Valentino Rossi

PENSA SE NON CI AVESSI PROVATO

L’autobiografia

con Enrico Borghi

MONDADORI

www.librimondadori.it

ISBN 88-04-54738-3

Copyright © 2005 Valentino Rossi

Translation copyright © Gabriele Marcotti

© 2005 Arnoldo Mondadori Editore S.p.A., Milano Titolo dell’opera originale: What if I Had Never Tried It I edizione novembre 2005

III edizione novembre 2005

INDICE

Valentino Rossi …………………………………………………………………………………….. 1

Pensa se non ci avessi provato ………………………………………………………………… 3

1………………………………………………………………………………………………………….. 3

2………………………………………………………………………………………………………… 10

3………………………………………………………………………………………………………… 35

4………………………………………………………………………………………………………… 48

5………………………………………………………………………………………………………… 58

6………………………………………………………………………………………………………… 63

7………………………………………………………………………………………………………… 72

8………………………………………………………………………………………………………… 83

9………………………………………………………………………………………………………. 103

10 …………………………………………………………………………………………………….. 118

11……………………………………………………………………………………………………… 132

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Pensa se non ci avessi provato

1

Quando abbiamo scollinato verso sinistra, piegatissimi, in terza piena, a 170

all’ora, dalla mia Honda vedevo solo le marmitte superiori della sua Yamaha. Perché lui era ancora davanti a me, all’ingresso della curva che scavalca la collina. Nel punto in cui non hai più un orizzonte. Ero incollato a lui. Eravamo alla fase finale di un duello iniziato da otto piloti e finito con due. Noi due. Io e Biaggi. Alla resa dei conti del campionato 2001. Ultimo giro. Ultimo punto difficile. Ultimo attacco. Ultima possibilità, per me.

Quella curva si effettua su un tratto di asfalto spalmato su una collina lieve e verdissima. Ne copia il rilievo, è come affrontare una lunga “esse”, un sinistra-destra il cui apice è sulla vetta: prima di quel punto sei in salita, dopo in discesa. Quando entri non puoi vedere cosa c’è dall’altra parte. Devi guidare a memoria. Non sai dove puoi andare a frenare, lo capisci solo quando sei già dall’altra parte. Se non sei stato preciso, ormai è tardi.

Progettando l’attacco ho cercato la traiettoria esterna, in modo da ritrovarmi poi subito alla sua destra, nella breve discesa, e quindi al suo interno nella curva successiva, che è appunto a destra: si affronta in prima, dopo aver scalato tre marce.

Se sbuchi in testa laggiù, è fatta. Ho sfiorato col gomito le marmitte e la ruota posteriore della sua Yamaha. Rischiando, certo, ma dovevo farlo pur di arrivare poi in frenata davanti a lui. E l’ho fatto. Quando si è accorto che ero lì, al suo fianco, all’esterno, era troppo tardi per reagire. Sono sceso affiancandolo, entrando per primo nella stretta curva a destra, non mi sono fatto sorprendere nel lunghissimo curvone successivo, a sinistra, e ho tagliato per primo il traguardo.

Ho vinto il Gran Premio d’Australia 2001, diventando il nuovo campione del mondo della 500.

Quando, tre anni dopo, io e Gibernau siamo arrivati in quello stesso punto, lui si aspettava il mio attacco. Perché eravamo nell’ultimo giro e perché ci avevo già provato poche curve prima, ma poi avevo commesso un errore e lui mi aveva risuperato. Sapeva, quindi, che lo avrei attaccato ancora.

Questa volta ho deciso di entrare all’interno, nel curvone che scollina, così da ritrovarmi già in testa all’inizio della piccola discesa. Volevo risolvere la faccenda prima della staccata in discesa. Quindi ho attaccato all’ingresso del curvone, proprio nel cambio di pendenza.

“Ce l’ho fatta” ho pensato per un istante, invece lui ha lasciato i freni ed è riuscito a chiudermi. Quindi siamo entrati insieme nella curva all’apice della collina, con la sua Honda che ha sfiorato la ruota anteriore della mia Yamaha. Ma all’improvviso l’ho visto allargare e ho capito che stava spostandosi verso la tangente. Andava alla deriva perché non riusciva a chiudere la traiettoria.

“Ah, ti allarghi, eh sì che ti allarghi, sì, sì, non ce la fai, sei largo, passo io” ho pensato, dando un colpo di gas deciso e portandomi in testa.

In quel punto vai forte e sei molto piegato, quindi non puoi toccare i freni, non puoi alzarti: se sbagli qualcosa, se non hai la velocità giusta, finisci fuori. Lui era entrato troppo forte, io invece ero perfetto.

Così l’ho superato, quindi sono entrato per primo nella curva lenta a destra. Come tre anni prima. Ho vinto il GP Australia 2004.

Ho vinto con la Yamaha. Ho battuto la Honda. E sono rimasto campione del mondo della MotoGP.

Sono stati due grandissimi sorpassi, giunti al culmine di due splendide gare e di due stagioni intensissime. La prima con la 500, la seconda con la MotoGP.

Le casualità che si sono verificate a distanza di tre anni mi hanno sempre fatto pensare a qualcosa di magico. Quelli del 2001 e del 2004 sono stati i campionati più combattuti, ma soprattutto i più ricchi di significati, tra quelli che ho conquistato. Li ho vinti sulla stessa pista, a Phillip Island, effettuando due manovre incredibili ed estreme proprio nello stesso punto, nello stesso momento cruciale della stagione, nella stessa situazione di classifica. Perché in entrambi i casi volevo vincere la gara per chiudere l’intera partita.

Quella lunga curva a sinistra dove ho effettuato due dei sorpassi che mi hanno dato più gusto, in tutta la mia carriera, è la parte forse più esaltante di una pista fantastica, alla quale sono legatissimo. Dopo il lungo rettilineo di partenza raggiungi il mare con una serie di curve a volte ampie, a volte strette, con cambi di velocità e pendenza.

Raggiungi e poi abbandoni il mare due volte, prima di imboccare la lunga rampa che ti fa salire verso l’alto, cioè al curvone a sinistra che scollina. Ma prima, c’è una variante velocissima: arrivi in quarta, a 200 all’ora, ti butti nel cambio di direzione

“destra-sinistra” in terza marcia, a 170, e finalmente affronti quel lungo curvone in salita sul quale ho conquistato i due titoli mondiali più sofferti e significativi.

Quella è una delle curve in cui resti maggiormente in piega continuando a viaggiare ad alta velocità, senza poter guardare cosa c’è alla fine. È uno dei tratti più belli, veloci, difficili di tutto il Mondiale. Devi essere estremamente preciso e sensibile. Quello è un punto in cui il pilota fa la differenza. Così come fa la differenza l’ultimo giro.

Mi piace sconfiggere un avversario veloce nell’ultimo giro. È un modo esaltante per vincere una gara. Certo, a volte sarebbe meglio togliersi dai guai cercando di andare in fuga, ma quando capisci che non potrai scappare non ti resta che aspettare l’ultimo giro. Che è una specie di ultima sfida. Ti sei preparato, hai studiato le traiettorie del tuo avversario, giro dopo giro hai capito dove lui è forte e dove è più debole, sai dove potrai attaccarlo. È uno dei momenti più emozionanti. Nell’ultimo giro puoi cogliere di sorpresa un pilota una volta sola, poi non ci casca più. Dopo è tutto più difficile.

In quella gara Biaggi e Gibernau hanno dato tutto. Anch’io. Era la gara decisiva, non ci si giocava solo il Mondiale ma la svolta delle rispettive carriere. Nel 2001 io e Biaggi lottavamo per conquistare il nostro primo titolo della 500, che era contemporaneamente anche l’ultimo in palio della mezzo litro: l’anno seguente sarebbe infatti iniziata l’era della MotoGP. La stagione 2001 avrebbe chiuso il glorioso periodo della 500. Io non avevo mai vinto il titolo della mezzo litro, ero arrivato nella massima categoria solo l’anno precedente, e avevo quindi quell’unica possibilità per conquistare un titolo che avevo sempre sognato e che volevo fortissimamente.

Sapevo di avere una sola carta da giocare, ed era la stagione 2001. Anche Biaggi era nelle mie condizioni, ma volevo essere io l’ultimo campione del mondo della 500.

Nel 2004 la posta in palio era altissima, visto quello che era successo l’anno prima: avevo deciso di lasciare la Honda, ero andato alla Yamaha per cercare nuovi stimoli, volevo dimostrare che sarei stato in grado di vincere anche senza una moto, la Honda, che per tutti era invincibile.

Avevo scelto di correre con la Yamaha, moto e squadra in grande difficoltà. Il livello della sfida era altissimo, perché in gioco c’erano anche risentimento, orgoglio, rancore, onore. La stagione 2004 avrebbe chiuso una faccenda completamente diversa, avevo quindi molta più pressione. Sapevo che vincere subito, con la Yamaha, al primo anno,avrebbe cambiato molte cose nel mondo del motociclismo da corsa. E

così è stato.

In Australia, sulle colline di Phillip Island, ho messo la parola fine a un discorso apertosi in Sudafrica.

Già, il Sudafrica. Welkom. Il 18 aprile 2004. Una giornata entrata nella storia del motociclismo. Ho vinto la prima gara che ho corso con la Yamaha. La prima gara del Mondiale 2004. Una cosa impensabile anche per me.

Quando mi sono fermato a bordo pista, e sono sceso dalla mia Yamaha sedendomi poi accanto a lei, sull’erba, avvolgendo le braccia alle gambe e tenendo la testa abbassata, non stavo piangendo. Dietro la visiera nera, io ridevo. Già, perché quando sono felice io rido. In quel momento, accucciato sull’erba, appoggiato alle gomme, vicino alla mia Yamaha, ridevo perché mi sentivo orgoglioso, sollevato, felice.

“Allora avevo ragione io!” pensavo, tra me e me.

“Non riesco a crederci, li ho fregati tutti, che spettacolo!” continuavo a ripetere.

Una volta dissi che volevo una moto per vincere a Welkom. È stato durante un incontro con Davide Brivio (il team director del Team Yamaha MotoGP) e Lin Jarvis (il responsabile dei programmi sportivi della Yamaha), quando avevo già deciso che avrei corso con la Yamaha la stagione 2004. Dissi che volevo una moto in grado di vincere già in Sudafrica, ed erano rimasti tutti perplessi.

A volte, durante i colloqui che facevo con i ragazzi della Yamaha, verso la fine del 2003, me ne uscivo con frasi che li lasciavano un po’ stupiti. A volte spaventati. Lo facevo per dare motivazione a tutto il gruppo.

Furusawa, Jarvis, Brivio mi spiegavano sempre i progetti che la Yamaha aveva e le cose che avrebbero fatto, quasi per rassicurarmi. Una volta mi parlarono di come in Giappone stavano cambiando il reparto corse, attraverso l’assunzione di ingegneri nuovi. Mi dicevano che avrebbero ingaggiato questo o quel tale, e mi ripetevano sempre: «Guarda che abbiamo la possibilità di farla andare, questa moto, stai tranquillo!».

Io ascoltavo. In effetti sulla carta c’era davvero un importante programma di rinnovamento, ma a quell’epoca non potevo esserne così sicuro. Era solo il 2003, la miglior Yamaha accusava, come passo di gara, un ritardo da me in media di un secondo al giro: prendere un secondo al giro, a questi livelli, in questo sport, è come prendere un anno…

Così pensavo, riflettevo, e ogni tanto mettevo in guardia Davide Brivio: «Lo sai, vero, che se poi tutto questo non succede io me la prendo con te?! Perché io conosco te, non Jarvis e Furusawa, ed è con te che me la prenderò».

Lui continuava ad ascoltare.

«Se la moto non va, poi sono cazzi tuoi!» e a quel punto mi guardava con una faccia strana, molto preoccupata.

Eravamo tutti preoccupati, prima di iniziare a lavorare insieme, lui però era obbligato a essere ottimista. Forse più di quanto non fossi costretto a esserlo io.

Quindi, sì, una volta gli ho detto questa frase: «Voglio una moto per vincere a Welkom» ma sono cose che si dicono per dare, e per darsi, morale. Non sai mica che poi riuscirai davvero a vincere. Non puoi esserne sicuro fino a quando non lo hai fatto.

I piloti dicono sempre un sacco di cose; a volte sono frutto di certezze ma il più delle volte sono solo speranze, oppure tentativi d’autoconvincersi. Ma poi ogni pilota deve fare i conti con i fatti e con gli avversari.

Quando sei in pista e ti misuri con gli altri, tu lo sai come stanno le cose. Sai come vai tu e come vanno gli altri. Sai com’è la tua moto e come sono quelle dei tuoi rivali.

Poi ai giornalisti, a tua mamma, alla tua morosa, al tuo capotecnico, puoi raccontare quello che vuoi, ma tu lo sai come stanno le cose. Puoi inventarti che sei caduto perché la moto non ha seguito la traiettoria che hai impostato, oppure puoi raccontare che tu sei velocissimo ma la moto proprio non va più di così. Ma dentro di te, lo sai che sei caduto perché hai sbagliato, oppure che in certi punti il tuo avversario è più veloce.

Però a volte succede il contrario: dentro di te sai perfettamente se le tue vittorie le hai ottenute in curva, sfruttando le tue capacità, e non in rettilineo, traendo quindi vantaggio dalla potenza del motore. Sai che gli altri cercano scuse, e sono bugiardi quando sottolineano che vinci solo perché hai una moto migliore.

Io ho sempre saputo il perché di ogni mia vittoria e di ogni mia sconfitta. Quindi, a fine 2003, dopo aver vinto tutto con la Honda, ero certo di poter vincere con un’altra moto. Ma fino a quando non lo fai non sai veramente qual è la verità. Ecco perché, un giorno, ho provato a cercarla, la verità.

Ancora non potevo immaginare che avrei vinto il titolo mondiale addirittura con una gara di anticipo, mentre tutti dicevano che quell’anno avrei subito solo delusioni.

In una delle ultime gare, quando il mio progetto era diventato l’argomento preferito di conversazione di tutto il paddock, un mio amico ha sentito casualmente Gibernau che, guardando in un monitor un filmato che mi ritraeva mentre stavo ridendo, ha affermato: «Vedrai che l’anno prossimo, quando correrà con la Yamaha, e sarà lì per terra che scivola, riderà meno…».

Certo, ancora non potevo realizzare che avrei poi conquistato lo stesso numero di gare - nove - vinte l’anno precedente con la Honda.

Non potevo nemmeno rendermi conto che avrei corso in testa, cioè in fuga, praticamente tutta la stagione che noi, in Yamaha, pensavamo sarebbe stata piena di sofferenze.

Però sapevo già almeno una cosa: avevo fatto qualcosa che era entrata nella storia di questo sport.

Quella è stata la gara più densa di significati di tutta la mia carriera. Per molti motivi. Perché era la prima con la Yamaha. Perché ho lottato fino all’ultima curva con Biaggi. Perché abbiamo girato talmente forte che il terzo classificato,Gibernau, faceva parte di un’altra gara e il quarto era in pratica scomparso. Perché avevo dimostrato tutto quello che volevo dimostrare: l’importanza dell’uomo. Era la prova che cercavo.

Abbiamo lasciato il circuito, e la cittadina di Welkom, poche ore dopo la conclusione della gara. Andavamo verso l’aeroporto, per prendere il volo British Airways che ci avrebbe riportati a Londra. Avevo deciso, già prima di arrivare in Sudafrica, che sarei ripartito domenica sera, per essere in Europa lunedì.

Il viaggio da Welkom a Johannesburg dura tre ore, se si affronta in auto. Io ero in un minivan Volkswagen, sdraiato sui sedili posteriori; alla guida c’era l’autista che avevamo incontrato al nostro arrivo in Sudafrica. Con me c’erano Uccio, il mio migliore amico, che in realtà si chiama Alessio Salucci; e Gibo, il mio manager, che per l’anagrafe è Luigino Badioli.

Mi godevo quindi la soddisfazione per quello che avevo fatto, mentre continuavo a fare e a ricevere telefonate dall’Italia. Sentivo che i miei amici non rispondevano come al solito. Erano diversi. Dovevano fermarsi spesso perché non riuscivano quasi a respirare; non ce la facevano a esprimere tutto quello che volevano dirmi. Ogni volta io provavo dei brividi, sentivo la pelle che quasi si alzava lungo le braccia e la schiena. Percepivo il loro stupore, la gioia, la commozione. Momenti emozionanti ne avevo già vissuti tanti, quel pomeriggio, ma sentire i miei amici reagire così mi ha fatto davvero capire che era successo qualcosa d’importante.

È stato allora che ho avvertito la sensazione di aver prodotto un cambiamento forse epocale nel mondo del motociclismo.

Ricordo quello che sostenevano i piloti, fino a quel giorno: se vuoi vincere, dicevano, devi avere una Honda.

