Per Jeremy è stato lo stesso: dopo aver deciso si è gettato con entusiasmo nella nuova sfida. E noi abbiamo ritrovato l’unità, la determinazione ad andare avanti l’uno al fianco dell’altro.
Quanto a me, ritrovarmi da solo di fronte a questa decisione così importante mi ha fatto diventare fortissimo. A livello mentale.
Grazie, poi, alla decisione della Honda di non permettermi di provare la Yamaha prima della fine del 2003, nell’inverno 2003-2004 ho fatto le vacanze più lunghe degli ultimi anni. Quasi tre mesi di ferie. Tre mesi di vacanze grandiose. Di quelle giornate che ci si alza alle tre del pomeriggio, perché si è andati a letto che faceva già giorno.
Ho sciato tanto, sono stato molto con i miei amici. Mi sono rilassato e divertito. In questo modo ho raggiunto una calma e una serenità incredibili.
Se decidere era stata una liberazione, riposarmi a lungo mi ha fatto molto bene.
Infatti al primo test con la M1 ero molto contento. Felice di iniziare una nuova avventura insieme a Jeremy e alla mia squadra, contento di lavorare con Brivio e con i giapponesi della Yamaha. A partire da Masao Furusawa, il numero uno del reparto Ricerca e Sviluppo: un dirigente molto aperto e comunicativo, disponibile anche a fare delle cose fuori dagli schemi; uno col quale si riesce a parlare di tutto; uno che ti capisce. Lui incarna un po’ lo spirito della Yamaha.
Lui è a capo di un gruppo di gente che mette un’anima, nelle moto che fa. Anche per questo, la Yamaha ha un grandissimo fascino.
È stata la prima volta in cui mi sono sentito così legato a un’azienda: nel senso che mi sentivo molto orgoglioso di farne parte. Fiero.
Perché della Yamaha sono belli il marchio, la storia, lo spirito, le moto che ha fatto, i piloti che ci hanno corso. E perché sono i più forti, forse, quelli che ci hanno vinto. Agostini, Roberts, Lawson, Rainey e io. Non male, direi…
4
Sono sempre stato un pilota di moto. Anche quando correvo col kart. A due anni e mezzo, non avevo ancora imparato ad andare in bicicletta ma sapevo già guidare una moto.
Era una piccola minicross che mi aveva regalato Graziano, il mio babbo. Era il 1982. Graziano correva in auto, dopo aver appena messo fine alla sua carriera di pilota di moto, causa un gravissimo incidente avvenuto a Imola.
La mia minicross era l’unico genere di minimoto disponibile, in quell’epoca, e le mie piste erano la casa e il giardino. E stata quella piccola minicross a sviluppare in me il desiderio di gareggiare, di misurarmi con gli altri, anche se ero davvero molto piccolo.
Nel Natale del 1989, avevo 10 anni, sono arrivate in Italia le prime minimoto, che erano miniature delle moto da gran premio. Ed è stato un colpo di fulmine. Me ne feci comprare subito una, ed è con quella che ho iniziato a girare su una pista. E con la minimoto che ho cominciato a gareggiare con una certa regolarità.
Il periodo delle minimoto è un capitolo bello e importante della mia vita. Non era il mio primo mezzo a motore, avevo già una minicross e andavo già in pista con i kart, ma le gare con le minimoto hanno rappresentato, almeno per me, la scuola per diventare un vero pilota di moto.
Sì, è vero, le mie prime gare le ho disputate col kart. Perché in quegli anni, alla mia età, si poteva correre solo con il kart. In realtà, avrei potuto farlo nel minicross, che tra l’altro mi piaceva molto, ma io mi sentivo maggiormente attratto dalle piste asfaltate. Ecco perché correvo nel kart. Ed ecco perché è stata la minimoto a sbloccarmi.
Per due anni mi sono diviso tra kart e minimoto. Il kart era una cosa più seria, all’inizio, perché è tutto più professionale anche ai livelli più bassi: correre su quattro ruote ti fa sentire più importante, quando sei piccolino.
Non saprei dirlo con esattezza, però il kart l’ho preso come l’attività seria, mentre la minimoto come un gioco. Insomma, correvo col kart e giocavo con le minimoto.
Però, più crescevo, più mi appassionavo alle moto e mi disamoravo del kart.
Infatti, quando ho dovuto scegliere, ho scelto la moto. È successo nell’inverno del 1992. Quando avevo 13 anni.
Ero in auto con Graziano, stavamo passando attraverso San Giovanni in Marignano, un paese di circa 8000 abitanti che si trova a metà strada tra Tavullia e Cattolica, nella Valle del Conca.
«Perché non proviamo a correre in moto?» gli ho detto, all’improvviso.
Lui ha reagito con un’espressione che era un misto tra il contento, perché la moto era la sua grande passione, e lo spaventato: perché tra i due, gli faceva molta meno paura il kart. E anche Stefania, mia mamma, la pensava allo stesso modo.
Ma eravamo arrivati a una situazione di stallo: bisognava decidere su cosa investire, quindi che direzione prendere.
Io ho impiegato molto meno tempo di loro. Avevo le idee più chiare. Dentro di me sentivo crescere la passione per le moto.
Sul fronte del kart, era sorto anche un problema di carattere economico. Avremmo dovuto trovare infatti un budget di cento milioni di lire (oggi sarebbero circa 50.000
euro). Perché io, per via dell’età, ero arrivato a un punto di svolta: avrei dovuto lasciare la categoria 60 minikart per iniziare a fare sul serio con la classe 100. Ma ci volevano quei cento milioni. Non avevamo sponsor, perché nessuno investe una cifra simile in una categoria che nessuno segue, a parte chi corre, i suoi amici e la sua famiglia. Quindi quei soldi avrebbero dovuto procurarli i miei. Graziano e Stefania. I miei genitori hanno riflettuto a lungo, chiedendosi se fosse davvero il caso di investire una cifra simile.
Poiché vedevo che faticavano a decidere, che erano molto combattuti, ho deciso io!
«Proviamo con le moto» dissi a Graziano, e poi l’ho ripetuto a mia mamma. Me la sono sentita “dentro”, questa scelta. Mi è venuta naturale.
Appena mi sono trovato di fronte a un bivio, è stato facile prendere la strada che mi avrebbe portato a correre nel motociclismo; era più vicino al mio carattere.
Insomma, avevo solo bisogno di uno stimolo per decidere di diventare quello che ho sempre sognato di essere: un pilota di moto.
Da piccolino dicevo a tutti che avrei voluto diventare un pilota di Formula Uno, ma solo perché il kart è stato il primo veicolo a motore che ho usato per gareggiare. È
stato il primo oggetto che mi ha fatto sognare di diventare un pilota.
Il kart mi divertiva molto, in quanto mi è sempre piaciuto guidare le “cose” che hanno quattro ruote, ma sono sempre stato appassionato più di moto che di macchine.
Per prenderne coscienza in modo definitivo, ho dovuto attendere un evento che mi obbligasse a fare una scelta. Perché, se fosse stato per me, io avrei continuato così.
Tra moto e auto. Ma non era possibile.
Quindi, l’aspetto economico è stato influente, ma non certo fondamentale. Perché se avessi preferito le quattro ruote alla moto, avremmo trovato sicuramente una soluzione. Ma io amavo più le moto. Ecco perché la decisione di imboccare quella direzione l’ho presa io.
