fienile sopra le scuderie per fargli dono della sua verginità. Isabella non aveva le idee tanto chiare sul significato concreto di una simile profferta: Lenora le aveva prestato un libro proibito dove era paragonata a una "perla senza prezzo": comunque José poteva avere la sua perla e quant'altro volesse.
Ma le proibizioni della nonna la costrinsero a sbirciarlo da lontano, rivolgendogli sguardi infuocati, e purtroppo lunghi, ogni volta che gli capitava di guardare dalla sua parte.
Garry intercettò uno di questi sguardi appassionati e ne fu così preoccupato da chiederle se per caso stava male. « Sembra che stai per vomitare, Bella. » Fu la prima volta in vita sua che veramente odiò quel suo fratello.
Centaine aveva previsto duemila spettatori circa. Il polo era uno sport di élite, con un pubblico limitato: i biglietti, a due sterline, erano costosi, ma il giorno della partita si presentarono ai cancelli piú di cinquemila persone. Ciò garantì un sano profitto al club, ma mise a dura prova l'organizzazione di Centaine. Dovette schierare tutte le riserve, compresa Tara, per imbrigliare la piena e procurare il cibo e le bevande in piú. Solo quando le squadre caracollarono in campo Tara poté sfuggire all'onniveggente suocera e sgattaiolare in tribuna.
Nel primo chukka, il primo tempo, Shasa cavalcava un baio dal pelo lucidissimo che rifletteva il sole come uno specchio. Con la sua giubba verde a strisce d'oro, le braghe bianche e gli stivali neri lustri, Tara dovette ammettere che Shasa aveva un magnifico aspetto.
Passando sotto la tribuna, guardava in su e sorrideva, un sorriso da ragazzino reso leggermente sinistro dalla benda nera sull'occhio offeso. Suo malgrado si ritrovò a rispondergli sventolando la mano, e subito dopo si accorse che Shasa non stava salutando lei, ma qualcun altro, sui gradini inferiori. Si sentì stupida. Alzandosi in punta di piedi volle guardare chi poteva essere. Era una donna alta, dalla vita sottile: ma la faccia non si vedeva, perché era celata da un cappello a larga tesa decorato di rosette. Poiché salutava Shasa sventolando la mano, Tara riuscì a distinguere la fede e un anello di fidan-zamento con brillante che spiccavano sull'abbronzatura. Aveva la mano snella ed elegante.
Tara distolse lo sguardo e si tolse il cappello per non esser facilmente individuata da Centaine tra la folla, e si aprì un varco verso l'uscita laterale della tribuna. Attraversando il parcheggio, puntò sul retro delle scuderie, sentendo le prime acclamazioni del pubblico. Cominciava la partita: nessuno l'avrebbe cercata per almeno un paio d'ore. Si mise a correre. Moses aveva parcheggiato la Chevrolet nella pineta tra i cottage destinati agli ospiti. Salì in macchina.
« Nessuno mi ha visto venir via », ansimò, e lui accese il motore e percorse piano il viale verso l'uscita di Anreith.
Tara guardò l'orologio. Erano le tre passate da qualche minuto.
Ce ne volevano una quarantina per girare attorno alla montagna e arrivare in città. Alle quattro avrebbero raggiunto l'edificio della Camera, con gli uscieri già intenti a pregustare il tè del pomeriggio.
Era in programma una seduta di routine, di quelle in cui i parlamentari dormicchiavano annuendo a sfilze di cifre ed elenchi di en-ti. Blaine e Shasa, infatti, avevano concordato con i capi dei gruppi parlamentari un ordine del giorno che permettesse loro di assentarsi senza danni, per andare alla partita di polo assieme a diversi altri parlamentari. Moltissimi onorevoli, poi, avevano tagliato la corda per il week-end: l'atmosfera era sonnacchiosissima e il palazzo se-mideserto.
Moses parcheggiò l'auto nella zona riservata ai deputati e tirò fuori i soliti pacchetti. Poi, seguendo Tara a rispettosa distanza, imboccò la scalinata d'accesso. Nessuno chiese loro niente, fu facilissimo, quasi deludente; salirono al secondo piano, oltre la tribuna riservata alla stampa, in cui Tara vide tre o quattro giovani cronisti parlamentari intenti a sbadigliare mentre il ministro delle Poste rela-zionava sulla mirabile amministrazione che aveva saputo fornire nel corrente anno fiscale a questo importantissimo settore dello Stato.
Tricia, seduta alla sua scrivania nell'anticamera dell'ufficio di Shasa, stava dandosi lo smalto alle unghie. All'ingresso di Tara arrossì imbarazzata.
« Oh che bella tinta, Tricia », disse dolcemente Tara, e Tricia cercò di far finta che le dita non fossero sue, ma lo smalto era fresco e non sapeva dove metterle.
« Ho finito di battere le lettere », cercò di scusarsi, « e oggi non ho piú niente da fare. Stasera devo uscire... » balbettò.
« Ho portato alcuni campioni per scegliere le nuove tende », le disse Tara. « Ho pensato che tanto vale cambiarle, se si rinnova l'illuminazione. Ma vorrei fare una sorpresa a Shasa, per cui non glielo dica, se è possibile. »
« Certo che no, signora Courteney. »
« Dovrò cercare qualche abbinamento di colore azzeccato, sic-che mi toccherà forse trattenermi fin dopo le cinque. Se ha finito di lavorare, perché non se ne va subito? Prenderò io le eventuali telefonate. »
« Non so se sia il caso... » protestò Tricia, tentata.
« Vada pure », le intimò quasi Tara. « Terrò io la piazza. Lei si goda la serata di libertà, e buon divertimento! »
« Com'è gentile, signora Courteney, davvero! Grazie tante. »
« Stephen, porta dentro i campioni di tessuto e mettili sul divano », ordinò Tara senza guardare Moses, e rimase vicino alla segretaria che con alacrità metteva in ordine la scrivania e poi prendeva la porta.
« Buon week-end, signora Courteney, e grazie ancora. »
Tara chiuse la porta a chiave dietro le sue spalle e corse di là.
« Che fortuna! » sussurrò.
« Diamole il tempo di uscire dal palazzo », disse Moses, e sedettero l'uno accanto all'altra sul divano, in attesa.
Tara pareva nervosa e insoddisfatta, ma tacque per diversi minuti prima di sbottare: « Moses, a proposito di mio padre... E di Shasa ».
« Sì? » chiese lui con voce completamente indifferente. Lei esitò, tormentandosi le dita.
« Sì? » ripeté lui.
« No, hai ragione tu », sospirò Tara. « Bisogna farlo. Devo essere forte. »
« Già. Devi essere forte », concordò Moses. « Ma adesso va', e lasciami al mio lavoro. »
Tara si alzò in piedi. « Baciami, per piacere, Moses », gli sussurrò, e dopo un attimo si sottrasse alla stretta. « Buona fortuna », gli disse sottovoce.
Chiuse a chiave la porta esterna dell'ufficio e scese lo scalone. A metà strada, però, fu sopraffatta da un brutto presentimento, così forte che sentì il sangue abbandonarle il cervello e il sudore freddo spuntarle sulla fronte e sul labbro superiore. Ebbe un breve capogi-ro e dovette aggrapparsi alla ringhiera. Poi si riprese, con uno sforzo di volontà. Giunse in fondo alla scala e si mise a traversare l'atrio.
Il portiere la guardò con un'aria strana, mentre lei continuava a camminare. Uscì dal suo cubicolo e le venne incontro. Tara fu colta dal panico e le venne voglia di girar sui tacchi e correre di sopra ad avvertire Moses che erano stati scoperti.
« Signora Courteney. » Il portiere le si parò davanti, bloccando-le il passo.
« Che c'è? » balbettò, cercando di escogitare risposte plausibili alle sue domande.
« Ho piazzato una scommessina sulla partita di polo di questo pomeriggio, sa come sta andando? » Lo fissò a occhi sbarrati, e per un attimo non capì. Stava per sbottare: « Quale partita di polo? »
ma si trattenne in tempo e con un sovrumano sforzo di volontà e concentrazione si mise a chiacchierare con quel fesso per quasi un minuto prima di potersela squagliare. Al parcheggio dei deputati non riuscì piú a vincere il panico e si mise a correre come una pazza fino alla macchina, ansimando irrefrenabilmente al volante.
Quando sentì girar la chiave nella porta, Moses tornò nello studio del ministro e tirò le tende.
Poi si mise a studiare i titoli dei libri sugli scaffali. Avrebbe liberato la cassa solo all'ultimo momento. Tricia poteva tornare, perché magari aveva dimenticato qualcosa, oppure poteva esserci qualche controllo di routine da parte dello staff parlamentare. Chissà che non facesse un salto anche Shasa, il sabato mattina. Benché Tara gli avesse assicurato che Shasa sarebbe stato occupato con gli ospiti a Weltevreden per tutto il week-end, Moses non intendeva correre il minimo rischio. In quell'ufficio non avrebbe toccato niente finché non fosse stato assolutamente necessario.
Sorrise incontrando sullo scaffale la Storia d'Inghilterra dei Macaulay. Era un'edizione costosa, rilegata in pelle, e gli fece ricordare il tempo in cui lui e l'uomo che stava per uccidere erano amici: quel tempo ormai lontano in cui c'era ancora speranza.
Continuò a guardare la libreria finché raggiunse una sezione in cui Shasa, evidentemente, teneva i libri che non gli andavano a genio, da Mein Kampf a Das Kapital. Prese in mano un volume di Lenin e lo portò alla scrivania, mettendosi a leggerlo. Se fosse soprag-giunto qualche visitatore sgradito, avrebbe avuto tutto il tempo di rimettere il libro a posto e andare a nascondersi dietro la tenda.
Lesse fino al crepuscolo, poi prese la coperta che si era portato dietro in uno dei pacchetti e si accomodò sul divano.
Sabato mattina si svegliò prestissimo, con l'aiuto dei piccioni che tubavano sul davanzale, e uscì dalla porticina per andare alla toilette. Sarebbe stata una giornata lunga, e un buon modo di co-minciarla era quello di sfidare il cartello WHITES ONLY sulla porta del gabinetto.
Benché la Camera non si riunisse al sabato, l'entrata era aperta e nel palazzo ci doveva essere qualche attività. Pulizie, manutenzio-ne, e forse anche qualche ministro al lavoro. Doveva dunque aspettare fino a domenica, quando i princìpi calvinisti proibivano ogni lavoro e ogni attività non necessaria fuori della chiesa. Passò dunque la giornata a leggere; al crepuscolo mangiò qualcosa dalle provviste e si liberò dei rifiuti nel cestino della toilette.
Dormì benissimo e domenica mattina si svegliò prima dell'alba.
Fece una colazione frugale e infilò la tuta da operaio e le scarpe da tennis che si era portato, prima di mettersi a fare una cauta perlu-strazione dell'edificio. Il palazzo era silenzioso e deserto. Guardando giú dallo scalone vide il portone d'ingresso chiuso e le luci spente. Prese a muoversi quindi con maggiore sicurezza, e tentò la porta della tribuna stampa. Era aperta. Andò ad affacciarsi al parapetto e guardò la Camera dove erano state votate tutte le leggi che avevano vincolato e reso schiavo il suo popolo. Sentì l'ira ribollirgli in petto come un animale in gabbia che si dibatta per cercare di liberarsi.
Lasciò la tribuna stampa e discese la scala che portava all'ingresso principale. Sui gradini di marmo i suoi passi echeggiavano. Co-me si aspettava, la porta era chiusa, ma la serratura era un pezzo d'antiquariato. Si inginocchiò e tirò fuori da una tasca della tuta un sacchetto di grimaldelli. In breve trovò quello giusto: l'addestramento in Russia aveva compreso anche queste lezioni di scasso. In meno di un minuto riuscì ad aprire la porta e scivolò in aula, chiu-dendosela subito dietro le spalle.
Si trovava ora nella vera e propria cattedrale dell'apartheid, e gli parve che lì la malvagità fosse una cosa palpabile che gli gravava addosso schiacciandolo e rendendogli faticoso ogni respiro. Si mosse lentamente per la navata centrale diretto allo scranno del presidente con le insegne dell'Unione; poi girò a sinistra costeggiando il tavolo delle urne, davanti al quale sfilavano i deputati per votare nelle occasioni in cui il voto era segreto, e arrivò ai banchi del governo. Ecco, in prima fila, il Posto del primo ministro, il dottor Hendrik Frensch Verwoerd; le grandi nari di Moses si dilatarono, come se sentisse l'odore della gran bestia.
Con uno sforzo si calmò, mettendo da parte sentimenti e passioni, e diventò oggettivo come un lavoratore che abbia un compito da svolgere. Esaminò i banchi del governo con attenzione, sdraiandosi a guardar sotto. Naturalmente aveva studiato con gran cura tutte le fotografie della Camera che era riuscito a procurarsi, ma ora vedeva che servivano a poco. Si mise a tastare il cuoio verde dei sedili, che portava ancora l'impronta degli uomini che ci si accomodavano sopra: da vicino, si vedeva che era pieno di crepe minute, logorato dagli anni. Il banco era in massello di mogano. Tastando sotto il sedile, trovò il grosso telaio che lo sosteneva. Non c'erano sorprese qui, borbottò fra sé, soddisfatto.
Tornò nell'ufficio di Shasa per la porticina segreta e si mise immediatamente a vuotare la cassa. Ancora una volta badò a mantenere la disposizione originale del contenuto, così da poterlo rimettere dentro nell'identico ordine. Poi entrò nella cassa e aprì i pannelli del doppiofondo. Mise da parte la roba da mangiare per cena e infilò nella coperta i trenta panetti di plastico. Un vantaggio di questo esplosivo è che è inerte, e può essere maneggiato anche rudemente senza rischi: se non c'è il detonatore, infatti, non può esplodere.
Prese in mano i quattro lembi della coperta e se la mise in spalla. Poi tornò in fretta alla Camera. Ficcò l'involto con l'esplosivo sotto una panca, in modo che sfuggisse a una scoperta casuale, e tornò nello studio a prendere la cassetta degli attrezzi. Stavolta chiuse a chiave la porta dell'aula, per poter lavorare in completa sicurezza.
Non poteva servirsi di un trapano elettrico, per via del rumore.
Si coricò sulla schiena, sotto il sedile del primo ministro, e col succhiello cominciò a forare il legno per ricevere le viti a occhiello. Ci avrebbe fissato i pani di esplosivo, a blocchi di cinque chili. Legò i panetti e assicurò il pacco agli occhielli che spuntavano dal legno, poi fece lo stesso per tutta l'estensione del sedile del governo.
Rotolò fuori e si rialzò. Guardò gli scranni. L'esplosivo non si vedeva assolutamente, perché c'era il montante del telaio di mogano che bordava la parte inferiore del sedile. Si chinò, come poteva capitare a un deputato per raccogliere la penna o un pezzo di carta.
Anche così era quasi impossibile accorgersi delle cariche.
« Va bene », mormorò, e si mise a ripulire. Meticolosamente raccolse tutta la segatura che aveva creato col succhiello e i ritagli di filo usato per legare i panetti. Poi raccolse gli attrezzi.
"Adesso possiamo provare il trasmettitore di impulsi radio" si disse tornando in fretta di sopra, nell'ufficio di Shasa.
Inserì le pile nel trasmettitore e ne controllò il funzionamento.