Mi sono venuti in mente anche quelli che dicevano che lasciare la Honda per la Yamaha sarebbe stata una follia senza futuro. E poi, gli ingegneri: rammentavo quelli che sostenevano che un reparto corse può sviluppare una moto anche senza seguire le indicazioni del pilota.

Bene, da quella gara (senza contare poi l’intera stagione 2004) tutto questo non è più stato vero.

Secondo me non è mai stato vero, ma in Sudafrica era finalmente apparso chiaro a tutti quale fosse l’importanza dell’uomo, cioè del pilota, nello sviluppo di una moto da corsa, nella sua messa a punto, nella sua prestazione in gara.

Alla fine del 2003 mi ero assunto la responsabilità di dimostrarlo e c’ero riuscito al primo tentativo. Quindi questo sport, per tante cose, da quel giorno lì, il 18 aprile 2004, è cambiato.

Comprendevo, mentre ci ripensavo, che da lì in poi nessun pilota avrebbe potuto attaccarsi troppo a certe scuse; ma soprattutto, avevo indotto molti ingegneri a rivedere le proprie certezze, li avevo spinti a considerare che bisogna rispettare di più le indicazioni del pilota. E ho realizzato, con profonda soddisfazione, che di questo avrebbero potuto beneficiarne tanti piloti in futuro.

Eppure la vigilia della gara di Welkom, così come quella di Phillip Island, sei mesi dopo, la ricordo come la vigilia di qualsiasi altra gara. Ma è normale, per me, perché io non do mai troppo peso al fatto che una gara importante oppure un sorpasso possono cambiare la mia carriera e la mia vita. Mi immergo così tanto nel vortice delle cose alle quali devo pensare - la messa a punto della moto, la scelta delle gomme o degli assetti, il modo in cui sto guidando io e come guidano gli altri nei vari punti - che non rifletto mai su che cosa c’è in gioco in gara.

Penso solo al regime di rotazione a cui devo portare il motore per partire bene, a come devo lasciare la frizione; oppure che devo entrare nella prima curva in un certo modo, magari mezzo metro più all’interno perché altrimenti perdo mezzo decimo, che devo staccare in quel determinato punto. Insomma, penso a come guidare.

Quando mi metto la tuta, salgo sulla moto e vado sulla linea di partenza, il mio cervello si libera da ogni pensiero che non sia strettamente legato alla guida. Riesco a isolare tutto il resto, non mi faccio sopravanzare dal nervosismo, non mi metto mai a pensare, quando abbasso la visiera, che mi sto giocando la faccia oppure il campionato o addirittura la carriera.

Non me lo impongo, mi viene naturale. Ecco perché molte volte mi si vede scherzare o sorridere pochi minuti prima della partenza.

Questo atteggiamento mentale è di basilare importanza, per me. Non potrei concepire nessun altro modo di correre. Perché se ti metti nella testa troppi pensieri finisci per commettere degli errori.

Immagino che sia come quando un giocatore deve tirare un calcio di rigore: quando inizia a pensare troppo a quello che potrebbe succedere se lo sbaglia, perde la concentrazione e finisce per sbagliarlo davvero. Chi batte bene, non pensa “questo rigore può cambiare la mia carriera o il destino della mia squadra”: pensa a come fare gol e basta. Chissà, forse quelli che il rigore l’hanno sbagliato pensavano, in quel momento decisivo, proprio a quelle cose lì. Si erano messi troppi pensieri nella testa.

Comunque, nelle gare di moto, quando sei sulla griglia di partenza, sai che stai per affrontare 5-600 curve, a volte anche 30 giri al limite, tanto che se sbagli di un metro rovini tutto; e allora devi cercare di allontanare la pressione: perché se ti fai coinvolgere troppo questa diventa insostenibile.

Quindi a Welkom, pochi istanti prima della partenza, non ho pensato cose del tipo:

“Sono con la Yamaha, sono in pole, se vinco questa gara cambio la mia carriera”, o cose di questo genere…

Ci ho pensato dopo. Mentre ero seduto sull’erba accanto alla mia Yamaha, mentre rientravo ai box per raggiungere la mia nuova squadra, mentre andavo a Johannesburg, mentre lasciavo Phillip Island. Mentre ero sugli aerei che mi hanno riportato a casa.

2

Un’avventura che inizia con un incontro segreto a Ibiza non può andare male.

Oggi lo so, ma nel febbraio del 2003, quando Davide Brivio è venuto a parlarmi del suo progetto, non ci avevo ancora pensato.

Ero a Ibiza, in quel periodo, perché avevo appena acquistato una casa e dovevo fare il punto della situazione sui lavori necessari.

Non c’è mai molta gente, in inverno, sull’isola, così io e Gibo abbiamo pensato che fosse un ottimo posto per incontrare il team director della Yamaha.

«Sentiamo cosa ha da dirci. In fondo rappresenta la seconda Casa costruttrice del mondo, se la Yamaha è così interessata dobbiamo ascoltare i loro progetti» ho detto a Gibo, anche se l’idea di lasciare la Honda in quel periodo era ancora lontana. Non ero proprio a mio agio, nel Team Honda, ma non avevo nemmeno preso in considerazione la possibilità di cambiare moto e team.

Io dormivo, a mezzogiorno, quando è arrivato Brivio. Lo ha accolto Gibo, poi insieme hanno deciso che avrebbero anche potuto svegliarmi. Quando sono stato in grado di capire che cosa stesse succedendo era arrivata l’ora di pensare al pranzo, così ci siamo subito organizzati. Una doccia, qualche minuto per vestirmi, ed eravamo tutti in giro per l’isola.

Ho scelto un ristorante sulla spiaggia, uno di quelli che si trovano lungo Las Salinas Beach, che è uno dei posti più caratteristici di Ibiza, e durante il trasferimento ho illustrato al nostro ospite le bellezze e le attrazioni dell’isola.

Lo conoscevo già bene, io, Davide Brivio. Ma non avevo mai parlato con lui di lavoro. Cioè, della possibilità di trasferirmi alla Yamaha. Perché era di questo che era venuto a parlare. E lo sapevo. Ecco perché ho pensato di invitarlo a Ibiza: lì ci saremmo mantenuti lontani, anche mentalmente, dal mondo delle corse.

Fino ad allora con Brivio aveva parlato soprattutto Gibo. La prima volta è stato nel settembre del 2002, a Rio de Janeiro, poche ore dopo la mia conquista della gara e del titolo della MotoGP. Quella corsa, vinta sotto la pioggia, aveva segnato un momento storico, non solo per la mia carriera: ero infatti diventato il primo pilota ad aver vinto un titolo mondiale in 125, 250,500 e MotoGP.

Brivio si era fatto avanti subito, chiedendo un incontro pur sapendo che il mio contratto con la Honda sarebbe scaduto solo alla fine del 2003.

A tavola abbiamo parlato di tante cose - dell’isola, della casa, anche delle corse -

senza però mai toccare l’argomento per il quale Brivio era venuto a Ibiza. Abbiamo cominciato a discuterne solo dopo, quando siamo tornati a casa.

«Vogliamo te» disse Brivio, senza preamboli.

Io sono rimasto in silenzio, a riflettere. Me l’aspettavo, quella frase, eppure mi suonava un po’ strana.

«Non riusciamo a battere la Honda solo perché non abbiamo te» ha aggiunto. Poi ha chiarito la situazione.

«Per ora questa è soltanto una mia idea; non è un vero progetto Yamaha. Sono venuto perché vorrei sapere se la cosa ti può interessare. Se pensi che possiamo parlarne, questo mio progetto lo presenterò ai giapponesi; altrimenti, tutto finisce qui.»

Brivio era stato chiaro e sincero. In quel periodo, infatti, quella era essenzialmente una sua idea.

«I giapponesi sanno che sarei venuto a parlarti, ma per ora non hanno dimostrato una curiosità particolare» ha precisato.

Ho continuato ad ascoltarlo, anche se in realtà in quell’incontro non si è sbilanciato nessuno. Né lui né, tanto meno, io.

Però mi ha colpito il modo in cui Davide parlava della Yamaha, del suo team, del suo lavoro. Esprimeva una passione forte, un grande coinvolgimento. E la cosa ha destato curiosità, in me.

«È interessante, ne possiamo parlare» ho risposto. E non erano parole di circostanza. Non volevo certo illuderlo troppo, ma nemmeno scoraggiarlo.

Infatti lui ha preso coraggio. Quando è tornato a casa, ha iniziato a parlarne subito ai giapponesi. Io, invece, ho cominciato a guardare la Yamaha con maggiore interesse. Soprattutto, con occhi diversi.

Prima per me era stata solo un avversario: nel 2001 e nel 2002 quella era la squadra che sosteneva Biaggi. Nel primo anno della MotoGP, il 2002, la Yamaha aveva vinto due gare con Biaggi: una a Brno, dove ho avuto un problema alla gomma posteriore ma Biaggi andava comunque forte, e l’altra in Malesia, dove avevo perso tempo lottando con Barros mentre Biaggi scappava.

Ma in quella stagione 2003 la Yamaha mi appariva soprattutto un’azienda che non aveva un pilota in grado di seguire lo sviluppo della moto. In effetti era proprio così.

Perché in un gesto quasi di disperazione, a fine 2002 a Iwata avevano deciso di non rinnovare il contratto a Biaggi, perché i loro rapporti si erano molto deteriorati, e avevano poi deciso di ripartire mantenendo Checa e ingaggiando Barros.

Non era una brutta squadra, sulla carta: Checa era stato spesso veloce, Barros un paio di volte mi era stato davanti nel finale del campionato 2002 quando guidava la RCV.

Ciò che è successo in quella stagione ha dimostrato però che i due piloti non riuscivano a portare avanti lo sviluppo in modo parallelo: uno diceva che il problema risiedeva nel motore mentre il telaio andava bene, l’altro affermava l’esatto opposto, così i tecnici non avevano una direzione chiara da seguire e la moto non faceva progressi.

Quindi, sin dall’inizio del Mondiale 2003, la Yamaha sembrava a tutti, naturalmente anche a me, un autentico disastro. E in effetti lo era davvero.

A Suzuka, per la prima gara della stagione, ne hanno preso atto anche i più alti dirigenti della Yamaha: dal presidente ai suoi collaboratori più stretti, dai manager agli ingegneri, c’era infatti tutto il vertice di Iwata ad assistere alla prova di apertura.

E tutti avevano quindi assistito a quella che era stata, per loro, una vera disfatta.

Checa, partito primo, era arrivato decimo, le altre Yamaha non erano state certo eccezionali. Barros, poi, si era fatto male (in modo serio, cioè ai legamenti di un ginocchio) già nel warm up.

In quella gara hanno preso una paga devastante. E non solo da me, che avevo vinto battendo Biaggi e Capirossi, al debutto con la Ducati.

Quando il gruppo dirigente è rientrato a Iwata, è stata indetta una riunione nella quale hanno realizzato che serviva una vera rivoluzione.

«Figure così non ne dobbiamo fare più, bisogna cambiare» hanno detto i dirigenti giapponesi. Decidendo innanzitutto di ristrutturare completamente il reparto corse, dando vita anche a un nuovo progetto per cambiare la M1.

In Yamaha in quel periodo c’era gente che vivacchiava, che non si impegnava come avrebbe dovuto. Il reparto corse non era motivato, non aveva forze fresche in grado di dare un nuovo impulso. Gli ingegneri appartenevano a una generazione differente, non avevano esperienza con le nuove tecnologie applicate ai quattro tempi, e inoltre avevano anche perso un po’ di entusiasmo.

Quanto a me, problemi di moto, con la Honda, non ne avevo. E nemmeno con gli avversari. Però cominciavo ad avvertire l’esigenza di cambiare un po’ la mia situazione. Diciamo che ho cominciato a sentire il desiderio di movimentare un po’ la mia vita e la mia carriera. Anche perché i miei rapporti con la Honda non erano più così idilliaci, per via del diverso modo che avevamo di vedere determinate cose.

Quindi, da un certo punto di vista ero nella condizione adatta a valutare altre possibilità, ma guardandomi intorno non è che vedessi poi moto così competitive.

Ecco perché non ho voluto illudere Brivio, e con lui la Yamaha.

Ma Brivio si era dato da fare, dopo il nostro incontro di Ibiza. E anche i giapponesi di Iwata. Infatti alla vigilia del Gran Premio d’Italia, cioè all’inizio di giugno, Masao Furusawa, il responsabile del reparto corse Yamaha, nonché dell’intero settore moto, ha riferito a Brivio le sue prime valutazioni:

«Alcuni componenti del top management non hanno espresso parere favorevole al tuo piano» ha comunicato a Brivio.

A Iwata si erano decisi a dare un nuovo impulso al programma MotoGP, ma sul mio nome non c’era stata subito l’unanimità. Anche Furusawa, quindi, non si è mostrato molto convinto della riuscita del progetto.

Al Mugello, le Yamaha sono andate di nuovo male: la migliore delle moto ufficiali è arrivata ottava, con Checa, la meglio piazzata è stata quinta con Nakano. Brivio, quindi, ha deciso di insistere con Furusawa, utilizzando proprio quei risultati deludenti come giustificazione. Ha scritto quindi una e-mail al dirigente, che si trovava a Iwata.

«Il pilota è una componente importante nel processo di rinnovamento che sta per partire, quindi secondo me bisogna prendere Valentino Rossi se vogliamo vincere.»

Poi ha aggiunto che io avevo dato la mia disponibilità a incontrarlo, a Barcellona, pochi giorni dopo. Ed era vero, non avevamo alcun problema a parlare con Furusawa, se fosse venuto in Europa.

Furusawa, dopo aver letto attentamente la relazione, ha accettato l’invito. E si è mosso subito. Ha lasciato Tokyo per raggiungere Barcellona, dove l’abbiamo incontrato in un hotel vicino al circuito del Montmelò.

Furusawa non riusciva a credere che io stessi davvero pensando di lasciare la Honda. Per lui era incomprensibile, perfino poco logico. Ma lo era anche per la quasi totalità degli altri dirigenti di Iwata. In effetti non avevo mica deciso che sarei andato alla Yamaha, eppure ero sempre più incuriosito dall’idea. Anche Furusawa era curioso. Ecco perché mi ha fatto subito una domanda molto particolare.

«Qual è il motivo per il quale potresti essere disposto a venire in Yamaha?»

«Posso restare alla Honda, se voglio, e se tutto va bene vincere altri due titoli mondiali. Ma l’ho già fatto. Quindi, prima di chiudere la carriera motociclistica vorrei provare a vincere con un’altra moto» ho risposto, anche perché era così che la pensavo.

Non c’è stato bisogno di aggiungere molte altre cose: ci eravamo studiati reciprocamente, e per il momento ci bastava aver ottenuto delle indicazioni confortanti.

Al termine del nostro colloquio, infatti, Furusawa è sembrato molto più convinto.

Quando ci siamo salutati, lui ha detto che al suo ritorno in Giappone avrebbe cercato di convincere il top management.

I vertici della Yamaha, essendo così distanti da quello che succedeva nel mondo delle corse, non pensavano fosse credibile che io potessi lasciare la Honda per la Yamaha. Era questa considerazione che, all’inizio, li aveva indotti a tenere un atteggiamento piuttosto freddo.

In effetti, in quel periodo ero ancora propenso a restare con la Honda; allo stesso tempo, però, pensavo che sarebbe stato interessante esplorare altre opportunità.

Anche perché dall’altra parte, cioè in Honda, stavano accadendo cose strane.

Ogni volta che Gibo andava a un incontro con i vertici della HRC tornava sempre con frasi strane. E una di queste mi apparve proprio incomprensibile.

«Ci propongono un contratto fatto sulla falsariga di quello di Ukawa.»

Mi sembrava impossibile, in quanto Ukawa è sempre stato inquadrato come un dipendente Honda più che come un pilota a tutti gli effetti.

Eppure Gibo era molto sicuro; infatti di fronte alla mia incredulità mi propose di presentarmi all’incontro che era stato programmato in occasione del GP Olanda, ad Assen, per la fine di giugno.

In quell’occasione, insieme a Nakajima, il direttore della HRC che era anche il nostro maggiore interlocutore, si è presentato Suguru Kanazawa, il presidente della HRC. È arrivato in Olanda pensando che la situazione fosse sotto controllo da parte dei responsabili della squadra, ecco perché ha detto subito che sarebbe voluto rientrare in Giappone con il contratto firmato.

Durante i nostri colloqui, tutto mi appariva un po’ surreale. I dirigenti della HRC

mantenevano delle posizioni che erano decisamente diverse dalle mie. E questo mi ha lasciato molto perplesso. L’incontro non ha contribuito certo a ridurre quelli che erano i miei nuovi orizzonti: cercare di vincere con un’altra moto, affrontare una nuova sfida.

Restando sempre molto fermi sulle proprie posizioni, dandomi quindi l’idea che non avrebbero fatto molti passi verso di me, i dirigenti della Honda hanno contribuito a farmi pensare che forse era arrivato davvero il momento di prendere un’altra strada.