«Possiamo andare in una pista vera, a Misano, per provare l’Aprilia 125 di un mio amico» ho detto a Graziano, proprio mentre passavamo per San Giovanni in Marignano, che si trova a pochissimi chilometri da Misano.
«Fammi fare una prova in una pista vera, e poi vediamo» ho proposto.
Avevo già pensato a tutto. E illustrai il mio piano.
«Un mio amico può prestarmi la sua Aprilia 125. Si chiama Maurizio Pagano, me la presta di sicuro la moto» assicurai.
Io passavo molto tempo con Maurizio e suo fratello Marco, due ragazzi di Gatteo a Mare che correvano con me in minimoto. Loro avevano anche iniziato ad appassionarsi alle moto vere, cioè alla Sport Production, e avevano l’Aprilia 125.
«Va bene, proviamoci» mi ha risposto Graziano. E mi sono sentito veramente felice.
Quindi, nel novembre del 1992, in una giornata piuttosto fredda, a metà settimana, in un circuito aperto al pubblico praticamente deserto, io sono entrato per la prima volta in una pista di velocità. E l’ho fatto con un’Aprilia Futura 125.
Non era certo il tempo ideale per andare in moto, ma il clima non aveva molta importanza per me.
Indossavo una tuta di Graziano, una Dainese gialla e rossa che lui aveva ricevuto per fare una prova. Avevo il mio Arai Schwantz Replica che usavo anche nelle minimoto (ho sempre avuto i caschi replica di Schwantz, da ragazzino, perché sono sempre stato un suo grande tifoso).
Il mio primo giro non mi ha dato un’emozione particolare. Ero emozionato, certo, ma ero soprattutto catturato dalla dimensione in cui entra chi va in pista. È tutto diverso, in circuito. Mi ha colpito subito la prospettiva che cambia, il nastro di asfalto che segui con gli occhi, che percorri con la moto, mentre guardi intorno a te gli spazi di fuga:scorgi la ghiaia, vedi poi in lontananza le colline, i terrapieni o le tribune in cui sta il pubblico. Tutto sembra molto lontano, invece è vicinissimo. Non ho cercato di immedesimarmi nella scena di una gara, pensando quindi a come sarebbe stato col pubblico tutto intorno a guardare me. Ero più che altro preso dalle difficoltà in cui mi stava mettendo l’Aprilia 125.
Poiché a 13 anni ero piuttosto esile, quella moto mi appariva grande e pesante. E in effetti lo era. Quelle Sport Production lì erano in realtà delle moto da strada. Non da gran premio. Quindi erano grosse: la 125 pesava 150 chili, cioè come una MotoGP!
Andavo piano, mi guardavo intorno. Ero molto prudente. Alla staccata del Tramonto toglievo il gas ai 250 metri, quando normalmente si stacca ai 150…
Sono rimasto però sorpreso nel constatare che la scuola della minimoto mi aveva insegnato tante cose che in quel momento mi tornavano utili.
Certo, ero un po’ in difficoltà di fronte alle dimensioni e al peso della moto. E poi era la prima volta che guidavo una moto con le marce, quindi ho dovuto anche abituarmi all’uso del cambio.
Ma non è stato un problema insormontabile, infatti sono riuscito a guidare l’Aprilia 125 senza grossi problemi.
Mi sono dimenticato in fretta dei kart, e mi sono concentrato sulle moto. All’epoca non potevo saperlo, ma si è trattato dell’inizio di un’avventura che ha cambiato profondamente la mia vita.
Ma la moto non è stata un ripiego. I dubbi sui soldi necessari per continuare nel kart hanno solo contribuito a dare la spinta decisiva. Quindi, i soldi in realtà sono stati una scusa.
È vero che Graziano è sempre stato molto restio a gettare denaro al vento, e di conseguenza è vero anche che l’investimento economico per correre con i kart lo aveva un po’ allarmato. Si può dire allora che la questione dei soldi ha avuto l’effetto di far passare la paura a Graziano. La paura, certo. Perché lui e mia mamma avevano paura delle moto. Era quello, all’epoca, il vero limite delle due ruote.
Graziano ha avuto una carriera tormentata. Si è fatto male spesso, e a volte si è fatto male molto. Nel 1982, quando io avevo solo 3 anni, a Imola, ha subito un grave infortunio alla testa. Ne è uscito vivo solo grazie alla fortuna, al pronto intervento dei rianimatori, che lo hanno soccorso mentre era sulla pista; e poi, grazie all’impegno della Clinica Mobile e del dottor Costa.
È andata bene, quindi. Anche se la botta di Imola è stata così forte, che Graziano ha un po’ perso la memoria. Nulla di particolarmente problematico, comunque, solo che ogni tanto bisogna ricordarselo…
Dopo l’incidente Graziano ha dovuto ritirarsi dalle competizioni di moto, ma ha iniziato a correre in auto.
Mia mamma aveva vissuto accanto a lui tutti i drammi legati agli incidenti e agli infortuni, ecco perché non era entusiasta all’idea di vedere correre in moto anche me.
È anche per questo che, appena io ho espresso il desiderio di utilizzare mezzi a motore, i miei genitori mi hanno messo in primo luogo su “quattro ruote”: perché ritenevano l’auto meno pericolosa della moto.
Graziano sapeva esattamente a cosa va incontro uno che vuole correre in moto. E
posso anche capire le sue perplessità di padre, così come posso comprendere benissimo le paure di mia mamma. Nell’immaginario collettivo, ma in fondo anche nella realtà, la moto è piuttosto pericolosa.
Ma Graziano ha sempre amato le due ruote: lui è stato un pilota. Mia mamma, poiché si sono sposati molto giovani, è cresciuta nei paddock. In fondo, sentivano questo mondo come qualcosa di familiare.
E poi resta un fatto: sarebbe stato impossibile farmi passare la passione per la moto. Eh sì, io ho sempre avuto un grande amore per questo oggetto. Un amore sbocciato appunto a due anni e mezzo, quando Graziano mi ha portato quella piccola moto da cross ancora prima di regalarmi la bicicletta.
Quando sono riuscito a convincere i miei genitori a lasciarmi gareggiare in moto, io e Graziano ci siamo subito concentrati sui vantaggi che avremmo avuto. In quel settore, per me, le porte erano aperte ovunque: Graziano aveva infatti un sacco di amici disposti a darmi una mano.
Dopo aver convinto Graziano a portarmi a Misano per provare l’Aprilia 125 del mio amico, ho deciso che avrei provato anche a gareggiare. Pochi mesi dopo, nel febbraio del 1993, avrei compiuto 14 anni: l’età minima per cominciare l’attività agonistica, con una 125.
Graziano ha iniziato a darsi da fare e ha telefonato a Virginio Ferrari. E da lì è partita una sorta di catena della solidarietà che mi ha fatto approdare su una Cagiva.
«Bisogna far correre Valentino, puoi darci una mano?» ha chiesto Graziano a Virginio, confidando nella loro lunga amicizia.
«Certo che ve la darò» ha detto Virginio, che è andato subito a parlare con Claudio Castiglioni, il proprietario della Cagiva.
«Dobbiamo dare una mano al figlio di Graziano» ha detto Virginio.
