Entrare nel reparto corse mi ha emozionato. Ci siamo infilati attraverso un ingresso più nascosto. Abbiamo percorso i corridoi e siamo approdati nella zona adibita a officina. Ed è lì che ho visto le mie moto, Jeremy e i ragazzi che lavoravano; lì ho visto la mia squadra, insomma, attorno alle Yamaha M1. Quella, naturalmente, è stata anche la prima volta in cui ho posato gli occhi sulla mia M1. Non “una” M1, come era già successo nel box di Donington nell’estate del 2003, ma proprio la mia.
Appena sono entrato ho avvertito subito che c’era molta aspettativa per questa avventura che stavamo per iniziare. C’era un’aria particolarmente elettrica, un misto di tensione ed emozione.
Di solito, in inverno, nelle sedi dei reparti corse, non è che ci sia molta agitazione.
Ma quando sono entrato io, le mie moto erano sul cavalletto, circondate da un alone quasi mistico. Mi sembrava che tutti quelli che vi si muovevano intorno facessero le cose in modo diverso; naturalmente erano i soliti gesti, ma in quel momento mi sembrava che li facessero con un’applicazione differente.
Come spinto da un’attrazione irresistibile, sono andato subito verso la mia M1 e ci sono salito sopra. Ho stretto le mani attorno alle manopole, ho azionato le leve del freno e della frizione con le dita, mi sono sistemato sulle pedane, mosso sulla sella, e ho avvolto il serbatoio con le gambe. Era una gestualità assolutamente normale, che avevo fatto migliaia di volte senza provocare nessuna reazione particolare, eppure in quel momento erano tutti zitti, fermi; non lavorava più nessuno: mi guardavano, immobili, in silenzio.
Ho chiesto di regolare la distanza tra la pedana e la leva del cambio, ho fatto alzare di qualche millimetro la leva del freno, poi sono stato un po’ lì, sempre nell’assoluto silenzio, sulla mia nuova moto.
Quando sono sceso, ho capito che si aspettavano un commento. Ho atteso qualche secondo, ho dato un’occhiata generale, mi sono guardato attorno, ho stretto un po’ le labbra, ho mosso un po’ la testa, poi ho detto:
«Mah, sul cavalletto sembra che vada tutto bene!».
Dopo un secondo, siamo tutti scoppiati a ridere, rendendoci conto che non aveva senso tutta quell’aspettativa. Cosa mai si può dire di una moto che sta ferma sul cavalletto?
Però quell’episodio ha avuto comunque importanza: ha contribuito a fare spogliatoio. Abbiamo cominciato a unirci come gruppo: noi, che venivamo dalla Honda, abbiamo iniziato, anche attraverso una risata, ad amalgamarci con le persone che avevamo trovato in Yamaha.
Era bella, la mia nuova M1. Anche se sapevo perfettamente che avremmo dovuto cambiarla molto, mi appariva bellissima.
Il grande debutto, che ormai tutti noi aspettavamo, era in programma dopo pochi giorni. E io, tanto per dimostrare che stato d’animo avessi, ho deciso che sarei andato in Malesia un giorno prima del previsto.
Di solito arrivo proprio alla vigilia delle prove, magari addirittura la notte prima.
Quella volta, invece, ho anticipato. Perché anch’io ero molto eccitato.
Eppure, soltanto quando sono giunto a Sepang ho realizzato la portata dell’evento.
Ai test di gennaio, in Malesia, di solito ci sono solo qualche fotografo e pochi giornalisti. Si entra nel circuito di Sepang, che è enorme, e ci si sente soli. Vedi solo i componenti degli altri team, nei box, e tutto intorno il deserto. Trovi all’ingresso del circuito qualcuno, seduto all’ombra, che ti guarda di traverso per vedere chi sei, ma senza neanche alzarsi dalla sedia, e ti scopri solo col gruppo di persone che lavorano nel box.
Invece, questa volta c’erano tutti. Si erano riuniti praticamente tutti i giornalisti che seguono il Mondiale in modo permanente. Sembrava un gran premio, non un test invernale. C’era una marea di gente, un sacco di fotografi. E naturalmente hanno iniziato a fare un gran casino. Vedevo telecamere e microfoni spuntare ovunque, in continuazione, i giornalisti italiani poi mi pressavano perché volevano organizzare una conferenza stampa.
Quindi io ho iniziato subito a innervosirmi. Non volevo affrontare una situazione di quel genere. Non alla vigilia del mio primo test, almeno.
Non avevo niente da dichiarare sulla Yamaha, perché non l’avevo ancora provata, e non volevo parlare della Honda, perché quello per me era il passato e io volevo solo pensare al futuro. In più, ero stato in vacanza nell’ultimo mese e mezzo e mi ero allontanato, anche mentalmente, dall’ambiente delle corse. Quindi non c’era proprio niente da dire.
In realtà, mi ero già stupito qualche giorno prima di arrivare a Sepang, sentendo Brivio parlare con Gibo: Davide diceva cose che mi sembravano un po’ surreali.
«La pista sarà chiusa, l’abbiamo in esclusiva (infatti la Yamaha l’aveva riservata per le giornate di sabato, domenica, lunedì), transenneremo il box e impediremo l’accesso a tutti; ci metteremo molto lontani, come box, rispetto all’ingresso del circuito, per avere maggiore riservatezza.» Questi discorsi mi avevano sorpreso un po’.
“Ma cos’è tutta questa preoccupazione, questa organizzazione? Tanto non c’è mai nessuno, ai test invernali…” mi chiedevo. Quando sono arrivato in Malesia ho capito perché Brivio si era preoccupato così…
Dopo aver risolto il problema con i giornalisti italiani, decidendo di non parlare con nessuno, sono andato in circuito. Nel box Yamaha. Indossavo la mia maglietta nera, con solo la scritta Yamaha sul lato sinistro in alto. Avevo i calzoncini che di solito uso per dormire nel motorhome (sono a quadrettini, sembrano un po’ un pigiama…) e le infradito ai piedi. Insomma, mi sono presentato in versione un po’
“casual”, un po’ da mare; ma è la prassi, nei test invernali in Malesia, con 40 gradi all’ombra!
Appena entrato nel box ho guardato a lungo la mia M1, poi ho cominciato ad attaccare tutti i miei adesivi, compreso naturalmente il numero 46.
Brivio aveva già spiegato ai giapponesi (che non mi conoscevano) che non avrebbero dovuto preoccuparsi vedendomi attorno alla moto.
I ragazzi del mio gruppo, invece, sapevano già che quando inizio a usare una moto nuova devono lasciarmela per un po’. Quello è il momento in cui c’è il rito dell’applicazione degli adesivi, e lo posso fare solo io. È questione di scaramanzia.
Mi ero portato gli adesivi da casa, naturalmente. Oltre al numero, c’erano anche bollo e assicurazione, la scritta “the doctor” e l’adesivo che ritrae il mio cane Guido.
E poi la scritta in giapponese che sta di lato: significa “Forza Rossifumi”.
II soprannome Rossifumi è nato nel 1994. L’ho ideato fondendo il mio cognome con il nome di Abe: Norifumi. Io in quel periodo ero talmente appassionato che non facevo altro che pensare alle moto e guardare gare. Sono sempre stato così, ma in quella stagione ero pervaso da un’autentica follia. Ero capace di rivedere anche cinque o sei volte la registrazione di una gara.
Mi sono alzato all’alba, quell’anno, per vedere il GP Giappone a Suzuka. E mi ha colpito subito una wild card che si chiamava Norifumi Abe. Aveva 18 anni, correva con la Honda NSR 500 ufficiale. Era bellissima, la sua moto: tutta arancio fluo, con i cerchi e i numeri verdi. Erano i colori del suo sponsor. Abe aveva i capelli lunghi e lisci, e già da fermo sembrava proprio un gran personaggio. Soprattutto, guidava come un matto. Era coraggioso. Secondo me lui non è mai più andato bene come quel giorno lì, a Suzuka. Quella pista, poi, è molto particolare. È un tracciato bellissimo, estremamente tecnico, che nasconde molti segreti. Non è una di quelle piste disegnate al computer. Riesci ad andare un po’ più forte solo se hai percorso molti chilometri.
Devi conoscere quell’asfalto metro per metro, ogni singola buchetta, ogni curva e ogni staccata. È un po’ come Phillip Island. Ma forse Suzuka è anche più dura. E lui, Abe, doveva conoscerla bene, quella pista, perché andava fortissimo pur essendo una wild card. In quella gara c’erano Schwantz, Doohan, Itoh, e poi c’era questo matto qui: Norifumi Abe. Guidava in un modo che mi faceva pensare fosse pazzo: curvava con lo sterzo che si chiudeva, spesso doveva tenersi su col ginocchio, aveva la tuta che fumava, sorpassava in situazioni incredibili. Mi dava l’impressione che stesse correndo come se quella fosse la sua ultima gara. Invece era la prima! A tre giri dalla fine lo sterzo gli si è finalmente chiuso del tutto, ed è caduto.
Del resto, aveva cercato di finire in terra in quel modo per tutta la gara…
Andava talmente forte, quando è caduto, che la sua moto ha iniziato a rotolare andandosi a stampare su un cartellone pubblicitario che c’era oltre la pista. Ma per me, Abe era diventato un eroe.
Da aprile a giugno, mi sono alzato prima, cioè alle sette, ogni mattina, per guardare quella gara. Tutte le mattine, per due mesi. Prima guardavo la corsa, poi andavo a scuola.
E da lì mi è nata anche la passione per i piloti giapponesi.
La scritta che ho sulla moto, “Rossifumi gambaté!”, vuole appunto dire “Forza Rossifumi”, in giapponese. Perché quando sono approdato al Mondiale i piloti giapponesi, incontrandomi in giro per il circuito, mi dicevano sempre «gambaté, gambaté!».
Ero molto amico di Haruchika Aoki, infatti quella scritta l’ha fatta lui e poi me l’ha regalata. Dalla scritta ho fatto realizzare l’adesivo, che ho attaccato sulla moto. L’ho sempre avuto, quell’adesivo, sin dalla mia prima gara del Mondiale, su tutte le moto che ho usato: dalle Aprilia alle Honda, fino alla Yamaha. E quell’adesivo è sempre stato come era nella prima versione: giallo e blu, con lo stesso carattere, le stesse parole: “Rossifumi gambaté”, “Forza Rossifumi”.
Tra gli adesivi apparsi sulla mia moto, dopo un episodio fortunato o particolare, c’è anche quello che riproduce Guido. Il mio cane.
L’adesivo l’ho incollato nella parte posteriore della moto, dove inizia il codone, nel 2001; prima delle prove del venerdì. Era una gara importante, quella: ho battuto Biaggi, e sono andato alla conquista del titolo della 500.
Mi aveva portato fortuna, l’adesivo di Guido, e così l’ho poi voluto su tutte le mie moto da corsa. Anche sulla M1, naturalmente.
Comunque, a Sepang, sono rimasto attorno alla mia moto per tutto il pomeriggio; fin oltre il tramonto; fino a quando tutto intorno a noi era buio. Solo Brivio è rimasto nel box così tanto, quel giorno. Venerdì 23 gennaio 2004. Io ero rimasto lì per controllare che tutto fosse a posto. Lui invece restava perché non riusciva ancora a credere che fosse vero, quel numero 46 applicato sulla Yamaha.
Era stato il suo obiettivo per anni, e aveva poi lavorato sodo per far sì che quel suo sogno si realizzasse. Eppure si comportava come quando ci siamo stretti la mano, a Brno, quando gli ho detto che accettavo di passare in Yamaha: era incredulo.
«È vero, allora è tutto vero» ripeteva quando siamo rimasti da soli, nel box, dopo aver coperto la M1 col telo. Prima di lasciare il garage aveva voluto alzare il telo un’ultima volta, proprio perché non riusciva a crederci, e io lo guardavo divertito.
Perché io pure avvertivo una sensazione particolare. Anche a me, per certi versi, non sembrava ancora vero che avrei iniziato una stagione nella MotoGP senza la Honda.
Eppure, anche il giorno dopo, sabato 24 gennaio, nel mettermi la tuta ho fatto tutto con molta calma. Ma sapevo perfettamente che quella sarebbe stata una di quelle giornate che mi sarei ricordato per sempre.
Non ero agitato, però, quando sono salito sulla M1. L’unica preoccupazione riguardava il riscontro che avrei avuto: avevo paura che la moto fosse davvero quel disastro che tutti dicevano, che la situazione fosse insomma così tragica come pronosticavano quelli che dicevano che passare alla Yamaha era stata una follia.
“È una paura ingiustificata” mi ripetevo, ma un po’ di timore c’era.
“Speriamo che non sia una moto bastarda” mi sono detto poco prima di salirci.
Temevo che fosse, insomma, una moto poco sincera; una di quelle che ti fanno cadere quando spingi un po’. Perché era così che l’avevano disegnata tutti.
In realtà facevo delle valutazioni sui test che aveva svolto Checa, in novembre, quando aveva girato bene, quindi mi dicevo che la moto non poteva essere così disastrosa. Ma quello che mi traeva in inganno, e confondeva anche tutti gli altri, erano i racconti dei piloti che l’avevano guidata nel 2003: «Appena spingi un po’, cadi» assicuravano. Lo diceva più che altro Checa, questo, ma anche Barros e Melandri erano in linea con lui.
Il primo giro con la M1 è stato come quando si esce per la prima volta con una ragazza: è più emozionante mangiare un gelato con una fidanzata nuova che fare sesso con una che frequenti da anni!
Eh sì, tutto quello che si fa con la nuova fidanzata, anche i piccoli gesti, ti emoziona di più; ci fai più caso, ci metti più attenzione. Con la moto, per me, è uguale: è più emozionante il giro lento fatto per la prima volta che quello veloce in gara, quando la moto la conosci a memoria.
Ecco, è stato così anche con la mia Yamaha a Sepang. Il momento in cui sono uscito dal box e mi sono avvicinato alla M1 è stato esattamente come l’avevo immaginato quando ero tutto preso dalla scelta tra Honda e Yamaha.
“Se scelgo la Yamaha, sarà bellissimo quando partirò e farò il primo giro a Sepang, nel caldo torrido, in silenzio, con le tribune vuote…” Me lo immaginavo così, quel momento. E così è stato.
Quando ho percorso il mio primo giro, avvolto dagli spalti deserti, soffocato dal caldo torrido, ho effettivamente provato quella sensazione che avevo immaginato. La realtà è stata proprio quella che avevo immaginato nella fantasia.
Uscito dal box, dopo aver percorso la pit lane per un breve tratto, ed essere entrato in pista, guardavo un po’ avanti - cioè la pista, le tribune, le palme basse bruciate dal sole - e un po’ la moto. Mettevo le marce, azionavo la frizione e i freni, inserivo la moto in curva e facevo caso a ogni sua reazione, a ogni rumore. È stato molto, molto bello.
Ma poi, dopo il primo giro, ho iniziato già a pensare a come stavo in sella alla mia Yamaha, e ho cominciato a valutare le reazioni del motore, a verificare quelle del telaio. Ero già immerso nel lavoro, insomma.
Perché per cogliere le differenze tra due moto, anche se sono così diverse come la Yamaha e la Honda, devi andare forte. Se vai piano, puoi magari valutare se il cambio o la frizione sono più o meno morbidi, ma non riesci a capire come si comporta effettivamente la moto.
Quindi, dopo il primo giro, che ho percorso molto lentamente, ho fatto una sessione di sei giri spingendo sempre un po’ di più. Poi sono rientrato ai box, per parlare con i tecnici.
In quei sei giri mi è sembrato tutto già abbastanza chiaro. All’inizio il ricordo della Honda era un po’ lontano, poi sono tornate tutte le sensazioni; e così ho iniziato subito a fare delle comparazioni.
Quando mi sono fermato nella pit lane, davanti al mio box, ho consegnato la moto a Bernard, che aveva Alex e Gary al suo fianco. Come sempre. Stavamo facendo una cosa del tutto normale, per noi, ma questa volta eravamo uomini Yamaha e c’era nell’aria qualcosa di strano.
Poi sono andato subito verso il mio posto, all’interno del box. Ho tolto il casco, i tappi dalle orecchie, il paradenti. Ho fatto tutto quello che faccio sempre quando rientro. Per me, a quel punto, ero già un pilota Yamaha, quindi vivevo già tutto con naturalezza.
Però c’era un silenzio impressionante: non si sentivano i classici rumori del box, cioè tecnici e meccanici che si muovono, parlano, spostano le cose, accendono una moto, un compressore, trasportano gomme oppure commentano i dati al computer.
Era un silenzio inusuale, anomalo. Allora ho alzato la testa e ho visto attorno a me una platea muta, immobile. C’erano i meccanici, gli ingegneri giapponesi, i tecnici della Michelin, della Ohlins, della Brembo, i telemetristi. Avevano lo sguardo fisso su di me: non parlavano, ma i loro occhi mi puntavano.
Erano tutti in attesa, tranne Jeremy. Lui stava comportandosi come al solito, perché sapeva bene cosa faccio quando rientro al box. E poi anche lui, come me, si era già immerso nel lavoro con la Yamaha. Invece gli altri erano tutti in attesa di un mio gesto, di una parola: non sapevano che cosa avrei fatto, che cosa avrei detto, dopo il mio rientro ai box, al termine dei miei primi giri con la M1, quindi non avevano idea su come comportarsi.
Non filtrava più la luce accecante che a Sepang, di mattina, si infila dritta nel box, perché appena sono entrato i meccanici hanno abbassato subito le saracinesche: il team voleva creare un clima di grande intimità. Così filtrava solo una luce più morbida, attraverso il portone posteriore. C’era già molto caldo, anche se erano le undici della mattina. I ventilatori giravano a pieno ritmo.
Ho fatto un bel respiro, ho raccolto le sensazioni che avevo ricevuto, le idee che mi erano venute, e ho iniziato a parlare della moto e del suo comportamento.
La prima impressione è stata molto buona. Mi sembrava che la M1 andasse già bene. Mi dava fiducia, l’anteriore era stabile, il motore sembrava persino veloce; e mi ero subito reso conto che, rispetto alla Honda, il vero problema era l’erogazione.
Mi aspettavo una moto talmente difficile che dopo averla provata ero proprio sollevato, contento. Anche troppo… Infatti, già nel secondo test, ho capito diverse cose. E lì c’è stato un momento di sconforto. Comunque alla fine non è mica andata male: ho girato in 2‘02”75, mentre Biaggi aveva girato in 2‘02”58 e Gibernau in 2‘02”70. Checa, il mio compagno di squadra, girava in 2‘03”57!
Il problema più grande, almeno nella prima fase dello sviluppo, risiedeva nel motore. Nella prima sessione di test avevo usato la versione “screamer” che aveva un’erogazione molto violenta, quindi sbagliata. Perché con queste potenze non si può usare una configurazione come quella adottata dai tecnici e dai team Yamaha nel 2003, in quanto l’erogazione era troppo violenta e metteva in crisi tutta la moto: il telaio, le sospensioni e soprattutto la gomma posteriore, che si deteriorava troppo in fretta.