Così, dopo qualche giorno, insieme a Gibo abbiamo deciso di iniziare a guardarci intorno davvero; il che avrebbe significato cominciare a parlare in modo più serio con altre squadre.

Gibo, quindi, ha ripreso i contatti con la Yamaha. Anche perché è stato lui a credere per primo in questa possibilità.

«Con la Honda sei talmente superiore agli altri, che anche se vai con la Yamaha possiamo farcela» mi ripeteva spesso.

Io ero molto più prudente, invece, forse perché ero un po’ influenzato dall’opinione generale secondo la quale vincere senza la Honda sarebbe stato quasi impossibile.

Invece Gibo era molto sicuro.

«Con la Honda, se ti impegni al massimo, vinci con un margine ben superiore a quello col quale vinci adesso: quindi, con la Yamaha, perderai magari un po’ di vantaggio, ma puoi farcela lo stesso» era la sua analisi.

Era opinione abbastanza diffusa, questa, nel mio entourage. Ad esempio, una sera, subito dopo la gara di Barcellona, Flavio Fratesi (l’uomo che ha realizzato con me le grandi gag, nonché il motore del Fan Club insieme a Rino Salucci, il babbo di Uccio) mi ha detto:

«In quella gara ho avuto la sicurezza: hai un tale potenziale, che puoi vincere anche con un’altra moto. Puoi farlo anche con la Yamaha!».

Era stata una gara molto emozionante, il GP Catalogna del 2003: ero dietro Capirossi, sono finito nella ghiaia per un errore e ho perso molte posizioni. Quando sono rientrato in pista ho iniziato a marciare a una velocità nettamente superiore a quella di tutti gli altri, un secondo al giro più veloce! Ho superato diversi piloti in poco tempo e ho chiuso la gara alle spalle di Loris, ma gli ero ormai molto vicino.

La cosa buffa è stata che Flavio ancora non sapeva che noi avevamo effettivamente iniziato a parlare con i dirigenti della Yamaha: non glielo avevamo ancora detto.

Ma lui, da solo, aveva fatto valutazioni che io, e soprattutto Gibo, stavamo facendo in quel periodo.

Comunque, a parte i discorsi fatti nelle serate di primavera, lasciavo che il tempo passasse. Però Jarvis e Brivio a un certo punto hanno chiesto di parlare anche con me.

Hanno iniziato a richiedere, insomma, una mia maggiore presenza, perché volevano effettivamente capire che cosa pensassi realmente.

Ma c’era un problema da risolvere: io in quel periodo non c’ero mai, quindi durante le giornate in cui non erano in programma le gare ero praticamente introvabile.

Magari da Londra andavo a Ibiza, o da qualche altra parte. In ogni caso, ero sempre impegnato in qualche cosa. Di sicuro, trovarmi durante le pause tra una gara e l’altra era proprio difficile. Ecco perché è stato deciso che ci saremmo visti durante i fine settimana delle gare. Ed è quello che abbiamo iniziato a fare.

Certo, incontrarci nel paddock era un’idea apparentemente illogica. Il rischio, per tutti, era notevole. Sarebbe bastata una sola leggerezza per far scoppiare un enorme casino. Ma proprio per questo, cioè proprio per il fatto che nessuno avrebbe mai pensato che noi ci saremmo visti in un posto così “pericoloso”, ci apparve subito una buona idea.

Ed è quindi iniziata la stagione degli incontri segreti. I più significativi sono quelli di Donington e Brno.

In Gran Bretagna, a Donington, in luglio, i vertici della Honda avevano iniziato a farsi più pressanti. E non avevano esitato a manifestare le proprie intenzioni: volevano il raggiungimento dell’accordo, o al limite una chiarificazione in modo da capire come muoversi. Kanazawa non era stato affatto contento del suo ritorno a Tokyo senza il contratto firmato da me, così Nakajima mi ha fatto conoscere subito la sua posizione.

«Devi dirci cosa vuoi fare, entro domenica; altrimenti, dalla prossima gara potresti non far più parte del programma di sviluppo della moto.»

Non è che ci abbia girato tanto intorno, quindi.

Non me l’aspettavo, una simile pressione. Eravamo appena all’inizio del mercato piloti, cioè nel periodo in cui è normale che un team e un pilota comincino a fare le proprie valutazioni per il futuro, parlando magari con altre squadre o altri piloti, così mi sembrava un po’ troppo opprimente quell’atteggiamento.

Sì, è vero, avevo iniziato a esplorare altri orizzonti, avevo altre idee per la testa, nuove sfide, progetti differenti. Ed è anche vero che avevo cominciato ad ascoltare altre proposte. Ma è altrettanto vero che non avevo certo deciso, in quel periodo, di lasciare la Honda. Ero un pilota Honda, e per quello che mi riguardava non avevo ancora deciso di smettere di esserlo.

Ma in quei momenti, trovandomi cioè di fronte a un passo concreto, non solo a un colloquio, ho avvertito una sensazione strana. Non ero felice, dentro di me, quando mi mettevo a pensare al rinnovo del contratto con la Honda. E stata una sensazione che mi sono portato dentro a lungo. E che mi ha fatto riflettere sempre più.

Proprio in quel fine settimana, poi, c’era stato un evento importante: ero salito sulla M1. Segretamente, cioè di notte, all’interno del box Yamaha.

Cioè, avevo fatto esattamente quello che la Honda mi aveva proposto di fare quattro anni prima, quando mi offrì di salire sulla NSR 500, all’interno del box del Team HRC, di notte, mentre ero ancora un pilota Aprilia. Era successo nei box di Phillip Island, quando io correvo in 250. Quindi, questo mi sembrava un atteggiamento abbastanza normale.

In Inghilterra, nel paddock di Donington, ci siamo incontrati verso mezzanotte.

Indossavo una felpa col cappuccio che mi copriva la testa, per non farmi riconoscere.

Mi sono infilato velocemente, senza fare rumore, nel box Yamaha, immediatamente richiuso alle mie spalle.

Dentro, trovai anche il capoprogetto della M1, Yoda. Era sconvolto per l’ora tarda, aveva gli occhi rossi, voleva andare a dormire.

Mi hanno fatto salire sulla M1 di Checa. Era una delle moto ufficiali.

La prima impressione non è stata buona. Ho capito subito che la M1 2003 era molto indietro, rispetto alla Honda. Non c’era proprio paragone con la RC211V. La M1 era proprio bruttina…

Era una moto molto complicata, si vedeva che era stata fatta seguendo troppe voci.

Notai che era concepita in modo poco logico, c’erano troppi fili che passavano dappertutto, un sacco di elementi posizionati male. E anche la posizione di guida, dei manubri, del serbatoio, non mi sembrava efficace.

Anche senza accenderla, ho capito subito che era molto meno razionale della Honda, che è sempre praticamente perfetta, tanto da sembrare una moto di serie: non ha niente fuori posto. E ordinata, rigorosa. Rispecchia il carattere dei giapponesi della Honda, insomma.

Comunque la M1 aveva anche diverse cose interessanti, che mi piacevano. Il problema maggiore era che quella versione 2003 era troppo disordinata.

Mi sono soffermato sul cruscotto, scoprendo che la Yamaha utilizzava già quello digitale. La Honda invece ne aveva ancora uno piccolo, analogico. Questo era elettronico, molto grande, ricco di informazioni, veramente bello.

Yoda ha notato che il cruscotto mi stava incuriosendo, quindi si è avvicinato e lo ha acceso. E ha iniziato a mostrarmi le funzioni. Ne aveva tante, c’erano molte cose che la RCV non aveva.

«Bello!» ho esclamato io.

«L’abbiamo fatto così grande perché se uno ha tempo, durante la gara può guardarsi un Dvd» ha replicato lui, serissimo.

Prima ci siamo guardati in faccia, io, Gibo e Uccio, poi siamo tutti scoppiati a ridere. E Yoda con noi.

Mi è piaciuto questo episodio. Mi ha fatto capire che i giapponesi della Yamaha hanno un certo spirito, fanno le battute, sono più goliardici e simpatici. Si tratta di atteggiamenti impensabili, alla Honda, dove sono tutti seri, rigorosi, impegnati a mostrare la potenza dell’Impero.

Quella è stata l’anteprima di ciò che è diventata in seguito la nostra squadra Yamaha, dove da subito ha regnato l’impegno nel lavoro ma anche un clima sereno, divertente, rilassato. Non so dire con certezza se durante il weekend del Gran Premio di Gran Bretagna l’idea di andare in Yamaha ha cominciato a prendere forma, ma di certo mi avevano fatto tutti una bella impressione.

In quel periodo, comunque, anche i manager della Yamaha tenevano i freni tirati, quando parlavamo. Pensavano ancora che io cercassi solo di ingelosire la Honda, magari per alzare il prezzo. Non credevano che potessi fare sul serio. Invece avevo iniziato a riflettere, anche se in quel periodo, era l’inizio di luglio, non ero ancora del tutto deciso a lasciare la Honda.

Anche perché, intanto, la trattativa era diventata a tre. Si era infatti inserita la Ducati.

L’opzione Ducati è stata una mia idea. Nel senso che, a un certo punto, quando i rapporti con la Honda hanno iniziato a peggiorare, sono io che ho pensato alla Ducati.

Anche se avevo già cominciato a parlare con la Yamaha. Perché l’idea di correre con la Ducati, all’inizio, mi piaceva proprio.

Ogni tanto scherzavo con i due capimeccanici che venivano dalla Superbike, Massimo Bracconi e Bruno Leoni, perché con loro ho sempre avuto buoni rapporti.

«Dai, vieni da noi!» mi dicevano.

Ci scambiavamo battute che poi sono diventati segnali. Da lì, il passo per arrivare ai vertici della squadra e dell’azienda è stato molto breve.

Anche perché, naturalmente, i dirigenti della Ducati hanno poi coinvolto subito il loro sponsor principale. Che era, comprensibilmente, molto contento.

Così io e Gibo, una sera di luglio, abbiamo imboccato l’autostrada verso Bologna.

Destinazione, Borgo Panigale. Il quartiere della città in cui sorgono gli stabilimenti e il reparto corse.

Faceva molto caldo. In giro, attorno all’azienda, non c’era praticamente nessuno.

Dentro, trovammo Livio Suppo, all’epoca team director, e Claudio Domenicali, che era l’amministratore delegato. Ci stavano aspettando, ovviamente.

La fabbrica, vecchio stile, riporta alla mente un passato e una tradizione. Le mura sono vecchie, non c’è nulla di moderno. Ma all’interno, lì sì che c’è molto futuro. C’è tecnologia, ci sono idee, si respira la passione.

Certo, quella sera era così tardi, che in fabbrica eravamo rimasti in pochissimi.

È stato un incontro molto cordiale. Abbiamo parlato di tutto: tecnica, corse, naturalmente anche della possibilità di collaborare.

Ho potuto visitare la fabbrica, almeno quello che viene consentito di vedere in

“gite” di questo genere. Perché, in fondo, ero pur sempre un pilota della concorrenza…

In Ducati, in quel periodo, avevano appena iniziato l’esperienza nella MotoGP: c’era una moto da sviluppare, tanti progetti nel cassetto.

La Ducati è venuta a propormi un incontro nel momento in cui aveva una moto che andava forte. Quando ci siamo riuniti, la Desmosedici aveva vinto a Barcellona con Capirossi, ed era comunque sempre attorno al podio. In quel periodo, andava molto meglio della Yamaha.

Ho sempre seguito con interesse le vicende delle Case italiane, quindi ero molto contento di potermi avvicinare alla Ducati a questo livello.

È stato un incontro organizzato per conoscerci, nel senso che abbiamo cercato di capire quali fossero i rispettivi progetti, così da valutare se ci fosse la possibilità di farli combaciare.

A differenza dei colloqui con i rappresentanti delle Case giapponesi, questa volta è stato tutto più facile e più breve. Ci siamo aperti, l’uno con l’altro, in modo sufficiente a far capire le nostre idee e le nostre aspettative.

Ed è stato un appuntamento interessante. E anche piuttosto illuminante.

Abbiamo toccato tutti gli argomenti che vengono analizzati in riunioni come quella: non tanto l’aspetto economico, quindi, quanto quello tecnico; e poi, relazioni e impegni promozionali con gli sponsor e con l’azienda. Abbiamo naturalmente parlato della moto, dei piani di sviluppo.

Andando avanti con la nostra conversazione ho intuito che stavamo entrambi cercando una sfida, ma la mia era un po’ diversa.

Condividevamo sicuramente la passione per questo sport, la voglia di vincere, ma c’erano anche punti in cui ho scoperto di avere una visione diversa. Ed è quello, poi, che mi ha fatto riflettere: ho notato che c’era una certa differenza tra quello che stavo cercando io, cioè tra il tipo di sfida che io volevo affrontare, e quello che invece stavano cercando loro, in Ducati.

La si può anche chiamare filosofia, cioè un modo di vedere le cose; in ogni caso ho capito che la filosofia di vita e di corse dei responsabili della Ducati non era proprio in linea con la mia. Soprattutto, non con quello che io stavo cercando in quel periodo.

Era il 2003, per me era tutto facile con la Honda.

Azienda fortissima, vincente, quindi anche un po’ dura nei rapporti umani, la Honda non aveva alcuna difficoltà nell’affermare la supremazia della propria tecnologia. Che è il reale motivo per il quale la Honda gareggia, come hanno sempre dichiarato i vertici dell’azienda. Io quindi mi sentivo un po’ prigioniero di questo modo di pensare e agire.

Mi ero messo in testa di affermare l’importanza dell’uomo, di rivendicare il ruolo del pilota nello sviluppo di una moto. Era questo il mio principio ispiratore.

Certo, i rapporti con alcuni dirigenti della Honda erano diventati un po’ tesi, perché i giapponesi della Honda hanno un modo di vedere le cose della vita che è ben poco in linea col mio, cioè col mio carattere, ma questo in fondo non era poi così importante come la nuova idea che mi stava girando per la testa: dimostrare che è soprattutto il pilota che fa la differenza.

Lo si può anche chiamare ego: mi è apparso chiaro, a un certo punto, che il mio ego ha iniziato a mettersi a confronto con quello dei dirigenti della Honda.

Ecco, anche in Ducati stavano lottando per l’affermazione del marchio dell’azienda e della tecnologia di cui indubbiamente dispongono.

La Ducati, proprio per la sua indole da combattente, per la sua aggressività, che è sicuramente una delle caratteristiche che ammiro di più, era nella fase in cui stava attaccando senza mezzi termini la supremazia delle Case giapponesi, quella della Honda in particolare.

Una delle conseguenze, inevitabili, di questo tipo di mentalità, è l’atteggiamento col quale sei poi obbligato a proporti. Infatti la Ducati mi è sembrata un po’ come la Honda. Almeno per certe cose. Mi è sembrata un’azienda sostenuta da un grande desiderio di affermazione del proprio marchio.

Se questo è del tutto lecito, devo dire che mi ha un po’ spaventato. Perché era proprio uno dei motivi principali per il quale stava allargandosi sempre di più la spaccatura che si era formata tra me e la Honda.

Avevo iniziato ad avvertire il desiderio di togliere ogni dubbio sulle mie capacità, e quindi stavo ricercando una sfida diversa: volevo che si affermasse il mio modo di concepire le corse, la moto, l’azienda.

Stavo maturando l’idea di dimostrare che l’uomo è più importante.

Anche se io e i vertici della Ducati condividevamo la passione per questo sport e anche il desiderio di vittoria, eravamo su posizioni lontane riguardo al ruolo che deve avere il pilota nello sviluppo della moto: per me dev’essere la guida del gruppo, perché è lui che poi deve portare la moto alla vittoria, deve quindi guidare un mezzo che sia realizzato in base alle sue esigenze e alle sue caratteristiche.

Per il reparto corse Ducati, invece, nel processo di sviluppo della moto il pilota non ha la stessa importanza.

Essendo un’azienda che crede particolarmente nella tecnologia, la Ducati tende a seguire molto i dati e le informazioni del computer, lavorando secondo la metodologia della Formula Uno. Il che la rende apprezzabile, da un punto di vista tecnologico, ma in quel periodo avevo sempre un campanello d’allarme nella mia testa: la sensazione di oppressione che mi dava la Honda, che la pensa allo stesso modo.

Già, l’importante è vincere con un pilota, non con uno in particolare: la Honda riteneva che si dovesse affermare in primo luogo la propria tecnologia, poi l’importanza del pilota.

Sapevamo tutti che l’incontro di quella sera, a Bologna, nel quartier generale della Ducati, non sarebbe stato decisivo, così nessuno di noi ha chiesto all’altro una promessa, oppure un impegno.

Con il passare delle settimane, mentre cercavo di allineare tutte le sensazioni che avevo raccolto, ho realizzato che la differenza di idee rispetto alla Yamaha era notevole.