«Va bene, quello che posso fare lo farò» ha risposto Castiglioni, che infatti mi ha inserito nella squadra di Claudio Lusuardi, cioè nella squadra che gestiva il team ufficiale della Cagiva nella Sport Production.
Lusuardi faceva correre anche altri ragazzi, che pagavano; quindi a 14 anni, nel 1993, io sono diventato uno di quei piloti che correvano pagando le spese al team.
Grazie all’interessamento di Graziano, Ferrari, Castiglioni, Lusuardi, trovammo un buon accordo: noi avremmo pagato i meccanici e le spese di trasferta, la moto e i pezzi di ricambio ce li avrebbe regalati la Cagiva.
Per me quella era un’ottima soluzione, anche perché la Sport Production a quell’epoca era un campionato importante per i ragazzi. E io mi sentivo davvero al centro dell’attenzione.
Quelli erano gli anni in cui la 125 stradale che assomigliava a una moto da corsa era davvero il meglio che un ragazzino potesse sognare. Era di gran moda, quella moto; le strade e i parcheggi delle scuole ne erano pieni. E anche i circuiti, perché l’idea del campionato italiano Sport Production è stata davvero una grande trovata.
Per il mio primo test con la Cagiva 125 da gara ci siamo ritrovati a Magione.
Essendo nato a Urbino, ero stato inserito nella Zona C. Perché a quel tempo c’erano talmente tanti partecipanti, che i piloti venivano divisi per zone. Erano quattro: la D
comprendeva le isole, la C il sud, la B Misano e Mugello, la A Monza e Varano. Non mi dispiaceva la Zona C, perché il livello era più basso rispetto alla Zona B, che racchiudeva i piloti dell’Emilia Romagna, e la Zona A che prendeva il nord.
Il debutto in pista è un momento che resta nella memoria di un ragazzino, e io infatti me lo ricordo benissimo. Anche perché è stato uno di quei debutti che uno non può dimenticare. No, non sono andato forte. E non ho neppure cominciato subito a lottare con gli altri ragazzi. Ho passato tutto il tempo a lottare con la mia moto!
La Cagiva, a Magione, mi ha fatto la stessa impressione che mi aveva fatto l’Aprilia a Misano. Era un po’ grossa, pesante.
Dopo essermi infilato la tuta ho indossato stivali, casco e guanti. Sono salito sulla mia Cagiva e ho lasciato il garage per immettermi nella corsia dei box. Quindi sono entrato in pista.
Quando entri in pista, sul circuito di Magione, dopo poco trovi una curvetta a sinistra. Ecco, è lì che sono caduto. Sì, proprio lì. Alla prima curva del mio primo giro. Al mio debutto con la Cagiva. Che era poi anche quasi il mio debutto reale, visto che con l’Aprilia avevo girato per pochissimo tempo.
Avevo le gomme nuove, c’era freddo, e sono andato subito per terra.
“È più difficile di quanto pensassi” mi sono detto mentre rientravo ai box.
Avevo anche preso un po’ di paura e mi ero soprattutto demoralizzato. Così la mia squadra mi ha visto rientrare subito, triste e a testa bassa, con le carene segnate. Ed è facile immaginare cosa abbiano pensato, tutti, di fronte a questa scena, vedendomi tornare subito ai box.
Mentre mi mettevano a posto la moto, hanno cominciato a farmi tutte le più classiche raccomandazioni.
«Stai attento!» mi ripetevano tutti, anche mentre lasciavo il box.
Anche Graziano era in apprensione, come del resto l’intero team.
Sono entrato in pista, ho superato lo scoglio di quella prima curva, ho iniziato a mettere le marce, a dare un po’ più gas. E dopo sei giri sono caduto… Sì, un’altra volta. E sempre per lo stesso motivo: mi si è chiuso lo sterzo.
Quindi, ho affrontato di nuovo un mesto rientro ai box e un’altra bruttissima figura.
“Però, due cadute in sei giri, ed ero al primo contatto!” ho pensato io, mentre tornavo a casa da Magione, facendo quindi un bilancio di quella giornata.
Anche perché avevo visto, chiaramente, la diffidenza che si faceva strada nel mio gruppo così come nella squadra. Quel giorno sono emersi tanti dubbi sul mio potenziale. E, sinceramente, di dubbi ne ho avuti anch’io. Insomma, c’era poco da dire: non era stato proprio un gran bell’esordio.
Il fatto è che io - l’ho scoperto col passare degli anni - nei miei debutti sono sempre riuscito a spingermi verso il limite molto rapidamente, ma non avendo il totale controllo del mezzo sono sempre finito in terra con altrettanta velocità. Oppure fuori strada, perché questo tipo di debutto si è ripetuto con le moto di classe superiore, la 250 e la 500, ma anche con la macchina da rally: nella prima gara del Mondiale alla quale ho partecipato, in Inghilterra, sono finito fuori strada subito. E mi è successo anche con la Ferrari F1: mi sono girato subito, alla prima curva. Insomma, io faccio questi esordi qui!
Ci si è addirittura chiesti se ne sarebbe valsa la pena, se fosse il caso di andare avanti. Ma ormai era tutto organizzato, era stato messo in piedi un programma, così si decise di proseguire senza pensarci troppo su.
Neppure l’inizio è stato strepitoso. Non andavo forte, insomma. C’è voluto tutto il primo anno perché mi sciogliessi un po’. La mia prima gara, a Magione, l’ho conclusa in nona posizione. E andando avanti, durante la fase delle selettive di zona, sono stato sempre intorno alla top ten. Ho iniziato ad andare un po’ più forte nella gara nella quale mi sono giocato l’accesso alla fase finale.
Ero a Binetto. Sono caduto nelle prove, così in gara sono andato un po’ più piano, ma ho conquistato comunque il sesto posto; quindi sono riuscito a qualificarmi per le finali. L’ultima gara, a Misano, ha rappresentato la prima volta in cui sono andato davvero forte. Chissà, forse ho sfruttato il fattore campo.
Andrea Ballerini era il pilota ufficiale di Lusuardi, e si giocava il titolo con Roberto Locatelli. Ballerini era ufficiale Cagiva, Locatelli ufficiale Aprilia. Erano arrivati all’ultima gara per giocarsi il titolo. Ballerini aveva a disposizione due moto, io solo una; che oltretutto era piuttosto diversa, e non solo nel colore… Ma Lusuardi mi aveva preso in simpatia, mi dava sempre una mano. Quindi, Ballerini aveva due tipi di moto: una preparata da Lusuardi, l’altra dal reparto corse a Varese. Si potevano considerare, entrambe, delle moto ufficiali. Lusuardi chiese a Ballerini di scegliere quella per fare la gara. La moto scartata da Ballerini l’avrebbero data a me.
Ballerini scelse quella della Cagiva, così a me venne assegnata quella di Lusuardi.
Ho conquistato la pole, e non riuscivo a crederci perché nelle gare precedenti ero sempre stato lento, in prova. Invece in quell’ultima gara ero in pole. Alle mie spalle c’erano Locatelli, secondo, e Ballerini, terzo. Insomma, sarei partito davanti ai due contendenti.
Ma sono partito ventesimo, perché per colpa dell’emozione ho sbagliato completamente la partenza, però ho iniziato a recuperare e alla fine sono arrivato terzo. Locatelli e Ballerini avevano preso il largo, è vero, ma io ero riuscito a salire sul podio ed ero felicissimo.