La spia rossa si accese subito. Lo spense. Poi prese il detonatore nella sua scatola di cartone e lo tirò fuori, infilandoci la pila. L'aggeggio era grosso come una scatola di fiammiferi svedesi, fatto di bachelite nera con un interruttore a un'estremità. Aveva tre posizioni: "off", "test" e "receive". Un cappio di filo sottile impediva di spostarlo inavvertitamente su "on». Moses lo mise su "test" e lo appoggiò sul divano, poi andò al trasmettitore e l'accese. Immediatamente brillò la spia rossa sul detonatore, che prese a ronzare forte, come se ci fosse imprigionato un calabrone. Aveva ricevuto il segnale. Moses spense il trasmettitore, e il ronzio terminò.
"Adesso bisogna provare se l'impulso arriva da qui all'esplosivo."
Lasciò il trasmettitore acceso e scese un'altra volta nell'aula parlamentare. Inginocchiandosi dietro il banco del governo coi detonatore in mano lo mise in posizione di "test".
Non successe niente. Ci provò tre volte, ma proprio non riceveva l'impulso dall'ufficio al piano di sopra. Evidentemente c'era troppo cemento armato di mezzo.
"Andava tutto troppo bene" si disse. "Ci doveva essere qualche fregatura." Sospirò prendendo il totolo di filo elettrico in mano.
Avrebbe preferito evitare questo lavoraccio: benché il filo fosse sot-tilissimo e ricoperto di un color marrone opaco, avrebbe aumentato moltissimo il rischio di essere scoperti.
"Non si può fare altrimenti" si consolò.
Aveva già studiato il disegno dell'impianto elettrico che Tara era riuscita a procurargli al ministero dei Lavori Pubblici, ma ora tornò a spiegare la carta per rinfrescarsi la memoria.
Nel rivestimento ligneo dietro gli ultimi banchi del governo c'era una presa elettrica. La linea saliva fino al soffitto e poi nel solaio. Il quadro delle valvole era in portineria. Era chiusa, ma riuscì ad aprire la serratura della porta senza difficoltà e poté togliere la corrente.
Poi tornò in aula, trovò la presa e tirò fuori i fili, notando con soddisfazione che seguivano il consueto codice dei colori. Ciò gli avrebbe alquanto facilitato il compito.
Lasciò l'aula e andò al piano di sopra. Nella toilette degli uomini c'era lo sgabuzzino del personale delle pulizie e conteneva una scala. Sempre nei gabinetti si apriva la botola che dava nel sottotet-to. La trovò e ci piazzò sotto la scala. Aprì facilmente la botola e sgusciò nei solai del palazzo.
Fra tetto e soffitto c'era uno spazio buio, con una gran puzza di topi. Moses accese la pila e si avviò in quella foresta di travi, dove la polvere regnava indisturbata da anni e si sollevava a ogni suo passo formando pigre nuvolette intorno ai piedi. Starnutì e si mise a respirare attraverso il fazzoletto, procedendo attentamente di trave in trave, contando i passi per non perdere l'orientamento.
Quando arrivò al muro che certamente costituiva la parte superiore della parete di fondo dell'aula, vide subito le condutture dei fi-li. Ce n'erano una quindicina, alcune vecchie, altre piú recenti. Gli ci volle un bel pò per trovare quella giusta, ma alla fine ci riuscì.
D'ora in poi tutto sarebbe stato facile. Prese la lunghissima molla da elettricista e l'infilò nel tubo, che aveva svitato al giunto: quando sentì che la molla era arrivata, Moses intraprese il lungo viaggio di ritorno per il solaio, giú dalla botola, per il corridoio, la scala e infine l'aula.
Dalla presa aperta sbucava la sua molla. Ci annodò un capo del filo srotolando l'altro, che andò a legare sotto il banco del governo per assicurarsi che poi ci arrivasse. Tornò in solaio e recuperò la molla col filo attaccato. Con la tuta ormai tutta piena di polvere e ragnatele si recò di nuovo in aula, praticò un'incisione col seghetto nella copertura della presa e la riavvitò al suo posto. Quindi fece passare il filo sotto la moquette verde fino alla carica sotto il sedile di Verwoerd. Poi controllò il lavoro. Sul tappeto non c'erano tracce: si vedevano solo quei pochi centimetri di filo che dalla presa raggiungevano il pavimento, ed era molto probabile che nessuno ci facesse caso. Si sedette al posto del dottor Verwoerd per riposare qualche minuto prima di finire il lavoro. Poi tornò di sopra.
Ora veniva la parte piú difficile: arrivare per i solai proprio sopra il soffitto dello studio di Shasa. Dovette scendere dalla botola tre volte a contare i passi e controllare la direzione: infine, sicuro di aver localizzato perfettamente l'ufficio del ministro, si mise alacre-mente a praticare un buco col trapano a mano. La luce entrò nel forellino: ci applicò l'occhio, ma non riuscì a vedere niente. Allargò leggermente il foro, ma non si vedeva ancora niente, e così dovette tornare per l'ennesima volta giú per la botola. Appena mise piede nell'ufficio di Shasa, si accorse che aveva commesso un grave errore. Il buco che aveva praticato nel soffitto era proprio sopra la scrivania del ministro. Nell'allargarlo aveva sbriciolato l'intonaco: sul piano della scrivania c'era qualche scaglietta di gesso. Guardò in su, il buco era piccolissimo, ma intorno s'era formata una ragnatela di crepe che non poteva sfuggire a chi alzasse gli occhi al soffitto.
Pensò di riparare i danni, ma sarebbe riuscito solo a peggiorare la situazione e lo sapeva. Pulì bene la scrivania: era tutto quello che poteva fare. Bisognava solo sperare che nessuno guardasse in su, o, anche guardando, non si insospettisse per quel piccolo difetto dell'intonaco. Arrabbiato per il malestro commesso, fece quello che avrebbe dovuto fare subito, e cioè praticò il buco da sotto, proprio accanto al montante della libreria, invisibile se non all'esame piú ac-curato. Tornò nel solaio e fece passare il filo da questo nuovo foro.
Di nuovo da basso, lo infilò dietro l'Enciclopedia Britannica, sullo scaffale piú alto della libreria. Poi fece in modo di nascondere con la tenda i due o tre centimetri di filo che si potevano ancora vedere.
Quindi pulì di nuovo bene il pavimento e la libreria, cercando la minima scheggia di gesso, e poi tornò a esaminare la scrivania. Era caduta un'altra briciola bianca dal soffitto. La raccolse col dito inu-midito di saliva, poi pulì il piano con la manica della tuta.
Uscì dall'ufficio per la porticina, e riesaminò tutto quello che aveva fatto. Nel gabinetto chiuse la botola e pulì il pavimento sottostante, tutto impolverato. Poi rimise la scala nello sgabuzzino. Quindi tornò un'ultima volta nella Camera.
Era giunto il momento di collegare il detonatore. Tolse il cappio di sicurezza che bloccava l'interruttore e lo mise in posizione di ricevere l'impulso elettrico. Fece un buco nel plastico e ci infilò il detonatore. Scoprì l'ultimo trattino di filo di rame e l'avvitò all'aggeggio: poi fissò il tutto con nastro adesivo. Scivolò fuori da sotto il sedile.
Raccolse tutti gli attrezzi di cui si era servito, guardò con grande attenzione se aveva lasciato la benché minima traccia, e uscì dalla porta principale, facendo scattare la serratura e pulendo col gomito le ditate sui battenti lucidi di ottone. Poi scese in portineria e ridiede corrente alla rete.
Salì le scale per l'ultima volta e si chiuse nell'ufficio di Shasa.
Guardò l'orologio. Erano quasi le quattro e mezzo. Gli era occorsa tutta la giornata, ma aveva lavorato con cura particolare ed era soddisfatto. Si stese sul divano. Era stanchissimo: la tensione e la concentrazione mentale l'avevano esaurito, molto piú del lavoro fisico.
Riposò un pò prima di mettersi a riempire la cassa. Ficcò la tu-ta sporca nel sottofondo ormai vuoto dell'esplosivo, e ci mise sopra il trasmettitore di impulsi, a portata di mano. Sarebbe bastato qualche minuto di lavoro a recuperarlo, collegarlo al capo del filo dietro l'enciclopedia, chiudere il circuito e far saltare in aria le cariche. Secondo i suoi calcoli l'ufficio di Shasa era abbastanza lontano dall'esplosione per non correre rischi: c'era di mezzo un buon numero di pareti per assorbire lo scoppio. Ma la Camera sarebbe stata completamente devastata. Aveva fatto proprio un buon lavoro. Mentre il buio dei crepuscolo invadeva la stanza, si stese sul divano, tirandosi addosso la coperta.
All'alba si svegliò e controllò l'ufficio per l'ultima volta, guardando irritato la ragnatela di crepe sottili sul soffitto. Raccolse i suoi pacchetti e uscì per la porta segreta, dirigendosi verso i gabinetti.
Qui, a un lavabo, si fece la barba e si lavò. Tara gli aveva messo tutto l'occorrente nel pacchetto delle cibarie. Poi indossò la divisa da autista e si chiuse in uno dei gabinetti. Non poteva aspettare nell'ufficio di Shasa, perché Tricia sarebbe arrivata alle nove, né poteva uscire dal palazzo prima che fosse in piena attività, altrimenti l'avrebbero notato.
Si mise ad aspettare, seduto sul water. Alle nove sentì dei passi in corridoio. Poi qualcuno entrò e usò il gabinetto vicino, grugnendo e scorreggiando forte. Nell'ora successiva i gabinetti furono al quanto frequentati: ma a metà mattina vi fu una pausa. Moses si al-zò, prese i suoi pacchetti, si ricompose, uscì dal gabinetto e si affacciò cauto nel corridoio.
Deserto. Si avviò verso la scala e, quando ci arrivò, rabbrividì.
Stavano venendo su due persone, che ben presto l'avrebbero incrociato. Erano due uomini che conversavano animatamente. Il piú basso e anziano parlando gesticolava, mentre il piú giovane e alto lo ascoltava con attenzione, emanando lampi di divertimento dall'unico occhio che aveva.
Moses si impose di proseguire, assumendo l'espressione stolida e paziente con cui l'africano cela le emozioni al cospetto del padrone bianco. Quando si avvicinarono, si fece da parte rispettosamente senza guardarli in faccia.
Shasa Courteney scoppiò a ridere a una battuta dell'altro proprio mentre incrociavano Moses.
« Quella vecchia stupida! » esclamò, lanciando un'occhiata di sottecchi a Moses. La risata gli morì in gola, e assunse un cipiglio perplesso. Moses temette che stesse per fermarsi, ma il compagno lo tirò per la manica.
« E sentì la piú bella: non voleva piú ridargli i calzoni, fino a quando non avesse... » disse trascinandolo via, senza voltarsi né allungare il passo. Moses scese le scale e uscì dal portone principale.
La Chevrolet era dove doveva essere. Moses caricò i pacchi dietro e poi andò a mettersi al volante. Mentre accendeva il motore, Tara si sporse a sussurrargli: « Oh, grazie a Dio... Ero così preoccupata! ».
L'arrivo a Città del Capo di Harold Macmillan e collaboratori generò un vero eccitamento non solo nella città madre ma in tutto il Paese. Il primo ministro britannico era all'ultima tappa di un gran giro dell'Africa, durante il quale aveva visitato tutte le colonie e i Paesi membri del Commonwealth, di cui il Sudafrica era il piú grande, ricco e attivo.
Il suo arrivo significava cose diverse per le diverse componenti della popolazione bianca. Per la comunità anglofona era dimostrazione di ancor saldi legami e profonda dedizione nei confronti della vecchia patria. Rafforzava la sensazione di sicurezza che dava l'appartenere al vasto corpo dei Commonwealth, e la consapevolezza che fra i due Paesi - che da un secolo e piú, fra terribili guerre e crisi economiche, si sostenevano a vicenda - il legame di sangue e sofferenze non si era eroso. La visita del premier dava a questa comunità l'occasione di riaffermare la sua leale devozione alla regina.
Per gli afrikaner nazionalisti significava qualcosa di totalmente diverso. Contro la corona inglese avevano combattuto due guerre; e, benché molti in altre due si fossero presentati come volontari a fianco degli inglesi - distinguendosi a Delville Wood e a El Alamein -, almeno altrettanti, fra cui la maggior parte dei membri del governo nazionalista, si erano violentemente opposti alla dichiarazione di guerra contro il Kaiser Guglielmo prima, e contro Adolf Hitler poi.
Il governo nazionalista comprendeva membri che avevano cercato di sabotare in tutti i modi l'impegno bellico sudafricano sotto il governo Smuts; e uomini che ora reggevano ministeri importanti, come Manfred De La Rey, erano ex membri della Ossewa Brandwag. Per costoro la visita del primo ministro britannico costituiva un riconoscimento della loro sovranità e importanza quali dirigenti della nazione africana piú avanzata e prospera.
Durante la sua permanenza Macmillan fu ospite a Groote Schuur, la residenza ufficiale del primo ministro sudafricano. Il momento cruciale della visita sarebbe stato il suo discorso alle Camere sudafricane in seduta congiunta. Senato e Camera si preparavano al messaggio del premier inglese, mentre egli veniva festeggiato dal governo con un banchetto ufficiale a cui partecipavano anche i principali esponenti dell'opposizione e personalità di rilievo della società civile.
Tara odiava queste cerimonie con tutto il cuore, ma Shasa era stato chiaro: « Questo fa parte del nostro accordo, mia cara. L'invito è esteso alle mogli e tu hai promesso di non farmi fare brutte figure in pubblico ».
Alla fine si era addirittura messa i diamanti, cosa che non faceva da anni. Shasa le fece sentiti complimenti.
« Sei davvero uno schianto, quando ti prendi la briga di agghin-darti un pò », le disse, ma lei non gli rispose. Stavano costeggiando la parte meridionale della montagna diretti a Groote Schuur.
« Qualcosa ti preoccupa? » le chiese Shasa, guidando la Rolls con una mano sola mentre si accendeva la sigaretta col Ronson d'oro.
« No », gli rispose subito lei. « E' solo la prospettiva di passare la serata dicendo le cose giuste a un branco di estranei. »
Ma la vera ragione della sua ansia era ben altra. Tre ore prima, mentre Moses la riportava a casa da una riunione dell'esecutivo del Women's Institute, le aveva detto:
« Giorno e ora dell'attentato sono stati fissati. » Da quando era andata a prenderlo all'uscita dal palazzo lunedì mattina, Tara era tormentata giorno e notte dal terribile segreto che conosceva.
« Quando sarà? » gli chiese col cuore in gola.
« Durante il messaggio dell'inglese », disse semplicemente, e Ta-ra sbarrò gli occhi. La logica della scelta era diabolica.
« Le Camere in seduta congiunta », proseguì Moses. « Ci saranno tutti, gli schiavisti e l'inglese che è loro complice e protettore.
Moriranno insieme. L'eco di quell'esplosione si sentirà in tutti gli angoli del mondo. »
Di fianco a lei, Shasa spense la fiammella dell'accendino. « Non sarà poi così sgradevole. Mi sono accordato col cerimoniere, sarai seduta vicino a Lord Littleton, con cui mi pare tu vada abbastanza d'accordo, no? »
« Non sapevo che ci fosse anche lui », disse Tara distratta. La conversazione le sembrava frivola e assurda a paragone dell'olocau-sto che si profilava.
« Ma sì, è un consigliere speciale del governo britannico in materia finanziaria e commerciale », disse Shasa rallentando. Abbassò il vetro ed entrò dai cancelli principali di Groote Schuur, unendosi al-la fila di macchine lussuose che percorrevano lentamente il viale d'accesso. Mostrò l'invito al capitano della guardia e ne ottenne un rispettoso saluto.
« Buona sera, ministro. Prosegua pure per l'ingresso principale. »
Groote Schuur in alto olandese significa grande granaio. Un tempo era stato la sede di Cecil John Rhodes, avventuriero e fondatore di imperi, che se ne era servito come residenza da primo ministro della vecchia Colonia del Capo, prima che l'atto di Unione, nel 1910, riunisse le distinte province nell'attuale Unione del Sudafrica.