“Non è esattamente la sfida che sto cercando” ho pensato, a un certo punto.

Perché ho avuto l’impressione che in Ducati non sarebbero stati disposti a seguirmi e ad ascoltarmi al punto in cui l’hanno fatto poi quelli della Yamaha; mi sono convinto che i vertici del reparto corse Ducati avrebbero cercato - comprensibilmente, dal loro punto di vista - di portare avanti soprattutto le loro idee e le soluzioni in cui credevano.

Ho avuto quindi la sensazione che non sarebbe stato possibile realizzare quel gruppo che abbiamo poi costruito con la Yamaha.

Per rendere più chiaro il mio concetto, credo sia molto significativo un episodio che ha visto per protagonista Jeremy Burgess. Molti mesi dopo, nel Gran Premio del Sudafrica 2004, ero nel box: stavo guardando Capirossi, attraverso le riprese televisive, che sembrava guidare un cavallo selvaggio. La Desmosedici pareva muoversi da tutte le parti. A un certo punto Jeremy mi è venuto vicino e mi ha detto:

«E pensare che la moto, secondo il computer, andava benissimo!».

Non c’era cattiveria, in quelle parole. Magari una dose un po’ massiccia del tipico humour anglosassone, ma non dev’essere presa come un insulto o una mortificazione.

Però questa battuta spiega quale fosse l’esperienza che io avevo in mente di vivere, nel dopo-Honda che ormai stavo pianificando con sempre maggiore convinzione: cercavo un gruppo col quale poter lavorare scherzando, prendendoci a volte in giro con grande serenità; volevo un’azienda che fosse disposta a lasciarmi gestire completamente, insieme a Jeremy, lo sviluppo della moto.

Non è mica facile trovarne una che sia disposta a fidarsi di un pilota e di un tecnico, a questo livello.

La Ducati, infatti, mi aveva trasmesso proprio la sensazione che questo ruolo non sarebbe riuscita, o non sarebbe stata disposta, a riconoscermelo.

Ecco perché ho iniziato a vedere nella Yamaha l’azienda che avrebbe accettato con più facilità di assecondare questo mio desiderio.

Anche perché, bisogna dirlo, in quel periodo la Yamaha appariva molto più in difficoltà, rispetto alla Ducati. Mi sembrava davvero un’azienda che avesse bisogno di uno che cercava quello che stavo cercando io. Quindi la Yamaha mi pareva maggiormente disposta a lasciarmi quel ruolo di guida che era ormai diventato il mio obiettivo più ambizioso.

La verità, infatti, è che io cercavo molta libertà d’azione. La Ducati, in questo, mi appariva più simile alla Honda, cioè meno disposta a lasciarmela.

La Yamaha invece mi sembrava più aperta, più disponibile. Era il mio più grande desiderio, al di là delle inevitabili logiche aziendali.

“Se devo lasciare la Honda, devo farlo per affrontare una sfida che sia davvero difficile, incredibile, apparentemente inaffrontabile; altrimenti, tanto vale restare dove sono” mi sono detto.

La Yamaha mi è sembrata la più adatta, per la mia nuova sfida.

Volevo arrivare a cambiare la mentalità di un intero reparto corse; volevo migliorare una moto che era rimasta indietro a livello tecnico; volevo portare alla vittoria un gruppo di tecnici in difficoltà, che quindi nessuno credeva fosse possibile far vincere.

In quel periodo in cui tutti parlavano della Ducati come del nuovo fenomeno - e in effetti la Ducati e il suo gruppo si erano presentati nella MotoGP in modo eclatante e aggressivo - la Yamaha mi sembrava invece abbastanza a terra per avere realmente bisogno di me.

Quindi, verso la fine di luglio ho iniziato a pensare che la Yamaha avrebbe fatto al caso mio.

Ero molto attratto anche dal recente passato, dalle vicende di grandi piloti come Kenny Roberts Senior, Wayne Rainey, Giacomo Agostini, Eddie Lawson, che avevano trionfato con la Yamaha. Non ci sono stati tanti piloti, nella storia, ad aver vinto il titolo con la Casa di Iwata, che è comunque una grande azienda, e mi stuzzicava l’idea di poter riportare al vertice una specie di nobile decaduta…

Una fabbrica importantissima, quindi, che in quegli anni era veramente lontana dai suoi giorni più gloriosi, se parliamo della massima espressione della velocità. Eh sì, perché la Yamaha vinceva nel fuoristrada, aveva un ottimo prodotto di serie, ma nella MotoGP era proprio un disastro.

Quando incontravo i dirigenti, avvertivo che loro cercavano di farmi comprendere lo “spirito” Yamaha. Nelle riunioni alle quali partecipavamo io e Gibo, i vertici della squadra e del reparto corse ripetevano sempre che in Giappone era partito un ampio progetto di ristrutturazione del settore tecnico; dicevano che di lì all’inizio del 2004 in Yamaha sarebbe cambiato tutto, che avrei trovato una situazione completamente diversa.

Ci parlavano di progetti interessanti, ma io in verità vedevo una situazione ben poco incoraggiante: le Yamaha subivano, in ogni gara, distacchi abissali. Una media di oltre venti secondi a gran premio. Per questo, pur essendo incuriosito e stimolato da certe sensazioni che avevo ricevuto, ero molto titubante quando analizzavo i fatti.

Quando il Mondiale è arrivato alla pausa estiva, cioè quando siamo rientrati dalla trasferta in Germania, a fine luglio, sono scappato a Ibiza. Lontano dal mondo delle corse, insomma.

Ero molto teso, e mi sono rifugiato sull’isola per cercare un po’ di relax, per creare una situazione necessaria a farmi riflettere in modo definitivo. Volevo allontanarmi dalle pressioni esterne, ma volevo sistemarmi anche nel posto giusto per rilassarmi.

A Ibiza sono andato con i miei amici: in quei giorni ci godevamo l’estate, il sole, la vita di mare. Ed è in quel contesto che ho preso la decisione che in quel momento mi sembrava la follia più grande che potessi fare, ma allo stesso tempo anche un’avventura enormemente stimolante: «Vado con la Yamaha e vediamo che cosa succede!».

Era l’agosto del 2003. E lì, a Ibiza, ho preso la decisione di lasciare la Honda per andare alla Yamaha.

Che strana coincidenza, vero? È a Ibiza che Brivio mi ha parlato per la prima volta della Yamaha, e io avevo ascoltato le sue parole senza troppa convinzione. Eppure è lì, a Ibiza, che qualche mese dopo ho deciso di accettare quella sfida.

Dopo aver guardato con interesse e simpatia la Ducati, ho recuperato la strada che mi avrebbe portato verso la Yamaha.

“Voglio una sfida folle, difficile. La più folle e la più difficile che possa trovare. È

la Yamaha!” mi sono detto.

Però non mi sono messo a fare proclami. Non era né il momento, né il caso.

Ma io mi fido molto delle sensazioni, e quelle che sentivo dentro di me mi spingevano verso quella che sembrava effettivamente una sfida un po’ folle.

Al termine delle mie vacanze ho ripreso il campionato con la stessa determinazione, ma anche con un certo stress. Ero largamente in testa, la mia Honda era perfetta, non c’era nessuna insidia sulla strada per il titolo.

Infatti non era quello, il problema: non avevo timori, pensando al presente, cioè alla mia situazione del campionato. In quelle settimane così intense vissute a Ibiza, e poi nel prosieguo del campionato, pensavo soprattutto al futuro.

Il campionato è ripreso dalla Repubblica Ceca. Siamo andati, quindi, a Brno.

Tutte le aziende con le quali stavo trattando, cioè la Honda, la Ducati, la Yamaha, erano in attesa della mia decisione. In particolare, era molto in ansia la Yamaha perché era stata l’azienda con la quale avevamo intensificato maggiormente i colloqui prima della pausa estiva.

A Brno Gibo ha organizzato quindi l’incontro con Brivio. Un incontro segreto, naturalmente.

Non trovavamo un luogo che ci sembrasse abbastanza sicuro per un meeting di questo genere, ma a un certo punto ci venne in mente la Clinica Mobile. Che era posizionata nella parte del paddock più lontana dai box, cioè verso l’ultima curva.

La Clinica Mobile è il luogo in cui noi piloti, io per primo, siamo sempre approdati nelle occasioni più disparate. Per noi, quell’ospedale mobile che troviamo sempre nei circuiti in cui gareggiamo è un rifugio. Sicuramente il luogo verso cui ci dirigiamo quando abbiamo bisogno di aiuto. Ho pensato che, proprio per questo, cioè proprio per il fatto che in quel momento avevo bisogno di aiuto, i medici della Clinica Mobile, in particolare il dottor Costa, mi avrebbero dato il permesso di entrare se glielo avessi chiesto.

Solo che, quando decidemmo di incontrare i vertici della Yamaha, era talmente tardi che in giro per il paddock non c’era più nessuno, compresi naturalmente i medici della Clinica Mobile.

Abbiamo quindi dovuto prendere la decisione di penetrare in casa d’altri.

Per non sembrare troppo invadenti, ho stabilito però di entrare solo… nel giardino, cioè nella hospitality. Quindi, non proprio nella struttura adibita a clinica.

Siamo arrivati con gli scooter. C’erano i cancelli aperti, la tenda era chiusa con le cerniere ma si poteva aprire.

Ad aspettarci trovammo Jarvis e Brivio.

Anche loro erano venuti in scooter, sbucando dal buio e dal bosco. Proprio come noi. Infatti sembravamo quegli amanti che si trovano di notte, in modo furtivo. Poi era arrivato anche Gibo.

«E questo chi è?» mi ha chiesto subito Jarvis, una volta dentro, indicando il terzo uomo che era con me e Uccio. Si riferiva a Nello, che è uno dei ragazzi della tribù.

«È un amico. Non ti preoccupare di lui, tanto non parla con nessuno» l’ho tranquillizzato io.

Anzi, abbiamo deciso che Nello si sarebbe reso utile: gli abbiamo assegnato quindi il delicato compito del palo. Certo, Nello non ha proprio la vista di un’aquila, quindi come palo non è molto adatto, ma avevamo solo lui e abbiamo dovuto accontentarci.

Si è messo fuori, quindi, a controllare. Serio e attento, Nello ha assunto l’incarico con grande impegno e dedizione.

Dentro, invece, io ho informato subito Brivio e Jarvis riguardo alla mia decisione.

«Vengo con voi!» ho annunciato all’improvviso.

Loro mi hanno fissato in modo strano, come increduli.

«Sì, vengo con voi» ho ribadito.

Si sono guardati in faccia.

«Allora, ci stiamo dicendo che tu l’anno prossimo correrai con la Yamaha?» ha detto Brivio, pesando le parole, scandendole per essere sicuro di farsi capire.

«Sì!» ho confermato.

«Cioè, tu vuoi proprio dire che correrai con la Yamaha nel 2004?» ha chiesto di nuovo lui.

«Altrimenti che cosa sarei venuto qui a fare, stasera?» ho chiesto, divertendomi per quella situazione.

Per un attimo siamo rimasti tutti in silenzio. Sono stati pochi secondi, ma sono sembrati minuti. Ognuno pensava, rifletteva sull’importanza delle parole che avevo appena pronunciato.

Il silenzio è stato rotto da un grido improvviso di Nello. Nello, sì, il palo.

«Arriva un motorino!» ha detto, vedendo che stava avvicinandosi uno scooter.

Nello ha scorto dei fari, si è spaventato e ha dato l’allarme.

«Via, via, nascondiamoci!» abbiamo urlato tutti. E ognuno di noi ha cercato un rifugio, un riparo di fortuna.

Non potevamo andare fuori, avremmo dato l’idea di essere dei ladri in fuga, quindi abbiamo pensato che l’unica cosa da fare fosse infilarsi sotto la tavola.

La tavola dove quelli della Clinica Mobile tengono il caffè, le scatole dei biscotti, lo zucchero, il sale, la pasta e tutto il resto.

Ecco, ci siamo infilati tutti lì sotto.

Era una situazione surreale, incredibile, ma il divertimento era ormai superiore alla paura di farci beccare.

Nello, intanto, era già scappato: era fuggito via di corsa, preso dal panico.

«Scusate, ma se viene dentro uno e ci vede tutti sotto la tavola, che cazzo gli diciamo?» ho detto io, a un certo punto.

Gli altri hanno pensato che fosse una domanda sensata, così siamo usciti almeno io, Gibo e Uccio.

Ci siamo posizionati davanti alla tavola, mettendoci a smangiucchiare biscotti, facendo finta di parlare del più e del meno. Jarvis e Brivio sono invece rimasti nascosti.

«Tutto bene?» ha chiesto il custode, quando è entrato per vedere che cosa stesse succedendo.

«Sì, tutto a posto» l’abbiamo rassicurato noi.

Lui si è guardato un po’ intorno.

«Allora, buona notte!» ha detto lui.

«Buona notte!» abbiamo risposto noi.

L’abbiamo salutato con cordialità. Quando è andato via sono spuntate subito da sotto il tavolo le teste di Brivio e di Jarvis. E quando sono usciti, ci siamo guardati con l’espressione di chi sa di averla scampata bella…

Ci siamo rimessi a discutere. Era passata la paura. Ma in realtà quello che avevo da dire, lo avevo già detto. Eppure loro continuavano a guardarmi con una faccia incredula. Sembravano quasi impreparati al mio “sì”.

Allora ho fatto un gesto che secondo me era la cosa più seria che potessi fare: ho dato la mano a Davide Brivio. E la nostra stretta di mano ha suggellato l’accordo.

Non ho firmato alcun contratto, non ce n’era bisogno. Avevo preso la mia decisione.

Subito dopo ci siamo salutati, e ognuno di noi è tornato da dove era venuto. Ci siamo dileguati nella notte, nel silenzio del paddock.

Quelli della Clinica Mobile non hanno mai saputo che cosa è successo nella loro hospitality…

All’inizio di settembre la pressione su di me ha iniziato ad aumentare. La Honda chiedeva il rinnovo del contratto, con la Yamaha eravamo formalmente d’accordo ma avremmo dovuto iniziare a parlare delle cose “pratiche”, cioè della nuova squadra.

Perché io avevo intenzione di portare Jeremy e i ragazzi con me.

Il problema maggiore, a quel punto, era quello di mantenere il più assoluto riserbo.

Perché mi stavano venendo dei cattivi pensieri. Non volevo sollevare il polverone in quella fase della stagione: volevo il tempo per spiegare alla Ducati il motivo per cui avevo intenzione di accettare un altro tipo di sfida, e non volevo rompere i rapporti con la Honda nella fase in cui stavamo apprestandoci a conquistare il campionato del mondo. Perché rovinare la festa, insomma?

Ripensare a quei momenti, adesso, fa sorridere anche me, perché mi rendo conto che stavo esagerando. Ma quelli erano giorni particolari. Sapevo bene che quando sono in atto trattative così importanti e delicate, fa parte del gioco mantenere una certa discrezione. Ero sicuro che la Honda non avrebbe fatto nulla, se fosse venuta a conoscenza dei miei progetti. Perché i giapponesi della Honda sanno anche essere duri, durante una trattativa, ma si tratta comunque di gente che ha un alto senso dell’onore. La Honda in queste cose è estremamente seria. Infatti la mia moto è sempre stata perfetta, anche quando hanno capito che me ne sarei andato.

Ma in quel periodo, così carico di tensione, io non potevo fare ragionamenti troppo razionali. C’era molta tensione nell’aria, troppe incognite. E poi non avevo firmato nulla, quindi teoricamente sarebbe ancora potuto accadere di tutto.

Appena arrivato a Rio de Janeiro, a metà settembre, il team director della HRC, Nakajima, ha ripreso a esercitare una certa pressione su di me. Giustamente, devo ammettere.

Sono riuscito a prendere tempo, di nuovo, ma ho realizzato che era comunque arrivato il momento di parlare a Jeremy e alla mia squadra. E ho deciso di farlo lì, a Rio. Quindi ho convocato il mio team.

Già, perché quando ho iniziato a pensare di lasciare la Honda, mi è subito venuta in mente la mia squadra. In particolare, il mio primo pensiero è andato a Jeremy.

“È un passo grande, ma se riesco a portare Jeremy con me la cosa diventa diversa”

pensavo. E non mi ero posto, all’inizio, il problema di un eventuale rifiuto da parte sua. Anche perché quando, nell’estate del 2003, cominciavano a circolare le prime voci sulla possibilità da parte mia di lasciare la Honda, lui mi diceva sempre: «Se vai via dimmelo, perché io vengo con te. Pur di venire faccio di tutto, pulisco anche le carene».