Quella gara ha rappresentato il mio primo salto di qualità; e la pista di Misano l’ho sempre considerata un posto un po’ magico.
L’anno seguente infatti ho messo a frutto le esperienze accumulate nella stagione del debutto, e ho vinto il campionato.
Io ci ho sempre messo un po’ di tempo, prima di capire bene come si fa ad andare forte. Ma quando l’ho capito, sono sempre andato forte davvero. È stata un po’ la caratteristica della prima fase della mia carriera.
In quel periodo non avevo ancora nemmeno immaginato che si potesse pensare a una vera carriera, però dopo la bella gara corsa a Misano, nel 1993, sono diventato il pilota ufficiale della Cagiva per la stagione 1994. E con ottime prospettive, perché i primi tre classificati avevano già previsto il passaggio nel campionato GP.
Nonostante corressi soprattutto per divertimento, Graziano ha ideato un programma da professionista. E ha fatto bene. Graziano è sempre stato molto avanti, in certe cose, infatti ha avuto una grande idea: mi ha iscritto al campionato italiano GP, oltre che a quello della Sport Production. Avrei corso due campionati paralleli, quindi.
Poiché una Sport Production è pur sempre una moto stradale, molto diversa quindi da una da corsa, cioè da una GP, Graziano pensava che avrei perso tempo se avessi corso solo il campionato delle derivate dalla serie. Lui voleva che iniziassi a fare esperienza, il prima possibile, con le moto da gran premio. Le moto che tanto, di lì a poco, avrei guidato comunque.
Graziano era stato un pilota del Mondiale, in quel momento guardava già lontano.
Infatti aveva pensato a tutto. Avrei corso con la Sandroni 125. Una moto artigianale, il sogno di un gruppo di appassionati di Tavullia e Pesaro. Il progetto era iniziato quando un gruppo di meccanici e di sponsor locali si era stretto attorno a Peppino Sandroni. Anche lui di Tavullia. La Sandroni montava il motore Rotax-Aprilia, la ciclistica era stata progettata da Guido Mancini, un meccanico di Pesaro che aveva lavorato anche con Graziano. Erano amici, lui e il mio babbo, e insieme hanno organizzato la mia stagione.
Il programma 1994 si presentava piuttosto impegnativo, perché avrei dovuto disputare quattro selettive più quattro finali della Sport Production, e anche cinque gare del tricolore GP. Le gare della GP erano in programma all’inizio dell’anno, e questo avrebbe aiutato. Avrei tenuto le finali della Sport Production per ultime, senza interferenze. Quindi, nel 1994 ho corso un weekend in Sport Production e l’altro nel campionato italiano GP.
Le moto erano effettivamente molto diverse, appena mi adattavo a una perdevo il feeling con l’altra. Lusuardi infatti non era per niente contento: pensava che avrei avuto dei problemi, e che non avrei raccolto nulla.
Ma noi credevamo in quella scelta, che infatti ha pagato.
Ho centrato tutti gli obiettivi, che consistevano nel correre in Sport Production per vincere, e nel tricolore GP per imparare contemporaneamente a guidare una vera moto da gara. Alla fine ho vinto il campionato Sport Production, e ho effettivamente guadagnato un anno con la GP 125.
Quindi, quella di Graziano è stata una grande mossa.
Sono andato a correre con Locatelli, Ballerini, Omarini, Cremonini, e tutti i più forti piloti della Sport Production che erano passati nel campionato GP, e continuando a lottare con loro ho potuto fare subito un po’ di esperienza. Infatti, quando, nel 1995, sono passato nel campionato europeo, ero già abituato a questo tipo di moto: ero un debuttante, ma già esperto.
Con la Sandroni, a volte, ho avuto dei problemi: a Monza sono stato quattordicesimo, a Vallelunga sono anche caduto; ma poi nelle ultime due gare sono arrivati, dall’Aprilia, dei motori più competitivi e le mie prestazioni sono migliorate.
A Misano, nella quarta gara, il Team Italia era il riferimento: Locatelli, Ballerini, Cremonini, erano tutti veloci e avevano delle ottime moto. Erano i favoriti, infatti. In quella gara però sono rimasto in quarta posizione, fino a quando non si è rotto il motore. Al Mugello c’erano anche dei piloti del Mondiale, tra cui Gabriele Debbia, e io ho fatto tutta la gara vicino a lui chiudendo in quinta posizione. Per me, all’epoca, fare una gara con uno del Mondiale era un sogno.
Nella Sport Production è stata dura, in pista, e divertentissimo al di fuori.
Alla fine sono riuscito a conquistare il titolo italiano, ma ho dovuto lottare molto. Il mio grande rivale, quell’anno, è stato Paolo Tessari. Lo è stato sia nelle selettive sia nelle finali.
Nella prima selettiva io e Tessari abbiamo dato vita a un duello che ricorderò per sempre. È stata una delle gare più divertenti di tutta la mia carriera.
Io e lui eravamo in fuga, negli ultimi due giri ci siamo sorpassati in ogni curva. Lui aveva l’Aprilia, io la Cagiva: alla fine l’ho passato proprio nell’ultima curva, ma appena ho messo le mie ruote davanti alle sue, mi si è chiuso lo sterzo e sono caduto!
Lo sapevo, che non ce l’avrei fatta a restare in pista. L’ho capito mentre iniziavo il sorpasso. Avevo forzato troppo.
Ma ci ho provato, anche perché eravamo al culmine di una rivalità sana: noi ci divertivamo, stavamo dando tutto.
Poi è arrivata la Cagiva nuova (nella prima gara della stagione avevo corso con la moto dell’anno precedente) e nella seconda selettiva, a Misano, ho vinto io.
E quella è stata la prima vittoria, in moto, della mia carriera! Avevo il numero 26.
Tessari ha vinto invece le altre due selettive, così siamo andati tutti e due alle finali. Ma il titolo italiano alla fine l’ho vinto io, dopo un’ultima gara caratterizzata da discussioni, con Cruciani, che sono andate avanti per mesi.
Il piccolo mondo della Sport Production era bellissimo. Lo ricordo con grande affetto. Era un ambiente aggressivo, eravamo tutti molto agitati, ma era anche un ambiente “vero”. Le finali sono state sempre molto intense, perché bisognava dare la vita in pista e poi, a gara conclusa, iniziava il rito dei reclami. Insomma, valeva tutto.
Ogni gara era una battaglia. Ma riuscivamo comunque a divertirci, nel paddock, come buoni amici.
Ed era vero: eravamo amici. Magari non tutti allo stesso modo, ma c’era tra noi un rapporto che rasentava l’amicizia. Non è un caso che ancora oggi io ricordi con affetto e nostalgia molte di quelle gare, e anche le avventure che ho vissuto insieme a ragazzi che sono stati i miei rivali in pista ma anche miei amici al di fuori dei circuiti.
Nel Mondiale non è così. Non so se lo è mai stato, ma di certo in questi anni il rapporto tra piloti è completamente diverso.
Il paddock del Mondiale diventa deserto già alle undici di sera: non c’è più nessuno in giro, stanno tutti rintanati nei motorhome, non esce nessuno, neanche per parlare. È
ormai impossibile instaurare un legame, tra piloti, anche solo per scambiare due chiacchiere o scherzare un po’.