Rhodes aveva lasciato alla nazione la grande residenza, restaurata dopo un catastrofico incendio. Era un edificio grandioso ma brutto, che rifletteva il gusto confessato di Rhodes per il barbarico: un miscuglio di stili architettonici diversi, che Tara giudicava tutti egual-mente orrendi. Ma non si poteva negare che la vista era magnifica.
Dalle prime pendici della Table Mountain lo sguardo spaziava sulla pianura del Capo, disseminata di luci e chiusa dalle buie ombre nere delle montagne che si stagliavano contro il cielo notturno rischiara-to dalla luna. Stanotte, un'aria di festa pareva ringiovanire il massiccio edificio.
Le finestre erano tutte illuminatissime e i valletti in livrea accoglievano gli ospiti che scendevano dalle limousine, indirizzandoli al-la linea di ricevimento nell'atrio. Il primo ministro Verwoerd e la moglie Betsie erano in testa alla fila, ma Tara era piú interessata al loro ospite.
Fu sorpresa dalla sua statura. Era alto quasi come Verwoerd, e somigliava in maniera sorprendente alle caricature pubblicate sui giornali. I ciuffi di capelli sopra le orecchie, i denti equini e i baffo-ni cascanti. La sua stretta di mano era salda e asciutta, e la sua vo-ce, quando la salutò, morbida e flautata. Poi lei e Shasa passarono nella sala dove si stavano raccogliendo gli altri invitati alla cena.
Ed ecco avvicinarsi Lord Littleton, in un abito da cerimonia elegantemente un pò liso e stinto, il volto illuminato da un sorriso.
« Mia cara, la tua presenza rende ancor piú preziosa la serata! »
La baciò sulla guancia e poi si rivolse a Shasa. « Ti devo raccontare il nostro giro dell'Africa... Veramente interessante! » e si misero a chiacchierare amichevolmente.
I brutti presentimenti di Tara furono momentaneamente dimenticati. Esclamò: « Ma Milord, lei non può sostenere che il Congo sia un Paese emergente africano tipico. Lasciandolo fare, Patrice Lumumba sarebbe l'esempio di ciò che un leader negro... ».
« Lumumba è un avanzo di galera. Invece Ciombé... » l'interruppe Shasa, e Tara ribatté: « Ciombé è un traditore, un fantoccio dei colonialisti belgi ».
« Però almeno non mangia gli oppositori come fanno i lumum-bisti », interloquì bonariamente Littleton. Tara si rivolse fieramente al Lord.
« Questo è indegno di una persona che... » S'interruppe con qualche sforzo. Aveva l'ordine di evitare discussioni politiche e di recitare alla perfezione la parte di moglie devota legata alla classe dirigente.
« Ma queste sono cose noiosissime », cambiò discorso. « Perché non mi parla invece delle novità teatrali di Londra? Che si dà di bello attualmente? »
« Be', poco prima di partire ho visto Il calapranzi, la nuova piè-
ce di Pinter », disse Littleton accettando la diversione. Shasa guardò in giro per la sala. Manfred De La Rey lo stava osservando coi suoi occhi chiari e intensi. Incontrando il suo sguardo, lo chiamò con un cenno del capo.
« Scusate un momento », mormorò Shasa, ma Littleton e Tara parlavano così animatamente che si accorsero appena che si allontanava verso Manfred e la sua statuaria moglie tedesca.
Manfred sembrava sempre un pò a disagio in frac. Il colletto inamidato della camicia gli mordeva il collo taurino, incidendoci un segno rosso.
« Allora, amico mio », sfotté, « a quanto pare gli argentini ve le hanno date, eh? »
Il sorriso di Shasa vacillò un tantino. « Perdere otto a sei non è disonorevole », protestò, ma a Manfred in realtà la cosa non interessava minimamente.
Prese Shasa per il braccio e gli si avvicinò, sempre con un sorriso cordiale in viso. « C'è qualcosa di brutto che bolle in pentola », gli sussurrò.
« Ah! » esclamò Shasa, con lo stesso sorriso professionale, annuendo per farlo proseguire.
« Macmillan ha rifiutato di far leggere a Verwoerd in anticipo il discorso di domani. »
« Ah! » Stavolta Shasa fece fatica a mantenere il sorriso. Se era vero, il primo ministro della Gran Bretagna si era reso responsabile di una marchiana infrazione dell'etichetta. Era semplice cortesia permettere a Verwoerd di studiare il testo, così da poter meditare la risposta.
« Sarà certo un discorso importante », proseguì Manfred.
« Sì », concordò Shasa. « Maud è tornato a Londra a consultarsi con lui e aiutarlo a preparare il messaggio. Ci stanno lavorando da un pezzo. » Sir John Maud era l'alto commissario britannico per il Sudafrica: che fosse stato convocato a Londra sottolineava la gravità della situazione.
« Tu che sei amico di Littleton », proseguì sottovoce Manfred,
« vedi di farti anticipare qualcosa sul contenuto dei messaggio di Macmillan. »
« Dubito che ne sappia abbastanza », disse Shasa, sempre sorridendo a beneficio di chi li osservasse. « Ma se riesco a sapere qualcosa te lo dico. »
La cena si svolse col magnifico servizio della Compagnia delle Indie, ma si trattava del solito anodino banchetto ufficiale. Shasa era convinto che gli chef di Stato imparassero il mestiere sui vagoni ristoranti. I vini bianchi erano dolciastri e insipidi, ma il rosso era un Cabernet Sativignon di Weltevreden del 1951. Shasa aveva influenzato la scelta dicendosi disposto a offrirlo per il banchetto, ed era un rosso inferiore solo ai migliori bordeaux. Peccato che il bianco fosse la schifezza che era. Non c'era motivo: avevano il clima e il terreno giusto per ottenerne di gran lunga migliore. Weltevreden si era sempre concentrata sui rossi, ma ora decise di colpo di migliorare i bianchi, anche se per questo avrebbe dovuto assumere un altro enologo tedesco o francese, o comprare altri vitigni nella zona di Stellenbosch.
Per fortuna i discorsi di prammatica furono brevi e irrilevanti: benvenuto di Verwoerd, ringraziamento di Macmillan. La conversazione, dalle parti di Shasa, non abbandonò gli argomenti sportivi come l'ultima sconfitta della nazionale di polo contro gli argentini, e la vittoria di Stirling Moss alla Mille miglia. Appena il banchetto finì, Shasa cercò Littleton, che era ancora con Tara, a godersi fino all'ultimo la sua compagnia.
« Sto pensando a domani », buttò lì distrattamente. « Ho sentito dire che il vostro Supermac ha in serbo qualche sorpresina per noi. »
« E chi te l'ha detto? » ribatté Littleton. A Shasa non sfuggì il lampo di diffidenza balenato negli occhi del Lord.
« Possiamo parlare un po? » gli chiese calmo Shasa, scusandosi con Tara. « Abbi pazienza un attimo, mia cara. » Prese sottobraccio Littleton e chiacchierando amichevolmente lo condusse fuori, sotto la pergola di viti.
« Cosa sta succedendo, Peter? » Abbassò la voce. « Non puoi dirmi proprio niente? »
Il loro rapporto era vecchio e sperimentato: una domanda così diretta non poteva essere ignorata.
« Sarò franco con te, Shasa », disse Littleton. « Mac deve avere qualche asso nella manica. Non so di che si tratta, ma è sicuramente qualcosa che farà sensazione. La stampa inglese è stata discretamente messa sull'avviso. Secondo me si tratterà di un messaggio politico molto importante. »
« Cambierà le nostre relazioni? Il commercio preferenziale, ad esempio? » domandò Shasa.
« Il commercio? » ridacchiò Littleton. « Certo che no. Niente disturba il commercio. Ma piú di questo non ti so dire. Bisogna aspettare domani. »
Né Shasa né Tara parlarono tornando a Weltevreden. Solo quando la Rolls entrò dal portale di Anreith Tara chiese, con voce un pò malferma: « A che ora è domani il discorso di Macmillan? ».
« La riunione speciale congiunta è indetta per le undici », le rispose Shasa, ancora pensando alle parole di Littleton.
« Voglio venire a sentirlo anch'io. Ho detto a Tricia di procurarmi un invito. »
« Ah, ma la riunione non si terrà alla Camera. Non ci sono abbastanza posti a sedere. Si terrà nel salone dei banchetti, e non cre do che sia ammesso il pubblico... » S'interruppe e la guardò. Era improvvisamente impallidita.
« Cosa c'è, Tara? »
« Nel salone? » sospirò. « Sei sicuro? »
« Ma certo. C'è qualcosa che non va, mia cara? »
« Sì... No. Niente che non va, ho solo un pò di acidità di stomaco. Il menu... »
« Già, che schifezza », concordò lui, tornando a guardare la strada.
"Nel salone dei banchetti" pensava intanto Tara, in preda al panico. "Devo avvertire Moses. Devo dirgli che domani non si può...
avrà già preparato tutto per la fuga. Devo dirglielo subito."
Shasa la lasciò davanti alla porta principale e proseguì verso il garage con la Rolls Royce. Quando tornò, la trovò nel soggiorno azzurro dove i servitori, che li aspettavano alzati, stavano servendo cioccolata calda e biscotti. Il cameriere aiutò Shasa a indossare una giacca da casa, mentre le cameriere aspettavano ordini. Shasa le mandò a dormire.
Tara si era sempre opposta a questa abitudine. « Posso scaldar-melo da sola il latte, e tu infilarti la giacca da casa senza per questo tener sveglio un uomo adulto », disse quando i servitori furono usciti. « E' feudale e crudele tenerli alzati ad aspettarci fino a qualunque ora. »
« Sciocchezze, mia cara », disse Shasa versandosi un cognac per accompagnare la cioccolata. « E' una tradizione a cui tengono quanto noi. Li fa sentire indispensabili e parte della famiglia. Inoltre lo chef si beccherebbe un infarto se ti mettessi a rovistare nei suoi fornelli. »
Poi si accomodò sulla poltrona preferita e diventò insolitamente serio. Cominciò a parlarle come all'inizio del loro matrimonio, quando andavano ancora d'accordo.
« C'è qualcosa che non mi piace nell'aria. Siamo all'inizio di un nuovo decennio, gli anni Sessanta: dopo quasi dodici anni di governo nazionalista, nessuna delle mie predizioni piú nere si è avverata, ma mi sento a disagio. Ho la sensazione che il meglio sia passato, e cominci un'altra fase, che sarà negativa per noi. Forse comincerà proprio domani... » S'interruppe, e le fece un bel sorriso. « Ma scusami. Come sai, ben di rado indulgo in fantasie... » disse, continuando a sorseggiare in silenzio cioccolata e cognac.
Tara non provò la minima simpatia per lui. C'erano tantissime cose che avrebbe voluto dirgli, tante recriminazioni da infliggergli, ma non si fidava a parlare. Se avesse cominciato, forse non avrebbe saputo piú frenarsi, e avrebbe rivelato ciò che non doveva. Avrebbe accennato alla punizione terribile che aspettava lui e tutti quelli co-me lui: ma non voleva prolungare il téte à téte. Voleva raggiungere Moses al piú presto, avvertirlo che bisognava rimandare. Quindi si alzò. « Lo sai come la penso io, è inutile parlarne. Vado a letto, scusami. »
« Sì, certo », disse Shasa alzandosi educatamente. « Io lavorerò ancora un pochino. Devo preparare i negoziati di domani con Littleton e i suoi, sicché non preoccuparti di me. »
Tara andò a controllare che Isabella fosse in camera sua a dormire, quindi andò ai propri appartamenti e chiuse la porta. Si tolse l'abito da sera e mise jeans e maglione scuro, poi si arrotolò uno spinello e aspettò fumando per un quarto d'ora. Quando giudicò che Shasa fosse ormai assorto nel suo lavoro, buttò nel vater lo spinello e azionò lo sciacquone, poi uscì di nuovo in corridoio, chiudendo a chiave la porta contro l'eventualità, sia pure improbabile, che Shasa venisse a cercarla nelle sue stanze. Scese per la scala di dietro.
Mentre scivolava lungo la parete dell'edificio, stando nell'ombra e senza far rumore, sentì suonare un telefono nello studio di Shasa.
Rabbrividì involontariamente. Doveva essere la sua linea privata; stava per proseguire, quando sentì la voce del marito. Benché le tende fossero tirate, la finestra dello studio era aperta e si intravedeva la testa di Shasa di là dal tendaggio.
« Kitty! » disse Shasa. « Kitty Godolphin, piccola strega. Dovevo indovinarlo che venivi! »
Il nome stupì Tara, riportandole vecchi ricordi dolorosi. Non resisté alla tentazione di avvicinarsi un pò di piú alla finestra.
« Fiuti sempre il sangue, eh? » disse Shasa, ridacchiando alla sua risposta.
« Dove stai? Al Nellie? » Il Mount Nelson, miglior albergo di Città del Capo. « E che stai facendo adesso? Proprio adesso, dico.
Sì, lo so che sono le due del mattino, ma l'ora che importanza ha?
Tutte le ore sono buone per farlo, me l'hai detto tu stessa una volta.
Arrivo tra una mezz'oretta, va bene? Non cominciare senza di me. » Ridacchiò e mise giú il telefono.
Tara corse a nascondersi tra i cespugli di un'aiuola. Pochi minuti dopo Shasa uscì dalla porta laterale, in soprabito scuro sopra lo smoking. Andò in garage e ne uscì con la Jaguar. Anche se aveva fretta, procedette piano tra le vigne, per non impolverare gli amati grappoli. Guardando le lucine rosse allontanarsi, Tara lo odiò piú che mai. Pensava di essere ormai abituata ai suoi amorazzi, ma era come un gatto in calore... Nessuna donna si salvava da lui, e i suoi rimproveri a Sean per lo stesso comportamento suonavano ridicoli.
Kitty Godolphin... Ripensò al loro primo incontro, e alla strana reazione della giornalista quando le aveva detto di essere la moglie di Shasa. Ora capiva perché. « Mio Dio, come lo odio! E' assolutamente privo di coscienza e di pietà. Merita di morire. » Lo disse forte, poi si coprì la bocca con la mano. « Non avrei dovuto dirlo, ma è vero: merita di morire, e io merito di liberarmi di lui, per andare da Moses e dal mio bambino. »
Si tirò su dai cespugli, si pulì i calzoni dalla terra e attraversò in fretta il prato all'inglese. In cielo c'era un quarto di luna, qualcuno poteva vederla. Entrò con sollievo nella vigna e corse fra i grappoli quasi maturi. Ben presto raggiunse gli alloggi della servitú.
Bussò alla finestra di Moses, che le rispose quasi subito: sapeva che aveva il sonno leggerissimo.
« Sono io », gli sussurrò.
« Aspetta che ti altro la porta. »
Le si parò davanti in mutande, col corpo lucido al chiar di luna come catrame fondente.
« Sei stata una stupida a venire qui », disse tirandola dentro.
« Metti in pericolo tutto. »
« Moses, per favore ascoltami. Bisogna rimandare. Domani è impossibile. »
La guardò con disprezzo. « Non sei mai stata una vera rivoluzionaria. »
« Invece sì e ti amo tanto da far tutto per te. Sappi che hanno cambiato programma. Non useranno l'aula che hai minato. Si in-contreranno nel salone dei banchetti del Parlamento. »
Lui la guardò di nuovo, poi si voltò e cominciò a vestirsi.
« Cosa fai? » gli chiese.