Jeremy, come molta altra gente, non ha mai realmente creduto che potessi lasciare la Honda. Però stava ugualmente molto attento al circolare delle notizie, infatti più passavano le settimane, più si lasciava andare ad allusioni e facezie. Perché i giornali li leggeva, parlava con la gente, si informava. Anche se in modo discreto. E poi veniva a farmi le battute. Una la ricordo con particolare divertimento. Era il periodo in cui aveva saputo che i miei contatti con la Ducati erano reali. Venne da me e mi disse: «Ricordati che a me piacciono l’Italia, le italiane, e anche i tortellini!».

Queste battute mi avevano confortato, perché mi avevano dato la conferma che Jeremy sarebbe stato dalla mia parte.

«Vorrei parlarti, ma vorrei farlo in presenza di tutta la squadra. Possiamo riunirla?»

gli ho chiesto nel pomeriggio di venerdì, nel paddock di Rio.

Desideravo che fossero presenti i meccanici perché Jeremy mi diceva sempre che la sua squadra funziona perché è un gruppo unito, perché ci sono persone che lavorano insieme da tantissimi anni, quindi si capiscono al volo. Poiché sapevo che le cose stavano davvero così, ho voluto l’intero gruppo.

Ci siamo riuniti al primo piano della lunga costruzione che divide in due zone il paddock del circuito Jacarepaguà di Rio. Da una parte ci sono i box dei team principali, dall’altra quelli delle squadre private della 125 e della 250. In mezzo, ci sono gli uffici dei team.

Vi si accede attraverso scalinate di ferro, molto ripide, che ti fanno raggiungere il lungo balcone che costeggia tutti gli uffici. Cammini tra le tute dei piloti che vengono lasciate fuori, appese alla ringhiera, ad asciugarsi al sole.

Gli uffici sono piccoli, ma confortevoli. Li avevo tutti intorno, i ragazzi e Jeremy.

Attorno a me vedevo facce strane, leggevo nelle loro espressioni cose del tipo:

«Ma che cosa vorrà mai dirci?».

Erano curiosi, silenziosi, in attesa. Ho rotto subito il silenzio.

«Sto valutando la possibilità di andare via. Vorrei andare alla Yamaha, e per me sarebbe importante avervi tutti con me. Cosa ne pensate?»

Per un attimo, nella stanza è piombato il silenzio.

«Non è uno scherzo, penso che andrò via» ho riaffermato rivolgendomi in particolare a Jeremy. E lì, ho visto lo stupore e l’incredulità di tutti.

Era la reazione di gente che mi aveva sempre detto “veniamo con te ovunque”, ma che in realtà non pensava sarebbe mai accaduto.

Jeremy aveva già vissuto questa situazione, con Doohan. Mick più volte ha potuto scegliere se andare alla Yamaha o restare alla Honda, ma alla fine ha sempre scelto di restare. Secondo me, Doohan avrebbe potuto vincere anche con un’altra moto, solo che non ci ha mai voluto provare.

Jeremy, comunque, pensava che sarebbe stata la stessa cosa anche con me. Era certo che alla fine sarei rimasto con la Honda anch’io. Non c’era bisogno di alcuna parola, lo aveva scritto in faccia. Non ha detto niente, infatti, ma era come se lo stesse facendo.

«Mi dispiace mettervi fretta, ma vorrei una vostra risposta entro la prossima gara»

ho detto a tutti.

In pratica si trattava di un tempo quantificabile in una decina di giorni o poco più.

Non era certo molto, ma nemmeno io avevo più molto tempo.

Parallelamente, Gibo aveva iniziato a parlare con i dirigenti della Yamaha, spiegando la mia esigenza di avere Jeremy e i ragazzi con me.

Una mossa, questa, che non sembrava così facile da realizzare, in verità. Non solo perché Jeremy mi era sembrato molto titubante, ma anche perché in Yamaha ritenevano che fosse preferibile assegnarmi la squadra che c’era già: la ritenevano più esperta nel lavoro da svolgere sulla M1.

Sapevo anche che il tempo stava per scadere. La Honda, giustamente, voleva una risposta da me. La Ducati anche. Ecco perché io avevo messo fretta a Jeremy e ai ragazzi del team.

All’inizio di ottobre, quando ci siamo trasferiti in Giappone, per correre a Motegi, la tensione era palpabile.

Per tutta l’estate io e Gibo avevamo avuto lunghe discussioni con i vertici del Team HRC perché modificavamo sempre il contratto che ci proponevano: non eravamo mai veramente d’accordo sulle cose importanti.

Ma appena arrivato in Giappone, ho realizzato che la Honda aveva deciso che il tempo era scaduto.

«Questa è la nostra versione definitiva del contratto: se non la firmerai entro domenica mattina, per noi significherà che non vuoi più essere un pilota Honda» mi ha detto Nakajima, all’epoca direttore della HRC, appena sono arrivato in circuito, il giovedì precedente la gara.

Ho capito, quindi, che in un modo o nell’altro era arrivato il momento di risolvere il problema.

«Lo leggerò con calma, in camera» ho risposto io.

Poi sono andato a cercare Jeremy. Era arrivato il momento, anche per lui, di dare delle risposte.

Sin da quando sono arrivato in circuito, avevo notato che nessuno dei ragazzi della mia squadra aveva tanta voglia di parlare di questo argomento. Jeremy, poi, svicolava; allora ho deciso di aspettare almeno un altro giorno. Poiché però vedevo che Jeremy continuava a evitare l’argomento, sabato pomeriggio sono andato a chiedere la sua risposta.

«Allora?» ho detto.

Jeremy sapeva a cosa mi stavo riferendo.

«Scusaci, ma abbiamo deciso di non venire con te» mi ha risposto lui.

Ed è stata una botta grossa. Una enorme delusione.

Ci sono rimasto malissimo. Mi sembrava incredibile che la mia squadra avesse deciso di non seguirmi. Ed ero molto deluso soprattutto da Jeremy.

Per lui, io mi ero esposto molto con la Yamaha. L’iniziale rifiuto della Yamaha a ingaggiare lui e gli altri ragazzi era stata proprio una delle cose che mi avevano fatto più arrabbiare.

In Yamaha si erano mostrati molto scettici, quando abbiamo detto loro che la mia squadra era troppo importante per me. E a un certo punto ho dovuto lottare su due fronti: dovevo far desistere i vertici della Yamaha dall’idea di assegnarmi la squadra che avevano loro, perché la ritenevano più competitiva rispetto al team di Jeremy, e dovevo contemporaneamente convincere Jeremy a seguirmi in Yamaha.

Invece a Motegi, Jeremy mi ha fatto capire quale fosse il suo piano: lui e i ragazzi della squadra volevano convincermi a non cambiare. Così avrebbero risolto anche il loro problema. Infatti per loro la cosa migliore era che io rimanessi alla Honda.

«Ma dove vai? La Honda ha un’esperienza superiore, soprattutto sul motore, e la Yamaha non ci arriverà mai perché non ha tutti i mezzi e gli ingegneri della Honda»

ha cercato di convincermi.

Mi apparve però, finalmente chiaro, il problema: non avevano il coraggio di venire via, ma non volevano neanche restare in Honda senza di me.

In realtà, sapevo che i dirigenti della squadra avevano detto a Jeremy che avrebbero voluto affidargli Nicky Hayden (il mio compagno di squadra, in quella stagione, ma lui era al debutto assoluto nella MotoGP dopo aver vinto la Superbike AMA in USA) nel caso in cui me ne fossi andato davvero. L’idea era quella di mettere un giovane promettente, Nicky, nelle mani esperte di Jeremy. Quindi, in ogni caso, Jeremy aveva comunque delle buone prospettive, con la Honda.

Ma non è che mi sentissi meglio. Anzi, sentire Jeremy, che era il mio punto di riferimento tecnico, dire tutte quelle cose sulla Yamaha e sulla mia idea mi fece stare male.

Ho lasciato Jeremy, e ho iniziato a organizzarmi per tornare in hotel. Col contratto, che non avevo ancora firmato.

Ho preso lo scooter e sono uscito dal circuito velocemente, salendo poi sulla collina in cui sorge l’hotel in cui risiedono i piloti e le squadre. All’interno del Twin Ring di Motegi si gira in scooter: ogni Casa giapponese ne mette uno a disposizione dei propri piloti, per facilitare gli spostamenti. E quando si arriva in albergo, si possono parcheggiare tutti di fronte all’ingresso.

L’hotel del circuito di Motegi è situato su una collina, ed è immerso nel verde.

Isolatissimo. È un luogo un po’ inquietante, mi ricorda l’Overlook Hotel del film Shining.

È fatto uguale. Quando vado lì, mi viene in mente Jack Nicholson che diventa pazzo stando in quell’hotel.

Perché lì, a Motegi, passi quattro giorni facendo sempre, esattamente, le stesse cose, in base a orari e regole fissi e immutabili.

La mattina esci dalla tua stanza, scendi, vedi la gente del paddock, vai al tuo tavolo, quello che ti è stato assegnato. Già, perché il tavolo va prenotato per i quattro giorni della gara, non è come un ristorante normale dove arrivi e chiedi un tavolo in base alla gente che c’è con te; se i camerieri giapponesi, all’interno dello schema della sala, che portano sempre con sé, non vedono il tuo nome sul tavolo, non mangi.

Anche se è vuoto.

Quindi, scendi, vedi la stessa gente, vai allo stesso tavolo, mangi le stesse cose; esci, prendi lo scooter, fai la stessa strada per entrare in circuito, vai sempre nell’ufficio che ti hanno assegnato, fai le prove, finita la giornata di lavoro risali sullo stesso scooter, rifai la stessa strada, torni nella tua stanza, poi scendi e ti metti a cenare allo stesso tavolo, mentre rivedi di fianco a te le stesse persone… Ecco, in Giappone, a Motegi, passi quattro giorni così.

Quindi, quella sera mi sentivo malissimo. La Honda mi aveva lasciato poche ore per decidere, e per completare il quadro ero stato abbandonato dal mio capotecnico.

Ero rimasto solo, ed è con me stesso che avrei dovuto confrontarmi. Mi sentivo stretto nell’angolo, alle corde, e non sapevo come uscirne.

Che intanto dovessi anche pensare alla gara del giorno dopo, e che stessi soprattutto giocandomi il titolo, a quel punto mi appariva una cosa addirittura superflua!

Ho deciso di convocare di nuovo un incontro, naturalmente top secret, con quelli della Yamaha.

Ci siamo dati appuntamento in una stanza dell’hotel.

Quello che avevamo appena organizzato era un summit tesissimo, oltre che segretissimo. Furusawa, questa volta, ha portato con sé anche un dirigente che all’epoca era il numero due dello sport, in Yamaha: Kitagawa. Un uomo che ricopriva un ruolo importante, quindi.

Ho raccontato subito del mio colloquio con Jeremy, spiegando che non sarebbero venuti né lui né i meccanici.

A Furusawa ho chiesto soprattutto maggiori garanzie tecniche: volevo ulteriori chiarimenti sui progetti e sulla effettiva capacità di realizzare tutto quello che lui mi aveva promesso.

Tutte quelle cose che mi aveva detto Jeremy, la sua paura di fronte alla Honda, mi avevano reso inquieto.

Furusawa mi ha risposto chiedendomi di avere fiducia nel programma che lui aveva attuato per cambiare la Yamaha.

Mi ha detto delle belle parole, che avevano un senso, ma erano pur sempre parole.

Ascoltavo ciò che diceva, guardavo il suo viso per capire cosa stesse pensando mentre mi diceva queste cose, e contemporaneamente riflettevo tra me e me.

All’improvviso, nel bel mezzo della nostra discussione, Kitagawa si è addormentato. Sì, si è messo a dormire.

“Ma come” pensavo io “stiamo parlando di cose importanti, si tratta di prendere accordi decisivi, per il futuro loro e mio, e questo qui si addormenta.”

Lo vedevo sul letto, mentre dormiva, ed ero sempre più nel panico. Insomma, io stavo decidendo del mio futuro, Furusawa stava cercando di convincermi ad accettare un’operazione di grandissima importanza, eravamo giunti al colloquio più teso e decisivo di tutta la trattativa, e questo dormiva!

Solo in seguito mi hanno spiegato che i giapponesi non reggono le ore piccole.

Vanno a letto molto presto, loro. Perché si alzano molto presto. Ma quella scena, in quel momento lì, anche se era effettivamente tardi, non mi ha fatto sentire molto bene. Però non ho detto niente, anche perché avevo ben altre cose per la testa.

Quando sono rientrato nella mia camera, è stata dura prendere sonno.

Durante la notte tra sabato e domenica, alla vigilia della gara, mentre giravo per la mia stanza d’hotel, senza riuscire a prendere sonno, ho deciso che anche se Jeremy non fosse venuto con me io me ne sarei andato lo stesso.

«La storia finisce davvero qui! Mollo tutto e vado alla Yamaha. Anche se Jeremy non viene. Mi arrangerò, mi verrà in mente qualcosa» ho detto, con sicurezza.

Avevo finalmente preso la mia decisione. Questa volta in modo definitivo.

In agosto avevo infatti stretto la mano a Brivio, e se avevo fatto questo gesto era perché ero sicuro di ciò che stavo facendo, ma nessuno aveva mai preso la decisione di lasciare la Casa più importante del mondo nel suo momento di massimo splendore tecnologico, per passare a una Casa che invece stava vivendo il suo periodo peggiore, da quel punto di vista. Quindi dicevo che sarei andato via, ma in realtà continuavo a chiedermi se stavo per fare la scelta giusta. E me lo sono chiesto anche durante quella notte quasi insonne.

Quando è arrivata l’alba, dormivo infatti solo da poche ore. Ma ero pronto per affrontare la grande giornata. Per una volta, forse per la prima volta nella mia carriera, non era la gara l’evento più importante che avrei affrontato.

Stavo per uscire dalla stanza quando ha squillato il telefono. Era Fiorani, che voleva sincerarsi che tutto fosse a posto.

«Ricordati di passare dai capi, per il tuo consenso al contratto» mi ha detto.

«Certo che mi ricordo» gli ho risposto io, rassicurandolo.

Ho preso lo scooter, e dall’hotel sono arrivato nel paddock in un paio di minuti. Lì, ho trovato Fiorani.

I responsabili della squadra mi stavano aspettando, in effetti. Attendevano il mio assenso al contratto che avevano preparato. Si sarebbe trattato unicamente della mia accettazione, poi i legali rappresentanti avrebbero perfezionato il tutto.

Ma hanno dovuto constatare che il mio assenso non c’era, quindi le loro facce hanno cominciato a mostrare chiari segni di delusione.

La cosa sorprendente, in fondo, è che in un momento così significativo e importante non ci siamo detti praticamente niente. Solo pochissime parole. Non c’è stato un vero colloquio, insomma. Loro hanno guardato quei fogli, e hanno capito tutto.

Io sono rimasto in silenzio, loro anche. Non c’è stata una discussione, una richiesta di spiegazioni, un tentativo di riaprire le trattative. Hanno capito che non c’era molto da aggiungere.

Anche perché, sebbene stessi vivendo un momento importante, ho dovuto pensare al warm up. Che era in programma di lì a poco.

Ci siamo salutati e me ne sono andato verso l’ufficio riservato al team, dove tenevo il mio abbigliamento da gara.

Poco dopo ho visto arrivare Fiorani, un po’ agitato.

«Guarda che non hanno capito che stai cercando di metterli alle strette, devi dirglielo» mi ha ammonito lui.

«Secondo me hanno capito benissimo. Io voglio cambiare, ho voglia di provare una nuova esperienza» ho chiarito, e a quel punto nemmeno lui ha reagito.

Allora ho iniziato a cambiarmi: mi sono infilato la tuta,gli stivali, ho preso casco e guanti e sono andato a fare il warm up.

Quindi ho corso la gara. Che ho chiuso in seconda posizione. Con un po’ di rammarico, perché con una serenità interiore un po’ diversa avrei probabilmente vinto.

Ma sapevo che sette giorni dopo, in Malesia, avrei potuto conquistare il titolo. E a quel punto la pressione sarebbe svanita.

Ma dopo la gara non ero appagato. Non avevo ancora fatto tutto quello che volevo fare quel giorno lì. Infatti mi restava il chiarimento con Jeremy. Sono andato da lui e ci siamo messi in disparte.

«Ho deciso di andare alla Yamaha. Ci vado anche da solo, e mi dispiace molto per te» ho detto, senza lasciare spazio all’immaginazione.

Forse sono stato un po’ brusco, ma non avevo altre parole. Ci ho messo dentro un misto di dispiacere, delusione, rabbia. Perché in quei giorni era un po’ cambiato anche il nostro rapporto: c’era imbarazzo, ci parlavamo con maggiore difficoltà.

Era un po’ stizzito, Jeremy, perché aveva cercato di convincermi a restare ma non c’era riuscito. Inoltre si sentiva a disagio perché realizzava che io avevo trovato il coraggio di lasciare la Honda, mentre lui ancora non ci riusciva.

Ma io l’ho lasciato con i suoi dubbi.