I piloti del Mondiale non si frequentano quasi più, adesso: c’è un isolamento notevole.
Non riusciamo ad avere dei rapporti diversi dal semplice saluto, anche se viviamo a stretto contatto, se ci conosciamo da anni, se abbiamo condiviso tanti momenti.
In Sport Production, invece, era tutto diverso, tutto molto più bello.
Innanzitutto, ricordo le finali come un momento importante. Erano le gare conclusive, quelle decisive, e poiché riunivano gente da tutt’Italia, rispecchiavano già il modo di vivere dei ragazzi delle varie Regioni. Vedevi persone che ti sembravano diverse da quelle con le quali eri abituato a trascorrere le giornate: capivi subito, ad esempio, chi erano i ragazzi della Zona C, quella del sud, così come riconoscevi immediatamente quelli della Zona A, cioè la zona della Lombardia, perché si sentivano tutti più importanti, più alla moda.
Alla prima finale ci si studiava, ci si guardava con circospezione, ma poi, dopo un primo momento di conoscenza reciproca, cominciavamo a condividere la nostra passione per la moto. E diventavamo amici.
Nelle finali ho conosciuto Marco Dellino, un ragazzo di Bari, col quale ho instaurato subito un ottimo rapporto; ma anche Diego Giugovaz, di Milano: anche lui è diventato un amico. E poi c’era, naturalmente, Paolo Tessari: abbiamo dato vita a grandi duelli, insieme, e siamo rimasti amici anche dopo.
Facevamo sempre un grande casino, ovunque. Io ero il più piccolo, ma i più grandi mi portavano ugualmente con loro.
La sera, d’estate, scattavano le battaglie con i gavettoni, poi ci calmavamo un po’ e aspettavamo mezzanotte: a quel punto prendevamo gli scooter, che erano tutti rigorosamente elaborati, e andavamo in pista per iniziare la gara in notturna.
Tenevamo le luci spente, per non farci scoprire: come illuminazione sfruttavamo la luce della luna, se ci capitava una notte senza nuvole, ma in fondo non era così importante:tutti conoscevamo a memoria la pista, e poi stavamo sempre raggruppati, così uno faceva da riferimento all’altro!
Avevamo formato un bel gruppo, che si è poi trasferito in massa nell’Europeo.
Così, tutto il casino che facevamo in Italia, abbiamo poi iniziato a esportarlo all’estero: ad esempio, scappavamo dai ristoranti senza pagare, oppure sfasciavamo le macchine a noleggio.
Comunque, quando spuntavano le luci dell’alba e ci preparavamo per la gara cambiavamo tutti radicalmente. Diventavamo cattivi. Non si facevano regali a nessuno, nulla era scontato. Quello che volevi ottenere dovevi conquistartelo con i denti.
Nella prima finale, a Vallelunga, io ho grippato. Tessari ha stravinto. La Cagiva aveva dei problemi, a livello di pistone, che poi abbiamo scoperto e risolto. Ma quella volta sono stato fortunato perché, Tessari a parte, gli altri ragazzi che andavano forte sono caduti.
Al Mugello abbiamo dato vita a una gara epica: abbiamo formato un gruppo di quindici piloti, restando attaccati l’uno all’altro per tutta la corsa: c’erano Tessari, Cruciane Dellino, Borsoi, Goi, Giugovaz. Alla fine, tra cadute e scontri vari, ha vinto Borsoi. Io sono giunto secondo.
A Monza, invece, ho vinto io.
Nell’ultima gara, a Misano, eravamo in lizza per il titolo io, Tessari, Cruciani e Borsoi. Ultima sfida, quindi. Io giocavo in casa.
Nell’ultimo giro, sono entrato nella curva della Brutapela in seconda posizione, quindi ero virtualmente campione. Ma Cruciani, che era incollato a me, è entrato in curva praticamente senza frenare!
Così ci siamo toccati, siamo andati un po’ fuori traiettoria rischiando anche di cadere. Alla fine lui è riuscito a uscire dalla curva davanti a me, arrivando secondo e relegandomi al terzo posto. Vale a dire: lui ha conquistato il titolo.
Poiché un campionato Sport Production non poteva certo finire in quel modo, tra noi è iniziata subito la rissa:spinte, insulti, e poi via con i reclami e i controreclami…
Insomma, la normale conclusione di una gara di quella categoria.
Alla fine Cruciani è stato squalificato. E così il titolo italiano l’ho vinto io.
5
A scuola i professori si lasciano spesso andare a giudizi clamorosi, frasi a effetto che rimbombano tra le pareti dell’aula per poi scorrere lungo i corridoi. Amano sentenziare, soprattutto quando tu sei molto giovane e non riesci ancora a manifestare una vera attitudine per qualcosa. Io, in realtà, avevo già dimostrato attitudine e passione, ma non propriamente in sintonia con il sistema scuola.
Dei miei professori conservo frasi clamorose, previsioni catastrofiche che poi non si sono rivelate azzeccate. Per fortuna… Una, la più bella, la più incredibile perché è anche la più clamorosamente sbagliata, è stata pronunciata dalla professoressa di storia dell’arte. Che un giorno disse:
«Ma tu pensi che ad andare in giro, a fare lo stupido con le moto, un giorno ti pagherai da vivere?».
Quella frase, decisamente avventata, oggi fa sorridere. All’epoca sembrava invece una terribile minaccia.
Ci ho pensato diverse volte, durante le varie fasi della mia carriera. Perché, in effetti, a guadagnarmi da vivere almeno ci sono riuscito…
E non ho potuto fare a meno di pensarci anche nel maggio del 2005, quando mi è stata conferita la laurea honoris causa dalla Facoltà di Scienze della Comunicazione dell’Università di Urbino.
Già, Urbino. La città nella quale sono nato.
Con la professoressa di storia dell’arte ho toccato il fondo. Questa era forse la materia che mi piaceva meno, insieme a matematica. Non era colpa proprio dell’insegnante; è che quella materia non mi andava giù. Di conseguenza, il mio livello d’attenzione e coinvolgimento non era proprio esemplare.
Naturalmente lei, la prof di storia dell’arte, si arrabbiava spesso con me, visto che non ero molto collaborativo. Era esasperata, e forse per questo si è lanciata in una delle previsioni più incaute di tutti i tempi.
Ma in quel periodo ero abituato a far fronte ai miei professori, che non organizzavano certo feste di benvenuto quando mi vedevano entrare in classe.
«Perché è da una settimana che non ti si vede?» mi ha chiesto una volta una professoressa, quando mi ha rivisto comparire in classe dopo una lunga trasferta.
«Sono stato in Spagna, a correre. E sono anche stato bravo. Terzo, prof. Sono arrivato terzo a Jarama!»
Era stata effettivamente una grande gara, quella. Si trattava di una prova degli Open Ducados, un trofeo che si correva essenzialmente in Spagna. L’idea di prendervi parte si era rivelata davvero buona, perché il livello era decisamente alto, visto che vi partecipavano i migliori spagnoli del Mondiale. Correndo gli Open Ducados ho imparato molte cose; è stata un’esperienza molto importante.
Ero molto orgoglioso di quel podio, perché ero andato forte: aveva vinto Alzamora, Martinez era giunto secondo. E io, molto giovane e molto inesperto, ero stato terzo dietro due piloti di livello mondiale.