Notai subito, poi, che la M1 non derapava in modo lineare: si muoveva ondeggiando e obbligava a chiudere il gas in continuazione.
Quindi all’inizio si poteva andare forte, con la M1, ma per cinque giri; perché quando la gomma si rovinava le reazioni diventavano poco amichevoli.
Pensavo alla Honda, che invece restava ben gestibile anche quando la gomma si deteriorava, e quello è stato il primo momento in cui il confronto mi è apparso proprio sfavorevole alla Yamaha.
Ecco perché, già nella terza giornata del primo test, ho voluto provare il quattro cilindri a scoppi irregolari. Il reparto corse aveva infatti spedito in Malesia ben cinque motori, e ho scelto subito quello che veniva chiamato “big bang”. Era, appunto, il motore a scoppi irregolari, nella sua prima versione.
Ho realizzato immediatamente che si trattava del propulsore con il maggior potenziale, anche se aveva un problema: andava piano. Ma proprio piano. Era il più lento di tutti i motori che il reparto corse mi aveva messo a disposizione, ma se non altro si riusciva almeno a gestirlo bene. Soprattutto, si riusciva a fare una decina di giri, quindi almeno metà gara, mantenendo un ritmo costante. Era una buona base di partenza. Ho cercato di non pensare subito al problema della potenza quanto alla facilità di utilizzo, perché avevo capito che l’erogazione era il limite più grande.
Venivo dalla Honda, avevo un riferimento importante…
«Il “big bang” è la strada che dobbiamo seguire, d’ora in poi: eliminiamo l’altra versione e concentriamoci su questo motore» dissi agli ingegneri di Iwata, al termine del lungo briefing tecnico finale. E loro, una volta tornati in Giappone, hanno iniziato a lavorare solo su quello.
Alla fine, il campionato mondiale 2004 l’ho vinto in curva e in staccata.
Sin dal primo test, ho capito che con la Yamaha, per vincere, avrei dovuto privilegiare la guidabilità. Quindi, ho realizzato che avrei dovuto sfruttare le doti della ciclistica.
La Yamaha non andava molto forte, ma mi è apparsa subito maneggevole ed efficace in curva. Mentalmente, mi sono dunque imposto di modificare il mio modo di guidare per poter sfruttare le caratteristiche della M1.
Ci siamo quindi concentrati in primo luogo sullo sviluppo delle doti della ciclistica Yamaha: efficacia in frenata, facilità di inserimento in curva, agilità nei cambi di direzione.
Ma una moto va sviluppata facendo crescere tutti i settori, quindi per esaltare queste doti avevamo anche bisogno di dotare la M1 di un motore più dolce e più progressivo. Il problema non era certo andare forte: dentro di me, mi ero già abituato all’idea che avrei dovuto recuperare in staccata e in curva quello che avrei perso in rettilineo.
Non mi ero fatto troppe illusioni sull’incremento della potenza che avrebbe potuto guadagnare il motore. Ho capito subito che non avrei mai avuto il motore della Honda.
Mi bastava un propulsore che smettesse di mettere in crisi la ciclistica e che consentisse alla gomma posteriore di restare efficiente per tutta la durata della gara.
In ogni caso, ho sempre chiesto maggiore potenza; quindi prestazioni migliori. Ho cominciato già dal primo test, in Malesia, e ho continuato nella seconda e nella terza sessione di prove, che abbiamo svolto di nuovo a Sepang e poi a Phillip Island, in Australia. Proprio in quell’occasione mi è stato detto che avrei dovuto avere pazienza.
Infatti la prima, vera evoluzione del “big bang” è arrivata solo in marzo, nel secondo test di Phillip Island. Cioè il nostro quarto test in assoluto. Una sessione veramente privata, perché la Yamaha aveva riservato la pista in esclusiva.
Quello è stato uno dei momenti più belli e significativi di tutta la stagione 2004.
Perché nei test di febbraio, svolti insieme agli altri team della MotoGP, avevamo preso una gran paga. Infatti alla fine, riunendo la mia squadra, ho detto: «Ragazzi, questa volta abbiamo proprio rimesso i piedi per terra!».
Erano rimasti tutti in silenzio, in segno di assenso. In quel test avevo subito un distacco di undici secondi dalle Honda di Edwards e Gibernau, al termine delle simulazioni di gran premio.
Quando siamo tornati a Phillip Island, in marzo, ho trovato la prima evoluzione del motore, che era stata spedita dal Giappone. Il nuovo propulsore, sempre a scoppi irregolari ma dotato di maggiore forza, garantiva effettivamente anche maggiore potenza. I tecnici avevano mantenuto la promessa, quindi. In effetti la M1 era migliorata: andava meglio.
Quando ho svolto la simulazione di gara, e abbiamo confrontato i dati, nessuno di noi credeva ai propri occhi.
L’ho conclusa con un vantaggio di sedici secondi, rispetto ai tempi di Edwards e Gibernau. Non solo, avevo fatto segnare 1‘30”82 nell’ultimo giro!
Ci sono stati momenti di grande euforia perché lì, per la prima volta, abbiamo capito che il nostro potenziale era alto.
Quel test non ci ha solo confortato: ha iniziato a farci sognare. Ma dopo un po’, ho raffreddato gli animi.
«Calma, ragazzi. Aspettiamo. Non diciamo niente a nessuno: né da qui, né quando torniamo a casa» ho chiesto subito.
«Non divulghiamo i tempi veri: diciamo un po’ gonfiati…» mi sono raccomandato.
Avevo un duplice obiettivo: desideravo che all’interno del reparto corse non calasse l’impegno, e poi volevo arrivare ai Test Irta di Barcellona facendo credere a tutti di essere in grande difficoltà.
Era una strategia, insomma. Il fatto che molti mi guardassero in modo strano mi fece capire che la Yamaha aveva davvero perso la strada giusta, in tutti i campi.
«Ma come, cosa vuol dire non li diciamo?!» si domandava qualcuno, cercando di capire meglio. Brivio no, lui la pensava come me e Jeremy, ma c’erano altri che non avevano realizzato la situazione.
«Come “tanto…”?!» ho detto io, perché ho capito che, col tempo, quello era diventato davvero un ambiente in cui si era persa la cultura della vittoria. Era un gruppo di brava gente, un team gentile, che sorrideva a tutti. Ecco perché avevano smesso di vincere…
«Non diciamo niente, perché noi li dobbiamo fregare tutti» ho chiarito subito.
«Non siamo mica qui per fare dei piaceri agli altri. Guai a chi parla!» ho imposto.
Ma poi l’ho spiegata, questa mia presa di posizione.
«Se iniziamo a raccontare a tutti il livello che stiamo raggiungendo, poi quelli della Honda si mettono a lavorare ancora di più. Siamo qui per fare dei favori alla Honda, noi?» ho chiesto in modo provocatorio, ottenendo finalmente una certa comprensione.
Perché io e Jeremy, ma anche Brivio, sapevamo bene che quelli della Honda, dai tecnici a tutti i componenti dei team, erano molto tranquilli. Li vedevamo, nei paddock, e avevamo capito che cosa pensavano di noi. Erano tutti certi che io e la mia squadra, la Yamaha, non avremmo combinato niente di buono: infatti alla fine di febbraio i team della Honda pregustavano già un campionato da dominatori, e a marzo inoltrato, grazie alla nostra decisione di mantenere un profilo molto basso, ne erano proprio certi.
E questo era esattamente ciò che noi avevamo deciso che loro avrebbero dovuto pensare.
«Facciamoli stare tranquilli, facciamoli pensare che per loro sarà un gioco da ragazzi, batterci, con la moto che hanno a disposizione…» ci siamo detti.
Di fatto, avevamo cominciato a disegnare una strategia, io, Jeremy e Brivio.
Quindi, in quei giorni, a Phillip Island, la Yamaha ha iniziato a capire come si fa a cercare di vincere: non si deve lavorare bene solo nel reparto corse o in pista, ma anche fuori.
Naturalmente sapevamo che non avremmo potuto nasconderci troppo a lungo. Che sarebbero arrivati i Test Irta, a fine marzo, e subito dopo il Mondiale. Ma non volevamo far capire agli avversari che stavamo crescendo in fretta.
Così, per quasi tutto il periodo dei test invernali, non siamo mai stati i più veloci, a volte perché non eravamo in grado di esserlo, altre perché non cercavamo la prestazione a effetto. Però siamo sempre stati abbastanza vicini alle prestazioni dei piloti migliori. Volevamo comunque dimostrare che non eravamo troppo lontani, che noi eravamo sempre lì.
In Yamaha, a poco a poco, hanno cominciato a comprendere che nulla va lasciato al caso. La gente di Iwata era deficitaria anche in queste cose: nelle astuzie, nelle malizie, nel gioco psicologico. Non capivano che bisogna cercare di sfruttare tutto, per poter sperare di vincere.
Jeremy me lo ha sempre ripetuto, questo concetto, sin da quando ho iniziato a lavorare con lui: «Non siamo obbligati a essere simpatici ai nostri avversari. Noi dobbiamo fare il nostro lavoro: vincere. E non è certo un problema quello che pensano di noi gli altri piloti e le altre squadre».
Ha ragione: se ti va bene restare tra i primi cinque, sorridi e sei simpatico a tutti.
Ma noi non avevamo nessuna intenzione di arrivare nei primi cinque. Per quello che volevamo fare noi, cioè tagliare per primi il traguardo, serviva un altro modo di pensare.
«Dobbiamo smetterla di essere un team gentile, bisogna vincere!» ripetevamo. Ed è stato quello, il nostro slogan. Perché erano andati proprio giù, quelli della Yamaha.
Ma lì hanno imparato una bella lezione, hanno iniziato a cambiare mentalità.
Jeremy ha riportato ordine, trasferendo in Yamaha la mentalità Honda riguardo al metodo di lavoro: ha impedito innanzitutto di intervenire troppo sulla moto.
Ha spiegato subito che si sarebbe andati avanti a piccoli passi, per gradi.
Modificando una cosa solo dopo essersi accertati che effettivamente non andasse bene.
La Honda è troppo esagerata da una parte, perché non ti lascia toccare niente, e a volte quel modo di pensare limita il lavoro della squadra. Ma in Yamaha avevano davvero iniziato a esagerare dall’altra parte. Noi, quindi, abbiamo portato in Yamaha un po’ della filosofia Honda, e quelli della Yamaha ci hanno trasmesso un po’ della loro: abbiamo deciso che ci saremmo posizionati al centro, in mezzo a quelle due forme di estremismo.
Certo, tra le due, è preferibile il metodo Honda. Almeno per le cose importanti: si fa una scelta, poi si rimane fermi. Col nostro arrivo in Yamaha, infatti, anche la M1
ha iniziato ad avere il cannotto saldato…
Ma prima di giungere a quella fase, siamo passati attraverso altri problemi. Alcuni grandi, e soprattutto subdoli. La forcella, ad esempio.
“Ma com’è possibile, freno e poi sento qualcosa che non va”, mi dicevo durante le prime prove del campionato. Senza mai riuscire a trovare una risposta.
“È come se si spostasse il manubrio e la moto scivolasse in avanti” ripetevo tra me e me, e poi ai tecnici. Ma nemmeno loro erano in grado di darmi una risposta.
Ho corso le prime tre gare avvertendo sempre questo problema. Che, in verità, a Welkom non mi è sembrato così grave.
In Sudafrica, non si sa perché, andava tutto bene: quei difetti che abbiamo trovato dopo, là non c’erano. Sicuramente in quel weekend ero ispirato, ma c’erano anche delle ragioni tecniche: quella è una pista in cui l’asfalto è liscio e non ci sono frenate molto violente. E poi, certo, lì mi aveva aiutato il momento di grazia: quel giorno ho potuto fare di tutto… Infatti dopo, cioè a Jerez e a Le Mans, dove sono giunto solo quarto, sono stati guai.
Ma almeno, proprio in Francia, cioè nei test che hanno seguito il gran premio, abbiamo scoperto dove risiedesse il problema: nella forcella. Che, funzionando male, nelle staccate violente finiva per non svolgere il proprio lavoro: a un certo punto comprimeva molto la gomma, così nemmeno il pneumatico riusciva più a svolgere bene il suo lavoro.
Nessuno di noi aveva mai osato pensare che la forcella si bloccasse, e che di conseguenza bloccasse la ruota. Chi poteva immaginarlo?
Ma è anche per quello che siamo andati male a Jerez e a Le Mans, anche se perduravano i problemi di erogazione.
Dopo aver pensato a tutte le situazioni possibili, abbiamo però iniziato a valutare anche scenari che sembravano impossibili. E siamo arrivati alla forcella. Perché prima, cioè durante le gare iniziali, avevamo provato di tutto a livello di regolazioni senza però essere mai riusciti a risolvere il problema.
La Ohlins era rimasta un po’ indietro, rispetto alla Showa, anche perché negli ultimi anni i piloti della Yamaha non avevano mai chiesto delle vere e proprie evoluzioni della forcella. L’intoppo stava nel suo funzionamento, cioè nel sistema idraulico.
Comunque, scoprendo quale fosse il problema di instabilità dell’anteriore in staccata, mi sono messo a lavorare insieme ai tecnici della Ohlins. Che hanno reagito bene. Sono stati molto bravi: hanno iniziato a impegnarsi sempre più, a seguirci, e con le nostre indicazioni hanno progettato una nuova, ottima forcella.
Venivamo comunque da un lungo lavoro, a livello di ciclistica, perché avevo trovato una moto che era totalmente fuori assetto, anche riguardo alle sospensioni; infatti quando le gomme iniziavano a muoversi, per via del calore oppure a causa del deterioramento, la moto diventava inguidabile.
Quando ho ricevuto la M1, nel gennaio del 2004, ho avuto subito la sensazione che le squadre e i piloti che l’avevano gestita prima erano andati in confusione. Andavano avanti per tentativi, senza seguire una logica.
Ecco perché con l’arrivo di Jeremy gli ingegneri della Yamaha hanno anche imparato un nuovo metodo di lavoro: prima erano abituati a intervenire molto sulla moto, la stravolgevano in continuazione, e quando fai così perdi la strada.
Noi venivamo dalla Honda, che addirittura blocca il telaio nella zona del cannotto di sterzo, per impedire che le squadre intervengano sulle geometrie. Loro fanno i calcoli, e quando decidono che la moto va bene non si può toccare più niente. È la mentalità della HRC.
La Yamaha era all’opposto: aveva una ciclistica che permetteva di fare qualsiasi tipo di intervento, quindi in ogni turno si poteva spostare, alzare, abbassare; era possibile lanciarsi in esperimenti di tutti i generi. Prima del nostro arrivo, tecnici e piloti erano abituati, quasi a ogni gara, a riposizionare il motore, cambiare il tiro catena, spostare l’ammortizzatore, cambiare l’inclinazione della forcella. Insomma, facevano un gran casino!
Agivano in grande libertà, e se si mette un telaio così modificabile in mano a gente che non ha le idee chiare e che ha la tendenza a lasciarsi andare, è finita: si va in confusione. Ed era esattamente quello che avevano fatto i piloti e i team Yamaha nel 2003.
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Dicono che sono un ragazzo fortunato. Che mi va sempre bene. Che mi è andata bene, soprattutto, ogni volta in cui ho fatto un passo importante nel corso della mia carriera. Perché, così affermano, ho sempre avuto le migliori moto e le migliori squadre del momento.
Col tempo ci ho fatto l’abitudine, perché hanno iniziato a dire che io sono un privilegiato quando ancora per me andare in moto era solo un gioco, cioè negli anni della Sport Production. Sono abituato a questo. E anche all’invidia.
Ma quando si tocca l’argomento “squadra”, non lascio mai perdere. È troppo importante. La fortuna c’è stata e deve sempre esserci, ma in molti casi devi saperla stimolare facendo le scelte giuste. E io, le scelte giuste, le ho sempre fatte. Ecco perché ho avuto il meglio. Non solo perché sono fortunato, ma anche perché cerco di essere lungimirante: sulle cose ci ragiono, so quello che voglio e cerco di ottenerlo.
Ho sempre indagato per capire quali fossero gli elementi giusti, quindi le persone con le quali poter ottenere certi risultati. Non ci sono mai stati l’imprevisto, la casualità, dietro le mie vittorie. Almeno, quasi mai. Ci sono state soprattutto delle scelte.
Le mie squadre non mi sono capitate, quindi. Le ho sempre scelte, volute, cercate.
Anche da questo punto di vista, credo di aver aperto una nuova strada: sono stato il primo pilota a stabilire che la squadra dev’essere la priorità.
Alla maggior parte degli altri piloti, prima di me, non importava troppo della squadra: non c’era quell’attaccamento tra pilota e team che invece ho creato io.
Quando un pilota cambiava squadra, cambiava lui e basta. Non ha mai portato con sé il proprio team, come ho fatto io alla fine del 2003. Nessuno ha mai creato quel rapporto, quel legame, quella forza del gruppo nella quale io ho sempre creduto.
Quando un pilota firma un contratto con nuove Case, non chiede mai di far spazio anche alla propria squadra. Almeno, non è mai successo. Fino a quando io non ho fatto questa scelta. Destando scalpore.
Perché il pilota tende sempre a dire “basta che siano bravi, poi un gruppo vale l’altro”. Io no. Ho sempre scelto le persone con le quali lavorare. È opinione comune che questo sia uno sport individuale, visto che in pista c’è il pilota, da solo contro gli altri, quindi il risultato finale è nelle sue mani. Ma in realtà anche questo è diventato, con gli anni e con l’evoluzione tecnologica, uno sport di squadra. Se il pilota non ha un gruppo forte alle spalle, può vincere anche qualcosa, ma non può realizzare imprese straordinarie.
Il gruppo conta. È fondamentale motivare la gente che lavora per te, è importante che ci sia calma e armonia, che ognuno sappia cosa deve fare; è molto utile avere un consigliere, uno del quale ti fidi e col quale puoi discutere nei momenti delicati. Io, tutto questo, l’ho sempre cercato.
Sin dall’inizio della mia avventura internazionale, nel 1995.
In quel periodo la squadra ufficiale dell’Aprilia, nella 125, era il Team Italia gestito da Domenico Brigaglia. Io non ho cercato di entrare nella sua squadra, ho voluto invece andare a lavorare con Mauro Noccioli. E con lui ho poi vinto il titolo mondiale nel 1997.
Sarei potuto rimanere con Noccioli, per il passaggio in 250, invece ho scelto la squadra di Rossano Brazzi. E con quel team ho conquistato il titolo nel 1999.
Non ho cambiato sistema, naturalmente, per la 500: ho scelto io la squadra, che in quel caso era il team di Jeremy Burgess. E sono arrivato al titolo della mezzo litro, nel 2001.
La squadra di Jeremy, che era diventata anche la mia, l’ho voluta poi con me in Yamaha. Ed è stato un altro successo.