Dal Giappone siamo andati subito in Malesia. A Sepang abbiamo vinto la gara e il titolo. Il mio terzo titolo consecutivo con la Honda: uno nella 500, due nella MotoGP.

Era anche il mio quinto titolo in carriera.

Dopo la gara Jeremy mi ha avvicinato, e con la sua solita calma mi ha detto:

«Vorrei andare a parlare con quelli della Yamaha».

«Va bene, ti combino io l’incontro» ho risposto, sorridendo, con grande sollievo e molta felicità.

Subito dopo la gara Jeremy e i ragazzi sono rientrati in Australia, per passare qualche giorno a casa prima del gran premio a Phillip Island. Io sarei partito nel pomeriggio del giorno dopo.

Quando ho sentito le parole di Jeremy, ho capito subito che qualcosa in lui era cambiato. Quelle poche giornate trascorse tra le gare in Giappone e in Malesia le aveva passate a riflettere. Ed era tornato sulla sua decisione: aveva scelto di seguirmi.

Avevo deciso di andare a Sydney, il lunedì; avevo prenotato un volo del pomeriggio. L’avrei preso dopo aver firmato il precontratto con la Yamaha.

Già, perché loro si erano fidati, quando a Brno avevo stretto la mano a Brivio annunciando che sarei andato con la Yamaha, ma adesso volevano sentirsi finalmente tranquilli.

Perché se avessi deciso di comportarmi in modo disonesto, o anche solo se avessi avuto un improvviso ripensamento, magari una crisi di panico o chissà quale altra cosa, loro sarebbero stati davvero in grande difficoltà.

Quando prendo una decisione, è raro che torni indietro, ma loro non potevano saperlo, non mi conoscevano ancora bene. Dal loro punto di vista, quindi, era più che comprensibile volersi tutelare.

Anche noi avevamo dei timori, ma di tutt’altro tipo. Avevamo paura che se avessimo firmato il contratto, qualche sprovveduto, oppure qualcuno molto interessato, avrebbe fatto uscire la notizia. Perché un conto è sapere che si sta discutendo, un altro è dire che c’è anche la firma su un contratto. Noi non conoscevamo ancora il mondo Yamaha, temevamo la fuga di notizie.

Ecco perché ho detto subito: «Non firmo niente fino a quando non ho vinto il Mondiale».

Domenica pomeriggio, a Sepang, ho vinto il titolo, e così i responsabili della Yamaha ci hanno chiesto di iniziare a regolarizzare il nostro accordo.

Anche perché, ormai, la Honda aveva avuto la certezza che non avrei rinnovato.

Contemporaneamente, abbiamo poi informato i vertici della Ducati che avevo deciso di affrontare una sfida diversa.

Quindi, eravamo giunti al punto in cui si poteva regolarizzare il contratto con la Yamaha.

Uno pensa che, vista la situazione e i personaggi, un contratto così venga firmato in una suite da mille e una notte, oppure in un luogo di grande prestigio, davanti a una squadra di notai e avvocati, usando una penna d’oro, in un’atmosfera di grande suggestione.

Magari si può pensare che io sia arrivato con la “24 ore”, tutto elegante, mantenendo un atteggiamento molto serio e professionale.

Bene, è successo tutto tranne questo.

Domenica sera siamo andati a festeggiare con i ragazzi del Team Honda, in un locale che è in un grattacielo nel centro di Kuala Lumpur.

Rientrando in hotel abbiamo incontrato Angel Nieto, che ha cominciato a raccontare le sue gare, le sue avventure, i duelli con i piloti che erano stati i suoi rivali. Ci siamo talmente divertiti, che abbiamo fatto le cinque di mattina.

Così il giorno dopo la sveglia è stata completamente ignorata. Non ha avuto alcun effetto nessuno dei tentativi che ho fatto per alzarmi dal letto. Volevo alzarmi, ma poi mi riaddormentavo subito.

Naturalmente sono arrivato in ritardo all’incontro con i rappresentanti della Yamaha. Loro mi aspettavano in una camera dell’hotel; più passava il tempo più aumentava la loro preoccupazione.

Sapevano che sarei dovuto andare a prendere l’aereo per Sydney: il tempo correva e non mi vedevano arrivare. Hanno cominciato a pensare che non mi sarei presentato.

Sono comparso all’improvviso, tutto trafelato: avevo lo zainetto addosso, trascinavo la valigia e varie borse.

«Eccomi!» ho urlato, dopo essere entrato in camera e aver buttato da una parte i miei bagagli.

«Ho un quarto d’ora di tempo, poi devo andare!» ho detto subito.

Mi hanno tutti guardato con un’aria che era più sconvolta della mia.

Ho allentato il clima di tensione, in quel modo. Perché poi, quando sai che sei palesemente in torto, tanto vale attaccare subito senza aspettare di essere attaccati.

«Dai, che siamo in ritardo, perdiamo l’aereo, leggete il contratto. Bene, per me è tutto ok!» ho detto io, prendendo l’iniziativa.

«I legali possono firmare» ho poi sentenziato.

Anche nel momento in cui veniva siglato il contratto mi sono mantenuto in linea col mio stile di vita. Col mio modo di essere.

Io sono assolutamente, costantemente, in ritardo. È uno dei miei più grandi difetti.

Riesco a concentrarmi e a dare il massimo solo se i tempi sono stretti, se bisogna fare tutto di corsa. Se c’è tempo, se so di poter fare tutto con calma, non riesco a rendere al meglio.

«Ho già capito, questo contratto che firmiamo adesso è qualcosa di molto speciale…» ha detto infatti Jarvis, vedendomi in quello stato, mentre firmavo il precontratto così di fretta, e poi salutavo tutti col timore di perdere l’aereo che mi avrebbe portato in Australia.

Prima di andarmene, però, ho fatto in tempo ad annunciare che Jeremy stava ancora riflettendo, che aveva iniziato a tornare sui suoi passi.

«Jeremy vuole incontrarvi. Mi raccomando, non è ancora finita, fate di tutto per convincerlo a venire con noi» ho aggiunto.

Poi ci siamo dati tutti appuntamento a Phillip Island, di lì a pochi giorni.

Prima di raggiungere Melbourne, e poi Phillip Island, sono rimasto un giorno e mezzo a Sydney per rilassarmi.

Avevo vinto il titolo, mentalmente avevo anche chiuso il capitolo con la Honda, volevo “staccare” per iniziare a pensare con calma al mio futuro.

Sono arrivato a Phillip Island mercoledì pomeriggio. Avevo organizzato l’incontro con i vertici della Yamaha, in particolare con Furusawa, quindi sono andato a prendere Jeremy.

Ma ero in ritardo, come al solito; Jeremy alle undici di sera non mi aveva ancora visto, e di conseguenza aveva pensato che ormai ci saremmo incontrati il giorno dopo. Si era quindi ritrovato con alcuni suoi amici e non aveva lesinato sui bicchieri di birra.

Quando sono arrivato da Jeremy, l’ho visto piuttosto… allegro. L’ho caricato in auto, gli ho spiegato che l’avrei portato a parlare con Furusawa e gli altri responsabili della squadra. Lui, a quel punto, ha capito che stavamo facendo sul serio, ed è incredibile quello che ha fatto nei cinque minuti che abbiamo impiegato per andare al luogo dell’appuntamento: si è come “resettato”; quando è sceso dall’auto era lucidissimo. Si è messo a parlare con Furusawa, e l’ha conquistato.

Perché il dirigente giapponese pensava che Jeremy fosse un tipo altezzoso, uno che avrebbe fatto pesare la sua carriera e i trionfi (ha vinto nove campionati del mondo in dieci anni, con la Honda). Si aspettava perciò di trovarsi di fronte uno che l’avrebbe trattato come un incompetente. Invece in poco tempo ha capito chi è Jeremy Burgess, ed è rimasto anche lui conquistato dalla sua personalità. Dal suo modo di fare.

«Non pensavo fosse così umile, tranquillo, uno che vuole darsi alla causa» mi ha detto Furusawa dopo l’incontro.

Lì, a Phillip Island, già nel primo incontro, Jeremy è stato subito molto chiaro.

«La Honda non fa magie, voi seguite quello che vi dice Valentino e vedrete che andrà tutto bene» disse subito alla piccola platea che lo ascoltava. Oltre a Furusawa, c’erano infatti anche Jarvis e Brivio.

«Per non rischiare equivoci, è bene che gli ingegneri parlino direttamente con Valentino, perché se io traduco si può anche perdere qualcosa» propose Jeremy a coloro che avrebbero dovuto occuparsi dell’organizzazione del lavoro del team.

I vertici dello sport Yamaha erano molto interessati, e incuriositi, dalle teorie di Burgess.

A un certo punto, Jeremy ha parlato direttamente a Furusawa, che era già il vertice del nuovo gruppo dei progettisti.

«Voi tecnici dovrete parlarvi molto: voi, che costruite la moto, e Valentino, che deve guidarla, dovrete avere una buona comunicazione. Ecco, se farete questo non ci saranno problemi.»

È stato essenziale, preciso, sintetico. Come sempre.

Jeremy ha poi firmato il contratto con la Yamaha sabato sera, alla vigilia della gara. Domenica sera sono stati convocati i meccanici, che hanno parlato, uno alla volta, con i dirigenti della Yamaha. E hanno firmato il loro contratto a Valencia.

Alla fine ci hanno seguito Alex Briggs, Bernard Ansiau, Gary Coleman. Si sono aggiunti a un meccanico neozelandese, Brent Stephens, che vive in Australia, che lavorava già nel Team Yamaha. Conosceva la moto e grazie alla sua nazionalità si sarebbe potuto inserire bene nel gruppo degli australiani. Come tecnico di acquisizione dati è rimasto Matteo Flamigni, esperto dei software e dei sistemi elettronici della M1.

Così sono rimasti fuori Dickie e Peter, costretti a restare in Honda perché l’organico era al completo. In due settimane siamo passati quindi da un estremo all’altro: prima non voleva venire nessuno, poi c’è stata una tale affluenza che non c’era più posto per tutti.

A Valencia, la Honda ha organizzato una conferenza stampa, che è stata intensa.

C’era un’atmosfera strana. Avevamo deciso, di comune accordo con i vertici del team, di tenere l’incontro con i giornalisti dopo la gara.

In realtà non è mai stato sicuro fino all’ultimo momento. Nakajima avrebbe voluto dirlo anche prima, che me ne sarei andato, ma poi ha cambiato idea perché sembrava che in Giappone non lo volessero annunciare neanche dopo l’ultima gara del Mondiale. Noi, invece, volevamo che la situazione fosse chiara.

Sabato pomeriggio ho incontrato Gibernau, nel paddock.

«Ho sentito che domani c’è una conferenza stampa della HRC» mi ha detto.

«Sì, dopo la gara» ho confermato io.

«Dirai che rimarrai alla Honda, naturalmente…» mi ha chiesto.

«No, dirò che andrò con la Yamaha» ho risposto.

Ho visto un lampo nei suoi occhi: prima di stupore, poi di contentezza. Già, ha fatto due conti, quindi ha sicuramente pensato che con la Yamaha non avrei combinato niente di buono. Glielo leggevo in faccia, così come l’ho letto nella faccia di moltissime altre persone, una volta annunciato il mio cambio di moto.

La conferenza stampa dopo la gara, che ho vinto, è stata quindi l’addio ufficiale alla Honda. Dopo, sono andato ad abbracciare quelli con i quali mi ero trovato bene in quegli anni: Fiorani, Florenzano, Peter, Dickie, Roger.

Durante tutto il fine settimana, quando giravo per il box oppure prelevavo le mie cose dai motorhome della Honda, ho vissuto momenti di grande malinconia: sensazioni forti, perché sapevo che stava per finire un periodo importante della mia carriera. Lasciavo una situazione certa per prendere una strada incerta. Eccitante, stimolante, ma pur sempre incerta.

Nel team, comunque, non ho mai notato aria di disperazione.

I giapponesi della Honda erano così convinti che nel 2004 mi avrebbero battuto, che non si preoccupavano per niente. Erano certi che avrebbero comunque vinto il campionato anche senza di me.

Per loro, tenermi era una pratica come un’altra. Perso me, avrebbero dato la moto ufficiale a Barros, Biaggi, Gibernau. Erano tranquillissimi.

Io, invece, lo ero molto meno. Infatti sabato sera mi sono fatto fare le foto abbracciato alla RC211V. Volevo salutare la mia moto, perché sapevo che il giorno dopo avremmo corso la nostra ultima gara insieme.

Lasciare la RC211V è stata la cosa che mi è dispiaciuta di più, infatti è per l’attaccamento che avevo alla mia moto che ho riflettuto così a lungo. E il vero motivo per cui ho aspettato così tanto a dire sì alla Yamaha.

Mentre guardavo la mia RC211V, pensando che presto ci saremmo separati, temevo che sarebbe passato tanto tempo prima di poter tornare ad assaporare il gusto della vittoria. Avevo perciò deciso che avrei dovuto vincere anche l’ultima gara della stagione 2003: sarebbe stato un bel modo per dirsi addio, certo, ma anche per completare la scorta di sensazioni forti. Volevo fare provvista di gioia di vincere, perché temevo che per un po’ non l’avrei più riassaporata.

Mi sbagliavo, visto che ho dovuto aspettare solo la prima gara del campionato seguente. Ma, in quel momento, non potevo neppure immaginarlo.

3

Durante il lungo e faticoso travaglio del 2003, che mi ha portato a scegliere di lasciare la Honda per la Yamaha e a dire no alla Ducati, ho affrontato un percorso mentale intensissimo.

Un viaggio alla scoperta di me stesso, fatto di esplorazioni e riflessioni interiori.

Mi sono sottoposto a una sorta di autoanalisi, attraverso la quale adesso posso dire che se sulla mia strada, tra la fine del 2003 e l’inizio del 2004, non avessi trovato quel gruppo fantastico che abbiamo creato in Yamaha, forse avrei smesso di correre prima di compiere 25 anni!

Durante un periodo di sei mesi, che non scorderò mai, ho scoperto che cosa stavo realmente cercando: ero alla ricerca di serenità, di gioia. Avevo bisogno di un gruppo divertente, col quale stare bene nel box e anche fuori. Per vivere sensazioni e situazioni che andavano anche al di là della moto.

Ero, inoltre, alla ricerca di qualcosa che si chiama motivazione. Che è poi il problema maggiore per chi, come me, a un certo punto, pur se ancora molto giovane, si rende conto di aver fatto tutto terribilmente in fretta.

Eh sì, perché per me le cose si sono susseguite molto velocemente. Quando ho compiuto 24 anni, nel febbraio del 2003, mi sono trovato a dover già fare un bilancio.

Scoprendo che tante cose non mi andavano più, che c’erano molte situazioni che non sopportavo.

Certo, di non essere felice alla Honda lo sapevo già, e da tempo. Ma non avevo ancora realizzato, nei mesi iniziali del 2003, che avrei potuto farne tranquillamente a meno. Quando Davide Brivio è venuto a Ibiza per parlarmi della Yamaha, non avevo ancora compreso che quella proposta celava una sorta di lasciapassare per un territorio verso il quale nessuno si era ancora spinto. Almeno nel motociclismo moderno. Non avevo ancora realmente capito che solo accettando un’altra sfida, ancora più impegnativa, avrei potuto dare una svolta alla mia carriera, sarei riuscito a trovare dentro di me la forza per migliorare ancora. Come pilota, e forse anche come persona.

C’è voluto tempo, per capire questa e tante altre cose, ma alla fine ci sono arrivato.

Lasciare la Honda, tanto più per la Yamaha che in quel periodo stava forse vivendo il periodo peggiore della sua storia agonistica, all’inizio del 2003 sembrava una follia anche a me. Sebbene non fossi felice di essere nel Team HRC al quale invece tutti i piloti, i miei avversari in primo luogo, ambivano, non riuscivo mentalmente a immaginare un futuro agonistico senza la Honda. Alla quale ero approdato alla fine del 1999, sognando la consacrazione grazie alla possibilità di guidare quella che mi sembrava, e lo era, la moto più bella del mondo: la NSR 500 ufficiale.

Eppure, dopo tre stagioni vissute fra trionfi conquistati a passo di record, mentre mi accingevo a preparare il 2003 nel quale avrei conquistato il mio quinto titolo assoluto, il terzo con la Honda, sentivo qualcosa in embrione che aspettava solo che un evento ne determinasse l’esplosione.

All’inizio del 2003 avevo chiaro un solo concetto: in Honda mi mancava la felicità.

Non ero contento. Soprattutto a causa di una filosofia diversa dalla mia, non mi piaceva più vivere in quell’ambiente e non avevo più voglia di sopportare la situazione che si era determinata: non mi venivano riconosciuti i miei meriti, ero costretto a vivere in un ambiente molto teso e in un clima di grande pressione.

Proprio io, che desidero vedere la mia squadra che si stringe attorno a me, che soffre con me, che si esalta con me, vedevo che la mia idea di “gruppo” era assolutamente lontana, con la Honda.