Ma alla mia professoressa non faceva alcun effetto. L’ho capito da come ha continuato il suo discorso.
«Bravo, continua ad andare in vacanza, a fare le corse con quelle moto lì…
Continua a divertirti, anziché studiare!»
Fortunatamente la profezia dei miei professori del liceo non si è avverata. Qualcosa di buono, in fondo, l’ho combinato. Ma devo riconoscere che quando andavo a scuola non rispondevo proprio ai canoni dello studente modello.
Colpa della mia passione per le moto, naturalmente, che mi teneva lontano molto tempo dalle lezioni.
Quelli erano gli anni dell’Europeo e del campionato italiano. Erano cioè le stagioni 1994 e 1995. Correvo in moto e il mio mezzo di locomozione e svago era lo scooter.
Proprio in quell’anno, nel 1995, sono iniziate le mie lunghe assenze. Avevo cominciato a gareggiare anche all’estero - come se non fossero stati sufficienti il campionato italiano e l’Europeo, in quel 1995 ho corso appunto anche l’Open Ducados in Spagna - e restavo molti giorni lontano da casa, quindi da scuola. Negli ultimi tempi mi capitava di stare via anche per una settimana di fila.
E poi cadevo molto; spesso tornavo malconcio e venivo accolto sempre male.
In quel periodo, mi lanciavo in grandi duelli con Lucio Cecchinello, nell’Europeo.
Aveva la Honda col kit HRC: andava forte, ma bisogna anche dire che lui la guidava bene. Per stargli dietro facevo dei botti spaventosi. Lui ha vinto molte gare, io sono salito diverse volte sul podio ma non sono mai riuscito a vincere una prova di quel campionato. A volte, poi, sono caduto cercando di lottare con lui. E una caduta me la ricorderò per sempre. E quella in cui mi sono fatto male al mignolo della mano sinistra; una lesione che non è mai più guarita. Eravamo ad Assen, quel giorno: io ero più veloce di Cecchinello, e a un certo punto ho cercato di attaccarlo. Lui mi ha chiuso, ci siamo toccati, io sono caduto. Lì mi sono fatto male al dito. E ogni volta che vedo il mio dito ridotto così, mi vengono in mente quell’episodio e anche Cecchinello…
«Ma non vedi che ti fai solo del male con quelle moto lì… Smettila, e pensa a studiare che è meglio» mi ripetevano i professori, a turno, quando mi vedevano ricomparire in classe dopo una trasferta.
Non ero certo famoso, all’epoca: ero il figlio di Graziano che si divertiva con le moto.
Nella mia classe c’era un ragazzo che giocava a calcio: anche lui era impegnatissimo, ma a lui nessuno rimproverava nulla. Non gli dicevano mai che avrebbe dovuto smettere di giocare e pensare solo a studiare. Certo, quello della moto è uno sport meno nobile…
Frequentavo - quando c’ero… - il liceo linguistico Mamiani di Pesaro.
Ogni settimana, gli studenti avevano a disposizione un’ora o due per riunirsi in assemblea e parlare dei problemi della classe.
A me, sinceramente, dei problemi della classe non è che fregasse molto. Ecco perché mi impegnai per convincere tutti i miei compagni che il giorno giusto per la riunione settimanale era il mercoledì. Eh sì, perché mercoledì mattina usciva
“Motosprint”! Così, mentre loro parlavano dei problemi della classe, io potevo leggermi con calma tutto il giornale.
Mi appariva ormai chiaro che non fossi avviato a una carriera scolastica di grande successo; era come un lento trascinarmi in attesa di qualcosa.
Quando infatti sono approdato al campionato del mondo, i miei impegni sono diventati troppo pressanti e assolutamente incompatibili con la scuola. Ho capito che avrei dovuto fare una scelta. E scelsi la moto. Lo sport, insomma. Ho deciso di provarci.
Anche perché le prime tre gare della stagione erano in programma in Malesia, Indonesia, Giappone; ed erano tutte consecutive, cioè un fine settimana dopo l’altro.
Valutai che avrei perso più o meno un mese di lezioni, e i miei professori mi avevano fatto capire che non avrebbero tollerato un’assenza così lunga in un periodo, la primavera, che è solitamente importante per la scuola.
A quel punto ho organizzato una riunione con i miei genitori: lì abbiamo deciso che avrei fatto troppe assenze,che alla fine mi avrebbero bocciato comunque. E ho preso la decisione di smettere di andare a scuola.
È stato un peccato non prendere il diploma delle superiori. Ma con quel mondo lì non è mai nato un grande amore. Anche quando ho smesso, per altri tre o quattro anni mi è capitato di svegliarmi all’improvviso, come se stesse suonando la sveglia che mi segnalava il momento di alzarmi per andare a scuola…
Quando ho deciso di concentrarmi solo sulle corse, ho anche deciso di dare il meglio di me stesso.
Almeno a livello di impegno. La prima volta in cui ho preso contatto realmente con il campionato del mondo era l’inizio del 1996, nei test di Jerez. E sono rimasto molto impressionato. Andavano tutti fortissimo: Sakata faceva paura, ma erano tutti velocissimi.
È stata dura, per me. Proprio nei test svolti durante l’inverno ho scoperto che i piloti del Mondiale sono tutta un’altra cosa rispetto a quelli di qualsiasi altro campionato. Girando con loro si entra in una dimensione differente.
Ho avuto fortuna, però, correndo il campionato europeo del 1995, perché quella è stata l’ultima edizione disputata in concomitanza con le gare europee del Mondiale, e questo mi ha portato due vantaggi: ho potuto imparare le piste, e non è cosa da poco; e poi ho potuto guardare a lungo i piloti del Mondiale, scoprendo che avevano traiettorie diverse dalle mie e da quelle degli altri piloti dell’Europeo. Infine, ho potuto constatare quanto fossero più veloci di noi, e quali fossero i punti in cui lo erano.
Andavo a vederli, cercavo di capire le differenze, poi tornavo al box e confrontavo i tempi. E ci rimanevo malissimo, perché prendevo un’eternità: a volte anche 4
secondi al giro. Ma almeno avevo il riferimento.
In quell’anno, cioè il 1995, ero andato fortissimo nel campionato italiano, che ho vinto in anticipo. Ma l’Europeo è stato molto più difficile. Sono finito in terra parecchie volte, ho pagato anche un infortunio al polso sinistro avvenuto in allenamento con la moto da cross. Alla fine però sono riuscito a conquistare almeno la terza posizione. E quello è stato il passaporto per il Mondiale.
Durante l’autunno, attraverso Carlo Pernat, che era all’epoca il direttore sportivo dell’Aprilia, mi ha contattato Gian Piero Sacchi. Aveva degli sponsor, stava allestendo una squadra per il 1996, e voleva schierare due moto in due classi diverse: aveva una 250 per Luca Boscoscuro, e la 125 voleva affidarla a me. Era un’Aprilia, naturalmente, perché io ero legato a questa Casa.
Sacchi, buon organizzatore, voleva creare un bel gruppo. E ci è riuscito. La squadra si chiamava Team AGV, perché quello era lo sponsor principale. Le grafiche delle moto vennero commissionate ad Aldo Drudi, e gli riuscirono benissimo: le nostre Aprilia erano davvero belle: gialle, azzurre, nere.