Quindi avrò pure avuto fortuna, ma penso di essere stato anche lungimirante e coraggioso. Se ho avuto il meglio, è anche perché ho saputo individuare e conquistare il meglio.
Ho imparato subito, sin dagli esordi, l’importanza del gruppo. Quando sono approdato nella squadra di Mauro Noccioli, infatti, ho trovato Mario Martini, che è diventato il mio meccanico. Abbiamo iniziato a lavorare insieme nell’anno dell’Europeo, nel 1995, ed è stato con me fino al titolo mondiale della 125.
Mario Martini è stato il mio primo meccanico, ma soprattutto la persona che ha iniziato a farmi capire l’importanza del rapporto tra il pilota e la squadra. Con lui avevo un rapporto che andava oltre la moto: ci andavo in giro, parlavamo molto, eravamo uniti. È con lui, quindi, che ho iniziato a capire quanto conta avere un legame profondo con i propri meccanici, con la propria squadra.
Dopo quell’esperienza ho sempre fatto di questo rapporto un elemento fondamentale.
Mauro Noccioli, Rossano Brazzi, Jeremy Burgess. Sono tre capitecnici con i quali ho condiviso le vittorie importanti a livello mondiale. Tre persone diverse, con caratteri differenti.
Mauro Noccioli, toscano verace, è stato vicino a me in anni importanti per la mia carriera: con lui ho affrontato le prime esperienze internazionali, nel 1995,1996,1997.
Sempre nella 125. Il primo anno nell’Europeo, poi nel Mondiale.
Giunto alla fine del 1994, ho dovuto pensare al mio futuro. Perché la Sport Production era il punto di partenza: dopo aver vinto in quella categoria bisognava pensare alle moto da corsa vere. Finiva un’epoca, insomma. Iniziavo a fare sul serio.
Proprio alla fine della stagione, si è presentato Carlo Pernat, all’epoca direttore sportivo dell’Aprilia.
«Nel 1995 fai l’Europeo 125; se arrivi nei primi tre, dal 1996 ti garantisco la moto per il Mondiale.» Il Mondiale, naturalmente, era il punto di arrivo anche per me.
Graziano si occupava della mia carriera, mi consigliava nelle scelte. Riteneva quella proposta un’opportunità molto interessante. E lo era, in effetti: Pernat ci ha offerto un contratto di tre anni con l’Aprilia.
Il Team Italia era pronto ad accogliermi, ma io ho chiesto di essere inserito nella squadra in cui Mauro Noccioli era il capotecnico, perché quel team mi dava fiducia; mi sembrava adatto a me.
Ed è stata una scelta giusta. Le mie moto sono sempre andate bene, con la squadra di Noccioli, mentre a volte quelle del Team Italia hanno avuto dei problemi. Alla fine il mio bilancio, con Mauro, è stato più che positivo: ho dominato il campionato italiano, e sono stato terzo nell’Europeo. Non era il risultato che sognavo, ma mi avrebbe garantito il passaggio al Mondiale. Che ho vinto, nel 1997. Cioè alla fine del terzo anno di collaborazione con Noccioli.
Non abbiamo mai litigato, di problemi ne abbiamo avuti pochi. Solo che a un certo punto lui ha iniziato ad avere una filosofia di vita e di corse molto diversa dalla mia.
Naturalmente è emersa col tempo, questa differenza, e comunque non ci ha impedito di centrare il nostro obiettivo: il titolo mondiale.
Abbiamo cominciato ad allontanarci perché lui si comportava in modo un po’
troppo paternalistico, e lo stesso facevano le persone che lavoravano con lui: volevano sempre insegnarmi qualcosa, e questo atteggiamento mi metteva molta pressione.
Noccioli cercava sempre di spiegarmi come guidare, invece secondo me il pilota dev’essere lasciato libero di fare le sue esperienze. Io, almeno sul modo di guidare, volevo essere lasciato libero.
Discutevamo quindi sempre sulla tecnica di guida. Lui in quegli anni si era fissato sul fatto che si dovesse sempre spingere sulle pedane, per tenere la moto ferma, in modo da controllarla meglio. Quando la moto non funzionava bene, magari perché c’era un problema sull’anteriore oppure in accelerazione, lui diceva sempre che non spingevo abbastanza sulle pedane. Può anche essere un sistema utile, ma ti deve venire naturale, altrimenti non è il caso. E a me non veniva naturale guidare così; oltretutto non mi sembrava nemmeno redditizio.
Comunque, non è per questo che ho deciso di approdare in un’altra squadra, quando ho organizzato il mio passaggio alla 250. Con Noccioli, e i ragazzi del team, ho imparato molte cose. Anche perché Mauro è un tecnico estremamente competente, un vero esperto di motori.
Inoltre quello era un team divertente. Siamo stati un gruppo unito, e forte. Ho un bel ricordo di quegli anni.
Il 1997 ha rappresentato un po’ la mia consacrazione, a livello internazionale. E
anche la conclusione della prima parte della mia carriera.
È stato anche il periodo in cui ho deciso di cambiare un po’ il mio look. E l’ho fatto a modo mio, cioè con una serie di follie. Anche se il primo, vero cambiamento è stato determinato da una sorta di fioretto che avevo fatto durante la stagione 1997.
“Se vinco il Mondiale me li taglio” ho deciso un giorno, mentre pensavo ai miei capelli. Che erano, effettivamente,troppo lunghi. Non mi decidevo mai a tagliarli, pur avendone voglia, e così a un certo punto mi sono imposto questa sorta di cabala.
A Mondiale conquistato, ho dovuto rispettare il fioretto. E quando mi sono deciso a tagliarmi i capelli, ho anche stabilito che avrei dovuto esagerare: me li sono fatti dipingere di blu!
Siamo andati dal mio barbiere di fiducia. Eravamo in tre: io, Uccio e Pirro, uno dei ragazzi della tribù. Anche lui aveva i capelli lunghissimi, io gli ho dato coraggio.
Uccio, in verità, non se l’è sentita di colorarli, gli bastavano già corti, invece Pirro se li è anche ossigenati. Non l’hanno presa tutti bene, a casa, questa nostra scelta -
quando Pirro è andato a casa, sua mamma si è messa a piangere - ma è in quel modo che è iniziata la saga dei capelli.
Per noi, cambiare colore era una sorta di rituale. Ed era soprattutto una cosa frequente. Io sperimentavo, a volte, dei tagli piuttosto strani, con colori bizzarri. Ma il top è stato raggiunto quando ho pensato e realizzato quella che resta la mia
“acconciatura” più celebre: è quella che chiamammo “il taglio alla Brazzi”.
Rossano Brazzi era diventato il mio capotecnico dopo il mio passaggio in 250, alla fine del 1997. Quel taglio mi avrebbe reso simile a lui, durante il Gran Premio d’Italia del 1998.
Il taglio alla Brazzi consisteva nel rendersi pelati nella parte alta della testa, mantenendo però i capelli nella parte bassa, tutto intorno.
Per essere sicuro del risultato, avevo portato la foto di Brazzi al mio barbiere.
Giovedì pomeriggio, quando ci siamo visti in circuito, ho tenuto il cappellino per non far vedere i capelli. O, per meglio dire, ciò che ne era rimasto.
Lui non ci aveva fatto caso, quindi è andato tutto bene.
Venerdì mattina, per le prime prove, sono arrivato in ritardo, per non destare sospetti: io ero sempre in ritardo, e lui smaniava moltissimo (infatti in questo non andava molto bene con me…), ma questa volta l’ho fatto di proposito. Brazzi è un tipo ansioso, quando non mi vedeva al box mentre stavano per iniziare le prove cominciava ad agitarsi e a far agitare tutti gli altri.
Comunque, ho aspettato che lui si innervosisse ben bene, prima di farmi vedere al box. Quando mi ha visto arrivare conciato in quel modo, presentandomi cioè con il look “alla Brazzi”, Rossano ha iniziato a ridere. Tutti abbiamo cominciato a ridere. È
stato un tale shock, ma anche una cosa così buffa, che abbiamo rischiato di non disputare le prove…
È stato bellissimo. Uno dei tanti momenti in cui Rossano rideva di gusto, per le sorprese che gli combinavo. E noi con lui, perché la sua squadra è piena di gente simpatica.
Con Brazzi ho avuto un bellissimo rapporto. A volte è difficile andare d’accordo con lui, visto che è un po’ burbero, spigoloso. Ma bisogna saperlo prendere: in realtà è simpaticissimo. Passavamo i fine settimana delle gare in grande allegria, molte volte io e i ragazzi della squadra ci divertivamo proprio a farlo arrabbiare. Perché lui si arrabbia sempre molto, è facilissimo farlo infuriare. Ma alla fine me le perdonava tutte, perché io e lui avevamo un gran rapporto.
Lui è stato il primo a capire il mio potenziale. Quando sbagliavo, il primo anno, il 1998, lui si arrabbiava molto perché pensava che noi avremmo lottato per il titolo sin dall’inizio; io invece la mia prima stagione in 250 l’avevo presa un po’ alla leggera, nel senso che volevo solo imparare divertendomi. Non avevo dei grossi obiettivi. Lui no, pensava che avremmo potuto farcela. In quella stagione 1998 ho commesso molti errori nelle prime gare, uno dei quali è legato a un episodio indimenticabile.
Eravamo in Spagna, a Jarama. Partivo col quarto tempo. In quel periodo non riuscivo a essere veloce come Harada e Capirossi, così in gara prendevo paga regolarmente. E mi arrabbiavo moltissimo. Rossano lo sapeva, che io volevo provarci comunque, quindi prima della gara mi ha preso da parte.
«Ascolta, non c’è niente da fare, qui non vai come loro, è inutile cercare di stare davanti a quei due lì; dammi retta, porta a casa dei punti, non fare cazzate!»
«Va bene» ho risposto io, anche se mi sono subito reso conto di non averlo convinto.
«Mi raccomando, non andargli dietro, stai calmo» si è infatti raccomandato fino al momento in cui non mi ha lasciato solo sulla griglia di partenza.
«Va bene Rossano, vado piano, starò calmo» l’ho rassicurato.
Capirossi è incappato in un “dritto” alla prima curva e io mi sono ritrovato dietro a Harada. Stavo lì, calmo, però improvvisamente ha iniziato a venirmi una gran voglia di attaccarlo. E l’ho fatto. Dopo pochi giri l’ho passato, ma subito dopo essere andato davanti sono caduto.
Ho pensato subito a Brazzi. Il terrore che avevo nel tornare ai box era tale, che ho provato a ripartire e a recuperare. Ma la mia Aprilia era tutta piegata, in capo a qualche giro ho capito che non sarei andato da nessuna parte, e ho dovuto arrendermi.
Non potendo restare in eterno in mezzo alla pista, mi sono rassegnato a rientrare ai box. Da Brazzi. E infatti lui era lì, ad aspettarmi. Era veramente incazzato, aveva una faccia che faceva paura. Al mio arrivo c’era un gran silenzio. Ho cercato di entrare un po’ incurvato, per simulare qualche botta subita, e ho mostrato una faccia sofferente guardandolo con un’espressione molto dimessa.
Dovevo fingermi più triste che potevo. Naturalmente sapevo che non sarebbe servito a niente, ma ci volevo provare.
Mi sono tolto il casco, e appena Rossano mi ha avvicinato ho cercato di organizzare una difesa credibile.
«Mi è partita, non sono riuscito a tenerla, non so perché…» ho farfugliato io.
Lui mi ha guardato e mi ha detto: «In cu’ t’à ne propre capi un cazz!».
L’ha detto in dialetto romagnolo, con una faccia terrificante, con quei baffoni e gli occhi feroci. C’è voluto un po’ perché ricominciasse a parlarmi.
Il fatto è che quell’anno in Aprilia c’era molta tensione. Eravamo tre team: ci si sorrideva, ma volevamo tutti vincere. C’era una grande rivalità non solo tra Capirossi, Harada e me; ma anche tra Noccioli, Sandi e Brazzi, che erano i tre rispettivi capisquadra. E quando io facevo una brutta figura, Rossano si arrabbiava.
Brazzi è un grande conoscitore del motore a due tempi e della sua carburazione.
Mai visto uno così. Era sempre interessante quando controllava la carburazione. Mi piaceva stare a guardare. Nel team si parlava poco, ma c’era un’intesa incredibile: arrivavo con la moto nel box, Paolo toglieva il sottocarena, Carlo stendeva il telo, Brazzi prendeva la sua piccola torcia e verificava la carburazione del cilindro che stava in basso. Era un momento mistico, tutti stavano zitti. Poi Rossano si rialzava, nel silenzio assoluto, e sentenziava: «E magra» oppure «è grassa». Poi diceva che cosa andava fatto.
La mia moto è sempre stata molto veloce e affidabile. I nostri rivali dicevano che noi ricevevamo materiale migliore dal reparto corse, ma non era vero: avevamo Brazzi, che era il più bravo a trovare la messa a punto della moto. Infatti gli altri avevano spesso problemi di carburazione, e a volte hanno grippato per questo. La mia moto è sempre stata perfetta.
La mia prima vittoria in 250, conquistata ad Assen, in Olanda, è stata in realtà anche merito di Brazzi.
Perché da Noale era arrivata una marmitta nuova. La moto andava effettivamente un po’ meglio, ma Brazzi mi ha detto: «Noi per la gara non la mettiamo».
«Perché?» ho chiesto.
«Secondo me “smagrisce”, così quando il motore si scalda si rompe» mi ha spiegato.
L’ho ascoltato, e mi sono lasciato convincere: non ho montato, infatti, la marmitta nuova. Le altre due Aprilia, quelle di Loris e Harada, si sono invece presentate al via con quella novità. E in gara si sono rotte, entrambe. La mia no, così ho vinto.
Avevo visto giusto, quindi, nello scegliere Brazzi e la sua squadra. Quando in Aprilia hanno iniziato a pensare di trasferirmi in 250, hanno pensato che sarei rimasto con Noccioli. Ma alla fine di quella stagione ‘97, io presi una decisione diversa.
Avevo individuato in Rossano Brazzi il tecnico che avrebbe potuto farmi fare un altro salto di qualità. Dopo essere cresciuto molto con Noccioli e Martini negli anni della 125, sapevo che avrei dovuto progredire ancora. E secondo me Brazzi era il tecnico giusto per riuscirci; per progredire come pilota, attraverso la 250. Brazzi mi dava molta fiducia: per la sua esperienza e per il suo gruppo di collaboratori.
Non so perché mi ero intestardito con lui, forse perché io da piccolo ero un tifoso di Loris Reggiani e Brazzi era stato il suo capotecnico. Comunque, per me era mitico.
In quel periodo lui aveva appena concluso la sua esperienza in 500 con Doriano Romboni (altro pilota che mi piaceva molto) e si apprestava a tornare in 250.
«È tutto a posto, Brazzi seguirà Capirossi, tu passerai in 250 con Noccioli» disse Pernat, durante una riunione.
«Ho altre idee per il mio futuro» replicai io.
«Quali idee?» mi chiese Pernat.
«Voglio Brazzi!» sentenziai.
Allora ha chiesto a Capirossi che cosa ne pensasse, e Loris ha risposto che per lui Brazzi o Noccioli non avrebbe fatto una grande differenza.
“Benissimo, così con Brazzi ci vado io” ho pensato.
Sono riuscito quindi a raggiungere il mio secondo obiettivo. Dopo aver scelto Noccioli per il debutto nel Mondiale 125.
Durante la stagione 1999 mi sono trovato di fronte a un’altra scelta: restare in 250 o passare in 500 con la Honda. E anche in questo caso ho fatto valere le mie idee, in materia di squadre. Infatti sono stato chiaro subito, sin dal primo contatto.
«Per la moto va bene quella che mi date: anche se non è esattamente quella ufficiale mi sta bene lo stesso; ma io voglio Jeremy Burgess al mio fianco» ho detto agli emissari della Honda, venuti a Rio de Janeiro per offrirmi una NSR.
Ho lottato per avere Jeremy, l’ho scelto e l’ho imposto come condizione.
Jeremy Burgess l’avevo conosciuto a Phillip Island, sempre in quella stagione 1999, e mi aveva subito fatto una grandissima impressione. Ho capito immediatamente che con lui, vista l’esperienza che aveva, il mio debutto nella 500
sarebbe stato meno traumatico.
Poiché avevo posto Jeremy come priorità, venne organizzato un incontro segreto nel box di Phillip Island.
Jeremy aveva praticamente smesso di seguire le gare. Si faceva vedere solamente di tanto in tanto, perché a inizio stagione c’era stato il brutto incidente di Doohan, a Jerez, che di fatto mise poi fine alla sua carriera. La squadra di Burgess era stata un po’ smembrata; i meccanici di Mick si erano divisi per dare una mano agli altri team Honda.
Jeremy, che non voleva fare il capotecnico di Gibernau, preferì restare a casa.
Ma in Australia, nella gara di casa, era venuto. Gli avevano detto che io volevo lui, gli hanno spiegato che la HRC avrebbe potuto organizzare un meeting proprio a Phillip Island, e lui aveva accettato.
L’incontro è stato organizzato sabato sera, alla vigilia della gara, perché il paddock sarebbe stato vuoto e non avremmo dato nell’occhio. Oltre a Jeremy, c’erano anche Alex e Dickie. Solo loro tre. Io sono arrivato con Carlo Florenzano.
Appena entrato, ho puntato subito gli occhi verso la NSR ufficiale. E ho immediatamente chiesto di salirci sopra.
Quando mi è stato detto sì, non me lo sono fatto ripetere due volte. Era quella di Gibernau. Le altre erano tutte coperte, avevano tenuto quella per permettermi di avere un primo contatto.
Sono stato subito conquistato dal fascino di quella moto, anche se ci sono rimasto sopra soltanto per qualche minuto.
«Guarda, è giusto che ti dica che sto pensando di smettere del tutto» mi ha detto Jeremy.
«Mi resterebbe ancora un po’ di voglia, in effetti, però devo ancora decidere che cosa fare.»
“Come, vuoi smettere?!” ho pensato io. Ero arrivato a lui, stavo già fantasticando, e lui mi diceva che stava considerando l’idea di lasciare le corse.
«Mi serve un po’ di tempo per riflettere» mi ha detto, e io non ho potuto fare altro che prenderne atto.
In ogni caso, Jeremy mi aveva trasmesso una sensazione di tranquillità, di calma, di serenità, che ho apprezzato subito molto.
«Va bene, aspetteremo» ho replicato.
«Però il mio ok è subordinato a quello di Jeremy: attendiamo la sua risposta e poi vedremo» ho aggiunto, guardando i presenti e naturalmente anche lui.
E siamo rimasti tutti in attesa.
La trattativa con la Honda, in realtà, era già iniziata da tempo. Alla fine dell’estate avevano mandato Carlo Florenzano.
«Se sei interessato alla 500, la Honda ha qualcosa da proporti: c’è la possibilità infatti di arrivare alla 500 ufficiale» mi aveva detto.