Perché ho bisogno di sentirmi bene in un gruppo, io, e alla Honda quel gruppo non c’era più. Anzi, era proprio quello che stava determinando una situazione per me irreale: stavo perdendo il gusto delle corse. E mi sembrava impossibile. Era impensabile che potesse succedere a me, invece stava accadendo.

Mentre analizzavo il precontratto che la Honda ci ha portato in Inghilterra, ho subito avvertito una brutta sensazione. Mi è venuta alla mente la situazione di chi deve andare a lavorare, a timbrare il cartellino oppresso dagli orari, dal capufficio, dai colleghi che non ama, da una vita che non gli piace. E non puoi vivere uno stato d’animo simile, se sei un pilota.

Io ho sempre messo come priorità il gruppo, cioè le persone con le quali devo relazionarmi, in fondo possiamo anche dire lavorare, e questo l’ho sempre fatto valere sin dai tempi della 125.

All’interno del mio box voglio gente alla quale voler bene, persone con le quali poter parlare non solo di moto: gente che si diverte, sorride.

Uno dei motivi che mi hanno fatto disamorare del Team HRC, è il modo in cui bisognava vivere all’interno di quella squadra. Regnava un certo rigore, non c’era mai una grande voglia di ridere, scherzare. E io non mi sento molto a mio agio in un ambiente in cui c’è gente che non è capace di sorridere.

Devo avere attorno a me un gruppo che esprima sentimenti come la riconoscenza e la partecipazione. La gioia,l’entusiasmo, il coinvolgimento. Altrimenti non riesco a pensare di essere in una squadra veramente unita.

Eravamo vincenti, questo sì, ma se questo bastava ai dirigenti giapponesi, non era la stessa cosa per me. Io andavo in cerca di altro. Io voglio fare le cose divertendomi.

Il che significa che voglio vincere divertendomi. In quel caso può riuscirmi tutto.

In Honda ero il numero uno, è vero; ma io e i dirigenti avevamo due modi differenti di considerare il ruolo del numero uno. Per loro, ero il riferimento nel senso che ricevevo gli aggiornamenti tecnici un po’ prima degli altri: arrivava del materiale, lo provavo, lo sviluppavo, lo usavo per primo. Poi però veniva dato anche agli altri.

Ma quello che nessuno ha mai voluto capire - per primi gli altri piloti della Honda, che su questa situazione di equivoco hanno marciato parecchio - è che la mia moto non era così superiore a quella degli altri piloti della Casa giapponese. Alla fine del campionato 2003, la mia RCV, rispetto a quella di Gibernau e Biaggi, aveva 250 giri in più. Basta, niente di più.

Il motivo lo conoscevo bene: in Honda la cosa più importante è l’affermazione della propria tecnologia, da sviluppare attraverso le corse per poi trasferirla sul prodotto di serie. In Honda, l’importante è dimostrare che si vince per merito della moto, quindi è necessario chiudere le gare col primo, il secondo e il terzo posto.

Ecco perché le altre moto sono sempre state praticamente al livello della mia. Ed è stato così anche quando me ne sono andato.

La Honda, nel 2003, era entrata in una spirale: quando vinci da molto tempo non ti basta più vincere, devi stravincere.

L’abitudine alla vittoria porta a situazioni che sono sicuramente invidiabili, da un certo punto di vista, ma che io trovavo però poco esaltanti: durante la stagione 2003, cioè all’apice del nostro successo, nel momento in cui eravamo difficilmente battibili, ho iniziato ad avere la sensazione che, vincendo, facevo soltanto il mio dovere. E

basta. Non li vedevo mai pazzi di gioia, felici, esaltati.

Se vincevo io andava bene, ma se lo facevano Gibernau o Biaggi andava bene lo stesso. Forse erano anche più contenti, in questo caso, perché in quel modo potevano far vedere che la loro moto “clienti” era una moto vincente.

Io l’ho capito da solo, ma per togliermi ogni dubbio me lo sono fatto dire da loro.

Dai vertici del team.

«Eh, sì, in effetti il nostro obiettivo è che si faccia primo, secondo, terzo in tutte le gare. Noi vogliamo che ci siano tre Honda sul podio, sempre!» E l’hanno detto con grande tranquillità. Anche perché era una cosa che capitava spesso, alla Honda.

Naturalmente gli altri piloti Honda su queste considerazioni non si sono mai soffermati troppo. Biaggi e Gibernau volevano infatti dimostrare che era la mia moto, a permettermi di vincere. Lo sapevano, che quei 250 giri non avrebbero potuto fare la differenza che loro sostenevano, ma non erano disposti ad ammetterlo.

Un’altra cosa che mi faceva innervosire, quando ero in Honda, era la tendenza a non riconoscere mai apertamente la validità di una scelta, di un suggerimento, di un’indicazione, che io e i nostri tecnici fornivamo ai giapponesi del reparto corse.

Insomma, erano molto freddi. Efficienti, certo. Eccome se lo erano. Ma, umanamente, dei pezzi di ghiaccio.

Quando sono entrato nel Team HRC, all’inizio del 2002, ho iniziato a penetrare veramente nel mondo Honda. Perché prima, nei due anni precedenti, nel Team Nastro Azzurro, era tutto molto diverso; avevamo un giapponese in squadra, si chiamava Sato, che era il telemetrista, ma per il resto noi non avevamo rapporti diretti con quelli della HRC: decidevamo tutto noi. Io e Jeremy Burgess stavamo bene, avevamo la moto ufficiale, ma la gestivamo noi col nostro gruppo formato da italiani e dai ragazzi di Jeremy. Invece alla fine del 2001, con l’inizio dell’era MotoGP, le circostanze mi hanno portato nella squadra che è la diretta emanazione della Honda.

Il team interno. Il Team HRC. Perché la prima RCV quattro tempi non avrebbe potuto svilupparla che la squadra ufficiale, naturalmente. Nel 2002 era veramente un prototipo al suo primo stadio di sviluppo, nessuna squadra satellite aveva le conoscenze tecniche e la capacità di gestirla.

La RC211V, nella sua prima versione, l’ho provata per la prima volta a Suzuka, dopo la Otto Ore dell’agosto 2001.

Mi apparve subito stranissima: era molto piccola, per nulla protetta dalle carene.

Che erano ridotte al minino, ed estremamente avvolgenti.

Sembrava un giocattolo.

Quando, poi, l’hanno fatta scendere dal cavalletto, la RCV mostrava un assetto inusuale: era molto alta dietro, quindi era nettamente inclinata sull’anteriore, molto più basso rispetto alla zona posteriore.

Salendoci sopra, poi, appariva ancora più piccolina.

Certo, in quel periodo, le priorità erano il motore e la ciclistica. Ma appena l’ho provata ho notato subito che aveva anche dei grandi problemi. Quando la gomma posteriore si scaldava, la RCV scivolava moltissimo: la mancanza di trazione era tale che la ruota posteriore sgommava anche nella corsia dei box!

Aveva già un gran motore, si capiva subito che aveva una grande potenza, nonché margini di sviluppo enormi, ma in quella prima versione non riusciva a usarlo.

Ecco perché avevo poi affermato che avrei voluto correre con la 500 anche nel 2002. Cioè nel primo anno della MotoGP. Ero un po’ preoccupato dal livello iniziale della Honda quattro tempi, e pensavo che la 500 due tempi all’inizio sarebbe stata maggiormente competitiva.

Però stiamo parlando della Honda, quindi già nel mio secondo test, svolto a Jerez in novembre, la RCV era molto cambiata. E andava già forte.

Al mio ingresso nel Team HRC trovai dunque una nuova dirigenza. E con essa, un’atmosfera diversa da quella a cui ero abituato: molto più formale, più fredda.

Me ne sono accorto subito, cioè quando si è trattato di finalizzare il contratto 2002-2003. «Siamo a piedi» mi ha detto infatti Gibo, al telefono, mentre ero in montagna, a sciare con i miei amici.

«Ma come, non eravamo a posto?» chiesi io, stupito.

«Già, eravamo a posto…» ha replicato lui, lasciandomi allibito.

«Forse è meglio se ci vediamo» mi ha poi proposto.

A quel punto, nel gennaio del 2002, abbiamo scoperto che la Honda aveva allungato i tempi per la definizione del contratto. E ci siamo ritrovati, quindi, in una situazione delicata. Abbiamo cioè dovuto decidere se rimanere con la Honda o se andarcene. Loro, tra la fine del 2001, quando cioè sembrava che tutto fosse stato definito, e l’inizio del gennaio 2002, avevano cambiato diverse cose tra le clausole che avevamo già stabilito in precedenza.

Così, alla vigilia della stagione dei test, io mi sono ritrovato senza un contratto.

Ho abbandonato a malincuore sci e amici, e sono andato in gran fretta a Roma, nella sede della Honda Europa, dove è stato organizzato un incontro con i vertici della squadra.

Non è stata affatto una chiacchierata piacevole.

Abbiamo cercato di ragionare, di valutare attentamente tutti gli scenari, le possibilità, per trovare un accomodamento. E alla fine, non senza difficoltà, un accordo l’abbiamo trovato. Quindi ho rinnovato il contratto con la Honda per altre due stagioni.

Quando sono uscito ero un po’ sconvolto, mi sentivo come avvolto da un’atmosfera vagamente surreale.

«Adesso viene fuori qualcuno e mi dice che sono su Scherzi a parte!» ho detto io, cercando di sdrammatizzare, mostrando però quale fosse il mio livello di incredulità.

Ma poiché era tutto vero, ho cercato di restare positivo.

Dovevo guardare avanti. La stagione 2002 era alle porte, c’era molto lavoro da fare. Ormai da qualche mese avevo iniziato a sviluppare, con gli ingegneri giapponesi, la RC2HV. Era nuovissima, in quel periodo; già dopo due test aveva fatto progressi notevoli, ma c’era ancora tanto da fare. E il tempo stava trascorrendo anche troppo velocemente.

Però questa me la sono legata al dito. Da lì, i miei rapporti con la Honda non sono più stati quelli di prima.

Anche perché di episodi spiacevoli ce ne sono stati diversi.

Una cosa che non ho mai perdonato alla Honda, ad esempio, è l’avermi negato la NSR 500 con la quale ho vinto il titolo del 2001, dopo avermela promessa. E stato un grosso dispiacere, perché ero legatissimo a quella moto.

E non si tratta solo della moto in sé, quanto del modo in cui hanno gestito questa faccenda.

Avevo iniziato a chiedere la NSR già molto prima della fine della stagione 2001, e all’interno del team mi avevano assicurato che me l’avrebbero data.

Nonostante questo, io continuavo a chiedere la moto con regolare insistenza.

«Adesso arriva» ripetevano sempre.

E io mi insospettivo.

«Stai tranquillo» dicevano.

E io mi preoccupavo sempre di più.

La cosa che mi stupiva è che non dicevano mai “no”. Continuavano a dire che non ci sarebbero stati problemi, però non indicavano mai una data oppure un evento in occasione del quale mi avrebbero consegnato la moto.

«E in dogana, sta arrivando» dissero una volta.

«Bene, aspetto.»

«Manca una marmitta e qualche pezzo, poi saremo a posto» si inventarono in un’altra occasione.

«Ok, aspettiamo il pezzo.»

A forza di dogane che non sdoganavano e di pezzi che non arrivavano, è finito il 2001 ed è passato tutto il 2002!

Nell’inverno del 2003, stanco del loro modo di portare avanti questa vicenda, ho iniziato a diventare più aggressivo.

Ho cominciato da Fiorani, ma lui si è chiamato fuori!

«Allora, la mia 500 che fine ha fatto?» gli ho chiesto io, un giorno.

«Non so più che fare, a questo punto devi parlare con i giapponesi» ha risposto, dirottandomi verso i dirigenti della HRC.

«Va bene!» ho detto io. A quel punto, infatti, avrei parlato con chiunque.

Ma in quel momento ho iniziato a vedere la situazione in modo sempre più chiaro.

Ho iniziato a capire, insomma, che la mia NSR non l’avrei più vista.

E così è stato. Ci sono andato a parlare, con i giapponesi. E loro, adducendo le scuse più svariate, alla fine non me l’hanno data.

Anche perché io, a un certo momento, sentendomi offeso, ho smesso di chiederla.

E mi è costato molto, arrivare a questa decisione.

Anche questa volta, mi chiedevo il perché di questo loro atteggiamento. Insomma, pensavo di meritarmelo quel regalo. La NSR con la quale avevo vinto il titolo.

Pensavo di meritare una certa riconoscenza, considerando i risultati che stavo ottenendo. Avevo infatti vinto la Otto Ore e il titolo della 500 nel 2001, tra l’altro portando alla Honda la vittoria numero 500 a livello iridato; avevo poi vinto la prima gara dell’era MotoGP e il primo titolo della MotoGP della storia, nel 2002, con undici vittorie parziali.

Sono risultati che ti possono far pensare di poterti anche permettere di chiedere un favore.

Invece no. Non è andata così. E non riuscivo a spiegarmelo.

Un altro episodio che mi ha dato un certo dispiacere riguarda il test che la Honda aveva programmato alla fine della stagione 2001 con la NSR 500. Da tempo avevo espresso il desiderio di far provare la moto a Graziano e ad alcuni miei amici. Così avevo chiesto di poter approfittare dei giorni di test che la Honda aveva previsto di svolgere a Jerez, alla fine della stagione.

Naturalmente avevano assicurato che sarebbe stato possibile organizzare quel test senza problemi. Ma il giorno prima, in seguito alle mie insistenze, mi hanno candidamente annunciato: «Non possiamo, perché la moto in quella occasione la facciamo provare ai giornalisti».

«Ma come, i giornalisti!» ho sbottato. «La mia moto la provano i giornalisti, e su due giorni di test non c’è il tempo di lasciare fare un paio di giri a mio padre, che è un ex pilota del Mondiale?»

Eppure, andò proprio così.

Comunque, durante il percorso che mi ha portato a fare la mia scelta ho fatto anche altre valutazioni. Sicuramente più profonde.

Mi sono chiesto che cosa volessi fare del mio futuro. Al di là dei rapporti umani, avevo la prospettiva di restare con la Honda altri due anni, facendo, nella migliore delle ipotesi, quello che avevo già fatto nei due precedenti: vincere.

Sembrerebbe una valutazione banale, invece per me questo è diventato un fattore molto importante. In definitiva, è stato il punto di svolta.

Mi dava infatti molto fastidio che si continuasse a dire che io avevo sempre avuto solo il meglio, che vincevo soprattutto grazie al fatto che guidavo la moto migliore.

Perché è sempre andata così. Il primo anno di MotoGP, la RC211V l’avevamo solo io e Ukawa e tutti sostenevano che con quella moto, troppo superiore alla concorrenza, avrebbe potuto vincere chiunque.

«Vince anche un fermo, basta guardare le prestazioni di Ukawa, per capirlo…» era l’opinione generale, nel 2002.

Il secondo anno, cioè il 2003, la Honda RC211V l’avevano anche altri piloti. Tra i quali Biaggi, che nella stagione precedente si lamentava del fatto che la Yamaha non andasse per niente bene; eppure questa volta affermava che la sua Honda non era al livello della mia. E Gibernau faceva lo stesso. Sembrava insomma che la mia moto andasse il doppio delle altre.

Quindi, se chiudevo una gara in seconda posizione venivo messo subito sotto processo: nessuno considerava che avevo fatto comunque una bella gara, e questa volta un mio avversario era stato bravo. No, avevo perso io. E avrei dovuto vergognarmi, per quello. Se vincevo, era cosa normale. Se perdevo avevo fallito.

Io sapevo che la nostra moto andava bene, certo; ma sapevo anche che l’avevo sviluppata io, insieme agli ingegneri della Honda. Inoltre, proprio per questo, capivo perfettamente che le altre RC211V non erano così male come dicevano i piloti che le guidavano. Infatti nelle gare in cui io non ero a posto sono stato battuto proprio da loro.

Questa aura magica attorno alla mia moto e la certezza che guidassi un mezzo che andava praticamente da solo avevano creato una situazione che mi dava piuttosto fastidio. Oltre a mettermi addosso molta pressione.

Mi ritrovavo immerso in una situazione che avevo vissuto, indirettamente, seguendo le vicende di Michael Doohan attraverso i giornali o le indiscrezioni del paddock.

Sembrava, in una certa fase della sua carriera, che avesse una moto nettamente superiore: una moto che gli altri non potevano avere.

Lo dicevano i suoi avversari, che influenzavano la stampa e l’opinione pubblica in genere.

Anch’io, suggestionato dalle voci che circolavano, ho cominciato a chiedermi:

“Forse ce l’avrà davvero, questa moto così superiore…”.

Ecco perché, appena sono arrivato alla Honda, ho chiesto a Jeremy (che era stato il capotecnico di Doohan) di parlarmi di questa storia.

«Cos’aveva la sua moto, più di quelle degli altri?»