« Devo avvertire gli altri. Anche loro corrono dei rischi. »
« Quali altri? » gli chiese Tara. « Non sapevo che ci fossero degli altri. »
« Tu sai solo quello che devi sapere », le disse reciso. « Mi serve la Chevrolet. Posso prenderla? »
« Sì, Shasa è fuori. Vuoi che venga con te? »
« Sei matta? » le disse. « Se la polizia trova una bianca assieme a un negro a quest'ora... » Non finì la frase. « No, tu devi solo tornare a casa e fare una telefonata. Eccoti il numero. Risponderà una donna, e tu le dirai: "Ghepardo sta arrivando, sarà lì tra mezz'ora".
Tutto qui: poi, riappenderai. »
Moses guidava la Chevrolet per il dedalo di viuzze del District Six, il vecchio quartiere malese. Durante la giornata era un rione at-tivissimo e tipico, pieno di negozietti e botteghe: le decrepite case vittoriane ospitavano artigiani e mercanti, e dalle ringhiere pendeva la biancheria appesa ad asciugare. I vicoli pieni di curve rimbomba-vano delle grida dei venditori ambulanti, degli squilli di corno dei venditori di pesce, delle risate dei bambini.
Al calar della sera i commercianti chiudevano bottega e lasciavano le vie alle bande, ai magnaccia e alle puttane. I nottambuli bianchi piú arditi venivano a tarda notte ad ascoltare il jazz nelle taverne affollate, o a cercare qualche bella negretta: piú per l'emozione del proibito e della novità che per la gratificazione fisica.
Moses lasciò la Chevrolet in un vicolo buio. Sui muri c'erano scritte che rivendicavano il territorio alla banda dei Rude Boys, una delle piú famose: attese qualche secondo ed ecco materializzarsi il primo teppista, un ragazzetto con la faccia da vecchio vizioso.
« Sta' attento alla macchina », disse Moses, tirandogli uno scellino d'argento. « Se quando torno trovo le gomme a terra, ti concio per le feste. » Il ragazzo sogghignò maliziosamente. Moses salì la scala scura e stretta dei Vortex Club. Sul pianerottolo c'era una coppia che scopava furtivamente ma furiosamente contro il muro.
Al passaggio di Moses, l'uomo bianco voltò la faccia dall'altra parte, ma non perse un colpo.
Alla porta del club qualcuno lo osservò brevemente dallo spioncino e poi lo fece entrare. La lunga stanza affollata era piena di fu-mo, di tabacco e cannabis. La clientela era alquanto mista, dai teppisti delle bande a signori in abito da sera: solo le donne erano tutte di colore.
Suonava il quartetto di Dollar Brand, un jazz dolce e pieno d'anima, e tutti ascoltavano con attenzione. Nessuno alzò la testa a guardare Moses che scivolò lungo la parete fino alla porta in fondo, guardata da un buttafuori che però lo riconobbe e lo fece passare subito.
Nel retro c'era solo un uomo seduto a un tavolo da gioco illuminato da una lampada verde. Stava fumando, e aveva il volto impenetrabile, gli occhi come crepe nere su un muro bianco.
« Che sciocchezza convocare una riunione proprio adesso », disse Joe Cicero. « Che ragione c'era? Tutti i preparativi sono stati fatti. Non c'è piú niente da discutere. »
« Ci sono novità », disse Moses, e sedette sulla sedia libera, guardandolo in faccia. Gli raccontò tutto e Joe Cicero lo ascoltò impassibile; ma alla fine si allontanò i capelli dalla fronte col dorso della mano: Moses aveva imparato a interpretare quel gesto come un segno di agitazione dell'agente sovietico.
« Non si può smantellare la rete della fuga e poi ricostituirla. So-no cose che richiedono tempo: l'aereo è già sul posto. »
Era un Aztec noleggiato a Johannesburg; il pilota, un assistente di Scienze Politiche all'università del Witwatersrand che aveva il brevetto ed era membro del Partito Comunista Sudafricano.
« Quanto tempo può star là ad aspettare? » chiese Moses, e Cicero rifletté un momento.
« Una settimana al massimo », rispose.
L'appuntamento era a una pista d'atterraggio non registrata, che serviva un latifondo del Namaqualand abbandonato per la siccità. Di lì si arrivava in quattro ore di volo al Bechuanaland, il protet-torato britannico ai confini settentrionali dell'Unione del Sudafrica, dove partiva verso nord una catena di rifugi utilizzata da tutti i fuorusciti politici.
« Una settimana dovrebbe bastare », disse Moses. « Ogni ora accresce il pericolo: alla prima occasione in cui Verwoerd sarà al suo posto al banco dei governo lo farò. »
Erano le quattro del mattino quando Moses lasciò il night club e andò a riprendere la Chevrolet nel vicolo.
Kitty Godolphin sedeva in mezzo al letto, nuda e a gambe incrociate, con lo spudorato candore di una bambina.
Shasa la conosceva ormai da tanti anni, e non era molto cambiata, fisicamente. Il suo corpo era un pò maturato: i seni si erano appesantiti e i capezzoli scuriti. Sotto la pelle non si vedevano piú spuntare le costole, ma le natiche erano ancora snelle come quelle di un ragazzo e le membra erano lunghe e affusolate come quelle di una puledra. Non aveva nemmeno perso l'aria sfacciata e innocente, da eterna ragazza, che contrastava tanto con la cinica durezza del suo sguardo. Gli stava parlando del Congo. Ci era appena stata, per tre mesi, e il materiale che aveva girato l'avrebbe sicuramente messa in gara per il suo terzo Emmy, confermando la sua posizione di miglior giornalista televisiva delle reti americane. Parlava con i vezzi sospirosi dell'ingénue.
« Hanno preso questi tre agenti simba e li hanno processati sotto gli alberi di mango vicino all'ospedale bruciato: ma quando li hanno condannati a morte era sera e non si poteva piú girare. Ho dato il Rolex al comandante, che in cambio ha rimandato l'esecuzione al-l'indomani mattina, in modo che Hank potesse riprenderla. Una scena incredibile. All'alba hanno portato i condannati nudi attraverso il mercato, dove le donne del posto hanno comprato i vari pezzi del loro corpo. I baluba sono sempre stati cannibali. Venduti tutti e tre i prigionieri, li hanno portati in riva al fiume e li hanno ammazzati, sparandogli in testa, ovviamente, per non rovinare la carne, poi li hanno macellati sul posto perché le donne erano già in coda a reclamare la loro porzione. » Stava cercando di impressio-narlo, e Shasa si irritò proprio perché ci era riuscita.
« Ma tu da che parte stai, tesoro mio? » le chiese amaro. « Un giorno intervisti con simpatia Martin Luther King e l'indomani vai in Africa a filmare le piú barbare atrocità. »
Lei rise, la risatina di gola che lo eccitava sempre tanto. « E il giorno dopo ancora vado a riprendere l'imperialista britannico che viene a fare affari con voialtri bulli col piede sul collo degli schiavi. »
« Dannazione, Kitty, ma chi sei, cosa vuoi, cosa cerchi di fare? »
« Catturare la realtà », rispose semplicemente.
« Sì, e quando non si conforma alle tue idee, dare un Rolex a qualcuno per alterarla. »
« Ti ho fatto arrabbiare, eh? » Scoppiò a ridere divertita. Lui si alzò dal letto e andò alla sedia a vestirsi. « Quando sei di cattivo umore sembri un ragazzino », lo provocò.
« Tra un'ora fa giorno, devo andare a casa a cambiarmi », le disse. « Ho appuntamento coi miei schiavisti e imperialisti alle undici. »
« Certo, c'è qui Supermac che vi deve dire quanta voglia ha di comprare il vostro oro e i vostri diamanti, anche se grondano sudore, lacrime e sangue... »
« Ehi, dolcezza », tagliò corto lui. « Per stanotte basta, va be-ne? » S'infilò i calzoni e sistemandosi la camicia le sorrise. « Ma perché devono capitarmi sempre delle femmine radicali urlanti? »
« Ti piace la stimolazione », gli suggerì lei, ma Shasa scosse la testa, indossando la giacca dello smoking.
« Preferisco le scopate. A proposito, quando ci vediamo? »
« Ma come, alle undici in Parlamento, no? Cercherò di inqua-drarti, sei così fotogenico, caro! »
Andò da lei e si chinò a baciare il sorriso angelico che aveva sulle labbra. « Chissà cosa ci vedo, in te. »
Stava ancora pensando a lei mentre avviava la Jaguar, azionando il tergicristallo per pulire il vetro dalla rugiada. Era stupefacente come fosse riuscita senza alcuno sforzo a tener desto il suo interesse per tanti anni. Nessun'altra donna ci era riuscita, salvo Tara, ed era sciocco sentirsi sempre tanto bene insieme a lei. Era ancora capace di infiammarlo di un desiderio selvaggio: i suoi trucchi funzionava-no ancora: e, dopo, si sentiva euforico e magnificamente vivo. Era vero, gli piaceva anche discutere con lei.
"Dio mio, non ho chiuso occhio tutta notte e mi sento il vincitore del Derby. Non sarò mica ancora innamorato di quella puttanella!"
Uscì dal lungo viale d'accesso all'albergo. Considerando la faccenda, e ricordando la sua proposta di matrimonio con immediata ripulsa, imboccò la strada che costeggiava il vecchio quartiere malese del District Six. Resisté alla tentazione di bruciare il semaforo rosso in fondo a Roeland Street. Era molto improbabile che ci fosse altro traffico a quell'ora del mattino, ma frenò da bravo e rimase stupito quando dalla viuzza uscì una macchina che poi svoltò pas-sandogli davanti al cofano.
Era una Chevrolet verde mare, e non dovette nemmeno guardare la targa per capire che era quella di Tara. I fari della Jaguar illuminarono per un attimo l'autista: era lui. L'aveva visto due volte, in precedenza: una prima a Weltevreden e una seconda al Parlamento, ma stavolta non portava il berretto e Shasa riuscì a distin-guerne bene la testa.
Gli sembrava proprio di conoscerlo. Ma il ricordo, quasi cancellato dal tempo, fu ricacciato indietro dall'irritazione. Questo signore adoperava la Chevrolet per i suoi affari privati? Ma chi credeva di essere?
La Chevrolet filò via veloce. Evidentemente anche l'autista aveva riconosciuto Shasa e lo scatto era la prova della coda di paglia. Il primo istinto di Shasa fu inseguirlo e affrontarlo, ma il semaforo era ancora rosso, e mentre aspettava il verde ebbe agio di riflettere.
Era troppo di buon umore per rovinarselo con discussioni sgradevo-li, senza contare che una ramanzina alle quattro del mattino non era molto dignitosa, e avrebbe sollevato qualche interrogativo a proposito della sua presenza nel quartiere dei bordelli. Era meglio affrontare l'autista in un altro momento e in un altro posto, e Shasa lo lasciò andare, senza dimenticare né perdonare l'infrazione.
Shasa mise la Jaguar nel garage di Weltevreden e vide la Chevrolet a posto in fondo alla fila delle macchine, tra la MG di Garry e la sua Land Rover elaborata. Passandole davanti appoggiò una ma-no sul cofano: era ancora caldo. Il metallo ticchettava raffreddan-dosi. Fece una smorfia e proseguì verso casa, divertito dall'esser costretto a rientrare di nascosto come uno scassinatore.
A colazione si sentiva ancora leggero e felice. Caricando il piatto di uova e pancetta affumicata, canticchiava. Come al solito era il primo, ma Garry arrivò subito dopo di lui.
« Il capo deve sempre essere il primo ad arrivare e l'ultimo ad andar via », aveva insegnato a Garry, che l'aveva preso proprio sul serio. Che bravo ragazzo... No, non piú ragazzo, si corresse mentalmente Shasa, guardandolo. Suo figlio era due centimetri piú basso di lui, ma aveva spalle e torace piú larghi. Quando passava davanti alla sua porta, spesso Shasa lo sentiva faticare agli attrezzi da ginnastica. Benché si fosse appena rasato, aveva la guancia nereggiante di barba, e a sera doveva rifarsela. Nonostante la brillantina, i capelli non gli stavano a posto, e continuavano a spuntare in ciocche anarchiche e disordinate.
Si sedette accanto a Shasa, prese un pezzo di frittata e cominciò immediatamente a parlare di lavoro. « Non è piú all'altezza del suo compito, papà. Ci serve una persona piú giovane in quel posto, specialmente se consideriamo le ulteriori responsabilità che presto porterà la miniera di Silver River. »
« Sono vent'anni che lavora per noi, Garry », osservò Shasa.
« Non dico mica di ammazzarlo, papà. Che vada in pensione, ha quasi settant'anni. »
« La pensione l'ammazzerebbe. »
« Se resta, ammazza noi. »
« E va bene », sospirò Shasa. Naturalmente Garry aveva ragione: l'uomo era sopravvissuto alla propria utilità. « Ma gli parlerò io personalmente. »
« Grazie, papà. » Gli occhiali di Garry emisero un barbaglio di trionfo.
« A proposito della miniera di Silver River, potrai andare a oc-cupartene appena avrai dato gli ultimi esami. » Garry tendeva a trascurare gli studi in favore della pratica, e Shasa non intendeva incoraggiarlo in ciò. Garry sbuffò. « Ma poi pensa che potrai occuparte-ne per un anno o due senza interruzioni. Sai, ormai la miniera di Silver River è destinata a diventare la piú importante del gruppo, prendendo il posto che era della miniera H'ani. E io voglio che ti prepari a dirigerla tu. » Scorse la soddisfazione negli occhi di Garry, dietro le lenti.
« Ah, che voglia ho di cominciare sul serio a lavorare, dopo tutti questi anni sui libri! »
Michael irruppe senza fiato nella stanza. « Grazie a Dio ti trovo, papà. Credevo te ne fossi già andato. »
« Calmati, Michael », gli disse Shasa. « Così ti prende un colpo.
Mangia, su. »
« Stamattina non ho fame », disse Michael sedendosi di fronte al padre. « Devo parlarti. »
« Bene, aprì il fuoco. »
« Non qui », rifiutò Michael. « Pensavo di parlarti nella sala delle armi. » Tutti e tre assunsero un'espressione grave. Si usava quella stanza per i conciliaboli piú portentosi, e una richiesta del genere andava presa sul serio.
Shasa guardò l'orologio. « Mickey, Harold Macmillan terrà il discorso alle Camere... »
« Lo so, papà, ma non ci vorrà molto. Te ne prego. » Doveva essere davvero una cosa importante, ma Shasa si irritò per la scelta di tempo, così astuta.
Tutte le volte che Michael aveva qualche rivendicazione da fare, faceva sempre in modo che Shasa non avesse agio di ribattere. Era proprio figlio di sua madre, spiritualmente e fisicamente.
« Ti concedo dieci minuti », disse Shasa con riluttanza. « Tu ci scuserai, vero, Garry? » Shasa aprì la strada e chiuse la porta della stanza dei fucili dietro le spalle del figlio.
« Molto bene », disse prendendo posto, come sempre, davanti al camino. « Che c'è, ragazzo mio? »
« Ho trovato un lavoro, papà. » Michael era visibilmente emozionato.
« Un lavoro. Sì, lo so, corrispondente locale del Mail. Ho avuto occasione di leggere cinque righe a tua firma sulla partita di polo, anzi se non sbaglio me le hai lette tu. Ottime, tutte e cinque » sogghignò.
« Vedi, papà, il direttore ha deciso di assumermi in redazione, come cronista praticante. Comincio il primo del mese prossimo. »
Il sorriso di Shasa svaporò. « Ma cribbio, Mickey, non dirai mi-ca sul serio... E gli studi? Hai ancora due anni da fare. »
« Parlo sul serio, papà. Completerò la mia istruzione al giornale. »
« No », disse Shasa alzando la voce. « Te lo proibisco. Tu non lascerai l'università prima della laurea. »
« Mi spiace, ma ho già deciso », disse Michael, pallido e tremante, ma con l'espressione ostinata che faceva arrabbiare Shasa ancor piú delle parole. Si controllò.