Un ragazzino sogna la 500, e a volte non osa neppure sognarla, quindi l’idea mi piaceva. Mi sono mostrato subito interessato, anche se ho preso tempo.
Nel fine settimana del GP Imola è avvenuto poi il primo incontro con i giapponesi.
«Non ho fretta, adesso penso solo a vincere il Mondiale della 250; prima di quel giorno non decido niente» ho messo subito in chiaro.
«Va bene, ma ricordati che non ti possiamo aspettare troppo» avevano replicato loro, quasi offesi.
«Certo, ma se la 250 non la vinco adesso, poi non la vinco più; invece per la 500
c’è tempo» ho spiegato, giustificando il mio atteggiamento.
Avevo 19 anni, quindi tutto il tempo che volevo. Ecco perché, così come alla fine del 1996 avevo deciso che non sarei andato in 250 senza aver prima vinto il titolo della 125, alla fine del 1999 non avevo alcuna intenzione di pensare alla 500 senza aver prima conquistato quello della 250.
Poi l’ho vinto, il titolo, ed è stato tutto più facile. Ma non sarei tornato sulla mia decisione: sarei rimasto nella 250 fino al raggiungimento del mio obiettivo.
Quindi, l’ultima parte del Mondiale 1999 l’ho vissuta con le sirene della 500, anche se poi alla fine quelli della Honda mi hanno aspettato. Hanno capito la situazione. E
la sera del GP Rio, in Brasile, dove avevo vinto il titolo, ho incontrato di nuovo Florenzano, che faceva da tramite con la Honda. E questa volta avevo la mente sgombra per pensare al futuro.
Quando poi sono salito sulla NSR, nel box di Phillip Island, ho provato immediatamente una grande sensazione e ho capito che la mia carriera sarebbe effettivamente proseguita verso la 500.
Dopo due stagioni in 250 con l’Aprilia e il team di Brazzi, vicecampione al debutto, campione del mondo l’anno seguente, stavo per raggiungere l’apice, il punto di approdo di ogni pilota. Dopo solo quattro stagioni di campionato mondiale. E a sei anni dal mio debutto in una gara di moto, avvenuto con una Cagiva 125 nel campionato italiano Sport Production.
Certo, bisognava ancora aspettare la decisione di Jeremy Burgess. Fortunatamente non è stata un’attesa lunga: Jeremy ha ripescato quella residua voglia di corse che gli era rimasta, trovando la motivazione proprio nel fatto di poter iniziare una nuova avventura con me. La cosa lo stuzzicava, ecco perché alla fine ha detto sì.
E, insieme, abbiamo poi formato quel gruppo che sono riuscito a portarmi dietro addirittura in Yamaha.
Un mese dopo, in novembre, ho iniziato a lavorare con lui e con la sua squadra.
Negli anni della 500 la Honda NSR rappresentava un punto di arrivo. Il sogno di una intera carriera. Io avevo 20 anni, quando sono arrivato a quel punto. Quando ho realizzato quel sogno. Era il novembre del 1999. Avevo appena vinto il campionato del mondo della 250, il mio secondo titolo mondiale dopo quello della 125
conquistato nel 1997. E avevo di fatto messo fine alla mia avventura con l’Aprilia.
Non è stato semplice prendere la decisione di lasciare così presto la 250. Era stato un percorso lungo. Ho iniziato a pensarci nella seconda parte di quella stagione ‘99, mentre stavo viaggiando verso il titolo. Iniziai a guardare un po’ più avanti, al futuro.
Che in quel periodo, per un pilota che stava per diventare campione del mondo della 250, significava il passaggio alla 500. Così come oggi significa il salto nella MotoGP.
Ho riflettuto lungamente, prima di decidermi, perché avevo solo 20 anni. Avrei potuto insomma difendere il mio titolo, guadagnare molto più denaro e correre un 2000 piuttosto tranquillo. Ma io sono curioso, cerco sempre nuovi stimoli, quindi avevo anche una gran voglia di esplorare altri orizzonti; in più non capita tutti gli anni di ricevere l’offerta per guidare la Honda 500. Addirittura, la NSR 500 ufficiale.
Mi sentivo onorato per il fatto che la Honda avesse scelto me, che avesse inoltre acconsentito ad affidarmi la moto ufficiale attraverso una squadra allestita in Italia, quindi non il Team HRC Repsol. Insomma, avevo ottenuto tutto: la moto ufficiale, e soprattutto la presenza di Jeremy Burgess come capotecnico della squadra.
Con Ivano Beggio, il presidente dell’Aprilia, mi ero lasciato bene. Mi diede il permesso di provare subito la NSR 500, senza aspettare l’inizio del 2000. Senza obbligarmi a onorare il contratto, che scadeva il 31 dicembre.
E io non me lo sono fatto ripetere due volte.
Quando mi sono presentato a Jerez de la Frontera, in Andalusia, nel sud della Spagna, praticamente di fronte alle coste dell’Africa, ero tutto eccitato.
Il momento in cui un giovane pilota aveva la possibilità di provare una 500 era già importante, ma salire sulla Honda NSR era qualcosa di incredibile. Io, infatti, non stavo più nella pelle.
Oggi la 500 non c’è più, e con essa sono spariti sicuramente tanti problemi, ma anche una marea di emozioni. Perché nessuna moto al mondo ha il fascino di una 500
due tempi, quel carattere così violento che ti trasmetteva scariche di adrenalina a ogni cambio marcia. Io, poi, ho sempre seguito con molta attenzione quella classe.
Innanzitutto perché era un punto di arrivo anche per me, e poi perché quello era il terreno sul quale si confrontavano i grandi campioni.
Il mio debutto, a Jerez, alla fine del 1999, è avvenuto con una delle moto con cui Alex Criville aveva conquistato il titolo mondiale. Era quindi una versione identica a quella che usava Mick Doohan, ritiratosi da poco dalle competizioni.
Quella NSR era dotata dell’evoluzione del quattro cilindri che veniva definito
“screamer”. La NSR che guidai invece nel 2001, l’anno in cui vinsi il Mondiale, era un po’ diversa rispetto a quella di Doohan.
Mi ero immaginato il mio debutto su una Honda 500 ufficiale come una sorta di iniziazione che avviene attraverso una cerimonia di grande importanza e suggestione.
Ti aspetti, e io me lo aspettavo, di arrivare a Jerez e trovare uno scenario da favola.
Immagini, e io lo immaginavo, di fare parte di un evento grandioso, curato nei minimi dettagli.
“All’arrivo vedrò i camion della Honda, la moto che sarà bellissima, lucida, curatissima; entrerò in un’organizzazione impeccabile, con gli ingegneri giapponesi che gireranno attorno a me, i meccanici con i guanti bianchi mi assisteranno in ogni mia esigenza.”
Bene, non è andata esattamente così.
Sono entrato in un paddock semideserto, mi sono guardato intorno e ho visto arrivare un furgone verde dell’Europcar: sui sedili c’erano Jeremy, Bernard (un meccanico del Team HRC) e, in mezzo a loro, un meccanico giapponese.
Jeremy non aveva badato ai formalismi: aveva ai piedi delle scarpe tipo le Timberland dei paninari milanesi degli anni Ottanta, e soprattutto un maglione orrendo, di lana scura con rettangoli disegnati nella parte bassa. Maglioni così, pensai subito, non se ne vedono più!
Insomma, il grande e leggendario Jeremy Burgess mi apparve come un uomo fuori dal suo tempo.
Sono rimasto lì, a guardare lui e i suoi pochi collaboratori mentre scendevano dal furgone a noleggio, e soprattutto mentre aprivano il portellone per scaricare la NSR.
Proprio perché Jeremy e quelli della Honda non si erano voluti far mancare nulla, avevano anche preso una cassetta degli attrezzi. E poi basta, finito. Era come se dovessimo andare a fare una scampagnata con una moto del concessionario.
A proposito: la NSR era nera, con i cerchi color arancio e il serbatoio grigio; le carene non avevano nulla. L’insieme era davvero poco curato.
“Ma come, questa è la moto più importante del mondo, la provo per conto della più potente Casa del mondo, col capotecnico numero uno, e questi fanno scendere da un furgone a noleggio verde una roba conciata in questo modo?!” mi sono chiesto immediatamente. Ero allibito. Non potevo crederci.
“E poi loro, ma guarda come sono conciati…” mi ripetevo, quasi scandalizzato.
Ci sono rimasto malissimo. Anche perché io sono sempre stato preciso e inflessibile, su queste cose: la mia moto dev’essere ordinata, nessun adesivo nel posto sbagliato, i colori delle varie componenti devono essere sempre coordinati e intonarsi all’insieme, i cerchi non devono essere segnati né sporchi, l’impatto visivo deve conquistare subito chi guarda. Sono fatto così con tutte le mie cose, figuriamoci con l’oggetto che amo di più: la mia moto da corsa.
Quindi, sarà per questa mania, fatto sta che sono rimasto sbalordito, attonito, incredulo. Mi veniva persino da ridere nel vedere quel furgone a noleggio verde, Jeremy che era vestito in modo orrendo, un solo meccanico giapponese in giro, quella cassetta degli attrezzi per terra, quella NSR che sembrava proprio lasciata andare. Non riuscivo a smettere di pensare: “E questa sarebbe la massima espressione del motociclismo?!”.
Non è finita qui, comunque. Il quadro l’ho completato io.
Per questo evento, proprio per via della mia mania per i particolari, avevo preparato due tute che avevo fatto fare appositamente dalla Dainese. Le aveva disegnate Aldo Drudi: erano gialle, con la scritta Honda e un disegno di una Fiat 500; era il mio modo per rimarcare che si trattava della prima volta che guidavo una 500.
“Almeno sarò bello io” ho pensato vedendo la moto e quelli del team.
Mentre riflettevo su questa cosa, sono andato a prendere la mia borsa; ho estratto la tuta e Gibo mi ha fatto una domanda che subito mi è sembrata strana:
«Ma non hai la tuta Aprilia?».
«No.»
«Guarda che tu non la puoi mica usare quella tuta lì.»
«Che cosa?!»
«Non rientra negli accordi con l’Aprilia. Ti lasciano usare la Honda ma devi utilizzare la tuta con i marchi degli sponsor Aprilia sino alla fine dell’anno.»
Ed era vero. Purtroppo, aveva ragione. Il fatto è che Gibo non me lo aveva detto.
Credeva di averlo fatto, ma non l’aveva fatto. Il panico mi ha avvolto all’improvviso.
“Non posso rinunciare a girare sulla NSR per una cosa così” ho pensato, mentre cercavo un’idea. Ho indetto una riunione, col mio clan.
«E adesso, cosa cazzo facciamo?» ho chiesto subito, invitando i presenti a farsi venire un’idea. Dopo qualche momento di riflessione, di intensa ricerca, l’idea mi è venuta.
«Ci vuole un amico che vada a prendermi la tuta, e che me la porti qui!» ho esclamato.
Ho telefonato a un mio amico di Pesaro, Filippo Palazzi, che era già venuto con me al debutto con la 250, sempre lì, a Jerez, due anni prima.
«Puoi andare a recuperare la tuta a casa mia, e poi prendere l’aereo per essere qui stasera?» gli ho chiesto, senza tanti preamboli.
«Dai, è anche una bella scusa per convincere tua moglie che non ti voleva lasciare venire…» ho aggiunto, per essere più convincente.
Lui ha capito il dramma e ha colto effettivamente l’occasione al volo: ha spiegato alla moglie che non poteva tirarsi indietro, perché eravamo alle prese con un dramma, è andato a casa mia a prendere la tuta e poi all’aeroporto. Ha preso l’aereo per Jerez: sarebbe arrivato quella stessa sera.
Ma quella era la soluzione per il secondo giorno di test. Adesso avrei dovuto pensare a cosa fare per il primo giorno, quello del debutto assoluto.
Dato che, contemporaneamente, anche l’Aprilia aveva organizzato dei test, sono andato da Marcellino Lucchi e gli ho chiesto una sua tuta. Marcellino è stato gentile e comprensivo: non ho dovuto convincerlo, mi ha subito accontentato. Ma lui è più basso di me, dentro la sua tuta non è che stessi proprio a mio agio.
“Sempre meglio che restare al box” ho pensato, quindi ho preso la sua tuta, l’ho portata nel mio box e mi sono messo a cercare la borsa per recuperare il casco. Che non c’era. Scomparso! Rubato, in realtà. Me l’avevano fregato all’aeroporto di Milano.
Sulla mia faccia e su quella degli altri sono apparsi delusione e sconforto. Jeremy non ha detto niente, forse perché ci stavo già pensando io a offendermi da solo. Loro erano arrivati lì come barboni, ma non è che io fossi messo poi tanto meglio.
“Che bel debutto, che giornata di merda!” ho pensato, mentre stavo per cedere alla disperazione.
Ero ormai in preda alla depressione, quando mi è venuta l’idea che ha salvato il mio debutto. Mi sono ricordato che io e Harada, una volta, ci eravamo scambiati i caschi; approfittando del fatto che anche lui si trovava a Jerez per svolgere dei test, sono andato subito a chiedergli di restituirmi il mio casco, almeno per quella giornata.
Ed ecco perché di quel giorno, cioè del mio debutto sulla Honda NSR 500 ufficiale, ci sono foto che mi ritraggono in condizioni pietose.
Il grande evento, cioè l’esordio con la moto e con la squadra che ha contribuito a fare la storia della classe 500, e che ha dato poi un impulso determinante alla mia carriera, si può riassumere così: con il maglione orrendo di Jeremy, una moto che non si poteva guardare, e io che ero messo anche peggio della moto; avevo una tuta, in cui non stavo neanche dentro bene, col nastro adesivo che copriva il nome del suo proprietario (Lucchi) e il mio casco, che però non era più mio perché lo avevo regalato a Harada.
Ma la moto funzionava bene, ed ero comunque in grado di guidare. Una volta in sella, non ho avuto molto tempo per preoccuparmi di come eravamo ridotti.Con la 500 è meglio che pensi solo a guidare, e me ne accorsi subito.
Dei primi chilometri sulla NSR 500 ricordo l’adrenalina, la violenza dei cambi di marcia, soprattutto in quelle basse.
Credevo di essermi preparato, guardando i piloti in televisione oppure da bordo pista, ma non ci si prepara mai abbastanza alla 500. Va più del doppio di una 250, ed è soprattutto una moto molto rabbiosa. Incute terrore e pretende rispetto.
In televisione vedevo sempre che i piloti della 500 dopo essere usciti dalla curva non andavano mai veramente dritti: si spostavano molto, a destra e a sinistra, e non capivo perché. L’ho scoperto lì, a Jerez. Con una 500 non si poteva uscire dalla curva e aprire il gas, così, come si fa con un’altra moto: la 500 non stava mai per terra con la ruota anteriore, e con la posteriore scalciava continuamente. Ho capito, quindi, che bisognava cercare di mantenerla inclinata, per impedirle di alzarsi troppo; ecco perché era obbligatorio usare quelle traiettorie così strane. Ho realizzato insomma che tenere la moto piegata era l’unico modo per farla andare dritta.
Sono andato subito forte. Il secondo giorno - nel quale avevo indossato una delle mie tute che avevo usato nel Mondiale 250 - ero già in grado di girare su tempi importanti: cioè quelli della pole del gran premio, 1‘43”5.
Io sono sempre stato così, nei debutti. Ho sempre provato ad andare forte fin dall’inizio, perché mi sento di poter portare la moto al limite in breve tempo. Mi è successo anche con la 250. Sono andato forte subito, ma poi ho anche cominciato a cadere; pensavo di avere tutto sotto controllo, andavo al mio limite, ed ero a rischio.
Con la 250, quel periodo è durato anche di più, rispetto alla 500. Forse perché le cadute con la 500 non te le dimentichi. Le botte che prendi ti restano dentro, anche se poi i dolori - quasi sempre - passano.
La 500 aveva una tale erogazione che se ruotavi la manopola del gas troppo in fretta non avevi nessun margine di recupero: non ti perdonava, volavi via! E spesso incappavi nella caduta che ti fa male, quella causata dall’accelerazione, quando la ruota posteriore scivola e poi riprende aderenza all’improvviso: la moto ti lancia in aria come se fossi spinto da una fionda. Nel gergo tecnico, si chiama “high side”.
La NSR 500 è la moto più emozionante su cui sia mai salito. Una moto estremamente selettiva, la più difficile da guidare; al minimo errore cadevi, non c’era niente che tu potessi fare. Ecco perché dico che era adatta a pochi piloti.
La 500 completava l’apprendimento di un pilota. E non perdonava: o la guidavi come ti imponeva lei, o finivi per terra. E botta su botta, perdevi la confidenza.
Io cadevo per svariati motivi: diciamo che li ho provati tutti, i modi di cadere…
Molte delle mie cadute le facevo perché perdevo l’anteriore, si chiudeva lo sterzo.
Perché,portandomi dietro la guida del pilota della 250, entravo in curva molto forte e molto piegato, un’abitudine presa nella quarto di litro, dove puoi aprire il gas perfino mentre sei in piega. Va bene, diciamo che bisogna farlo con moderazione… Con la 500, devi dimenticarti questo modo di guidare. Ma ci vuole tempo.
Il problema, infatti, è che la 500 all’inizio ti dà subito confidenza. È successo anche a me. Infatti me la sono presa, la confidenza… Ero sempre più sicuro di me, spingevo,ma sempre adottando uno stile da 250. Così cadevo.
Sono finito a terra già nel mio secondo test, in Australia, dove ho dato una botta mostruosa. Ero a Phillip Island. Gibernau mi ha avvicinato e mi ha detto: «Stai attento, perché tu pieghi molto la moto, la tieni piegata come fosse una 250, e non ti butti molto fuori; invece questa moto va guidata buttandosi fuori di più col corpo».
«Grazie, va bene, lo farò» ho risposto io. Poi ho pensato: “Ma chi è questo Gibernau?”. Infine, ho commentato: «Ci penso io, non ti preoccupare…».
Due ore dopo, mentre andavo forte, ho sentito la moto perdere aderenza nel posteriore e poi mi sono sentito lanciare in aria. Ho fatto un volo incredibile; quando ho toccato terra ho dato una di quelle botte che non mi sono più dimenticato!
Eppure, nemmeno episodi come questo mi sono bastati per imparare la lezione.
Nel GP Sudafrica sono caduto di nuovo. Mi si è chiuso lo sterzo, ho perso aderenza sull’anteriore.
In Malesia andavo ancora più forte, e sono volato a terra: ho perso l’anteriore, naturalmente.
E, a quel punto, ho avuto i primi dubbi. Ho riflettuto su quello che era successo, mi sono chiesto dove stessi sbagliando.
“Adesso bisogna che cambi stile davvero…” mi sono detto. Era proprio ora, in effetti.
Non avevo ancora capito bene come si deve entrare in curva. Era quello il problema maggiore. Al di là del pericolo di “high side”.