«Niente. Non aveva niente: l’unica cosa è che lui riceveva qualche pezzo prima, che poi veniva dato anche agli altri. Il fatto è che lui andava più forte.»

Ecco, ora mi ritrovavo immerso in quella storia. Esattamente la stessa storia.

Mi rendevo conto che avrei potuto vincere anche con le moto che avevano Biaggi e Gibernau, eppure non riuscivo a gareggiare con la giusta serenità: mi impegnavo per tutto il fine settimana, magari vincevo battendo i miei avversari all’ultima staccata, e poi sentivo loro che dicevano: «Sai che fatica, con quella moto lì!».

Arrivare in circuito sapendo già che l’unica cosa che avrei potuto fare era vincere e, per giunta, con la certezza che la vittoria sarebbe poi stata accolta come una cosa del tutto normale, visto che avevo la moto migliore, mi disgustava.

Ero giunto al punto in cui io stesso ero diventato un po’ paranoico.

Sono arrivato, ad esempio, a pensare di proporre uno scambio: sì, ho pensato di mettermi d’accordo con Biaggi e Gibernau per scambiarci le moto in un paio di gare.

Io con una delle loro, a turno; loro con la mia, sempre a turno.

Mi ero proprio fissato, ho detto a Gibo di provare a chiedere alla Honda di farlo davvero.

«Un giovedì, appena arrivati in circuito, io consegno la mia e prendo una delle loro. Accettando il rischio derivante dal fatto che ogni moto è messa a punto per la guida dell’altro. E poi vediamo cosa succede…»

All’apice di questa mia idea bellissima ma purtroppo inattuabile - non l’avrebbero mai permesso né la Honda né gli sponsor - avevo anche pensato di arrivare sulla griglia di partenza, domenica pomeriggio, andare da uno dei due e dire: «Dai, scendi e vai sulla mia moto che io prendo la tua!».

Nell’estate del 2003, poi, la HRC ha spedito in Europa un nuovo sistema di impianto di scarico. Ho scelto di non usarlo, proprio perché mi ero stancato che si dicesse che avevo sempre qualche vantaggio sugli altri.

Però, anche a causa delle trattative con Honda, Yamaha, Ducati, a volte in gara non avevo la giusta concentrazione. E ogni tanto sbagliavo.

Il “dritto” a Barcellona è avvenuto perché stavo sonnecchiando dietro Capirossi. E

per questo e altri episodi, si è poi iniziato a dire che la mia moto era così superiore che potevo permettermi il lusso di aspettare il finale di gara dietro i miei avversari, per poi batterli agevolmente nell’ultimo giro.

Naturalmente non andava così. Se ho la possibilità di allungare, io allungo.

Sempre. Perché l’arrivo in volata presenta comunque dei rischi: puoi anche arrivare secondo!

Se riesci a scappare, ti metti lontano dai guai.

Aspetto solo se capisco che non c’è altro modo di gareggiare. Allora uso l’attesa come una tattica, perché diventa l’unico modo per provare a vincere.

In Germania, ad esempio, ho commesso un errore nell’ultimo giro e mi sono fatto sorprendere da Gibernau. Ma non è che avessi deciso di aspettare il finale, per poi umiliare gli avversari. Ho commesso l’errore di non superarlo qualche giro prima, in modo da poter poi prendere il largo. Diciamo, quindi, che non ho attuato la tattica giusta.

Ma dopo aver perso quella gara in quel modo, cioè per una distrazione, mi sono talmente arrabbiato che mentre tornavo a casa mi sono detto: “Adesso basta, d’ora in poi non si fanno prigionieri!”.

Così ho ripreso a correre impegnandomi in tutti i giri, e ho vinto cinque delle ultime sei gare della stagione.

L’unica gara in cui sono arrivato secondo è stato il Gran Premio del Pacifico, a Motegi, che ho corso dopo aver passato praticamente la notte in bianco: quella, infatti, è stata la nottata in cui ho deciso di andarmene dalla Honda. Non ero del tutto concentrato, insomma.

Tutti gli episodi che mi capitava di affrontare con la Honda mi sono tornati alla mente spesso, mentre nel 2003 riflettevo sulle mie scelte future.

Mi sono ritrovato in una situazione curiosa: più pensavo ai motivi per i quali sarei dovuto restare alla Honda, più scoprivo che ne trovavo sempre meno.

E un giorno mi sono reso conto che era la Honda il mio limite.

Sì, può apparire strano, e anch’io ho impiegato parecchio tempo per realizzarlo, ma la Honda rappresentava il muro che mi impediva di esplorare nuovi orizzonti.

Quindi, contrariamente a quello che hanno poi detto in tanti, non sono stati certamente i soldi a spingermi a cambiare. Non è stata una questione di denaro, ma una faccenda legata alle motivazioni.

Anche perché, quando siamo giunti alla fase finale della trattativa, i manager della Honda ci avevano accordato praticamente tutto.

Quando ho ricevuto l’ultima versione del contratto, in ottobre, in Giappone, non c’erano più problemi: in Honda avevano accettato ogni mia condizione, erano realmente disposti a fare molto per tenermi.

Ma io avevo già deciso, nell’ottobre del 2003, che non sarei rimasto. Era una decisione presa con calma, dopo una lunga riflessione. Quindi, era il risultato di un’analisi profonda.

Certo, la presenza di Davide Brivio e degli altri dirigenti della Yamaha, tutti molto simpatici, mi ha reso più facile la scelta.

Lo conoscevo da tempo, Brivio. È sempre stato uno di quelli con cui mi ha fatto piacere parlare. Ci siamo conosciuti nel 1995, quando eravamo tutti e due nel campionato italiano. Io come pilota, nella 125, lui come manager del Team Yamaha impegnato nella Superbike. Apprezzavo come coloravano le loro moto, e soprattutto il clima della sua squadra. Per questo ero spesso da loro.

Alla fine ho scelto la Yamaha perché mi piaceva la loro sfida, e anche la gente che ci lavorava. Ho capito che avrei avuto la possibilità di ricreare una squadra unita, insieme a Brivio: un gruppo formato da italiani e stranieri che conoscevo bene, perché erano nella mia squadra con la Honda.

Quello che io cercavo, infatti, era un clima disteso: un gruppo unito che si stringesse attorno me, gente con la quale poter convivere bene, senza subire ricatti o minacce, senza dover sopportare l’aria di superiorità e supremazia che si respirava in Honda.

E quando ho capito che sarebbe stato un po’ più difficile trovare tutto questo nella Ducati, ho anche realizzato che i dirigenti della Yamaha avevano invece capito esattamente cosa stavo cercando.

In più, gli uomini della Yamaha me lo hanno proposto con garbo, senza aria di supponenza o autoritarismo. Ero stanco delle pressioni. La Yamaha a un certo punto mi è sembrata chiaramente in grado di offrirmi tutto questo. Con l’aggiunta, poi, di essere la seconda Casa costruttrice più grande del mondo; non stavo insomma parlando con un’azienda artigianale.

I suoi dirigenti, dai responsabili del reparto corse ai vertici della squadra, mi hanno detto in modo esplicito che la Yamaha era una Casa che aveva bisogno di me.

Insomma, i vertici della Yamaha avevano chiesto il mio aiuto, mi avevano fatto sentire fondamentale per lo sviluppo della loro moto e per i risultati in gara.

Comunque l’esperienza derivante dai colloqui con i dirigenti della Ducati, pur se breve, mi è servita molto. Mi ha aiutato a liberarmi dalla dipendenza psicologica che avevo nei confronti della Honda.

È stato pensando alla Ducati, infatti, che ho preso per la prima volta in seria considerazione la possibilità di un futuro agonistico senza la Honda. Perché l’idea Yamaha non mi aveva ancora conquistato del tutto, all’inizio: mi attirava di più la sfida con la Ducati.

Quando ho capito che la sfida e la mentalità della Ducati non facevano al caso mio, avevo comunque già cominciato a staccarmi psicologicamente dalla Honda.

“Se ero disposto ad andare alla Ducati, posso andare anche alla Yamaha” mi sono detto, pronto a tutto.

“Quindi posso davvero fare a meno della Honda” ho continuato a ripetermi per diverso tempo.

E progressivamente ho realizzato davvero che nel mondo delle corse non c’è solo la Honda.

Avevo raggiunto un punto importante, quindi: perché non avrei potuto iniziare a valutare veramente la possibilità di passare alla Ducati, nonché decidere poi che sarebbe stato meglio andare in Yamaha, se prima non avessi preso la decisione di lasciare la Honda.

Nel momento chiave, ed è stato durante l’estate, quando ho deciso che sarei andato alla Yamaha, ho fatto un ragionamento semplice ma che prima non mi era del tutto chiaro:

“La Honda non mi tratta come io penso che dovrebbe trattarmi, e non me lo merito questo atteggiamento; la Yamaha, che è la seconda forza del Mondiale, è venuta da me e mi ha detto ‘dimmi cosa vuoi, basta che chiedi e lo avrai’. C’è troppa differenza!”.

Della Yamaha, pur tra momenti di reciproco sospetto e qualche giorno di tensione, cosa peraltro normalissima in una trattativa così lunga, mi hanno sempre colpito l’impegno e la volontà che ci mettono quelli che vi lavorano.

Sono giapponesi anche loro, e lavorano secondo la mentalità giapponese, ma sono più aperti rispetto a quelli della Honda.

C’è gente che ha dato tutto per il suo obiettivo: per avere me, per portarmi alla Yamaha. Ci hanno messo passione.

Ci sono stati naturalmente anche momenti di nervosismo. Il picco l’ho raggiunto quando Jeremy e i ragazzi mi hanno detto che non volevano seguirmi in Yamaha.

Ero talmente nervoso, in quel periodo. Ero impegnato su più fronti, teso per tanti motivi, così quando Jeremy mi ha detto no, ho pensato: “Ma bravo, con tutto il casino che sto facendo per portarti con me, per convincere quelli della Yamaha che devono ingaggiare anche te e i ragazzi, tu mi rispondi così!”.

Questo ha provocato anche giornate di tensione e di imbarazzo tra di noi.

Comunque, anche i miei interlocutori in Yamaha mi avevano fatto abbastanza arrabbiare.

Poiché ero certo che Jeremy e gli altri ragazzi sarebbero stati un elemento fondamentale nel lavoro che avremmo dovuto svolgere, non riuscivo a capire lo scetticismo che quelli della Yamaha nutrivano nei loro confronti.

Al contrario, potevo comprendere quello che c’era da parte loro nei confronti della Yamaha. Soprattutto Jeremy. Mi sono messo nei suoi panni. Sei ormai nella parte finale della carriera, hai più di cinquant’anni, e devi lasciare la miglior azienda del mondo, dopo oltre venti anni che lavori con questa gente; dopo che ormai è tutto sincronizzato e non devi sbatterti più di tanto. Insomma, ti si chiede di rimetterti in gioco, di prendere dei rischi e di complicarti la vita. A 24 anni, la mia età all’epoca, è molto facile prendere decisioni simili, ma a cinquanta lo è molto meno.

Però, anche se Jeremy lo potevo capire, in realtà ci sono rimasto male lo stesso.

Perché poi, parallelamente, pensavo anche che Jeremy e il mio team avevano la stessa mia voglia di dimostrare certe cose: così come si diceva che la Honda va da sola, e con quella moto chiunque può vincere, allo stesso modo si ripeteva sempre che la squadra con la Honda alle spalle non conta molto. Anzi, pensavo che per loro doveva essere anche peggio: si diceva che è facile vincere con la Honda perché il materiale che arriva è già tutto pronto, che un team deve montare e smontare il materiale, ma niente di più.

Questa chiacchiera a loro dava fastidio, lo sapevo; eppure nemmeno questo bastava per dar loro una motivazione a cambiare.

Senza però mai perdere la calma, parlando e analizzando insieme la situazione, siamo riusciti ad accordarci su tutto. Ma in quel periodo lì, cioè alla fine dell’estate, anche questo contribuì a creare in me un momento di profondo sconforto.

Del resto venivo da una estate calda. La tensione andava ad accumularsi su altra tensione. Era stato tutto un crescendo.

In estate non ho mai corso con la serenità ideale, ma non se ne accorse nessuno perché nel 2003 mi sentivo veramente forte: è stato l’anno in cui sono stato più veloce guidando la Honda.

Sì, non ho mai guidato così bene una moto della Honda come in quel fatidico anno.

Non vincevo solo se commettevo qualche errore grave. Altrimenti, per gli altri era molto difficile.

Ed è questo in fondo che mi ha aiutato a correre un campionato al vertice mentre, parallelamente, dovevo anche pensare alla realizzazione di un progetto così coraggioso come quello che avevo in mente.

Come se tutto questo non bastasse, in quell’estate del 2003 c’era stato un ritorno prepotente della teoria secondo la quale vincevo solo grazie alla moto, che era la migliore. Lo dicevano talmente tanto, un po’ tutti, che a un certo punto non ne potevo più.

“Per mettere a tacere tutti dovrei proprio andare con la Yamaha, ma ho il coraggio per farlo?” ho iniziato a chiedermi, con sempre maggiore insistenza.

Però trovavo solo risposte parziali.

“Sono sicuro che posso vincere anche senza la Honda, cioè anche con la Yamaha, ma forse non ho le palle per andare via” mi dicevo, per sfidarmi.

“Le palle, sì le palle: ce le ho davvero?” continuavo a chiedermi.

E solo quando sono riuscito a darmi la risposta - “sì, le ho” - mi sono sbloccato.

Solo allora mi sono sentito libero dalla tensione.

Una mattina, alzandomi, mi sono detto: “Lo faccio!”. E mi sono liberato.

Non li dimenticherò mai, il sabato notte e la domenica mattina di Motegi: sono stati alcuni dei momenti più intensi ma anche più duri della mia carriera.

Quello è stato il punto più difficile di tutta la trattativa. Infatti in quella trasferta ho dormito pochissimo. I giorni compresi tra giovedì, venerdì e sabato hanno segnato il momento in cui ho pensato più intensamente a questa cosa.

Mi sono sbloccato solo quando ho iniziato a ragionare senza quei freni che tenevo azionati nella mia testa. Perché ho riflettuto su quella sensazione, non troppo bella, che avevo provato a Donington nell’immaginare altre due stagioni con la Honda.

Mi domandavo che cosa non stesse funzionando.

Tutti i miei pensieri, quelli negativi come quelli positivi, hanno iniziato a mescolarsi. E a un certo punto mi sono detto: “Devo avere a che fare ancora per due anni con persone che non mi trattano bene, che sostengono che l’importante è la moto? E poi, con tutti gli altri che non fanno altro che dire che io vinco solo per la moto che ho, che con quella moto vincono tutti? No, non passa!”.

Alla fine mi sono liberato definitivamente anche di un altro tarlo, che avevo sin dall’inizio. Pensando che, con la Yamaha, almeno al principio, mi sarei messo un po’

in difficoltà a livello tecnico, non ero troppo entusiasta di regalare ai miei avversari quel vantaggio che avrebbero avuto guidando la Honda ufficiale.

Però, quando ho completato il mio percorso e ho preso la decisione, di colpo non avevo più nessuna incertezza. E non mi importava più di quello che avrebbe fatto la Honda. Anzi, lasciare la migliore moto ai miei avversari è diventato uno stimolo importante: avrei infatti potuto mettere davvero la parola fine a tutte quelle discussioni che riguardavano i miei presunti vantaggi a livello tecnico.

«Andiamo con la Yamaha e vediamo che cosa succede» ho detto a Gibo. E a quel punto ho pensato solo a quello che avrei dovuto fare io.

Anche Jeremy ha fatto così.

Quando ha firmato il contratto con la Yamaha, ha subito un cambiamento istantaneo.

Ho rivisto in lui il percorso mentale, i ragionamenti che avevo già fatto io. Ho visto la sua iniziale curiosità ma anche la titubanza; ho osservato poi la fase intermedia, quella dell’incertezza, della paura, della difficoltà nel prendere la decisione; l’ho scorto nella fase finale, nella quale si è detto: “Se non lo faccio, potrei non perdonarmelo per tutta la vita”.

Era il punto in cui ero arrivato io.

Nella fase più delicata, l’ultima, mi ripetevo sempre: “Se non tiri fuori le palle per fare questa cosa, non saprai mai se ce l’avresti effettivamente fatta a vincere con un’altra moto”.

Ecco, ho visto anche in Jeremy il tarlo che rodeva e diventava sempre più insopportabile; l’ho visto poi cambiare improvvisamente dopo aver preso la decisione.

Proprio come era successo a me.

Nei giorni seguenti, ho sentito infatti scomparire la tensione e mi sono sentito non solo sollevato ma entusiasta. Non è un caso se nelle tre gare che ho corso dopo aver comunicato alla Honda che me ne sarei andato - sono stati i Gran Premi di Malesia, Australia e Valencia - ho dominato con facilità.