« Conosci le regole », disse Shasa. « Le ho dette e ripetute chiaramente a tutti i figli. Se fate come dico io, non ci son limiti agli aiuti che vi darò: ma se fate a modo vostro, fate anche per conto vostro. » Sospirò e poi lo disse, sorpreso che fosse tanto doloroso dirlo: « Come Sean ». Dio, come gli mancava il figlio maggiore.
« Sì, papà, conosco le regole », annuì Michael.
« Ebbene? »
« Io lo debbo fare. Nella vita non voglio fare nient'altro se non imparare a scrivere. Non voglio contrastare te, papà, è solo che de-vo farlo. »
« Sono i frutti dell'educazione di tua madre », disse gelido Shasa. « E' lei che ti ha montato la testa », accusò, e Michael assunse un'espressione un pò contrita.
« La mamma lo sa », ammise, « ma è una decisione solo mia. »
« Capisci bene che perderai il mio appoggio? Una volta uscito di casa, dovrai campare con lo stipendio di un giornalista praticante. »
« Lo so, papà. »
« Allora va bene. Accomodati pure », disse, e Michael sembrò sbigottito.
« E' tutto? »
« Se non hai altro da dirmi... »
« No, papà », disse Michael rilassandosi un pò. « Non ho altro da dirti, tranne che ti voglio tanto bene, e apprezzo tutto quello che hai fatto per me. »
« Ti dirò che hai un modo tutto particolare di dimostrarmelo, se mi consentì questa osservazione. » Andò alla porta.
In città, sulla nuova superstrada tra l'università e Groote Schuur, superò la delusione che gli aveva dato Michael - la considerava una disubbidienza puerile » e continuò a pensare ai giornali, pur se in altro senso. In pubblico aveva sempre criticato quello strano impulso suicida che colpiva tanti uomini di successo a una certa età, inducendoli a farsi editori di un quotidiano. Era notoriamente difficile far rendere un giornale; ma, in privato, anche Shasa ogni tanto provava l'insidiosa tentazione di cedere alla stessa follia da miliardario.
"Non c'è un gran profitto" si disse, "ma che potere! Che possibilità di influenzare la gente!"
In Sudafrica, la stampa in lingua inglese era istericamente anti-governativa, mentre quella afrikaner era acriticamente e abietta-mente asservita al Partito Nazionalista al potere. Una persona pen-sante non poteva fidarsi né dell'una né dell'altra stampa.
"Ci vorrebbe un bel giornale indipendente, in inglese, rivolto al-la comunità degli operatori economici" si disse, come gli era già capitato altre volte. "E se comprassi qualche giornaletto in difficoltà e lo rimettessi in piedi? Alla distribuzione dei dividendi della miniera di Silver River, mi troverò seduto su una montagna di soldi." Poi ghignò. "Sto rincoglionendo, ma almeno ci sarà un posto garantito per lo scapestrato Michael!" L'idea di Michael direttore di un grande e influente giornale gli sorrideva alquanto. Piú ci pensava e piú gli piaceva. "Comunque, preferirei che finisse gli studi, prima"
brontolò; ma quando arrivò al parcheggio riservato ai ministri aveva quasi perdonato lo sfacciatello. "Un pò di soldi glieli passerò"
decise. "Quello di tenerlo proprio a secco era un bluff."
Trovò il Parlamento in preda a una fervida eccitazione. L'atrio era affollato di deputati e senatori. I capannelli di politici in abito scuro si formavano, si scioglievano e si riformavano continuamente, nell'intricato gioco delle convergenze che aveva sempre affascinato Shasa. Da addetto ai lavori, coglieva il significato dei vari colloqui che si intrecciavano fuori dell'aula.
Gli ci vollero quasi venti minuti per arrivare allo scalone: era un protagonista, e veniva inesorabilmente risucchiato nel sottile teatro dei favori e dei mercanteggiamenti di potere. Alla fine se la squagliò: gli restavano pochissimi minuti per passare dal suo studio.
Tricia lo aspettava. Era piuttosto nervosa. « Oh, signor Courteney, tutti la cercano stamattina. Ha telefonato Lord Littleton, e anche il segretario del primo ministro. Le ha lasciato un messaggio. »
Leggendoglielo, lo seguì nello studio interno.
« Prima mi cerchi il segretario di Verwoerd e poi Lord Littleton », le disse Shasa sedendosi alla scrivania. Scorse una briciola di gesso sul necessario per scrivere e la spazzò via, irritato. Avrebbe voluto dire a Tricia di rimproverare gli addetti alle pulizie, ma la segretaria stava ancora leggendogli il messaggio del segretario di Verwoerd, e aveva meno di un'ora di tempo per occuparsi degli argomenti elencati sulla lista prima della riunione congiunta delle Camere.
Sbrigò i compiti affidatigli dal segretario di Verwoerd: le risposte le aveva in mente, e non doveva chiamare nessun collaboratore per fornire i dati economici richiesti. Poi Tricia gli passò Littleton.
Voleva aggiungere un argomento all'ordine del giorno della riunione pomeridiana, e una volta accettata la sua proposta Shasa chiese con tatto: « Allora, hai scoperto niente circa il discorso di sta-mane? ».
« Temo di no, amico mio. Sono all'oscuro come te. »
Rimettendo giú la cornetta del telefono, Shasa notò sullo scrit-toio un'altra scheggia di gesso che prima non c'era. Stava per spazzar via anche questa quando si fermò e alzò gli occhi per vedere da dove veniva. Scorse quindi il buchino sul soffitto, circondato di crepe sottili. Sbuffò, chiamando Tricia al dittafono.
Quando arrivò le indicò il soffitto. « Che ne dice, di quel buco? »
Tricia era perplessa quanto lui. Esaminarono insieme il difetto.
« Ah, ora capisco », disse a un tratto Tricia, sollevata, « ma non sarei autorizzata a dirglielo... » esitò.
« Forza, parli », ordinò seccamente Shasa.
« Sua moglie, la signora Courteney, ha detto di avere in mente qualche risistemazione del suo ufficio, ma vuol farle una sorpresa.
Immagino che abbia chiesto la collaborazione di quelli della Manutenzione del palazzo. »
« Merda! » A Shasa non piacevano le sorprese che interferivano coi comodi suoi. L'ufficio gli piaceva così com'era e non gradiva in-terventi altrui, soprattutto se avevano gusti d'avanguardia come Tara.
« Penso che abbia intenzione di cambiare anche le tende », aggiunse candida Tricia. A lei Tara Courteney non piaceva. La considerava un'ipocrita, frivola intrigante. Non approvava il suo atteggiamento irrispettoso nei confronti di Shasa, e non si sentiva aliena dal seminare qualche discordia. Se Shasa fosse stato libero, c'era forse una possibilità, una lontana possibilità, che la vedesse chiaramente e si rendesse conto di quanto lei, Tricia, lo apprezzasse davvero. « Parlava anche di sostituire i lampadari », concluse.
Shasa saltò in piedi e andò ad accarezzare le sue tende. Lui e Centaine avevano esaminato centinaia di campioni di tessuto prima di scegliere quello. Le rimise gelosamente a posto, e così facendo notò il secondo buchino nel soffitto e il filo elettrico che ne spuntava. Controllò a fatica la sua ira di fronte alla segretaria.
« Vada alla Manutenzione a parlare con Odendaal in persona, non uno dei suoi aiutanti, e gli dica che io pretendo di essere informato esattamente di quello che sta succedendo qua. E aggiunga che finora hanno fatto un pessimo lavoro, sporcando dappertutto. »
« Ci andrò stamattina stessa », promise Tricia, e poi, per calmarlo, gli ricordò che mancavano solo dieci minuti al discorso di Macmillan nel salone.
Anche Manfred De La Rey stava uscendo dal proprio ufficio, e s'incontrarono in corridoio.
« Hai scoperto qualcosa? »
« Io no, e tu? »
Manfred scosse la testa. « Comunque, ormai è troppo tardi.
Non possiamo fare piú niente. »
Shasa vide Blaine Malcomess all'ingresso del salone dei banchetti, e si avvicinò per salutarlo. Entrarono insieme.
« Come sta la mamma? »
« Centaine sta benissimo, non vede l'ora di incontrarti alla sua cena di domani sera. » Era in onore di Littleton, a Rhodes Hill.
« Quando l'ho lasciata stava facendo venire l'esaurimento nervoso al cuoco. » Risero insieme e trovarono posto in prima fila. Come ministro in carica e vicecapo dell'opposizione, avevano diritto ai primi posti. Shasa si girò. In fondo al salone c'erano la stampa e la televisione. Distinse Kitty Godolphin, minuta e puerile accanto alla sua troupe, che gli strizzò l'occhio da birichina. Ecco arrivare i due primi ministri, e accomodarsi al tavolo principale. Shasa si chinò verso Manfred De La Rey e gli disse: « Spero che non siano le solite banalità, e che Supermac sia venuto a dirci qualcosa di veramente interessante per tutti ».
Manfred alzò le spalle. « Senza esagerare, però. A volte è piú sicuro annoiarsi. » Il presidente chiese il silenzio e si alzò a presentare alla folta assemblea il primo ministro di Gran Bretagna. Nel salone si raccoglievano gli uomini piú potenti dei Paese, ora silenziosi e concentrati in attesa dell'importante messaggio.
Anche quando si alzò Macmillan, alto, educatissimo e stranamente benevolo in viso, Shasa non capi di trovarsi sull'incudine do-ve si stava forgiando la storia. Incrociò le braccia sul petto, chinò il capo e si'dispose ad ascoltare con attenzione il suo discorso.
Macmillan parlava con voce fredda, senza emozione, ma con intensa lucidità. Si capiva benissimo che il testo era stato scritto con gran cura, e il discorso meticolosamente provato.
« L'impressione piú forte che ho avuto da quando ho lasciato Londra un mese fa », disse Macmillan, « è la nuova forza della coscienza nazionale africana. In luoghi diversi può prendere forme diverse, ma esiste dappertutto. L'intero continente avverte il vento dei cambiamento. Che ci piaccia o no, questa crescita di coscienza nazionale è un fatto politico. Bisogna che tutti l'accettiamo come tale: le nostre politiche nazionali debbono tenerne conto. »
Shasa si raddrizzò e smise di tenere le braccia conserte. Anche intorno a lui tutti quanti si agitavano, increduli. Fu solo allora che Shasa si rese conto, come per un lampo di chiaroveggenza, che il mondo che conosceva aveva cambiato forma, e il tessuto della vita, che aveva tenuto insieme le loro diverse nazioni per quasi trecento anni, aveva appena subito il primo strappo, per via di quelle poche e semplici parole, uno strappo che era ormai impossibile riparare.
Mentre cercava di cogliere l'estensione della lacerazione, Macmillan continuava con lo stesso tono misurato e flautato.
« Naturalmente, voi lo capite benissimo, perché provenite dall'Europa, patria dei nazionalismo. » Astutamente Macmillan stava comprendendo anche loro in quella sua panoramica africana. « Ed effettivamente la storia moderna scorgerà in voi il primo esempio di nazionalismo africano. »
Shasa guardò Verwoerd, vicino al primo ministro inglese, e lo vide agitato e allarmato. Era stato colto di sorpresa dallo stratagem-ma di Macmillan, che non gli aveva anticipato la svolta.
« Come membri del Commonwealth, noi vorremmo veramente dare al Sudafrica tutto il nostro incoraggiamento e appoggio, ma spero mi consentirete di dirvi francamente che vi sono alcuni aspetti della vostra politica che ci rendono impossibile farlo senza smentire le nostre piú profonde convinzioni sul destino politico degli uomini liberi. »
Macmillan stava annunciando nientemeno che un divorzio dei due Paesi, e Shasa fu distrutto da questa notizia. Voleva saltare in piedi a gridare: « Ma anch'io sono un suddito britannico... Non potete farci questo! ». Si guardò attorno con aria quasi implorante, e vide la stessa espressione sconvolta sul viso di Blaine e di quasi tutti gli altri membri anglosassoni del Parlamento.
Le parole di Macmillan li avevano profondamente feriti.
L'umore di Shasa non mutò per tutto il resto della giornata e anche l'indomani. La riunione pomeridiana con Littleton e i suoi consiglieri si tenne in un'atmosfera di cordoglio. Benché Littleton, sul piano personale, fosse conciliante e consolatorio, tutti sapevano che il danno era reale e irreparabile. Era un fatto innegabile: la Gran Bretagna li mollava. Avrebbe continuato a commerciare col Sudafrica, ma a un braccio di distanza. La Gran Bretagna si era schierata, e non con loro.
Venerdì sera fu indetta una sessione speciale della Camera per il lunedì seguente, quando Verwoerd avrebbe parlato al Parlamento e al Paese. Avevano il week-end a disposizione per compiangere la propria sorte. Il discorso di Macmillan aveva gettato un'ombra nera anche sulla cena di Centaine di quella sera, e la donna lo prese come un insulto personale.
« Che momento atrocemente inopportuno! Il giorno prima della mia cena! Perfida Albione! » berciò Centaine.
« Già, voi francesi non vi siete mai fidati degli inglesi », la sfotté Shasa, che dopo quarantotto ore ritrovava un pò di senso dell'umorismo.
« E adesso capisco perché » ribatté Centaine. « Prendi questo signor Macmillan, è tipicamente inglese: maschera l'opportunismo sotto un manto di alta indignazione morale. Fa quello che conviene all'Inghilterra e ha anche il coraggio di sentirsi un santerello. »
Toccò a Blaine Malcomess tirare le somme, quando le donne se ne andarono lasciando gli uomini ai loro sigari e ai loro liquori.
« Perché siamo così increduli? » chiese. « Come mai ci sembra impossibile che la Gran Bretagna ci abbandoni, dopo che abbiamo combattuto due guerre per lei? » Scosse la testa. « No, i tempi cambiano, e dobbiamo cambiare tutti coi tempi. Dobbiamo ignorare l'ignobile gazzarra della stampa londinese, il banchetto degli avvoltoi su questo tradimento, su questo abbandono senza precedenti che ci ripudia tutti, sia i Nazionalisti sia noi dell'opposizione. D'ora in poi saremo sempre piú soli, e dovremo imparare a cavarcela per conto nostro. »
Shasa annuì. « Il discorso di Macmillan è una benedizione politica per Verwoerd. Adesso davanti a noi c'è una strada sola. Abbiamo tagliato i ponti, bruciato le navi: non si torna indietro. Dobbiamo per forza andare avanti con Verwoerd. Entro quest'anno il Sudafrica diventerà repubblica; ricordatevi le mie parole; dopo di che... » Shasa sospirò, tirando una boccata dal sigaro « dopo di che solo Dio e il diavolo sanno quello che succederà. »
« Certe volte sembra che Dio, oppure il fato, intervenga direttamente nei nostri umili affari », disse Tara. « Se non era per quel piccolo particolare, la scelta dei salone delle feste anziché della Camera, avremmo distrutto l'uomo che è venuto a portarci un messaggio di speranza. »
« Per una volta pare che il vostro dio cristiano ci favorisca. »
Moses la guardò nel retrovisore, mentre guidava la Chevrolet nel traffico congestionato dei lunedì. « Non si potrebbe essere piú tem-pestivi: nel momento in cui il governo britannico, appoggiato dalla stampa e dalla nazione inglese, riconosce i nostri diritti, i destini politici degli uomini liberi, come si è espresso Macmillan, noi sferria-mo il primo duro colpo in direzione della libertà promessa. »
« Io ho paura, Moses, ho paura per te e per noi tutti. »
« Il tempo della paura è passato », le disse lui. « Ora è tempo di risolutezza e di coraggio, perché non è l'oppressione, non è la schiavitù che alimenta la rivoluzione. La lezione della storia è molto chiara. La rivoluzione nasce dalle aspettative di miglioramento. Per trecento anni abbiamo sopportato l'oppressione rassegnati, ma ora questo inglese ci ha fatto balenare un futuro dorato. Ha dato speranza al nostro popolo, e da oggi in poi, quando avremo abbattuto l'uomo piú malvagio della storia tormentata e tenebrosa dell'Africa, quando Verwoerd sarà morto, il futuro finalmente sarà nostro. » Aveva parlato a voce bassa, ma con la particolare intensità che le faceva vibrare il sangue nelle vene e le rimbombava nelle orecchie. Si sentiva esaltata, ma anche impaurita e addolorata.