Con la 500 devi arrivare molto forte, frenare il più possibile dentro la curva. Con la 250, invece, devi farlo con un po’ di anticipo: una volta in curva è molto importante la velocità di percorrenza, perché non hai tanto motore, con la 250, quindi devi avere una percorrenza regolare in modo che tu possa mantenere una buona velocità in uscita. La percorrenza di curva, quindi, è molto importante per essere poi veloce nel rettilineo successivo.
La 500, invece, non si guida così: perché pesa 130 chili, e se resta piegata a lungo, sulla ruota anteriore, è molto probabile che lo sterzo si chiuda. E facilissimo perdere l’anteriore.
La 500 è decisamente più stabile quando freni: se lo fai con forza l’anteriore tiene, ma se molli i freni e sei molto piegato, allora l’anteriore si alleggerisce e perdi aderenza. Quindi in curva devi arrivare con maggiore decisione, rallentare nella parte centrale, e poi raddrizzare e ripartire: perché tanto col motore che hai non ci sono problemi a trovare la velocità di uscita. C’è però un attimo in cui devi stare attentissimo: quando vai dentro la curva c’è un istante in cui non hai il carico, e se lì la moto non è in trazione ti molla. E cadi.
È per questo che devi curvare il prima possibile, cercare di tirare su la moto per mettere a terra la maggior superficie di gomma possibile; perché così, se la moto scivola, almeno la controlli. Perché, con la 500, c’era un altro problema. Se sei in piega e dai gas con troppa foga, lei reagisce con violenza e ti lancia in aria.
Comunque ci vuole tempo per capirla, serve un’enorme sensibilità. Anche io ci ho messo un po’. Ma anche quando arrivavi a capirla, la 500 non ti permetteva di darle troppa confidenza. Dovevi stare sempre attentissimo.
Io, a suon di cadute, ho impiegato praticamente tutto il primo anno per comprendere quella moto e modificare di conseguenza il mio modo di guidare.
Andavo forte, su questo non avevo problemi. Infatti nel primo anno, cioè nel campionato 2000, sono salito sul podio dieci volte. Solo che per quattro volte sono finito a terra; per eccesso di confidenza. Una di queste cadute è avvenuta al Mugello, al culmine di una battaglia epica con Biaggi e Capirossi. Ci siamo giocati la vittoria in tre, eravamo talmente al limite che alla fine al traguardo è arrivato indenne solo Capirossi, che ha vinto. È caduto infatti anche Biaggi.
La svolta è avvenuta dopo la gara di Valencia: ero rimasto l’unico a poter ancora impensierire Roberts, anche se lui in realtà aveva molto vantaggio. Ma in quella gara sono caduto di nuovo. E sempre per lo stesso motivo: perdendo l’anteriore.
A Rio, però, sono riuscito finalmente a guidare con uno stile diverso. Ce l’avevo fatta, insomma. Ma ci ho messo quasi un anno.
Comunque, non è che da lì in poi sia sempre stato esente dalle cadute; nemmeno durante la stagione 2001, nella quale ho vinto il titolo mondiale.
Le MotoGP si possono guidare in varie maniere, ognuno può avere il suo stile.
Soprattutto, le quattro tempi ti perdonano moltissimo perché riesci a controllare molto meglio l’erogazione in accelerazione.
Un po’ per il motore a quattro tempi, un po’ per l’elettronica che aiuta molto, la MotoGP è molto più amichevole. E più facile, della 500. Si cade meno, in generale, perché è più agevole gestire l’erogazione della potenza. E anche la frenata. Con le MotoGP si cade spesso in scivolata, e la caduta determinata dalla perdita dell’anteriore è sempre meno cruenta: è meno frequente che la moto schizzi via da dietro, insomma. Può capitare, ovviamente, ma è una cosa abbastanza inusuale proprio perché con la MotoGP è più facile gestire l’accelerazione.
Non voglio dire che la MotoGP sia per tutti, o addirittura che si possa usare come una moto stradale. Ma è una moto più facile, rispetto alla 500. Per questo, nella MotoGP, c’è meno selezione.
Diciamo che un maggior numero di piloti può arrivare a sfruttare il novantacinque per cento del potenziale di una MotoGP; con la 500, invece, la stessa media di piloti non sfruttava che il settantacinque per cento del potenziale di quella moto.
Ecco perché adesso in gara siamo tutti più vicini.
Ma con questo, non bisogna nemmeno pensare che la MotoGP sia un mezzo con cui andare in vacanza. O che la si possa usare in giro per le strade della città.
Anche se l’erogazione è più dolce, la MotoGP va davvero molto, molto forte.
Soprattutto, è molto complicata nella messa a punto.
Ecco poi perché, alla fine, anche con la MotoGP sono pochi i piloti che riescono a disporre anche del restante cinque per cento…
10
Sulla parte sinistra del mio corpo, nella zona del basso ventre, proprio sopra la cintura, ho un tatuaggio particolarmente significativo. Riproduce una tartaruga antistress che mi ha regalato Uccio.
Erano i primi anni della 250; all’inizio le cose non andavano benissimo, e io ero un po’ nervoso. «Sei stressato, usa un po’ questa» mi ha detto Uccio, regalandomi una tartaruga costruita con quel materiale morbidissimo che puoi schiacciarlo e torturarlo a tuo piacimento, sfogandoti, perché tanto poi torna subito nella sua forma originale.
Drudi l’ha trasformata in disegno, poi è diventata un tatuaggio.
Di questo animale così lento io non posso fare a meno ogni volta in cui devo andare forte. Quindi ogni volta che vado in pista. Strano, vero?
Qualche tempo dopo, infatti, una tartaruga particolare è diventata il mio portafortuna: si tratta, questa volta, di una tartaruga Ninja.
È sempre con me, alle gare. Me l’ha regalata mia mamma quando avevo 11 anni, a una settimana dalla mia prima gara in minimoto.
Ma è arrivata per caso, quella tartaruga. Non è che io sia sempre stato attratto da questi animali. Però, a un certo punto, mi sono affezionato a quella che mi ha preso mia mamma. Lì, di fatto, è nato il mio amore non solo per quelle Ninja, ma per la tartaruga in generale. Ecco perché me la sono poi fatta tatuare.
La tartaruga Ninja me l’ha regalata Stefania, appunto. Ma non perché di lì a poco sarei andato a correre con le minimoto. E stato un episodio casuale.
Mia mamma era riuscita a catturarmi, e mi aveva portato con lei a fare la spesa.
Eravamo al Conad di Pesaro: lì ho scoperto quella tartaruga. Mi è piaciuta subito, quindi ho iniziato a insistere per averla e alla fine lei me l’ha comprata.
È stata una delle solite scene tra madre e figlio.
«Dai, mamma, compramela.»
«No, non te la compro!»
«Dai, mi piace tanto.»
«Lasciala lì!»
«Ti prego, prendimela.»
«E va bene, basta che fai il bravo!»
Ecco, andò più o meno così.
Dopo qualche giorno ho corso la mia prima gara con le minimoto, ma non avevo con me quella tartaruga. Solo dopo qualche tempo ho deciso di attaccarla al casco.
L’idea l’avevo copiata da un altro ragazzino che teneva un pupazzino sul casco. La mia tartaruga Ninja aveva le ventose, quindi l’ho appiccicata senza problemi.
Ha corso con me, intendo dire proprio insieme a me, cioè attaccata al mio casco, finché non ho avuto 13 anni. Poi non potevo più portarla, con le moto vere, così ho tagliato le ventose e l’ho tolta dal casco; ma ho deciso che non mi avrebbe lasciato comunque.
«Verrai sempre con me alle corse» sentenziai. E così ho fatto: la mia tartaruga Ninja, proprio quella tartaruga lì, è sempre tra i miei effetti personali quando vado a correre.
Porto una tartaruga anche sul mio casco, sempre sul lato sinistro, praticamente a fianco della scritta incollata sulla parte alta della visiera: “tribù dei chihuahua”.
È il nome della compagnia dei miei amici, i ragazzi che conosco da sempre. Li frequento sin da quando ero piccolino.
La maggioranza è di Tavullia, gli altri abitano comunque molto vicino.
Siamo stati sempre insieme: prima all’asilo, poi alle elementari “Vittorio Giunta”.
Con alcuni di loro sono stato sempre nella stessa classe, altri sono entrati dopo nella tribù. Quando abbiamo iniziato le scuole medie, però, ho dovuto staccarmi dal gruppo. Sono andato a Pian del Bruscolo, vicino a Montecchio, perché nella scuola in cui sono andati i miei amici insegnavano solo il francese. Graziano voleva invece che io frequentassi i corsi di inglese.
Ero molto dispiaciuto, primo perché ero costretto ad andare in una scuola e in un paese in cui non conoscevo nessuno, e poi perché avevo dovuto lasciare i miei amici.
Ero un po’ disperato, insomma, all’inizio. Ma restavamo divisi solo per poche ore, la mattina, e subito dopo eravamo di nuovo insieme.
Quelli erano, e sono ancora, i miei amici. Ma della tribù non fanno parte tutti i miei amici. Solo quel gruppo che ho conosciuto da piccolino, cioè i ragazzi con i quali sono cresciuto. Ho tanti altri amici, di età differenti, e ad alcuni di loro voglio bene come a quelli della tribù, ma la tribù è qualcosa di unico.
Con loro non mi sento, e non sono obbligato a sentirmi, un personaggio: non sono un campione e tanto meno una star. Quando torno a Tavullia ritrovo l’intimità, ricomincio a essere Valentino e basta, posso parlare come i ragazzi della mia età, non devo essere un esempio per gli altri. Posso vivere come una persona normale. Ed è questa, ormai, la cosa che mi manca di più.
Solo con i miei amici riesco a essere considerato un ragazzo come tutti gli altri.
Con loro posso discutere di tutto, senza il timore che le mie parole possano venire divulgate o, peggio, strumentalizzate. Naturalmente parlo spesso di moto e di corse, ma lo faccio perché voglio raccontare io degli episodi, oppure delle cose che direi solo ai miei amici fraterni. Come sono loro.
Ci siamo sempre sentiti una tribù, ma il nome ce lo siamo dati soltanto nel 1998, quando la maggior parte di noi aveva 19 anni.
Uccio, Pirro, Caroni, Nello, Bagaro, Mambo, i Fuligna, Gabba, Cico, Secco, Tia, Musto, Biscia, Lele, Filo, Yuri, Pane, La matta (come la carta…), Spugna, Sburo; Pedro, Gabbia e Piwi (che sono un po’ più grandi). E, naturalmente, ci sono io.
Eccola, la tribù.
Un giorno, mentre eravamo a casa da Mambo, a Cattolica, soli e quindi liberi di esagerare con castagne e vino rosso, uno se ne è uscito con questa frase: «Noi siamo come una tribù».
Era proprio così che ci sentivamo. Per questo scegliemmo il nome di una tribù di indiani: la “tribù dei chihuahua”. E io ho deciso che quel nome l’avrei portato con me anche alle corse.
Negli anni della 125 avevo la scritta “cosmico!”, e con quella ho vinto il Mondiale nel 1997. Poi, nel primo anno della 250, il 1998, avevo incollato l’adesivo “vietato parlare al conducente”, uguale al cartello sistemato in grande evidenza vicino al sedile del guidatore dell’autobus.
Quella scritta, poi, l’ho sostituita con “tribù dei chihuahua”.
La tribù è intoccabile. Per noi l’amicizia è sempre stato un valore importante, che ha avuto la priorità su tutto. Siamo sempre stati un gruppo unito, nonostante il passare degli anni, il nostro cambiamento, il lavoro, le vicende della vita.
Quando sono a Tavullia sto sempre insieme ai miei amici. Si sta assieme la sera, si va al mare d’estate e in montagna d’inverno. Come è sempre stato sin da quando eravamo piccoli. E come è ogni anno.
Il nostro è un gruppo composto da ragazzi che fanno i lavori più diversi, a orari differenti, quindi qualcuno con cui stare c’è sempre. Molti di loro lavorano di giorno, altri di sera; alcuni hanno dei bar, o dei ristoranti, oppure fanno i camerieri. Così fino a una certa ora posso stare con gli amici che il giorno dopo lavorano, e più tardi con gli altri, che di mattina dormono. Come me.
La mattina, se si esclude un impegno irrinunciabile oppure il weekend di gara, io non esisto. Dormo.
La mia giornata, di norma, inizia nel pomeriggio. È come se io avessi un fuso orario tutto mio. Io vivo di notte, perché mi piace la notte. Il che fa subito pensare che io combini chissà quali cose, oppure che non conduca una vita da atleta. È vero, non vivo una vita da atleta nel senso classico del termine, ma questo non vuol dire che io non stia attento a quello che mangio e bevo, oppure che non mi alleni. Mi alleno molto, in palestra e anche in moto. Solo che in palestra o ad allenarmi con la moto, alla cava, ci vado sempre di pomeriggio e non la mattina alle nove.
Il mio corpo ha ormai un metabolismo particolare, si è abituato a vivere secondo un fuso orario diverso. Ecco perché, essendo sempre in giro per il mondo, il jet lag ormai non so più cosa sia. È difficile che vada a letto prima delle tre, molto facile invece che vada a dormire quando c’è già gente che si reca al lavoro…
Con la notte ho un rapporto particolare: mi piace muovermi, vivere, pensare, rilassarmi. Perché mi affascina, perché è il momento in cui c’è meno confusione in giro. Perché il mondo si placa, tutto si quieta. E poi perché sono Valentino Rossi.
Cioè un ricercato. Un fuggiasco.
Eh sì, sono perennemente in fuga dai miei adorati connazionali. Gli italiani.
Sono un italiano orgoglioso di esserlo, sono fiero per i nostri pregi e spesso mi rammarico per i nostri difetti. L’italiano è un personaggio eccezionale. In tutto. Anche quando inizia a volerti bene. Perché è da lì che possono iniziare i tuoi problemi, se è di te che gli italiani si innamorano.
Gli italiani sono commoventi, coinvolgenti, esaltanti. Ma anche eccessivi, opprimenti, invadenti, irrispettosi.
Non so chi sia quel tale che ha detto che gli italiani ti perdonano tutto tranne il successo, però so che è così. Questa cosa è assolutamente vera.
Già dopo la stagione 1997 i miei connazionali hanno iniziato a guardarmi con simpatia. Anno dopo anno si sono innamorati, e dalla stagione 2004 vivo come un uomo in fuga. Ed è una fuga senza fine, senza tregua, perché vengo braccato ovunque.
Ci sono cose semplici, qualcuno direbbe i piccoli piaceri della vita, che io non posso fare, in Italia. Non posso andare in un bar per prendere un cappuccino, perché non riuscirei a berlo (lo posso fare solo a Tavullia, ma anche solo a pochi chilometri già diventa impossibile). Non posso entrare in un negozio, guardare e cercare qualcosa da comprare. Non posso fermarmi da nessuna parte, ad esempio una stazione di servizio oppure una piazza. Se mi fermo sono perduto: il primo che mi riconosce (e ci mettono un attimo, gli italiani, a riconoscerti) fa talmente tanto casino che attrae altri, e poi altri, e la folla mi fagocita.
Se do un appuntamento a qualcuno dobbiamo incontrarci in luoghi nascosti, e senza mai sostare troppo a lungo.
Non posso andare in un ristorante, se c’è troppa gente dentro. Devo rinunciare; e se ci vado, non posso farlo in un orario normale, ad esempio alle otto e mezzo, ma devo arrivare più tardi, molto più tardi, quando la gente comincia ad andare via. E non posso poi mettermi in un posto qualsiasi, devo sempre stare in un angolo, in penombra, un po’ nascosto. Sperando che serva, anche se ormai non basta neanche questo.
Non parliamo poi di luoghi come il cinema o la spiaggia: non li posso proprio frequentare in libertà.
Ogni tanto, comunque, in mezzo alla gente ci vado lo stesso. Anche perché mi piace. Solo che vorrei starci come una persona normale, visto che in fondo io sono un ragazzo normale.
Ed è anche per questi motivi che io farei fatica a vivere di giorno. C’è troppa gente in giro. E poi non mi piacciono il traffico, il caos, il rumore, la folla che si muove in fretta, tutta affannata e nervosa.
La notte è un’altra cosa: è tutto ovattato, ed essendoci molto meno casino in giro, vivo con maggiore libertà. È proprio un’altra dimensione. Il mondo è diverso; tutto è diverso.
A un certo punto ho assimilato, facendone un po’ il mio motto, il testo di una delle mie canzoni preferite: Gente della notte.
Mi trovo molto in linea con i concetti espressi da Jovanotti, che è uno dei miei cantanti preferiti. Le sue canzoni mi piacciono molto.
C’è poco da dire, la notte è il mio momento. Sempre. Anche alle corse. Non cambio infatti il mio modo di vivere solo perché devo correre una gara.
Il mio modo di essere viene riflesso anche in quello che faccio durante le corse. Ai gran premi, insomma, non cambio radicalmente le mie abitudini. Certo, non vado a letto all’alba, ma quando vado a dormire io di gente in giro ce n’è poca…
Di notte è tutto più bello anche nel paddock. C’è silenzio, scompaiono la folla e la confusione. Posso girare con maggiore libertà, e posso soprattutto godermi il box vuoto e la mia moto. Sì, il box e la moto. Perché io di notte entro spesso nel garage del team. Ci sono gran premi in cui lo faccio tutte le sere, proprio perché amo restare vicino alla mia moto da gara.
Le mie frequentazioni notturne sono nate negli anni della 125, e sono legate alle mie passioni per l’estetica e per gli adesivi, trasformatesi poi in una mania.
Non lascio mai niente al caso, quando si tratta di decidere i colori o le decalcomanie per la mia moto, e questo è anche il motivo per il quale ho sempre messo becco in ogni discussione quando si è trattato di decidere l’estetica delle mie moto da corsa. L’ho fatto sempre, con ogni moto, in ogni categoria, con ogni team. E
naturalmente continuo tuttora. Nessuno ha mai potuto incollare un solo adesivo, a meno che non si trattasse di un marchio di uno sponsor tecnico.
Fino a qualche anno fa ero inflessibile; adesso, in certe occasioni, Roby si occupa almeno del numero: lo attacca lui, perché poi deve ricoprirlo con la vernice trasparente. Ma a parte questo procedimento tecnico, la faccenda è totalmente nelle mie mani.
È una procedura lunga e meditata; ecco perché ho iniziato ad andare nel box di notte. Perché di giorno il box è sempre pieno di gente, ci sono i meccanici e i tecnici, darei fastidio se mi impossessassi della moto solo per verificare il look, il posizionamento degli adesivi.
Andando avanti con gli anni, cioè durante il passaggio dalla 125 alla 250, poi alla 500 e infine alla MotoGP, mi sono rimaste tanto la passione per l’estetica e gli adesivi quanto l’abitudine a frequentare il box di notte.
La mia moto me la godo di giorno in pista, naturalmente, ma il mio feeling è talmente particolare che posso restarle attorno per delle ore, guardandola e studiandone l’estetica, controllando che tutto sia a posto.