L’Aprilia mi ha assegnato la moto ufficiale dell’anno precedente, in pratica quella che aveva usato Perugini. Avevamo Mauro Noccioli, come tecnico: ero certo che l’avrebbe fatta funzionare a dovere. Insomma, era un buon team.
Ci siamo divertiti, nella stagione 1996. Cioè: io mi sono divertito moltissimo. Non ho mai fatto il matto come in quella stagione lì. Ero davvero una peste.
In gara non avevo rispetto per nessuno: per me erano tutti uguali, non faceva differenza se un pilota stava giocandosi il titolo oppure se era un debuttante come me.
Volevo solo andare forte: se vedevo un varco mi buttavo, provavo a sorpassare tutti, poi quello che sarebbe venuto fuori sarebbe andato bene comunque. Ero scomodo, insomma.
Andavo forte, ma a volte sbagliavo. Spesso ho buttato via piazzamenti importanti.
Credo di essere caduto una quindicina di volte, in quella stagione.
Nella prima gara ho trovato subito il modo di litigare con Martinez.
Eravamo in Malesia, a Shah Alam. Io ero al mio esordio nel Mondiale. Sono partito dalla terza fila. E sono scattato bene. Non ho capito bene perché, ma mi sono ritrovato subito nel gruppo di testa. Ho viaggiato sempre tra la settima e l’ottava posizione. A un certo punto ero dietro a Raudies e davanti a Martinez. Raudies ha grippato, io per non investirlo ho frenato, d’istinto, cambiando traiettoria. Martinez non ha fatto in tempo a evitarmi: mi ha tamponato ed è caduto.
Quello era l’anno in cui Martinez, con l’Aprilia ufficiale, era il favorito nella corsa al titolo. Avevo quindi fatto casino con l’intoccabile di turno…
Ho finito la gara in sesta posizione, ed ero soddisfatto. Tutti, intorno a me, erano contenti. Facevamo una gran festa quando, all’improvviso, sono spuntati Martinez e Angel Nieto.
«Figlio di puttana, ti facciamo un culo così!» urlavano. E lì ho realizzato che quei due non mi volevano molto bene…
Sono scattato come un felino dietro il mio meccanico, che mi faceva da barriera nei confronti dei due spagnoli inferociti. Mi volevano menare! Io stavo lì, perché, in fondo, ero più divertito che spaventato. Erano bassi, piccoli, per niente grossi, quindi non ero molto preoccupato…
Poiché sbagliavo molto, spesso non raccoglievo nulla. In quell’anno però è arrivata anche la mia prima vittoria nel Mondiale. E successo a Brno, in Repubblica Ceca. E
da lì, piano piano, ho iniziato a diventare più concreto.
All’interno della squadra, comunque, non sono mancati anche momenti di nervosismo.
Ad Assen, nel GP Olanda. Sono partito con le gomme intermedie. Ero ventesimo, dopo il via, ma mi sono messo a guidare come un pazzo: in ogni curva superavo qualcuno, alla fine del secondo giro ero già terzo. Eppure continuavo a spingere, volevo andare in testa. Nella foga, ho messo le ruote sulla riga bianca, all’ultima
“esse”, e sono caduto…
A quel punto Sacchi e Noccioli non ce l’hanno fatta più.
Mi hanno convocato. E mi sono quindi ritrovato in ufficio, da Sacchi.
«Senti, così non si può andare avanti» ha iniziato.
Io stavo ad ascoltare.
«Se ti dai una regolata farai delle belle cose, perché per andare forte vai forte, ma ti devi calmare!» mi ha spiegato. E non aveva mica finito…
«Devi fare una scelta: perché se continuerai a correre così, al massimo potrai diventare come Schwantz. Se invece starai più calmo e più attento, potresti anche diventare come Biaggi!»
Ci sono rimasto un po’ male, però non ho replicato.
Ho solo pensato: “Be’, io preferirei diventare come Schwantz!”. Ma non gliel’ho mica detto.
Comunque, all’epoca non conoscevo la diplomazia. Dicevo quello che pensavo.
Non c’era occasione in cui non mi lasciassi scappare quello che mi passava per la testa. Se poi uno toccava certi argomenti, andava anche peggio.
E non facevo distinzioni. Ad esempio, in quel periodo non avevo ancora capito bene come bisognasse comportarsi con i giornalisti, quindi incappavo sempre in situazioni imbarazzanti. Davo giudizi sugli altri, senza pensarci troppo su. A volte i giornalisti arrivavano da me, e mi dicevano: «Lo sai che quel tal pilota ha detto questa tal cosa su di te?».
Non reagivo quasi mai con stile impeccabile: rispondevo sempre!
Ridevano tutti, naturalmente. Anche io mi facevo un sacco di risate. Solo che poi i giornalisti, quando smettevano di ridere, andavano a scrivere le mie parole sui computer, e poco dopo le ritrovavo stampate sui giornali.
E anche per quel mio modo di fare un po’ troppo schietto, che ho iniziato subito a litigare con Biaggi.
6
Appena sono approdato nella 500, nel 2000, ho iniziato a confrontarmi con Biaggi.
E questa volta anche in pista. Sì, perché avevamo già cominciato a litigare, nel paddock, nel 1996, anno del mio debutto nel Mondiale. Ma adesso saremmo stati gomito a gomito, in pista.
Io e Biaggi non ci siamo mai veramente parlati. Insomma, non abbiamo mai fatto un discorso vero, cioè qualcosa che durasse un po’ più del tempo necessario a insultarci o a scambiarci qualche battuta, naturalmente pesante.
Io comunque non lo odio. È vero, non siamo mai stati amici, ma l’odio è una cosa grossa. Troppo grossa. Abbiamo però un’antipatia reciproca. Causata, probabilmente, dal mestiere che facciamo; sicuramente, dal fatto che tutti e due abbiamo sempre voluto la stessa cosa: la vittoria. E poi, anche dal fatto che abbiamo caratteri completamente diversi nonché differenti modi di vedere le cose.
Però non credo che questo sia odio, come si è divertito a dire o a scrivere qualcuno.
L’odio è un sentimento che potrei provare per cose ben peggiori, come ad esempio il tradimento da parte di un amico.
Ma noi non abbiamo rotto un’amicizia, perché un’amicizia non c’è mai stata. Il nostro rapporto è sempre stato chiaro: si lotta in pista, al di fuori ognuno va per la sua strada.
Insomma, ci siamo sempre detestati cordialmente. Be’, a volte non molto cordialmente. Una volta, infatti, ci siamo anche menati!
È successo a Barcellona, nel 2001. L’anno in cui la nostra inimicizia ha raggiunto il punto più alto. Perché, col tempo, dalle battute sono iniziate a volare parole grosse, e quando io sono passato in 500 la competizione si è inevitabilmente spostata in pista.
Siamo andati avanti in un crescendo di tensione.
Se parliamo proprio dell’origine di questa storia, devo ammettere che ho iniziato io.
Ma poi lui ha proseguito alla grande.
Mi sono fatto la fama dell’attaccabrighe, quando ho debuttato nel Mondiale, perché andavo a stuzzicare Biaggi, che all’epoca era un intoccabile. Ma non per me.