« Molti uomini moriranno con lui », sussurrò. « Mio padre. Non c'è modo di risparmiarlo, Moses? »
Lui non rispose, ma Tara scorse il suo sguardo nello specchietto e trovò il suo disprezzo insopportabile. Abbassò gli occhi e mormorò:
« Scusami. Sarò forte. Non ne parlerò piú. » Ma la mente correva. Doveva pur esserci il modo di tirar fuori suo padre dalla Camera nel momento fatale: ma doveva essere un modo infallibile. Infatti, quale vicecapo dell'opposizione non poteva mancare nei momenti piú importanti, come per il discorso di Verwoerd. Moses interruppe i suoi pensieri.
« Voglio che ripeti le cose che devi fare », le disse.
« Le so a memoria » protestò debolmente lei.
« Non ci devono essere equivoci », insisté Moses. « Fa' come ti dico. »
« Quando la Camera sarà riunita - così siamo sicuri di non incontrare Shasa nel suo ufficio -, arriveremo come al solito nel suo studio particolare », cominciò Tara, e poi proseguì mentre lui l'ascoltava annuendo e correggendo piccoli particolari. « Alle dieci e mezzo io uscirò dall'ufficio e andrò nella galleria del pubblico a vedere se Verwoerd sta effettivamente parlando, perché bisogna esser sicuri. »
« Hai il lasciapassare? »
« Eccolo qua », disse Tara mostrandoglielo. « Appena Verwoerd comincia il discorso, io torno in ufficio per la porta segreta. A questo punto tu avrai già... » Le mancò la voce.
« Continua », le ordinò secco.
« Avrai già collegato il trasmettitore d'impulsi elettrici al detonatore. Io ti confermerò che Verwoerd si trova al suo posto, e tu... » Ancora una volta le mancò la voce.
« E io farò quello che devo fare », finì per lei, e proseguì così:
« Dopo l'esplosione, ci sarà un periodo di panico e confusione totale. Sotto, il palazzo sarà devastato. Non ci sarà nessun controllo, nessun blocco di polizia. In questo frattempo dovremo scendere le scale e allontanarci dall'edificio, come faranno del resto tanti altri superstiti ».
« Quando lascerai il Paese potrò venire con te, Moses? » lo scongiurò.
« No », scosse fermamente la testa lui. « Dovrò spostarmi velocemente e tu mi saresti d'impedimento e mi metteresti in pericolo.
Sarai piú al sicuro qui. Del resto sarà questione di ben poco tempo: dopo l'attentato, il popolo si solleverà e rovescerà gli schiavisti. I giovani compagni dell'Umkhonto we Sizwe sono pronti a chiamare il popolo all'insurrezione, che è già organizzata. Milioni di persone scenderanno in piazza. Quando avranno preso il potere, io tornerò in patria e tu avrai un posto d'onore al mio fianco. »
Era incredibile come si beveva tutte quelle frottole, pensò lui, stizzito. Soltanto una donna completamente scema poteva credere che la polizia non l'arrestasse subito e non l'interrogasse con tutta la brutalità di cui era capace. Ma non importava. Potevano anche impiccarla. Suo marito sarebbe morto con Verwoerd, e l'utilità di Tara Courteney terminata. Un giorno, quando il Congresso Nazionale Africano fosse andato al potere, avrebbero intitolato qualche via o qualche piazza alla martire bianca; ma per adesso poteva tranquillamente crepare.
« Promettimelo, Moses », lo scongiurò.
La sua voce suonò fonda e rassicurante come non mai. « Ti sei comportata bene, in tutto quello che ti ho chiesto. Tu e tuo figlio avrete un posto al mio fianco appena possibile. Te lo prometto. »
« Oh Moses, ti amo », gli sussurrò. « Ti amerò sempre. » Poi tornò ad accomodarsi sul sedile posteriore, riassumendo l'atteggiamento da gran signora bianca: Moses stava per entrare nel parcheggio del Parlamento. La guardia all'ingresso vide il distintivo sul parabrezza e salutò rispettosamente.
Moses lasciò la macchina nel posto riservato e spense il motore.
Dovevano aspettare un quarto d'ora, che il Parlamento cominciasse la seduta.
« Mancano dieci minuti, signor Courteney », disse Tricia chiamando Shasa con l'interfono. « Meglio che si avvii, se non vuol perdere l'inizio del discorso dei primo ministro. »
« Grazie, Tricia. » Shasa era totalmente assorto nel lavoro. Verwoerd gli aveva chiesto di fargli un rapporto completo sulla capacità del Paese di far fronte a un embargo sugli armamenti da parte degli ex alleati occidentali. Evidentemente Macmillan aveva ventilato anche questa possibilità, come velata minaccia, nei colloqui segreti poco prima della sua partenza. Verwoerd voleva il rapporto prima della fine dei mese, il che era tipico dell'uomo, e Shasa avrebbe avuto delle difficoltà ad accontentarlo.
« A proposito, signor Courteney », disse Tricia, « ho parlato con Odendaal. »
« Odendaal? » Ci volle un pò di tempo a Shasa per far mente locale.
« Sì, a proposito dei fori sul soffitto. »
« Spero che gli abbia fatto delle buone rimostranze. Cos'ha detto? »
« Ha detto che la Manutenzione non ha eseguito nessun lavoro nel suo ufficio, e che sua moglie non si è affatto rivolta a loro. »
« Ma che strano », disse Shasa alzando gli occhi a contemplare il danno. « Eppure qualcuno è venuto indubbiamente a pasticciare qui. Se non è stato Odendaal, ha idea di chi possa essere stato, Tricia? »
« No, signor Courteney. »
« Nessuno è entrato qui dentro, che lei sappia? »
« Nessuno, signore, salvo naturalmente sua moglie e l'autista. »
« Va bene, grazie, Tricia. » Shasa si alzò e prese la giacca dall'attaccapanni. Mentre l'infilava, studiò il foro sopra la sua scrivania e il filo elettrico che sporgeva dal soffitto per finire dietro l'enciclopedia. Ultimamente non aveva avuto tempo da dedicare al piccolo mistero, assorto com'era in ben altre preoccupazioni, ma ora che Tricia vi aveva fatto cenno ci pensò.
Andò allo specchio ad aggiustarsi il nodo della cravatta e la pezza nera sull'occhio, riflettendo su un ulteriore mistero, quello del nuovo autista di Tara. Le parole di Tricia gliel'avevano ricordato.
Non l'aveva ancora richiamato per l'uso indebito della macchina.
"Ma cribbio, dov'è che l'ho già visto!" si chiese, e con un'ultima occhiata al soffitto uscì dallo studio. Stava ancora pensando all'autista, quando imboccò il corridoio. Manfred De La Rey lo aspettava sulle scale. Sorrideva, tutto contento, e Shasa si rese conto che non gli aveva ancora parlato dopo il colpo del discorso di Macmillan.
« Allora », esordì Manfred, « l'Inghilterra ci ha mollato, eh? »
« Ti ricordi che una volta mi hai chiamato soutpiel? » gli chiese Shasa.
« Come no! » ridacchiò Manfred. « Cazzo salato... Con un piede a Città del Capo, l'altro a Londra, e il batacchio a mollo nell'Oceano Atlantico. Ja, me lo ricordo. »
« Be', d'ora in poi avrò tutti e due i piedi a Città del Capo », gli disse Shasa. Solo in questo momento, digerito l'abbandono della Gran Bretagna, Shasa si rendeva pienamente conto di essere prima di tutto un sudafricano.
« Benissimo », annuì Manfred. « Così infine avrai capito che anche se non ci amiamo alla follia e non sempre andiamo d'accordo, le circostanze ci hanno resi fratelli in questa terra. L'uno non può sopravvivere senza l'altro, e alla fine se non ci aiutiamo fra di noi non ci aiuta nessuno. »
Andarono insieme alla Camera e sedettero l'uno accanto all'altro sui banchi del governo.
Quando i deputati si alzarono a pregare, chiedendo la benedizione di Dio sulle loro deliberazioni, Shasa guardò dall'altra parte dell'aula, dove stava Blaine Malcomess, fra i deputati dell'opposizione, e provò un empito di affetto. Aveva i capelli bianchi, ma era abbronzato e ancora un bell'uomo, con quelle orecchie a sventola e il nasone. Blaine nella vita di Shasa era sempre stato una salda torre.
Nel suo novello umore patriottico, e diciamo pure di sfida di fronte al ripudio britannico, era contento che gli ultimi avvenimenti non potessero che riunirli. Ormai le divergenze politiche diventavano secondarie: governo e opposizione erano destinati ad avvicinarsi, co-me le due componenti bianche della nazione sudafricana.
Quando la preghiera finì, Shasa sedette e rivolse l'attenzione al dottor Hendrik Frensch Verwoerd, che si alzava a fare il proprio discorso. Verwoerd era un bravo oratore e un magnifico polemista. Il suo discorso sarebbe stato certamente lungo e ben argomentato.
Shasa si preparò a gustarlo socchiudendo gli occhi, incrociando le braccia e appoggiandosi allo schienale imbottito.
Ma, prima che Verwoerd aprisse bocca, Shasa spalancò gli occhi e si rizzò sul sedile. In quell'attimo di rilassamento, svuotata la mente d'ogni preoccupazione, abbandonato e ricettivo, l'antico ricordo gli era lampeggiato dentro, chiarissimo. Ecco dove e quando aveva già conosciuto il nuovo autista di Tara.
« Moses Gama », disse a voce alta... Ma le sue parole si persero nell'applauso che salutava il primo ministro.
Tara rivolse un bel sorriso al portiere entrando nell'edificio del Parlamento. Si stupì di se stessa: le pareva di essere racchiusa in una bolla d'irrealtà, un'attrice che recitasse, sorvegliandosi, una parte.
Sentì l'applauso giungere ovattato dalla Camera. Si mise a salire le scale, con Moses che la seguiva a rispettosa distanza con le braccia cariche di pacchi. Quante volte l'avevano già fatto... Tara sorrise dì nuovo, incrociando una segretaria che conosceva di vista in corridoio. Bussò alla porta della suite di Shasa e senza aspettare risposta irruppe in anticamera. Tricia si alzò in piedi.
« Oh, buongiorno, signora Courteney. E' meglio che si affretti, o perderà il discorso del primo ministro. »
« Stephen, puoi posare i pacchi. » Tara si fermò davanti a Tricia, mentre Moses chiudeva la porta dell'ufficio.
« Ah, senta... Qualcuno ha fatto dei lavori sul soffitto, nello studio di suo marito », disse Tricia girando intorno alla scrivania, co-me per fare strada di là. « Ci chiedevamo se lei ne sapesse qualcosa... »
Moses posò su una sedia i pacchi e, mentre Tricia gli passava davanti, la bloccò con una presa di lotta, mettendole un braccio intorno al collo e tappandole la bocca con la mano. Tricia, nella morsa, era impotente: roteava gli occhi per lo shock.
« Nel primo pacco c'è corda e bavaglio, legala », disse sottovoce Moses a Tara.
Tara era come paralizzata. « Di questo non avevamo parlato », balbettò.
« Prendi quella roba », disse Moses, sempre sottovoce, ma con evidente impazienza. Tara ubbidì scattando.
« Legale le mani dietro la schiena », ordinò Moses, e mentre Ta-ra pasticciava coi nodi lui infilava una pezza bianca in bocca alla ragazza terrorizzata e la fissava.
« Stai di qua », ordinò a Tara, « nel caso che venga qualcuno. »
Portò Tricia nell'altro locale e la schiacciò contro il divano a pancia in giú. Rapidamente controllò i nodi di Tara, erano laschi. Li strinse bene e poi legò la ragazza anche alle caviglie.
« Vieni qua », chiamò poi, e Tara entrò, visibilmente sconvolta.
« Moses, non le avrai mica fatto del male... »
« Ma piantala! » sbottò. « C'è un lavoro importante da fare e tu ti comporti come una bambina isterica! »
Tara chiuse gli occhi, strinse i pugni e fece un respiro profondo.
« Scusami. » Riaprì gli occhi. « Mi rendo conto che era necessario.
Non ci avevo pensato. Ora sono a posto. »
Moses era già andato a recuperare il capo del filo elettrico dietro le enciclopedie. Lo stese sul tappeto.
« Molto bene », disse. « Adesso vai nella tribuna del pubblico.
Quando Verwoerd avrà cominciato a parlare da cinque minuti torna qui con calma, senza correre, senza affrettarti. Insomma, usa la testa. »
« Ho capito. » Tara andò davanti allo specchio e aprì la borsetta. Si diede una rapida pettinata ai capelli e un pò di rossetto.
Moses intanto aveva sollevato il coperchio della cassa. Tara esitava, guardandolo nervosa.
« Cosa aspetti? » le domandò. « Va', donna, e fa' il tuo dovere. »
« Sì, Moses. » Si diresse in fretta verso l'altro locale.
« E chiudi a chiave tutt'e due le porte. »
« Sì, Moses », sussurrò lei.
In corridoio, Tara si rimise a frugare in borsetta. Tirò fuori l'agendina in pelle con la matitina d'oro. A capo delle scale si fermò, appoggiò l'agendina sulla balaustra e rapidamente vergò un biglietto.
Papà,
Centaine è rimasta gravemente ferita in un incidente stradale e vuole vederti. Vieni subito.
TARA.
Strappò la pagina dall'agenda e la piegò. Era l'unico modo di salvare suo padre. Scrisse il suo nome sul foglio piegato.
Invece di dirigersi subito verso la tribuna dei pubblico, corse giú nell'atrio e fermò un commesso parlamentare in uniforme.
« Dia subito questo messaggio al colonnello Malcomess », gli disse concitatamente.
« Non è il caso di entrare in aula adesso, sta parlando il dottor Verwoerd », riluttò il commesso, ma lei gli ficcò in mano il biglietto.
« E' una cosa urgentissima », implorò, chiaramente sconvolta.
« Sua moglie sta morendo. La prego, la prego! »
« Farò quello che posso. » Il commesso prese il biglietto e Tara corse su per le scale. Mostrò il lasciapassare all'usciere ed entrò nella tribuna del pubblico.
Era molto affollata. Qualcuno aveva occupato il posto di Tara, ma la donna riuscì a spingersi fino alla balaustra strisciando lungo la parete. Guardò giú nell'aula. Il dottor Verwoerd era in piedi e stava parlando in afrikaans. I suoi ricci argentati erano ben pettinati, e il suo sguardo emanava grande concentrazione mentre parlava sottolineando il discorso coi gesti di entrambe le mani.