Sono momenti personalissimi, intensi, difficili da descrivere.
I giapponesi, i manager ma soprattutto gli ingegneri, non l’hanno mai saputo: né quelli della Honda, né quelli della Yamaha. Non capirebbero…
Anche perché non faccio nulla di male: non ho mai toccato la meccanica. Eppure a volte è difficile spiegare a un ingegnere che a me piace restare semplicemente vicino alla mia moto, anche senza far niente. È un concetto complicato da comprendere e da spiegare: c’è il rischio di essere presi per squilibrati!
Di giorno tutto scorre in modo frenetico, nevrotico. Ma c’è un momento in cui ho bisogno di tirarmi fuori da tutta quella confusione. Finiti gli impegni con la squadra, di solito intorno alle cinque e mezzo del pomeriggio, sparisco dalla circolazione: mi rinchiudo nel mio motorhome, mi rilasso, quasi sempre mi metto a dormire per qualche ora. Poi esco.
C’è sempre qualcosa da fare, dopo cena. E poi, molto dipende anche da quanti amici sono venuti con me.
Comincio a godermi il paddock dopo le dieci di sera. Prima di andare a dormire faccio una puntatina dalla mia moto, poi vado nel motorhome del team che funge da ufficio.
Da quando corro per la Yamaha ho un ufficio tutto per me, nel motorhome della squadra. Ed è lì che tengo il mio abbigliamento tecnico, da gara. Per due motivi: un po’ perché ormai nel mio motorhome c’è sempre un tale casino che non ci sta più dentro niente, un po’ perché quello è il posto in cui mi vesto, prima di entrare in pista.
La sera, quindi, dopo essere stato nel box, vado a controllare che la mia roba sia a posto. Devo collocare alla perfezione il mio abbigliamento tecnico - la tuta, i calzini, gli stivali, i guanti - perché tutto dev’essere perfetto, in quanto la mattina per me è sempre il momento più delicato.
Mi alzo sempre tardi, e sono perennemente in ritardo quando mi presento nel box per il primo turno di prove libere. È come ai tempi della scuola, quando arrivavo sempre per ultimo in classe…
Quindi, ogni mattina devo seguire un percorso preciso e una gestualità automatizzata. Devo muovermi come un orologio, insomma. Perché ho una fretta del diavolo.
Qualcuno mi viene a svegliare - di solito è Jeremy, perché non si fida, vuole essere sicuro che io sia effettivamente sveglio… - poi mi alzo, mi lavo, ancora con gli occhi chiusi, cerco di restare sveglio quando guido lo scooter nel tragitto dal motorhome al box, salgo nell’ufficio e mi vesto. Anche lì, ogni cosa dev’essere fatta meccanicamente:basta un piccolo intoppo, il motorino che non parte oppure una cerniera che si blocca, e io inizio le prove in ritardo.
Comunque, tornando ai miei connazionali, devo dire che ogni tanto tendo a prendermela per il temperamento degli italiani, però mi rendo anche conto che è un po’ colpa del mio modo di essere. Per come sono fatto, per il mio carattere, alla gente do l’idea che mi conoscano da tanti anni. Che siamo amici. Che possiamo scherzare e fare casino quando ci si incontra per la strada. E gli italiani adorano fare questo.
Quindi tutti pensano di conoscermi bene: nessuno viene da me con un po’ di distacco. Appena uno mi vede, mi raggiunge per abbracciarmi, toccarmi, stringermi.
Si prende subito molta confidenza.
C’è il tipo che non si pone lontanamente il problema che magari in quel momento lì non hai voglia di fare casino, perché hai dei pensieri o dei problemi, sei incazzato, hai litigato con qualcuno, o qualcuna. No, ti piomba addosso col suo repertorio di domande, con la voglia di farti dei discorsi che mica gli hai chiesto di venirti a fare.
C’è il premuroso, che si vuole mettere a sedere lì con me, chiede come va la moto, si preoccupa del campionato, degli avversari, mi dice cosa devo fare la prossima volta e mi dà consigli su come comportarmi in generale.
C’è il sensazionalista, quello che appena mi vede mi piomba addosso, stringe, abbraccia, urla, fa casino, mi blocca e poi chiama gli altri suoi amici: «Oh, venite!».
Così innesca un effetto a catena: tutti sentono, si voltano, e arrivano.
C’è poi il cacciatore di souvenir, che mi fa sentire come un animale allo zoo: mi osserva, mi ascolta, mi fotografa magari dal tavolo vicino o dal marciapiede. Ecco, da quando ci sono i cellulari che fanno le fotografie la mia vita è cambiata. Ovunque vada, con chiunque io sia, qualsiasi cosa stia facendo, trovo qualcuno che mi punta con un cellulare. E con questa mania di fare le foto, la privacy se ne va a farsi fottere!
Chiunque ti può spiare, farti una foto quando gli capita. Questa cosa la detesto veramente, anche perché i maniaci della foto col cellulare poi ti fermano, passano il telefono a un altro, che poi lo gira a un altro ancora; e può capitare che ti ritrovi a trascorrere una serata a stare in posa. Ma la gente non capisce: anche se gli chiedi di non farti una foto, te la fanno lo stesso. Di nascosto magari, che è ancora peggio.
C’è poi l’irrispettoso, che non ha mai sentito nominare la parola privacy. Ti bracca quando sei a cena con gli amici, oppure con una ragazza, senza pensare che anche tu hai bisogno dei momenti tuoi.
C’è il moralista, quello che viene, interrompe qualsiasi cosa io stia facendo, mi mette la mano sulla spalla e dice: «Che bella vita, beato te, guadagni molto e non fai un cazzo, sei sempre in giro per il mondo; la va par te!».
C’è infine il permaloso, e qui bisogna stare attenti perché gli italiani ci mettono un attimo a trasformarti da idolo in persona detestabile. Ed è difficile, poi, che te la perdonino.
Ma, quando ti ama, l’italiano lo fa davvero. Ti trasmette un calore intensissimo; ti fa sentire unico. Ecco perché ho spesso inventato qualcosa per gli italiani, soprattutto nel gran premio di casa.
Ecco perché continuo ad amare i miei connazionali. Vorrei solo che fossero più educati.
Io cerco di mostrarmi gentile con tutti, di avere un sorriso per tutti, di essere disponibile con la gente. Ma anch’io ho bisogno di qualche momento di quiete, d’intimità. Quando, ovunque vai, ti senti spiato, osservato, è bello per un po’, ma poi diventa opprimente. Subisco una pressione costante, che non si allenta mai.
È anche per questo che sono arrivato a pensare che sarebbe stata una cosa positiva prendersi una pausa andando a vivere per qualche tempo a Londra. Una città che mi è sempre piaciuta. Nell’aprile del 2000 sono diventato residente, e sono andato ad abitare in una zona molto bella, vicino a Piccadilly.
È davvero una città multietnica: ospita gente che proviene da tanti Paesi diversi; sembra che tutto il mondo si sia radunato qui. Adoro questo aspetto.
Proprio perché riunisce tante culture differenti, è una città in cui si apprende sempre qualche cosa di nuovo: le ultime tendenze, oppure qualche nuova idea.
Ma la grande differenza, per me, la fa l’approccio della gente.
Di Londra ho apprezzato subito la possibilità di andare in giro per le strade senza essere fermato da tutti. Nessuno mi riconosceva, ed era una sensazione inusuale, per me. Soprattutto, era una sensazione molto bella.
Dopo qualche anno però la situazione è cambiata, anche se non è nemmeno paragonabile all’Italia.
A Londra posso stare tranquillo: un po’ perché c’è molta meno gente che mi riconosce, e poi perché gli inglesi sono più rispettosi. Magari ti fanno un complimento, ti fanno capire che ti apprezzano, ma non sono opprimenti.
A Londra riesco a vivere una vita normale, mi sento al pari degli altri: faccio la fila, non ho agevolazioni all’ingresso di qualche locale o ristorante, non ho la precedenza nel salire su un taxi, posso andare in giro per ore, per negozi, a comprarmi dei vestiti o un paio di scarpe. E poi posso passeggiare per i parchi, per la città. Ed è meraviglioso.
Alla fine, i problemi vengono dagli italiani che vivono e lavorano là, ma anche loro, dopo un po’, si adattano allo stile di vita inglese, quindi sono più riservati.
Appena arrivato a Londra, ho dovuto ambientarmi. Il che, tra l’altro, significa trovare i posti giusti nei quali comprare le cose, capire il funzionamento dei mezzi pubblici, individuare i ristoranti in cui andare a mangiare.
Già, mangiare. In Inghilterra non è facile trovare un buon ristorante. Anzi…
Londra però fa eccezione. C’è un tale miscuglio di razze e di culture differenti, che sono rappresentati praticamente tutti i tipi di cucina. Quindi il problema del cibo, lì, non esiste: c’è una enorme varietà, così qualcosa di buono si trova sempre.
Vicino alla prima casa in cui sono andato ad abitare - sì, perché all’inizio ero in affitto, poi ne ho comprata una tutta mia - c’era un ristorante italiano, che abbiamo scoperto una delle prime sere in cui mi trovavo là.
Ero con altri miei connazionali: abbiamo visto questo ristorante italiano e logicamente ci siamo andati subito. Si chiama Il Duca. E si mangia benissimo.
Lì abbiamo conosciuto il cuoco, Michele.
Essendo uno chef, ha iniziato a consigliarmi sui posti da frequentare e quelli da evitare. Così la sera, prima di andare a cena, passavo da lui per chiedere qualche indicazione.
Michele era un pazzo scatenato. Sempre in moto: tutte le sere e tutte le mattine si faceva un’ora e mezzo di strada per raggiungere il ristorante, visto che lui abitava fuori Londra. Aveva, a quell’epoca, una Yamaha R6.
Andare in moto a Londra, visto il clima, è già difficile; farlo tutti i giorni, per tutto l’anno, ai nostri occhi sembrava una follia. Perché piove sempre, c’è sempre freddo.
Lui andava forte sul bagnato, naturalmente. A volte però gli diceva male, infatti la R6 l’ha “piegata” poco dopo averla comprata.
Una volta eravamo nella piazza in cui c’era casa mia, cioè vicino al ristorante. Ho provato la sua moto, ed era naturalmente una di quelle tipiche giornate londinesi, in cui piove e c’è buio anche se è estate.
Quando sono rientrato gli ho detto: «Guarda che oggi è pericoloso girare in moto, su questo asfalto; le gomme non tengono mai, prendi dei gran rischi!».
In quel momento, abbiamo visto passare davanti a noi uno di quei ragazzi che vanno in giro in moto per consegnare la pizza. Aveva una Kawasaki 350 nera, vecchissima. Ha impostato la curva, sull’asfalto bagnato: andava molto forte, a metà curva ha fatto strisciare il cavalletto per terra, ma ha tenuto bene la moto, che dietro aveva il contenitore delle pizze… ed è rimasto in piedi!
Mi ha colpito spesso, la guida dei ragazzi che portano le pizze a domicilio, perché credo che siano dei grandissimi piloti: ti sorpassano sul bagnato, sul porfido, restano in piega con il cavalletto che tocca per terra, se la cavano in ogni situazione. E vanno sempre forte. Secondo me alcuni di loro sono dei talenti sprecati. Infatti, potenzialmente, quel ragazzo con la Kawasaki 350 avrebbe anche potuto essere più veloce di me…
Del resto, gli inglesi sono dei grandi appassionati di moto. A Londra ci sono tanti motociclisti: molti hanno una supersportiva, e non importa quali siano le condizioni climatiche. Vanno sempre, e spesso anche molto forte.
Gli organizzatori del Gran Premio di Gran Bretagna hanno messo in piedi, a Londra, un evento che mi vede protagonista insieme al pubblico, alla vigilia della gara: ci si ritrova a Leicester Square, in un luogo in cui avvengono anche le “prime”
dei film. È un posto frequentato da attori, gente dello spettacolo, grossi personaggi, ma nel 2004 siamo riusciti a riunire un tale numero di persone che sembrava ci fossero addirittura delle star di Hollywood.
E poi c’è la gara. A Donington, per il tifo scatenato e per le scene che vedo sotto il podio, mi sembra di essere al Mugello. Mi sento quasi come a casa, in Italia.
Ci sono momenti in cui mi rendo conto che ci sono persone, divenute anche loro idoli per gli italiani, che se la passano anche peggio di me. Vasco Rossi è certamente una di queste.
Vasco è uno dei miei idoli. Tra gli italiani, è l’unica, vera rockstar. È riuscito a far ballare, cantare, innamorare, tre generazioni. E in una di queste c’è anche quella del mio babbo.Siccome lui è anche più famoso di me, e la gente lo insegue più di quanto non faccia con me, io e Vasco abbiamo modi di vivere e di pensare che sono molti simili. Almeno per certe cose.
Anche lui deve sopportare una grande pressione. Anzi, poiché lui è più grande, vive da più tempo questa condizione: la pressione che esercitano i fan o la gente per lui dura da più tempo.
Io e Vasco ci vediamo regolarmente: non c’è un appuntamento fisso, ma abbiamo stabilito che ogni tanto dobbiamo vederci. E lo facciamo in incognito.
Vado a trovarlo a Bologna, nel suo studio di registrazione che è diventato anche il suo rifugio. È un posto in cui si sta bene, tranquilli.
Ogni tanto viene con me anche qualcuno dei miei amici più fidati, perché quando dico «vado da Vasco» trovo sempre qualcuno nel baule della macchina o accucciato sui sedili posteriori; vorrebbero venire tutti. Ma non si può, quindi siamo sempre in pochi. Molto spesso solo in due: io e Uccio.
Quando troviamo Vasco da solo, in un momento di relax, senza la pressione di qualche impegno, possiamo vedere una persona veramente incredibile: divertente, piacevolissima.
Può succedere, a volte, quando arrivi a conoscere i tuoi idoli, di incappare in una cocente delusione. Sì, perché se una persona che ammiri la conosci in un momento poco opportuno, poi ti fai un’idea sbagliata. Quella coincidenza sfortunata rovina tutte le tue aspettative. Ecco perché ci vuole fortuna, anche in questo.
Io lo so, perché è capitato anche a me, all’inverso. Cioè, ci sono persone alle quali stavo simpatico che mi hanno incontrato in un momento per me difficile, oppure in cui avevo dei problemi e non potevo dimostrarmi disponibile, così per loro sono diventato istantaneamente un personaggio deludente.Ma Vasco ho avuto il tempo per conoscerlo bene, quindi per capirlo: è una persona magnetica, molto sensibile. Tratta tutti da pari a pari. E non fa così solo con me, ma proprio con tutti.
Parlargli ti dà gusto, perché è piacevole e affascinante.
Ci siamo conosciuti quando lui aveva un team, impegnato nella 125. Abbiamo scambiato due chiacchiere, e lui mi ha detto subito che mi seguiva con molto interesse e simpatia. Col passare degli anni, il nostro rapporto è cresciuto: adesso ci scambiamo regolarmente dei messaggi, dopo le gare mi fa sempre i complimenti, quando io sento una sua canzone nuova gli mando i miei commenti. E mi spedisce sempre i suoi dischi.
Nel 2004 mi è capitata l’opportunità di fare qualcosa d’insolito e divertente.
Abbiamo realizzato un’intervista per il mensile “Rolling Stone”, col quale collaboro.
Io ho fatto l’intervistatore, lui l’intervistato. È stata la prima volta, per me. Non avevo mai fatto una intervista stando… dall’altra parte.
Non mi ero preparato alcuna scaletta, naturalmente. Ho deciso di improvvisare. Ma alla fine sono riuscito a trovare delle domande interessanti, e lui rispondeva con un certo impegno. Ricordo che avevo una curiosità in particolare, e in quell’occasione sono riuscito a soddisfarla.
«Come inizi, quando scrivi una canzone?» gli ho chiesto.
«Cioè, fammi capire: te prendi un foglio, una penna, poi scrivi Albachiara?» ho aggiunto.
In realtà ho capito subito che è impossibile ricevere una risposta a una domanda come questa, perché si entra in un campo - quello del talento, dell’arte, dell’ispirazione - che non riesci a descrivere o a provocare. Certi momenti li vivi e basta. Ti vengono così. Succede anche a me, in moto, quando sono in gara.
Comunque, lui ha cominciato a parlare, e tra una domanda e una risposta alla fine non la smettevamo più. Ci siamo trovati immediatamente in sintonia. È stato molto bello.Sì, siamo in sintonia, e riusciamo sempre a farci delle bellissime risate.
L’anno prima, cioè nel 2003, Vasco mi ha fatto vivere un’esperienza strana e bellissima.
Sono andato a San Siro per vederlo in concerto. Dato che, come al solito, ero arrivato in ritardo, non eravamo riusciti a vederci prima dell’inizio dell’esibizione.
Io mi sono sistemato sotto il palco. Dopo la canzone iniziale, Vasco mi ha visto, dal palco, e ha detto al microfono: «Stasera c’è con noi il più grande pilota di tutti i tempi, Valentino Rossi!». A quel punto, ottantamila persone hanno iniziato a urlare.
Be’, è stato bello. Non inusuale, ma quella volta è stato strano, molto particolare, perché ero in un ambiente diverso da quello in cui vivo di solito. È stata una manifestazione di affetto diversa.
Ecco, essere Valentino Rossi comporta molti effetti collaterali: puoi vivere anche tanti momenti stupendi, non solo tanti problemi. Tra le cose belle, c’è senza dubbio la fortuna di poter conoscere personaggi che magari sono stati, o sono, tuoi idoli. Come Vasco Rossi.
E adesso, col passare del tempo, per quanto mi riguarda posso dire che Vasco è un mio amico.
Anche io, in molte mie manifestazioni, sono un italiano vero, ma se c’è una caratteristica che mi rende davvero un italiano, è la superstizione.
Sono sempre stato superstizioso, a livelli altissimi. Non so se qualcuno l’ha trasmessa a me, questa mania, quando ero piccolo; io mi ricordo però di essere sempre stato così, tanto che, a lungo andare, ho influenzato i miei amici e tutti coloro che mi stanno intorno.
Ho tutte le credenze più classiche, ma i riti scaramantici più importanti sono personalissimi. Soprattutto se riguardano le gare.
Io non uso i “classici” amuleti, come altri piloti. Se ho qualcosa addosso è perché mi piace. Ma alle gare ci sono tantissime cose che faccio, seguendo dei rituali.
La vestizione, ad esempio, è un rito che si ripete sempre allo stesso modo. Ci sono capi di abbigliamento - scarpe, magliette, polo - che scelgo e indosso secondo un significato preciso. So sempre riconoscere quello che devo mettermi in un determinato momento, in un certo giorno. Ad esempio: anche se c’è una pila di dieci magliette tutte uguali, io so quella che devo indossare il giorno della gara. Ai gran premi, poi, devo avere tutte le mie cose messe bene, nell’ordine che dico io. Perché tutto, per me, ha un significato.