« La questione che ci ha posto questa persona venuta dalla Gran Bretagna non riguarda né i sudafricani monarchici, né i sudafricani repubblicani. Riguarda tutti. E' per tutti noi che questa persona ha parlato. » Verwoerd fece una pausa. « E la questione è molto semplice. Si tratta di questo: l'uomo bianco in Africa sopravvivrà o perirà? »
Era riuscito a magnetizzare tutti. Nessuno fiatava, tutti lo guardavano attentissimi e immobili. Ma ecco un movimento: un commesso parlamentare, cercando di non dar fastidio, passava per la prima fila dell'opposizione e si fermava accanto a Blaine.
Dovette battergli sulla spalla per attirare la sua attenzione, e Blaine prese il biglietto senza nemmeno accorgersene. Rivolse un cenno del capo al commesso e, col biglietto in mano, senza leggerlo, tornò a fissare e ad ascoltare Verwoerd.
« Leggilo, papà! » sussurrò forte Tara. « Per piacere, leggilo! »
Fra tutti, Shasa era l'unico non ipnotizzato dall'oratoria di Verwoerd. Nella sua testa si accavallavano i pensieri, cozzando privi di ordine logico.
"Moses Gama!" Era quasi incredibile aver tardato tanto a riconoscerlo, anche dopo tutti quegli anni e nonostante i cambiamenti che il tempo aveva prodotto in loro. Una volta erano stati molto amici, e l'uomo aveva fatto una grande impressione su Shasa in un periodo formativo della sua vita.
Poi Shasa l'aveva risentito nominare di recente, come rivoluzionario ricercato dopo i disordini del 1952. Mentre gli altri, Mandela, Sobukwe e via dicendo erano stati processati, Moses Gama era riuscito a scappare. Era ancora, dunque, un criminale ricercato, e un pericoloso rivoluzionario.
"Tara!" La mente fece uno scarto laterale. Aveva scelto Gama come autista e, date le sue opinioni politiche, era impossibile che non sapesse chi era. A un tratto capì che il ravvedimento di Tara era soltanto una meschina finzione. Non aveva cambiato idea, non aveva ripudiato i vecchi compagni: aveva solo ingannato lui. Quest'uomo, Moses Gama, era anzi il piú pericoloso sovversivo che avesse mai frequentato. In realtà, dunque, si era spostata ancora piú a sinistra, forse varcando l'incerto confine tra una legittima opposizione politica e il coinvolgimento in mene criminali. Shasa quasi balzò in piedi, poi ricordò dove si trovava. Verwoerd stava parlando.
« L'esigenza di rendere giustizia a tutti non significa solo nutrire e proteggere i negri: significa anche un'equa protezione dei bianchi in Africa... »
Shasa alzò gli occhi verso la tribuna del pubblico. Al posto di Tara era seduto qualcun altro. Dov'era Tara? Magari nel suo ufficio... Continuò a ragionare per associazione d'idee.
Moses Gama era stato nel suo studio. Shasa l'aveva incrociato nel corridoio e Tricia aveva detto: « Solo la signora Courteney e l'autista sono entrati qui dentro ». Dunque Moses Gama era pene-trato nel suo studio, dove qualcuno aveva forato il soffitto per portare un filo elettrico. Non era stato Odendaal della Manutenzione.
Non era stato nessuno che avesse l'autorizzazione a farlo.
« Noi non siamo nuovi venuti in Africa. I nostri progenitori erano qui prima dei negri » stava dicendo Verwoerd. « Trecento anni fa, quando i nostri antenati si stabilirono nell'interno di questa terra, la trovarono deserta. Le tribú negre erano ancora ben lontane, a nord, da dove lentamente migravano verso sud. La terra era spopo-lata: i nostri antenati la reclamarono e la lavorarono. In seguito co-struirono le città, le ferrovie e le miniere. Da solo, l'uomo negro non era capace di fare nessuna di queste cose. Ancor piú delle tribú negre noi siamo uomini dell'Africa e il nostro diritto di stare, è divino e inalienabile come il loro. »
Shasa udiva le parole, ma non seguiva il discorso. Moses Gama, probabilmente con l'aiuto e la connivenza di Tara, aveva portato un filo elettrico nel suo ufficio e... Di colpo emise un'imprecazione strozzata. La cassa. Gliel'aveva piazzata in ufficio Tara. La cassa era un cavallo di Troia.
Ormai in preda all'angoscia, si girò completamente verso il pubblico, e stavolta vide Tara. Era schiacciata contro una parete, e anche da quella distanza Shasa si accorse che era pallidissima e sconvolta. Stava cercando con gli occhi qualcuno o qualcosa nelle file dell'opposizione. Shasa seguì il suo sguardo.
Blaine Malcomess ascoltava il discorso del primo ministro, dimentico di ogni altra cosa. Shasa vide l'arrivo del commesso col biglietto.
Tornò a guardare la tribuna del pubblico. Tara era sempre concentrata su suo padre. Dopo tanti anni Shasa era in grado di leggerne l'espressione: non l'aveva mai vista così preoccupata, neanche quando c'era un figlio gravemente malato.
Poi vide dipingerlesi in volto un gran sollievo. Tornò a guardare Blaine. Aveva spiegato il biglietto e lo leggeva. Eccolo balzare in piedi e affrettarsi verso l'uscita.
Tara aveva mandato a chiamare suo padre, questo era chiaro.
Shasa la fissò, cercando di indovinare il suo proposito. Come se avesse avvertito il suo sguardo, Tara glielo restituì, e il sollievo si trasformò in orrore e vergogna. Si girò e scappò via dalla tribuna del pubblico, facendosi largo a spintoni.
Shasa rimase ancora un istante a guardare da quella parte. Tara aveva attirato suo padre fuori della Camera: tutta la sua preoccupazione si spiegava solo ammettendo che temeva qualche gravissimo pericolo. Quando poi si era accorta che lui la guardava, aveva mostrato orrore e vergogna. Shasa comprese che stava per accadere qualcosa di terribile. Moses Gama e Tara... C'era pericolo, un pericolo mortale... E Tara cercava di salvare suo padre. Il pericolo era grave e imminente... Il filo elettrico nel suo studio, la cassa, Blaine e Tara e Moses Gama. Sapeva che tutti questi elementi erano collegati e che aveva pochissimo tempo per agire.
Shasa balzò in piedi e scese dai banchi del governo verso la navata centrale. Verwoerd si accigliò, perdendo per un attimo il filo del discorso, mentre i deputati si giravano a guardarlo. Shasa allungò il passo. Manfred De La Rey voleva fermarlo, ma Shasa lo superò senza badargli.
Quando sbucò nel salone, scorse Blaine Malcomess che parlava agitatissimo con l'usciere. Appena vide Shasa disse: « Grazie a Dio! » e gli si fece incontro attraversando il pavimento di marmo a scacchi.
Shasa si girò verso lo scalone. Da sopra Tara si era affacciata a guardarli. Aveva la faccia bianca come un lenzuolo e l'espressione tra atterrita ed esaltata.
« Tara! » chiamò Shasa, imboccando lo scalone, ma lei girò sui tacchi e scomparve dietro l'angolo del ballatoio.
Shasa faceva i gradini a quattro a quattro. « Che cosa sta succedendo, Shasa? » gli gridò dietro Blaine, ma quello non gli rispose.
Arrivò di slancio sul ballatoio, girò l'angolo e vide Tara a metà del corridoio. Non perse tempo a chiamarla, si mise a rincorrerla, perché scappava di corsa. In breve guadagnò terreno.
« Moses! » gridò Tara. « Attento, Moses! »
Inutile. Il muro era troppo spesso perché potesse udirla. Ma il grido confermò i peggiori timori di Shasa. Invece di proseguire verso la porta che dava nell'anticamera, come Shasa si aspettava, Tara svoltò di colpo nel corridoio laterale, chinandosi sotto il braccio di Shasa già proteso a ghermirla. Preso alla sprovvista, restò sbilancia-to, cercò di imitarla ma andò a sbattere a tutta forza, col sopracciglio, contro lo spigolo del muro, dalla parte dove non ci vedeva. Si ritrovò con la faccia tutta insanguinata, barcollante e stordito. Intanto arrivava Blaine, di corsa, rosso per lo sforzo e la preoccupazione.
« Cosa diavolo succede, Shasa? » tuonò.
Shasa girò l'angolo e vide Tara che cercava di inserire la chiave nella porticina segreta che dava nel suo studio. Ma era in uno stato tale che non riusciva ad azzeccare il buco della serratura. Le tremavano forte le mani.
Shasa si riscosse, snebbiandosi la mente e spruzzando goccioline di sangue sul muro. Poi si lanciò verso Tara. Lei lo vide arrivare, buttò via la chiave e si mise a bussare a pugni uniti sulla porta.
« Moses! » gridava. « Moses! »
Quando Shasa la raggiunse, la porta si aprì di scatto da dentro, e Moses Gama si fece sulla soglia. I due si guardarono in faccia sopra la testa di Tara, finché lei non gli gettò le braccia al collo.
« Moses, ho cercato di avvertirti », strillava.
Shasa guardò oltre i due e vide che la cassa antica da altare era aperta, e il contenuto sparso sul tappeto. Il filo elettrico che aveva trovato dietro le enciclopedie era stato srotolato e collegato a qualche strano congegno che ora si trovava sulla sua scrivania. Shasa non ne aveva mai visti, ma capì immediatamente che era una specie di detonatore pronto per essere utilizzato. Lì accanto, sulla scrivania, c'era una pistola automatica. Appassionato collezionista di ar-mi da fuoco la riconobbe subito per una Tokarev 7,62, la pistola di ordinanza degli ufficiali russi. Tricia giaceva per terra, accanto alla sua scrivania. Era legata e imbavagliata, ma si contorceva, cercando di liberarsi, ed emetteva gridolini soffocati.
Shasa caricò Moses Gama, ma il negro prese Tara e gliela scagliò addosso. Furono spinti entrambi contro lo stipite della porta.
Moses si voltò verso l'interno, mentre Shasa cercava di liberarsi di Tara che gli si era aggrappata mugolando.
« No! No! Deve farlo! »
Shasa la spinse da parte. Moses aveva già in mano il congegno.
Schiacciò un bottone e si accese una spia rossa.
Shasa capì che non sarebbe riuscito a raggiungerlo in tempo e agì in un lampo, senza pensare. Raccolse il filo che gli passava accanto, per terra, e gli diede un fortissimo strattone. Il trasmettitore d'impulsi elettrici fu strappato di mano a Moses, rimbalzò sulla scrivania e finì per terra, a metà strada fra loro.
Si tuffarono insieme per prenderlo e Moses lo precedette di una frazione di secondo, afferrando l'aggeggio. Shasa, già lanciato, fece un volteggio e sferrò un calcio violentissimo alla testa di Moses. Lo prese alla tempia e gli fece scattare il capo dall'altra parte. Il trasmettitore gli sfuggì di mano, mentre lui finiva con la schiena contro la scrivania.
Shasa lo seguì per tirargli un altro calcio in testa, ma Moses riuscì a pararlo con l'avambraccio e gli afferrò la caviglia, alzandola.
Shasa perse l'equilibrio e cadde pesantemente all'indietro.
Moses si tirò su appoggiandosi alla scrivania e cercò di prendere la pistola, mentre Shasa a quattro zampe gli tornava addosso. Riuscì ad afferrargli con due mani il polso che reggeva l'arma. Lottarono sul pavimento, rotolandosi, scalciando e grugnendo per il possesso della Tokarev.
Tara nel frattempo si era ripresa e aveva raccolto il trasmettitore. Lo teneva in mano senza sapere che fare.
« Come si fa, Moses? » gridò.
Con uno sforzo supremo Moses riuscì a tener sotto Shasa. « Il pulsante giallo. Schiaccia il pulsante giallo! »
Proprio in quella, Blaine Malcomess entrò di corsa dalla porta aperta. « Fermala, Blaine! » gridò Shasa. « Sta per far saltare... »
Moses gli troncò la frase con una gomitata nei denti.
Mentre i due ancora lottavano sul pavimento, Blaine tese la ma-no alla figlia.
« Qua, dallo a me, Tara. »
« Non toccarmi, papà », disse lei facendo qualche passo indietro. Doveva trovare il pulsante giallo e lo cercava a tastoni fissando suo padre. « Non tentare di fermarmi, papà. »
« Blaine », ansimò Shasa, ma dovette tacere, perché Moses stava per riuscire a divincolare il braccio che stringeva la pistola. I muscoli neri di Moses si gonfiavano nello sforzo, mentre Shasa lo teneva stretto con un gemito strozzato.
La vampa che uscì dalla canna della pistola illuminò l'ambiente come un flash, e si sentì immediatamente l'acre puzza della polvere da sparo.
Blaine Malcomess, ancora col braccio proteso verso Tara, fece un mezzo giro su se stesso andando a urtare contro la libreria. Rimase lì un momento, mentre il sangue gli arrossava la camicia bianca, poi cadde lentamente sulle ginocchia.
« Papà! » Tara gettò via il dispositivo e corse da lui. Si inginocchiò accanto al padre.
La sorpresa aveva allentato la presa di Shasa e Moses approfittò di quel momento per liberarsi e balzare in piedi, ma mentre cercava con gli occhi il trasmettitore Shasa gli saltò addosso. Stava proprio chinandosi a raccoglierlo: da dietro Shasa gli infilò un braccio intorno alla gola e lo bloccò. Cercando di sottrarsi allo strangolamen-to, Moses lasciò andare la pistola e prese il braccio di Shasa con due mani. Lottarono abbrancati, grugnendo e girando su se stessi, mentre il trasmettitore era per terra ai loro piedi.
Shasa gli diede un pestone col tacco per scassarlo. La bachelite si ruppe, ma la spia rossa rimase accesa.
Moses si infuriò per il danno al trasmettitore e con uno scrollone si liberò della presa di Shasa, girandosi a fronteggiarlo, ma Shasa lo abbrancò di nuovo con tutta la forza e lottarono a petto a petto, ansimando e sudando, mischiando schizzi di sudore, saliva e il sangue della ferita di Shasa, che lordava la faccia a entrambi.
Ancora una volta Shasa riuscì a sbilanciare Moses per un attimo e tirò un altro calcio all'aggeggio. Preso in pieno, si schiantò contro il muro. Il filo pendeva, mezzo strappato: la spia rossa vacillò e poi si spense.
Moses lanciò un grido di disperazione e scagliò Shasa all'indietro contro la scrivania. Mentre l'avversario giaceva stordito, Moses raccolse la pistola dal tappeto e andò barcollando verso la porta aperta. Lì si voltò e puntò l'arma contro Shasa.
« Tu! » ringhiava. « Tu! » Ma gli tremava la mano. Gli sparò, ma non lo prese: il proiettile piovve sul piano della scrivania, a dieci centimetri dalla testa di Shasa, alzando una tempesta di schegge.
Prima che potesse sparare ancora, comparve dietro di lui Manfred De La Rey, così grosso da occupare tutto il vano della porta.
Aveva visto l'agitazione di Shasa e pensato bene di seguirlo fuori dell'aula.
Capì la situazione al primo sguardo e reagì subito, tirando un pugno tra capo e collo a Moses Gama, da dietro; un pugno da ex campione olimpionico dei mediomassimi. La pistola sfuggì di mano a Moses, che cadde a sua volta svenuto sulla pistola.
Shasa si alzò a stento dalla scrivania e si trascinò verso Blaine.
« Eccomi », sussurrò inginocchiandosi vicino a lui. « Fammi vedere. »
Tara balbettava parole incoerenti. « Papà, mi dispiace, non volevo, ho fatto quello che credevo giusto. »
Shasa cercò di toglierla di mezzo, ma si era aggrappata a Blaine, aveva le mani e il vestito macchiati del suo sangue.
« Lascialo in pace », le disse Shasa, ma ormai era in piena crisi isterica, abbracciata al padre ripeteva scuotendo la testa: « Papà parlami, papà parlami parlami ».
Shasa fece un passo indietro e le diede un fortissimo ceffone, facendole girare la testa dall'altra parte.
« E lascialo, puttana assassina », le ringhiò contro, e lei strisciò via, con la faccia rossa che già cominciava a gonfiarsi. Shasa la ignorò e delicatamente sbottonò la giacca scura di Blaine.
Da cacciatore, riconobbe subito il sangue rosso arterioso che usciva facendo bollicine dalla ferita ai polmoni.
« No », sussurrò. « Per favore, no! »
Solo allora si accorse che Blaine lo stava guardando in faccia, e ci leggeva la sua prossima morte.
« Tua madre... » disse sfiatando dal foro nei polmoni. « Di' a Centaine... » Non riuscì a continuare.
« Non parlare », gli disse Shasa. « Chiamo il dottore. » Guardò dietro, Manfred stava già telefonando. « Presto, fa' presto », gli gridò.
Ma Blaine lo tirò per la manica. « ... Che l'amo. » Gli venne uno sbocco di sangue. « Dille che l'amo tanto. » C'era riuscito, finalmente, e ora ansimava, mentre il sangue gli gorgogliava nel petto.
Poi si accinse a un ultimo grande sforzo.
« Shasa », disse. « Shasa, figlio mio... Unico figlio mio. »
La nobile testa d'argento crollò in avanti, e Shasa la strinse al petto, abbracciandolo come non aveva mai osato fare prima.
E, sempre abbracciandolo, Shasa cominciò a piangere l'uomo che era stato amico e padre per lui. Le lacrime gli uscivano dall'orbita vuota, scorrendo fuori da sotto la benda di seta nera e mesco-landosi al sangue e al sudore.
Quando Tara si avvicinò in ginocchio, tendendo la mano verso la salma del padre, Shasa alzò la testa e la guardò.
« Non toccarlo », le intimò sottovoce. « Non osare sporcarlo con la tua mano. » Il suo unico occhio la fissava con tale disprezzo, con tale odio, che lei arretrò coprendosi la faccia con le mani. Sempre inginocchiata, cominciò a singhiozzare istericamente. Quel rumore fece tornare Shasa in sentimenti. Delicatamente, stese Blaine sulla schiena e gli chiuse gli occhi.
Sulla soglia, Moses si mosse gemendo, e Manfred buttò giú il telefono e gli si avvicinò. A pugni stretti, incombendo su di lui chiese:
« Chi è? ».
« Moses Gama », disse Shasa alzandosi. Manfred grugnì.
« Lo cercavamo da anni. Cosa voleva fare? »
« Non lo so davvero. » Shasa andò vicino a Tricia e si chinò su di lei. « Ma penso che abbia piazzato dell'esplosivo qui, da qualche parte. Forse voleva far saltare la Camera. Questo è il dispositivo che stava azionando: meglio evacuare l'edificio e chiamare gli artifi-cieri... » Non dovette finire: proprio in quel momento si sentì correre in corridoio e tre militari del corpo di guardia irruppero nella stanza.
Manfred prese immediatamente la situazione in pugno, cominciando a dare ordini. « Mettete le manette a questo bastardo negro », disse indicando Moses. « E fate evacuare il palazzo. »
Shasa liberò Tricia, togliendo per ultimo il bavaglio. Ma appena ebbe la bocca libera Tricia puntò l'indice contro Tara, che stava ancora singhiozzando vicino al padre morto.
« E' lei che... » Shasa non la lasciò finire. La prese per il polso e la tirò in piedi.
« Silenzio! » le intimò, e la sua furia zittì per un momento la ragazza. La trascinò in anticamera e chiuse la porta.
« Ascoltami, Tricia. » La teneva ancora per i polsi, guardandola negli occhi.
« Ma era d'accordo con lui », disse Tricia, tremando. « E' la sua... »
« Ascolta me, Tricia », disse Shasa, scuotendola per farla tacere.
« Lo so, adesso so tutto. Ma voglio che tu faccia una cosa per me, una cosa di cui ti sarò sempre grato. La farai? »
Tricia si calmò e lo guardò. Vide le lacrime e il sangue che aveva in faccia, e quasi le si spezzò il cuore per lui. Shasa prese il fazzoletto dal taschino e si deterse il viso.
« Fallo per me, Tricia. Te ne prego », ripeté, e lei inghiottì rumorosamente e annuì.
« Se posso », accetto.
« Non dire niente della parte di mia moglie nella faccenda finché la polizia non ti interrogherà ufficialmente. Tanto lo farà, tra poco; allora potrai dir tutto. »
« Perché? » gli chiese.
« Per me e per i miei figli. Te ne prego, Tricia. »
Ancora una volta lei annuì, e lui la baciò in fronte. « Sei una brava e coraggiosa ragazza », le disse, e la lasciò.
Tornò nell'altro locale, dove la polizia segreta stava già interro-gando Moses Gama. Era ammanettato, ma alzò la testa e fissò Shasa per un momento. Era uno sguardo cupo, offeso e pieno d'odio.
Poi lo portarono via.
Lo studio era pieno di gente che gridava. Infermieri portavano una barella. Un deputato dottore, chiamato in aula, scuoteva la testa, constatando la morte di Blaine, e faceva segno agli infermieri di portar via la salma. Le guardie avevano raccolto il trasmettitore e stavano già seguendo il filo per vedere dove portava.
Tara, seduta alla scrivania, piangeva silenziosamente col viso tra le mani. Shasa le passò dietro diretto verso la cassaforte nascosta da un quadro di Pierneef.
Al riparo del proprio corpo formò la combinazione, aprì la cassaforte e prese le tre o quattromila sterline che ci teneva per ogni evenienza. Si ficcò le mazzette in tasca, poi scorse i passaporti di famiglia e prese quello di Tara. Richiuse la cassaforte, si avvicinò alla donna e la fece alzare in piedi.
« Shasa, io non... »
« Sta' zitta », le sibilò in faccia. Manfred De La Rey si girò a guardarli.
« L'accompagno a casa, è in stato di shock », disse Shasa.
« Va bene, ma torna appena puoi », annuì Manfred. « Dovrai rendere testimonianza. »
Tenendola per il braccio, Shasa la fece uscire dallo studio e la guidò giú per il corridoio. Nel palazzo suonava il campanello d'allarme: deputati e pubblico sciamavano fuori dell'edificio. Shasa si unì a quel flusso, e appena fuori condusse Tara alla Jaguar.
« Dove andiamo? » chiese Tara, mentre si allontanavano. Sedeva tutta sottomessa in un angolo del sedile.
« Non rivolgermi la parola, potrei perdere il controllo di me stesso », l'avvertì lui, serio. « Ho voglia di strozzarti. »
Non parlò piú fino all'aeroporto, dove Shasa la caricò sul Mosquito blu e argento.
« Dove andiamo? » ripeté allora, ma lui la ignorò, assorto nei controlli di routine. Poi decollò. Le rispose a quota e velocità di crociera, già sulla rotta.
« L'aereo della sera per Londra parte da Johannesburg alle sette. Appena possibile il contatto radio ti prenoto un posto a bordo », le disse. « Arriveremo circa un'ora prima della partenza. »
« Non capisco », sussurrò lei nella maschera a ossigeno. « Per-che mi aiuti a scappare? »
« In primo luogo, per mia madre. Non voglio che sappia che hai ammazzato suo marito, questo la distruggerebbe. »
« Shasa, non sono stata io... » ricominciò, ma lui non provò la minima compassione.
« Zitta », le intimò. « Non intendo stare a sentirti piagnucolare.
Non hai idea dei miei sentimenti verso di te: odio e disprezzo sono parole ancora troppo lievi. » Sospirò. Poi riprese: « Dopo mia madre, lo faccio per i ragazzi. Non voglio che sappiano chi realmente sei. Sarebbe un fardello troppo greve per dei giovani che vanno incontro alla vita ».
Tacquero entrambi, e Shasa diede libero sfogo al terribile dolore che provava per la morte di Blaine e che finora aveva soffocato. Sul sedile accanto, anche Tara piangeva suo padre, scossa dai singhioz-zi. Sopra la maschera a ossigeno, il suo viso era cereo e gli occhi in-fossati come ferite.
Forte come il dolore, vi era in Shasa anche l'odio. Dopo un'ora di volo parlò ancora.
« Se dovessi mai tornare in questo Paese, ti farò impiccare. E'
una solenne promessa che ti faccio. Appena possibile, chiederò il divorzio per abbandono del tetto coniugale. Non ci sarà questione di alimenti né custodia dei figli. Non avrai nessun diritto o privilegio di sorta. Per quanto mi riguarda, sarà come se non fossi mai esisti-ta. Arrangiati: per me puoi anche chiedere asilo politico in Russia. »
Ancora una volta tacque, dominandosi a stento.
« Non verrai nemmeno al suo funerale, ma il ricordo di tuo padre ti tormenterà. Sei responsabile della sua morte e ne avrai per sempre rimorso. E' l'unica tua punizione, e voglia Dio che basti ad avvelenarti la vita e farti impazzire pian piano. Io lo spero e prego. »
Lei non rispose, ma si girò dall'altra parte. Piú tardi, scendendo su Johannesburg, coi grattacieli illuminati dal sole al tramonto, Shasa le chiese:
« Ci andavi a letto, vero? »
Istintivamente lei capì che era l'ultima occasione che aveva di fargli del male. Si voltò a guardarlo in faccia prima di rispondere.
« Sì, l'amo e siamo amanti. » Lo vide batter ciglio, ma voleva ferirlo ancora di piú e continuò. « A parte la morte di mio padre, non rimpiango niente. Non ho fatto niente di cui debba vergognar-mi. Al contrario, sono fiera di aver conosciuto e amato un uomo come Moses Gama: fiera di quello che ho fatto per lui e per il mio Paese. »
« Pensa che presto penderà scalciando dalla forca e sii fiera anche di questo », le disse calmo Shasa, e atterrò. Rullò col Mosquito fino al terminal, dove scesero dall'aereo e si guardarono in faccia.
Le era venuto un livido dove l'aveva picchiata: il vento gelido dell'altopiano scompigliava indumenti e capelli. Le diede passaporto e banconote.
« Hai il posto prenotato. Qui ci sono i soldi per pagare il biglietto e andar dove ti pare. » Gli si spezzò la voce, mentre dolore e ira s'impadronivano nuovamente di lui. « All'inferno o alla forca, questo è il mio augurio per te. Spero di non vederti e non sentirti nominare mai piú. »
Le voltò le spalle, ma lei gli gridò dietro:
« Siamo sempre stati nemici, Shasa Courteney, anche ai bei tempi. Saremo nemici sino alla fine. Contrariamente a quello che desideri, sentirai riparlare di me. Te l'assicuro. »
Shasa salì sul Mosquito e gli ci volle qualche minuto per riprendersi tanto da poter pilotare l'apparecchio. Quando alzò nuovamente lo sguardo, lei era sparita.
Centaine non volle che Blaine fosse sotterrato. Il pensiero che giacesse sotto terra, putrefacendosi e gonfiandosi, le era insopportabile.
La figlia minore di Blaine, Mathilda Janine, venne da Johannesburg con suo marito David Abrahams, con l'aereo della ditta, a presenziare alla cremazione e alla funzione nella cappella. Al funerale parteciparono piú di mille persone, tra cui Verwoerd e il capo dell'opposizione De Villiers Graaff.
Centaine tenne l'urna con le ceneri di Blaine sul tavolo in camera da letto per quasi un mese, prima di trovare il coraggio. Poi chiamò Shasa, e insieme salirono sulla sua collina preferita.
« Blaine e io ci venivamo spesso », gli sussurrò. « Sarà qui che verrò quando vorrò sentirmelo di nuovo accanto. »
Aveva ormai quasi sessant'anni, e per la prima volta li dimostrava anche, notò Shasa guardandola addolorato. Il grigio cresceva nella sua chioma, e presto avrebbe sconfitto il nero. Il dolore aveva offuscato lo sguardo e dato alla bocca una piega amara; la pelle liscia e giovanile, che curava con tanta passione, da un giorno all'altro sembrava invecchiata e floscia.
« Fallo tu per me, ti prego, Shasa », gli disse porgendo l'urna.
Shasa l'aprì e si tolse dal riparo della roccia, in piena tramontana. Il vento gli sbatteva le falde della camicia come un uccello in gabbia può sbattere le ali. Si girò a guardare la madre.
Centaine l'incoraggiò con un cenno, e lui alzò l'urna, rovescian-dola. Le ceneri volarono via come polvere al vento. Quando l'urna fu vuota, Shasa tornò a guardare la madre.
« Rompila! » gli comandò, e lui scagliò il vaso contro la roccia.
Centaine vacillò, con un gemito. Shasa corse ad abbracciarla.
« La morte è l'unico avversario che so di non poter vincere mai.
Forse è per questo che l'odio tanto », gli sussurrò.
L'accompagnò al solito sedile di roccia e tacquero per un bel pò di tempo, guardando l'Oceano Atlantico increspato di spuma. Poi Centaine disse:
« So che hai inteso proteggermi, ma adesso dimmi di Tara. Qual è stata la sua parte nella faccenda? »
Così Shasa le raccontò tutto, e alla fine Centaine disse: « Ti sei reso complice. Ne valeva la pena? ».
« Credo di si », rispose lui senza esitazione. « Se fosse stata arrestata e processata, lo scandalo ci avrebbe distrutti tutti. »
« Ci saranno delle conseguenze? »
Shasa scosse la testa. « Manfred... Ci proteggerà ancora, come nel caso di Sean. »
Shasa colse il suo dolore alla menzione del nome di Sean. Come lui, non aveva mai superato il brutto colpo, ma ora disse tranquillamente: « Sean era un altro conto. Qui si tratta di omicidio, tradimento e tentata strage. Volevano uccidere il capo dello Stato, ster-minare il governo e fare la rivoluzione. Può Manfred insabbiare delle accuse così gravi? E anche se può, perché dovrebbe farlo? ».
« Io non so la risposta, mamma » disse Shasa studiando l'espressione del suo volto. « Pensavo anzi che la sapessi tu. »
« Cosa intendi dire? » gli chiese, ed egli pensò di averla colta alla sprovvista, perché nei suoi occhi c'era stato un lampo di paura e di confusione. La morte di Blaine l'aveva indebolita e stordita. Prima non si sarebbe mai tradita così.
« Proteggendo noi, e me in particolare, Manfred protegge se stesso e le sue ambizioni politiche », ragionò Shasa. « Perché se ca-do io, che sono sempre stato un suo protetto, ne risente la sua stessa carriera. Ma non soltanto questo: sento che c'è sotto qualcos'altro, che però non riesco a indovinare. »
Centaine non gli rispose, ma girò il volto e si mise a guardare il mare.
« E' come se Manfred De La Rey nutrisse nei nostri confronti qualche strano sentimento di fedeltà, oppure un obbligo che deve riparare, o addirittura un certo senso di colpa verso la nostra famiglia. E' possibile che sia così, mamma? C'è qualcosa che io non conosco, che crea degli obblighi nei nostri confronti da parte di Manfred? Mi hai nascosto qualcosa, in tutti questi anni? »
Assisté alla sua lotta con se stessa. A un certo punto gli parve che da un momento all'altro sarebbe arrivata la rivelazione di qualche verità sepolta, o di qualche terribile segreto che avesse chiuso in sé da troppo tempo. Ma vide la sua espressione indurirsi: vide come rifluire in lei la forza e l'energia che la morte di Blaine le aveva sottratto.
Fù una specie di piccolo miracolo. Gli anni parvero cascarle di dosso: gli occhi le si illuminarono, la testa tornò arditamente eretta.