Ma l’elemento più importante è quella che noi chiamiamo la “cabala ufficiale”.
È un rito che deve avvenire sempre nello stesso posto, e devono partecipare sempre le stesse persone. Che sono cinque. Le stesse cinque che c’erano la prima volta.
Tutto è nato, infatti, molti anni fa, quando correvo in 250.
Una sera, io e alcuni amici siamo andati in un locale a bere qualcosa e a far festa. Il giorno dopo sono partito, per andare a correre un gran premio. E l’ho vinto.
Prima della gara seguente, non ci siamo andati, in quel locale, perché la cabala allora non esisteva. La corsa è andata male, sono caduto.
«Dobbiamo tornare là, altrimenti porta male» ha proposto un amico, anche lui molto superstizioso.
Così abbiamo ripetuto il rituale, che ha poi funzionato. Da lì, quindi, è nata la cabala.
E poiché quando una cabala inizia poi è impossibile fermarla, questo rito va avanti regolarmente da anni.
Alla vigilia di ogni gara, in un’ora variabile, ma sempre in piena notte, ci ritroviamo nel locale di un nostro amico. Può anche darsi che sia già chiuso, ma non importa: viene riaperto per noi. Ci gustiamo la stessa cosa della prima volta, seduti sempre allo stesso tavolo.
Per fare questo sono sempre disposto a tornare da Londra, e vale anche se si tratta della notte prima della mia partenza per una gara, o per una serie di gare.
Se per caso non siamo già insieme, io e quei miei quattro amici, quando si decide che è l’ora della cabala si fa il giro di telefonate. E non importa se è già notte fonda.
All’annuncio «cabala!» chi dorme si sveglia, si veste, ed esce di casa.
Non conta nemmeno se qualcuno di noi è con la moglie o la fidanzata. Mogli e fidanzate lo sanno, e restano a dormire.
Se ci siamo sempre tutti (io, Uccio, Alby, Palazzi, Piwi), se ripetiamo bene i vari passaggi, se nessuno di noi cinque sbaglia qualcosa, la cabala funziona. Quando è andato male qualcosa, in gara, è stato sempre a causa di un errore commesso durante quel cerimoniale. C’è stato qualcosa di sbagliato.
Magari mancava uno di noi cinque, oppure qualcuno si è seduto al nostro tavolo e non poteva, perché possono farlo solo queste cinque persone, o qualcuno di noi ha portato una ragazza. E alla cabala non si possono portare le fidanzate: né quelle fisse, né le occasionali. Questo è un errore che ho fatto anch’io, qualche volta.
Una volta, nel 2004, è arrivato un nostro amico (uno che non fa parte dei famosi cinque) e si è messo a sedere al nostro tavolo: la gara seguente è andata male.
Abbiamo quindi deciso che questo non deve succedere più. Si è stabilito che bisogna essere rigorosi. Arriva una fidanzata, un’amica, un nostro amico? «Mi dispiace, non puoi sederti.» Dispiace davvero, quasi sempre, però la cabala è la cabala.
Di riti noi ne facciamo a migliaia: alcuni sono in evoluzione, nel senso che vengono via via modificati. La cabala ufficiale, però, è immodificabile.
A volte ho la netta sensazione che le morose e le mogli dei miei amici mi detestino.
E lo so, il perché. Non è questione di cabala, perché ormai si sono abituate: se sentono la sveglia si voltano dall’altra parte e non fanno storie.
Il problema è un altro: quando torno a Tavullia, è fuori discussione che io e i miei amici ci riuniamo. E loro, i miei amici, spesso prendono proprio questa scusa per far tardi. Oggi lo dicono alle fidanzate o alle mogli, quando eravamo più piccoli lo facevano con i genitori.
Il pretesto è sempre lo stesso: «C’è Vale, devo star fuori con lui e gli altri».
Fidanzate e mogli non protestano, almeno ufficialmente. Anche perché non servirebbe a niente. Non si ribellano nemmeno quando i miei amici prendono le ferie per venire alle gare.
Le morose capiscono, comunque. Quando, ogni tanto, qualcuna esce con noi, magari si stanca però non osa mai dire niente. Sanno che il mio ritorno a Tavullia è sempre motivo di riunificazione per gli amici, e per la tribù.
Oggi ci troviamo a casa di qualcuno, organizziamo delle cene, oppure andiamo in giro per locali. Facciamo le cose che fanno tutti i ragazzi, insomma.
Una volta, invece, eravamo scatenati.
Sempre in giro con i motorini truccati, combinavamo un sacco di disastri.
In realtà combinavamo di tutto, solo che la nostra passione per i motori era dominante. Avevamo perfino allestito un gruppo musicale, e ci trovavamo regolarmente: gli elementi basilari del gruppo erano Biscia (alla batteria), Lele (alla chitarra), Omar (che invece cantava). E io, che per un po’ ho strimpellato la chitarra.
Mi è sempre piaciuta la musica: ho anche seguito dei corsi, per alcuni anni.
La passione per la chitarra poi mi è passata, ma mi è rimasta quella per la musica.
Ascolto di tutto; ho dischi di ogni genere.
Alla fine, anche quello era un modo per stare insieme:che fossimo in una casa oppure fuori, io e i miei amici eravamo sempre insieme, sempre uniti.
Siamo sempre stati un vero gruppo. E lo siamo ancora oggi.
Forse è la zona in cui siamo nati e cresciuti, che ci ha resi così. Forse è merito di Tavullia, insomma.
Tavullia è adagiata su una piccola collina, lunga e stretta, 165 metri sul livello del mare. Sorge dove la provincia di Pesaro si congiunge con quella di Rimini. È nelle Marche, quindi, ma è praticamente incollata alla Romagna.
Ha circa cinquemila abitanti, ed è un insieme di case appollaiate sulla punta del colle. Davanti, il terreno assomiglia a una serie di onde lunghe che raggiungono la costa, peraltro molto vicina. C’è un punto in cui, nelle giornate senza nuvole, si può vedere chiaramente il Mare Adriatico.
Ti accorgi che sei arrivato perché inizi a vedere, appese ai lampioni della luce, oppure alle case, le bandiere con il 46 impresso sulla stoffa.
Il 46 lo vedi anche nelle vetrine dei negozi, dei bar, sugli scooter o sulle auto.
A Tavullia ci sono solo case basse, o villette. È un paese tranquillo, in cui si fa tesoro di alcuni valori importanti: l’amicizia, il rispetto, la solidarietà.
Chi cambia la macchina paga da bere. E ci si saluta quando ci si incontra, anche se si è in auto, in moto o in scooter. È tutto un suono di clacson, insomma.
Il Bar dello sport, ritrovo strategico dove sono nate anche alcune delle migliori gag, è di fianco alla sede del Comune, e di fronte alla scuola elementare che abbiamo frequentato anche noi della tribù.
A un passo dalla scuola c’è la chiesa, dove svolge la sua opera don Cesare. Il nostro parroco.
È un grandissimo: uno dei miei tifosi più appassionati.
Seguendo tutta la comunità, ha naturalmente seguito anche me, e mi è stato sempre vicino benché io non sia proprio un parrocchiano modello.
Da qualche tempo a questa parte, don Cesare ha cominciato a fare cose strane, per un parroco: guarda tutte le gare, da solo, in sagrestia, e se si disputano in orari sfavorevoli, per via dei fusi orari, lui sposta le cerimonie religiose! Dev’essere sempre concentrato, lui, quando si mette a guardare la gara. E se vinco, si precipita a suonare le campane.
Don Cesare è una persona di una certa età, e si è appassionato alle corse seguendo le mie vicende. È rimasto sempre accanto ai suoi parrocchiani, alla sua chiesa; si è mosso pochissimo da Tavullia. Eppure nel 2003, a 82 anni, si è unito al Fan Club ed è venuto a vedermi correre dal vivo, in Germania.
Io vado sempre a trovarlo, in chiesa: è piacevole parlargli, è una persona incredibile.
A un passo dalla chiesa, alla sinistra della scuola, oggi sorge, protetta dalle mura, la sede del Fan Club. Il Valentino Rossi Officiai Fan Club Tavullia. Che è gestito da Flavio Fratesi e Rino Salucci. È nato nel 1996, con il nome di “Supporter Valentino Rossi”. Dal 1997 è diventato Officiai Fan Club. Perché quello di Tavullia è l’unico ufficiale. Sono stato io a volerlo.
Registra una media di 6000 tesseramenti l’anno.
In realtà, già nel 1994 e nel 1995 Flavio veniva sempre a vedermi correre, e c’era anche Rino, che accompagnava Uccio. Dal 1997, però, il gruppo ha iniziato a viaggiare anche all’estero, e da quel momento c’è sempre qualcuno del Fan Club a ogni gara. Ovunque vada a correre. Il gruppo che viene in trasferta è composto sempre da una trentina di persone.
A Tavullia la passione per la moto non l’ho portata io. C’era già, e da anni. E
sempre stata una zona abitata da grandi fanatici di moto. Il babbo di Flavio aveva anche fondato un moto club che era diventato uno dei più attivi e numerosi. Poi, quando ho iniziato a correre io, si è sviluppato in effetti un vero e proprio movimento.
Io, per il mio carattere e le mie convinzioni, ho un po’ fatto capire l’importanza del gruppo, e ho sempre voluto che il Fan Club fosse un’attività gioiosa.
Il Fan Club organizza le trasferte, le feste, ma si occupa anche di valori importanti.
Come la solidarietà e la beneficenza. Le sue entrate, infatti, sono tutte devolute in opere benefiche. Non ho mai voluto pubblicizzare questo aspetto, perché queste cose vanno fatte in silenzio, e solo se uno se lo sente dentro davvero.
Flavio, che è il vero motore del club, dice che è la mia forza a tenere unito il tutto, ma io penso che ci sia uno spirito che ci accomuna: lo spirito di gruppo, il piacere di stare insieme. E questo spirito è la mia forza.
Ed è poi grazie alla nostra goliardia se all’interno del gruppo sono emerse tante idee divertenti, alcune delle quali molto belle.
Una di queste, ad esempio, è il bollo e l’assicurazione che sono sistemati sul cupolino delle mie moto da corsa. E dai tempi della 250 che li ho con me.
Per la realizzazione di questi due tagliandi non abbiamo lasciato nulla al caso. C’è stato uno studio, molto attento e accurato.
Viene indicato tutto quello che serve, e che impone… la legge. Ci sono la cilindrata della moto, la potenza. Questi dati vengono aggiornati, modello dopo modello, anno dopo anno, e di conseguenza cambia sempre anche l’importo del bollo…
Sul tagliandino viene scritto naturalmente il nome della compagnia assicuratrice.
Che deriva dal nome del mio capotecnico. Nel periodo della 250 avevo la Rossano Brazzi Assicurazioni, che poi ho dovuto lasciare quando sono passato nella 500 con la squadra di Jeremy. Adesso infatti ho la Jeremy Burgess Assicurazioni Aldgate, perché abbiamo aggiunto anche il paese australiano, che si trova vicino a Adelaide, in cui abita Jeremy.
Viene indicata, chiaramente, anche la durata della copertura assicurativa. Il periodo corrisponde alla durata del campionato, ma come ogni polizza che si rispetti, l’utente, cioè io, ha diritto a una estensione della copertura di quindici giorni. Abbiamo quindi ideato la polizza in modo che io sia coperto anche per qualche giorno successivo alla fine del campionato. Non si sa mai…
11
I carabinieri di Tavullia ci conoscevano tutti. Ci vedevano quasi ogni giorno. Vale a dire, ogni volta che ci fermavano.
Già, perché da ragazzini io e i miei amici avevamo delle intense frequentazioni con loro, cioè i carabinieri di Tavullia. Ma anche con quelli dei paesi vicini.
Avevamo un rapporto molto particolare: noi scappavamo, loro ci inseguivano. A volte ci andava bene, molto spesso ci prendevano.
Era un po’ come giocare a “guardie e ladri”, insomma, solo che lì era tutto vero.
Non eravamo certo teppisti, naturalmente. Non rubavamo niente, non commettevamo dei veri e propri reati. Ci correvamo soltanto dietro con i motorini, che erano “un po’” illegali, e usavamo la strada come un circuito. Ma niente di più…
Naturalmente loro, i carabinieri, avevano capito la situazione: noi eravamo ragazzini un po’ agitati, ma con una sana passione per i motorini e per le gare; non facevamo niente di male, a parte le scorribande con mezzi “leggermente” fuori dal codice.
Eravamo anche simpatici, oltretutto; infatti ci facevano sempre la paternale, ci sgridavano cercando di rimetterci sulla retta via.
Loro ci sequestravano i motorini, è vero, ma noi sapevamo che erano obbligati a farlo, e sapevamo anche accettare la sconfitta. Infatti non appena li dissequestravano, noi ricominciavamo da dove avevamo dovuto interrompere.
Tra noi e i carabinieri c’è sempre stata una simpatia reciproca. Perché noi non eravamo cattivi. In fondo, eravamo dei bravi ragazzi.
Eravamo ragazzini molto impegnati, quando abbiamo iniziato a frequentare le scuole medie. La nostra passione ci dava da fare tutto il giorno, tutti i giorni. Le scorribande con i motorini, prima, e l’Apecar poi, erano già nell’aria quando avevamo 11 anni. Si era alla vigilia di un periodo incredibile: l’adolescenza. Mentre frequentavamo le scuole medie, infatti, sono arrivati i primi motorini.
Alle medie, di solito, la differenza tra maschi e femmine è netta: le tue compagne di classe sono più avanti, quindi frequentano ragazzi più grandi. E tu devi aspettare l’età giusta per frequentare a tua volta le compagne di classe di qualcun altro più piccolo di te. Noi, in attesa di avere l’età per andare con le altre ragazzine della scuola, avevamo deciso di impiegare il nostro tempo scorrazzando con i motorini.
Ne abbiamo combinate davvero di tutti i colori. Abbiamo sempre amato le moto, le corse, il gusto della sfida. Io e i miei amici facciamo parte di quella generazione che, dai 14 ai 18 anni, ha avuto dentro una passione enorme per le due ruote. Una passione che avevamo tutti, nessuno escluso.
Le moto, in effetti, sono state sempre la mia mania. Avevo iniziato da bambino: ho imparato a guidare una piccola moto prima della bicicletta! E ho cominciato molto presto anche a fare le gare di minimoto.
Ho aspettato poi con ansia il traguardo dei 14 anni, età in cui si può andare in strada senza problemi. Io ci andavo lo stesso, in strada, ben prima di averli compiuti, ma ero”abbastanza” fuorilegge… Prendevo un Benelli di Graziano, uno strano mezzo che si ripiegava come la Graziella; Graziano lo metteva nel baule della macchina e poi lo utilizzava nel paddock delle gare di Superturismo. Ogni tanto lo usavo anch’io.
Era nero e verde.
La mia generazione ha vissuto il cambio tra i ciclomotori (come il Ciao, il Bravo, il Sì) e lo scooter. Io sognavo il Ciao con la forcella del Bravo, come quelli che avevano i ragazzi di Tavullia un po’ più grandi di noi. Poi, però, quando ho compiuto 14 anni è arrivato sul mercato lo scooter. Un oggetto bellissimo.
L’Aprilia aveva l’SR, che per noi era un sogno: sembrava la moto da gran premio.
Infatti c’erano anche le versioni “replica”. Uccio aveva il “Reggiani Replica”, ad esempio. Io invece avevo il Viper giallo-viola. Lui l’ha comprato un po’ prima; quando è arrivato il mio turno l’SR “Reggiani Replica” non si trovava più. Così ho preso il Viper.
La prima volta che abbiamo visto in foto l’ApriliaSR è stato sulle pagine di
“Motosprint”, molto prima di vederlo dal vero, in una vetrina del negozio Champion di Pesaro.
Quando si è sparsa la voce sono iniziate le visite guidate per rendere omaggio all’SR nel negozio. Si partiva da Tavullia, con la corriera, per andare ad ammirarlo. E
io stavo davanti al vetro con la bocca aperta, la bava alla bocca, l’aria sognante.
Quando l’ho comprato, siamo andati a prenderlo io e Uccio, con Graziano che ci ha portati con un furgone che si era fatto prestare. Siamo dovuti arrivare fino a San Marino, perché in giro non ce n’era più uno. Naturalmente, non eravamo organizzati per il trasporto: niente cinghie, nessun supporto. Il viaggio di ritorno io e Uccio l’abbiamo fatto nel furgone, in piedi, tenendo stretto il motorino che era sul cavalletto.
Già, facevamo noi, da cinghie.
Eravamo sballottati, sulla strada di San Marino, che è molto tortuosa. Però eravamo contenti. L’arrivo del motorino e dei 14 anni ci ha cambiato la vita. A mano a mano che nella tribù si raggiungeva quell’età, che per noi era un sogno, arrivava un motorino: nel giro di due mesi ne sono comparsi una decina. Alcuni di noi avevano la Vespa 50, altri lo scooter. Unico elemento comune: erano tutti completamente elaborati.
Yamaha, Honda, Vespa, Aprilia; ognuno aveva il suo gioiello, e formavamo un enorme team. Le giornate per noi sono cambiate in un attimo. E abbiamo vissuto momenti indimenticabili. Questi scooter avevano grandi possibilità d’elaborazione.
La prima cosa che si faceva, un minuto dopo averlo portato a casa, era togliere le strozzature per fargli fare più dei 45 km/h imposti dalla legge. E quello era il primo passo verso l’elaborazione vera.
Lavoravamo tutto il giorno attorno ai nostri scooter: cambiavamo cilindri, carburatori, variatori, frizioni, marmitte, sospensioni. E poi le gomme: usavamo le giapponesi IRC, che “tenevano” moltissimo e ci permettevano di forzare in curva.
Siamo arrivati al punto in cui ognuno aveva il suo elaboratore di fiducia; io andavo da Motor House Energy a Misano, che era di Alessandro Ugolini detto “Sgana”, un ragazzo che correva con me in minimoto. Lui era il guru dello scooter. Il mio, infatti, era sempre là, nel suo reparto corse. Siamo giunti a un tale livello di elaborazione, che ogni quindici giorni dovevamo cambiare lo scooter, oppure il motore. I nostri scooter andavano ben oltre i cento all’ora, ed erano quindi un po’ fragili.
Dopo averli modificati andavamo a provarli, per fare la messa a punto, e infine li usavamo per la nostra sola e unica passione: le gare. Sì, le gare con i motorini. Ecco, noi facevamo questo tutto il giorno, tutti i giorni. Ed è andata così fino a quando non abbiamo compiuto 18 anni.
A 14 anni ero sempre in giro, facevo un sacco di chilometri; ci vivevo, sul motorino. Anche in inverno, con la pioggia, sempre.
Anche perché i miei genitori si sono separati e io sono andato a vivere con mia mamma a Montecchio. Quando io e i miei amici tornavamo a casa, a Tavullia, io avevo poi sempre cinque o sei chilometri da fare da solo: la strada che collega Tavullia a Montecchio.
Tavullia è più in alto, rispetto a Montecchio. Quindi il tragitto puoi affrontarlo in salita ma anche in discesa, dipende da dove parti. La strada è bella. È un percorso breve, medio-veloce, molto vario, con curve lunghe e tornanti in sequenza, più qualche tratto di rettilineo.
La leggenda narra che io abbia imparato lì, nel tratto Montecchio-Tavullia, a guidare forte da solo, senza nessun riferimento, quindi senza seguire il ritmo di un avversario. Ero sempre da solo, quindi ho sviluppato la capacità di gestire il ritmo, di andare in fuga…
Comunque, eravamo tutti dei grandissimi: sempre in giro, sempre in motorino. E
poi era sempre gara. Gara vera. Ci davamo una meta, una destinazione, non tanto perché fosse importante quello che saremmo andati a fare là, ma perché volevamo goderci il tragitto. Che trasformavamo in un gran premio.
Una volta arrivati a destinazione, non vedevamo l’ora di ripartire perché così avremmo ricominciato a gareggiare. Era il tragitto che contava, non la destinazione.
C’era già il mito della Panoramica, all’epoca. Si tratta di una strada lunga 22
chilometri. Una strada panoramica, appunto, perché è a strapiombo sul mare. Va da Gabicce Monte a Pesaro, tra Romagna e Marche. Una strada tortuosissima, molto bella, che per noi era una pista.
Alterna curve in salita, alcune strette, altre ampie, molte delle quali da raccordare; c’è un continuo cambio di ritmo e pendenza. Ci sono momenti in cui sei in mezzo al verde, cioè agli alberi e alla vegetazione alta, e altri in cui sembra di poter toccare il mare con le mani; anzi, quella vista stupenda a volte ti distrae e ti fa perdere concentrazione.
Era un punto di ritrovo anche ai tempi di Graziano: la percorreva in moto anche lui, con un gruppo di ragazzi di Pesaro; arrivavano fino a un certo punto e incontravano altri ragazzi di un gruppo di Gabicce e Cattolica, tra cui c’erano Gibo e Aldo Drudi. E facevano, anche loro, le gare in moto.
Oggi non puoi più gareggiare sulla Panoramica, è troppo pericoloso: c’è il distratto che fa inversione col furgone, oppure i vacanzieri col camper; ci sono troppe macchine. E poi è pieno di ciclisti. Ma all’epoca, quando quel tratto era molto meno frequentato, l’abbiamo sfruttato parecchio.
Il problema è che stanno pensando di mettere i dossi anche lì. Sulla Panoramica.
Uno scandalo, una profanazione!
Sarebbe come mettere dei dossi sulla pista di Assen, come violare e oltraggiare qualcosa di sacro.
Il programma della giornata era questo: scuola, pranzo, Panoramica.
Ci trovavamo subito dopo pranzo, facevamo il pieno al “24 Ore” sotto Gradara, poi 22 chilometri ad andare e altri 22 a tornare.
Ci sono stati periodi in cui io mi facevo anche quattro o cinque “panoramiche” al giorno!
Questo perché avevo la possibilità di sfruttare diversi gruppi di amici. Dopo la scuola c’erano quelli che lavoravano ed erano in pausa pranzo, poi nel pomeriggio arrivavano gli altri.
D’estate, poi, era bellissimo: dopo la Panoramica si raggiungeva il mare e stavamo in spiaggia fino al tramonto. A turno uno di noi arrivava con le braccia rosso-sangue, cioè “spelate”, bruciate dalle cadute. Perché, si sa, la caduta in gara è sempre in agguato… Ed era sempre la solita storia: «Vai nell’acqua, che disinfetta» e sentivi dei bruciori, dei dolori, che non sapevi dove stare!
Durante le nostre gare le regole erano poche, ma le rispettavamo in modo inflessibile: per tenere bassa la velocità di punta non si poteva tirare troppo sui rettilinei, ed era poi rigorosamente vietato andare nell’altra corsia. Si stava sempre sulla destra: se uno oltrepassava anche per un solo metro la riga bianca c’erano delle penalizzazioni, ma soprattutto ci si incazzava moltissimo.
Il casco rientrava nel regolamento ufficiale, tutti noi lo usavamo. Su questo, siamo stati furbi da subito.
Certo, ogni tanto c’erano delle divagazioni. Come le impennate. Eravamo sempre su una ruota. Io a volte tornavo a casa, la sera, con le braccia che mi facevano male.
Ecco, la sera. Non contenti di quello che facevamo di giorno, la sera si andava a casa perché era in programma una rapida revisione e messa a punto del mezzo; poi, dopo una cena che durava pochissimo, ci si trovava tutti in una zona artigianale, piena di fabbriche e capannoni, a San Giovanni in Marignano. A un passo da Cattolica.
Perché se di giorno c’era la Panoramica, la sera si andava tutti al “Pistino”!
Quella zona artigianale la sera era disabitata. Avevamo quindi creato un vero circuito: col paddock, i parcheggi, la zona di partenza e arrivo, le curve e i rettilinei. E
poi c’era il pubblico, tra cui le ragazze.
Quando era in programma il Mondiale a Misano, che è solo a qualche chilometro di distanza, c’era gente che andava a rubare gli striscioni dal bordo pista, per portarli al Pistino: tu giravi e vedevi attorno alle strade questi striscioni di sponsor tecnici come i gommisti, o i petrolieri, oppure i tabaccai. Molto “racing”.
Il percorso era tecnico, c’era una “esse” veloce e molte curve belle. C’era solo una curva a sinistra veloce in cui si andava un po’ sulla strada, per qualche metro: era l’unico punto pericoloso della pista, ma bisogna dire che era pericoloso davvero…
Spesso si prendevano delle grosse botte, perché cadendo si poteva andare a picchiare contro qualunque cosa. Ma, in generale, ci è andata sempre bene.
Nei momenti di massimo splendore, al Pistino eravamo anche più di 200: veniva gente da tutti i paesi intorno a San Giovanni in Marignano. Dalle località del mare a quelle della collina.
Quelle erano sfide vere, i più tecnici ed evoluti arrivavano col Ciao elaborato trasportato dal carrello! Lo tiravano giù, il Ciao specialissimo, con le sospensioni del Bravo, e poi entravano… in pista.
Naturalmente iniziarono anche le retate dei carabinieri, che arrivavano e sequestravano tutto. A volte si riusciva a scappare, altre volte no. Così le retate hanno decretato di fatto la fine del Pistino e di quegli anni eroici.
E col Pistino è finita un’epoca, anche per noi.
Sul Pistino andavo forte, una volta però ho “corso” solo per verificare le mie condizioni in previsione di una gara importante dell’Europeo 125.
Nel 1995 infatti, quando in vista c’erano le ultime due prove dell’Europeo, mi sono fratturato il polso sinistro con la moto da cross.
Non stavo passando un periodo troppo tranquillo, perché ero terzo nella classifica del campionato, insidiato però da un pilota della Repubblica Ceca, Jarda Hules, che stava recuperando un sacco di punti e metteva in pericolo il mio piazzamento.
Era un momento delicato, quindi, in cui bisognava prestare molta attenzione. E
cosa ho fatto, io, per gestire al meglio quella situazione? Sono andato ad allenarmi, con i miei amici, su una pista da cross.
Mi allenavo spesso con la moto da cross, in quegli anni, perché mi divertivo molto.
Solo che quella volta ho commesso un errore.
Sono arrivato sulla rampa di un salto, in seconda, e avrei dovuto mettere la terza: ho alzato il piede sinistro per inserire la marcia, solo che quella non è entrata e sono rimasto in folle. Ma ero già sulla rampa, ormai. Quindi ho saltato in folle, e naturalmente mi sono cappottato in avanti.
E stato proprio un gran volo; infatti mi sono rotto il polso sinistro. Ho pensato subito al campionato europeo, quindi al rischio di perdere il diritto al Mondiale l’anno seguente.
Ho deciso di rinunciare all’ultima prova del campionato italiano, al Mugello. Prima di correre la gara in Portogallo, a Braga, avrei avuto più tempo per recuperare.
Il dottor Costa mi ha aiutato: mi ha fatto una fasciatura rigida, per farmi gareggiare comunque. Ma quando eravamo ormai alla vigilia della gara, mi ha detto: «Sembra tutto a posto, però la muscolatura del braccio si è un po’ ridotta, non so se riuscirai a guidare con la forza necessaria».
«Perché non trovi il modo di verificare se puoi guidare?» mi ha suggerito.
“Va bene, ma come faccio?” mi sono chiesto.
Avevo 16 anni, non possedevo la patente per guidare la moto da strada e non ero nelle condizioni per andare in pista. Ma non potevo certo rinunciare a quella gara, perché mi servivano i punti per qualificarmi entro le prime tre posizioni, altrimenti non avrei avuto il diritto ad andare al Mondiale. Dovevo quindi andare per forza a correre a Braga.
Poi mi è venuta un’intuizione: “Vado al Pistino!”.
Ho estratto dal garage il mio Zip verde acqua e mi sono presentato per questo importantissimo test. Era bellissimo, quello Zip. Mi piaceva così tanto che lo custodisco ancora nel mio garage.
L’Aprilia era troppo pesante, così andando avanti con le sfide avevo comprato prima l’Honda zx e poi lo Zip. L’Honda andava forte ma grippava sempre perché non raffreddava bene. Lo Zip era molto competitivo. E mi piaceva da matti. Era lo Zip Fast Rider, che naturalmente avevamo elaborato come se fosse stata una moto da gran premio.
Al Pistino avrei potuto verificare le condizioni del polso, e valutare di conseguenza le mie capacità di guida, oppure il livello di impedimento. Ero molto concentrato: vivevo la tensione tipica dei momenti importanti.
Quella sera, al Pistino, non ho solo girato: ho fatto il record della pista.
“Siamo a posto: posso correre in Portogallo!” ho pensato mentre rientravo a casa, molto soddisfatto.
A Braga ho conquistato la terza posizione, e mi sono garantito l’accesso al Mondiale per l’anno seguente.
È anche merito del Pistino, quindi, se sono approdato al Mondiale già nel 1996, a 17 anni.
Ma le scorribande più belle sono state quelle con l’Apecar.
Sono stato il primo, nella tribù, ad avere l’Ape. Tutto è nato dal fatto che in inverno, anche se faceva davvero freddo, non ne volevo sapere di abbandonare il mio motorino. Prendevo un sacco di freddo, e a volte molta acqua, ma c’erano anche dei vantaggi. La mattina potevo risparmiare venti minuti di sonno, rinunciando all’autobus.
Ecco perché non lo usavo mai, l’autobus, e andavo invece col motorino: avrei dovuto svegliarmi con mia mamma che mi attaccava sempre un sacco di “pezze”:
«Dai, fai svelto, muoviti che sei in ritardo…» ripeteva sempre.
Invece in quel modo rimanevo almeno dieci minuti da solo, a dormire; e come me li godevo quei minuti! Già, perché si tratta di un momento importante. A quell’ora, prima della sveglia, quando magari stai riposando benissimo, dieci minuti di sonno in più ti sembrano un’ora!
Avevo fatto i calcoli: nel tratto Montecchio-Pesaro ero più veloce dell’autobus. Mi servivano dagli undici ai dodici minuti per quel tragitto, e quando poi trovavo un camion mi mettevo in scia, così “toglievo” ancora qualche secondo. Partivo alle 7.57
per essere a scuola alle 8.10. In ogni caso, anche quando non c’erano intoppi lungo il tragitto, ero sempre l’ultimo a entrare in classe.
Ma c’era freddo, questo era innegabile. E spesso era necessario adattarsi alle varie situazioni. Quando dovevamo raggiungere il gruppo in cui c’erano le ragazze, arrivavamo in scooter, tutti imbacuccati: cioè col piumino, i guanti da montagna e la sciarpa. Cinquecento metri prima del ritrovo, ci fermavamo, tiravamo fuori il Barbour, i guantini di pelle, il cappellino di lana molto trendy. Ci presentavamo, quindi, in un modo migliore.
«Ma non avete freddo?» ci chiedevano le ragazze.
«Nooo, ma va’, è un’impressione, si resiste bene» rispondevamo noi, congelati.
I miei genitori, però, non è che fossero proprio contenti di sapermi tutti i giorni in balia delle intemperie.
«Secondo me, possiamo comprare un Ape» ha proposto quindi Graziano, un giorno.
«Ma che dici, io con un Ape! Guarda, è veramente una pessima idea» ho replicato, sdegnato.
Ma lui ha insistito, e mi ha comprato un Ape del 1979. Cioè, un mezzo del mio stesso anno di nascita.
Quindi io sono stato il primo, nella tribù, ad avere l’Apecar. Arrivai a Tavullia, al Portico, e ci fu un minuto di silenzio. La platea era sbalordita. Perché l’immagine che abbiamo sempre avuto dell’Ape è quella di un pensionato che la mattina presto va non si sa dove, per passare il tempo; oppure ha qualcosa da fare, da caricare, da portare.
Secondo noi, l’Ape non era un mezzo da ragazzini: infatti da noi non si erano mai visti dei giovani sull’Ape!.
Mi sono presentato con un Ape arancione (il vero “apista” lo sa che l’Ape originale era quello arancione…). Sono sceso, tra lo stupore generale, e i miei amici hanno iniziato a girarci intorno, a scrutare il nuovo oggetto.
Aveva il freno a tamburo, tutto arrugginito, e il tergicristallo ad azionamento manuale. I miei amici non erano per nulla convinti, ma li ho poi persuasi con i fatti.
La sera, io arrivavo con l’Ape, loro con i motorini.
«Ragazzi, avete freddo, vero?» chiedevo io, ironico.
Così, nel giro di un anno e mezzo, a Tavullia circolavano almeno una dozzina di Ape. L’hanno comprato tutti. Naturalmente, in pochi giorni l’abbiamo trasformato in ciò che per noi era lo scooter: un prototipo altamente tecnologico, pieno di elaborazioni. Un mezzo da gara.
Con l’Ape abbiamo dato tutto. Abbiamo esagerato.
Abbiamo introdotto l’abitudine di gareggiare senza limiti nel contatto fisico; è iniziato il periodo delle sportellate e dei tamponamenti.
“Tanto siamo protetti, non ci facciamo male” pensavamo tutti, e sentendoci così sicuri, a volte abbiamo dato vita a duelli talmente cruenti che sembrava di essere sull’autoscontro al luna park.
Come se non bastasse, si è diffuso un vizio: parcheggiare “addosso” agli altri, investendo il primo che si fermava.
I nostri Ape erano completamente ammaccati: bisognava adottare delle modifiche.
Ad esempio, poiché il telaio flette molto (diciamo che non è un Deltabox!) a causa dell’uso “racing” e quindi delle sportellate, eravamo costretti a bloccare una delle due portiere: quella che, a causa delle botte, si chiudeva peggio; perché, a forza di colpi, finiva che la portiera si poteva aprire all’improvviso, magari nel pieno del duello.
Quindi la tenevamo chiusa a chiave.
Ma se la carrozzeria era sfasciata, i motori erano a posto: compravamo gli Ape che erano dei 50, e poco dopo la cilindrata lievitava e alcuni (ad esempio il mio) sono diventati anche dei 140!
Più avanti ci siamo anche un po’ raffinati: usavamo l’Ape d’inverno, perché c’era freddo, mentre in estate andavamo in scooter.
In realtà, la scelta dipendeva anche dall’intensità dei sequestri da parte dei carabinieri: a seconda dell’evenienza, uno si arrangiava, e magari era costretto a usare lo scooter anche in inverno.
II record dei sequestri spetta a Uccio: ne ha totalizzati ben sei. Io sono stato abbastanza fortunato, però un primato spetta anche a me: mi sono fatto ritirare l’Ape nello stesso giorno in cui me lo avevano rilasciato dopo un precedente sequestro.
Un sabato, di pomeriggio, sono andato a recuperarlo, e quello stesso sabato, ma di sera, me lo hanno ripreso un’altra volta.
Era sempre il periodo del braccio ingessato, quello legato alla gara dell’Europeo che mi ha dato l’accesso al Mondiale. Avevo deciso di andare al Pistino anche se non potevo gareggiare, ma da solo non riuscivo a guidare. Così ci sono andato con Uccio.
L’Ape però ha una cabina stretta, in due non ci si sta: se si entra in due, uno deve guidare tenendo il volante, l’altro deve usare il freno posteriore (quello anteriore non serve a niente). Avevamo assunto una posizione di guida un po’ stramba: visto che avevo il braccio ingessato, ero obbligato a tenerlo in alto; così facendo, una volta nell’abitacolo io e Uccio eravamo praticamente abbracciati: con il mio braccio intorno al suo collo e appoggiato alla sua spalla.
Naturalmente il fatto che in due, con l’Ape, non si potesse andare, a meno che uno non fosse stato maggiorenne (e nessuno di noi due lo era), ci è apparso un dettaglio facilmente risolvibile. Abbiamo fatto finta di niente…
Poco dopo l’inizio del viaggio siamo incautamente passati davanti a una pattuglia, e subito dopo abbiamo visto che la macchina ci inseguiva con i lampeggianti accesi.
«Dai, frena» mi ha detto Uccio, un po’ rattristato.
«No, vai, proviamo a scappare, accelera!» l’ho incitato.
«E dove andiamo, conciati così?» ha cercato di convincermi lui.
«Non abbiamo la targa, né l’assicurazione; è tutto illegale, tanto vale provare a fuggire» ho replicato.
Ma è stata una fuga breve, infatti ci hanno presi subito. E quando si sono avvicinati, i carabinieri erano veramente incazzati. Sono arrivati con passo lento, pesante, cadenzato. Le facce, da sole, bastavano a farti pensare che era stata proprio una grandissima sfiga farsi beccare in quel momento lì…
«Dov’è la targa?!» ha chiesto uno.
«Non ce l’ho» ho risposto.
«Dov’è l’assicurazione?!» ha chiesto un altro.
«A casa…» ho replicato.
«Bene, fila dentro!» mi hanno detto quasi in coro.
“Dentro” voleva dire nella loro macchina. Mi hanno sequestrato l’Ape, quindi portato in caserma.
Uccio invece è rimasto in mezzo alla strada, da solo. Mentre andavamo via ci guardava con aria sconsolata e un po’ attonita, perché non sapeva bene cosa fare.
Il sequestro è durato un mese. Per recuperarlo mi sono dovuto presentare in caserma, un sabato mattina, accompagnato dai miei genitori. Che erano di pessimo umore.
«Devi fare il bravo, devi andare piano, devi fare a modo…» ripeteva mia mamma.
«Va bene, ho capito, lo farò…» la rassicuravo.
Il mio babbo Graziano invece non diceva niente, era solo incazzato come una bestia.
Sabato pomeriggio sono uscito con l’Ape, naturalmente, raggiungendo i miei amici.
«Stasera si va al bowling» ha proposto uno, quando abbiamo dovuto pensare al programma per la serata. Ed è stato tutto un coro di consensi.