E pensare che quando ero un ragazzino di 14 anni, avevo perfino un poster di Biaggi appeso in camera. Era in mezzo a molti altri poster, perché la mia stanza era piena di foto di piloti. Nel 1993 avevo un poster che ritraeva Biaggi su una Honda 250. Era italiano, e io facevo il tifo per gli italiani. Attaccava, e io ho sempre avuto molto rispetto per i piloti che attaccano. Ma ancora non lo conoscevo. Poi ho iniziato ad ascoltare le sue interviste, leggevo quello che diceva attraverso i giornali, e ho cambiato la mia opinione.
Non era mai colpa sua, ma sempre della moto o delle gomme. Secondo me faceva un sacco di affermazioni non vere, e io lo dicevo. Appena arrivato nel Mondiale, infatti, ho rivelato subito quello che pensavo di lui. In una intervista, ho dichiarato che Biaggi mi era antipatico.
Non ci vedevo nulla di male, allora, ma quel mio atteggiamento è stato poi abilmente sfruttato dalla stampa per creare una rivalità che facesse fare dei bei titoli e quindi vendere i giornali.
Questi sono dualismi costruiti ad hoc, per i quotidiani che devono vendere copie, sempre più copie, ogni giorno.
Infatti, la nostra rivalità è sempre stata alimentata dall’esterno, perché faceva comodo a tutti. All’ambiente, ai tifosi, alla stampa. Faceva aumentare l’interesse, insomma.
Comunque, se io ero stato poco diplomatico nell’esprimere le mie impressioni sul modo di fare di Biaggi, poi c’è stata una vera e propria escalation.
Già nei test invernali del 1999, in Malesia, a Sepang, dove io sono caduto rovinosamente. Con la 250.
La mia moto era semidistrutta, sarei dovuto rientrare a piedi.
Lui è passato, si è fermato a bordo pista.
«Sali, dai!» mi ha invitato facendomi un cenno con la testa.
Io ho accettato il passaggio. Così mi ha riportato lui, al box.
All’epoca ero poco esperto, ed ero anche meno malizioso. Così non ho pensato male. Ho creduto che fosse solo un gesto di altruismo. Ma lui, poi, ha utilizzato questo episodio per farmi fare la figura dell’irriconoscente.
Insomma, come dire: vedete, io sono stato buono con lui, mi sono fermato per portarlo ai box, invece lui mi tratta male…
Da parte mia, comunque, la miccia che ha scatenato tutto è stato un eccesso di sincerità: ho detto semplicemente la verità, quello che avevo per la testa. Ed è stato un errore.
Col tempo ho capito che questo atteggiamento non paga, nel nostro ambiente. Ma io ero, e in realtà sono, fatto così. Tendo a dire quello che penso. Secondo me è un pregio, ma in certi ambienti ho scoperto invece che viene visto come un difetto.
Biaggi, a metà degli anni Novanta, era un idolo; era il personaggio più importante, per la stampa italiana. Posso immaginare, quindi, che non sia stato bello, per uno in quella condizione, sentire un debuttante che fa certi apprezzamenti. Ma avevo 17
anni, all’epoca, e non ci pensavo.
Secondo le cronache “ufficiali”, infatti, l’origine del nostro conflitto risale al Gran Premio della Malesia del 1997. Io ero alla mia seconda stagione nel Mondiale. Si correva sulla pista di Shah Alam, alle porte della capitale Kuala Lumpur. Sabato ho conquistato la pole, domenica ho vinto la gara della 125. Biaggi ha vinto la 250: era all’esordio con la Honda, dopo aver conquistato tre titoli con l’Aprilia e dopo un polemico divorzio da Noale, quindi la sua vittoria è stata un vero evento per gli italiani.
Eppure, i giornalisti pensarono bene di occuparsi anche di me.
«Vuoi diventare il Biaggi della 125?» mi chiesero, infatti, facendomi quindi una di quelle domande che sai già, qualunque risposta darai, che poi si scatenerà un casino.
«Scusate, ma al limite sarà lui che vorrà fare il Rossi della 250!» puntualizzai io, gettando benzina sul fuoco.
Così la stampa, come previsto, montò la polemica e Biaggi si offese.
Dopo quella gara ci siamo trasferiti in Giappone. Alla vigilia delle prove io ero seduto a un tavolo del ristorante del circuito, a Suzuka, insieme ad alcuni giornalisti italiani. Ero tranquillo, leggevo un giornale. E arrivato Biaggi. Appena mi ha visto è venuto verso di me, con uno sguardo un po’ intimidatorio:
«Prima di parlare di me devi sciacquarti la bocca!» mi ha detto con un tono autoritario.
Disse proprio così, esattamente quelle parole.
Quindi, per una volta che ero io a starmene buono, in disparte, ci ha pensato lui ad alimentare la tensione.
Non me l’aspettavo, quella reazione, infatti l’ho guardato ma non gli ho detto niente.
Io avevo 18 anni, lui 26. E da lì in poi, tra noi è andata sempre peggio.
All’inizio del 2000, in inverno, ero appena approdato in 500, Biaggi in un’intervista ha dichiarato: «Rossi adesso viene tra i grandi, viene nella 500 e si confronterà con i piloti veri».
Già, perché lui evidentemente dopo essere passato in 500 si era già dimenticato della 250…
Comunque, ha aggiunto: «Adesso dovrà chiudere tutte le sue maschere e metterle nell’armadio, non può più fare il pagliaccio».
Insomma, tra noi era tutto un botta e risposta, a distanza.
E nel 2001, l’aria è diventata davvero pesante.
Anche perché tutti si aspettavano di vedere noi due in lotta per il titolo. Solo noi due.
A Suzuka è avvenuto un episodio molto grave. Biaggi mi ha dato una gomitata in rettilineo, a 220 all’ora, e quello io lo considero un episodio imperdonabile.
Quella è la pista sbagliata, per fare certe cose. È un tracciato in cui si prendono già grossi rischi se si sta attenti, figuriamoci se si comincia a sgomitare a oltre 200
all’ora!
A Suzuka si va forte, sempre. In più, all’epoca, la chicane che si trova prima del rettifilo di arrivo era disegnata ancora in modo tale che si scendeva verso il rettilineo con grande velocità. Non era stata ancora rallentata, insomma.
Io e Biaggi siamo arrivati in quella chicane con lui davanti. Per non farsi superare da me alla staccata della “esse”, ha ritardato la frenata così tanto da arrivare lungo; pensava che avrei cercato di passarlo all’interno, quindi ha frenato molto tardi, cercando di chiudere la porta. Invece io, incrociando la traiettoria, sono riuscito ad avvantaggiarmi per l’accelerazione.
La mia tattica consisteva appunto nell’incrociare le traiettorie. Quindi, lui è arrivato un po’ lungo e si è trovato in difficoltà in uscita dalla “esse”: quando siamo usciti e abbiamo iniziato a scendere verso il rettilineo di arrivo, lo stavo già superando.
Lui ha sentito il rumore della mia moto provenire dall’esterno, e quando l’ho affiancato mi ha guardato e poi mi ha dato una gomitata. Per spingermi fuori. Ho percorso un lungo tratto del rettilineo sull’erba, a 220 all’ora, ed è stata un’impresa non da poco restare in piedi. Ho perso diverse posizioni, naturalmente, ma ero fuori di me dalla rabbia per quella scorrettezza, commessa ad altissima velocità. Perché si possono fare molte cose aggressive, in gara, ma scorrette mai.
Mi sono ripreso subito, comunque. Dopo la scarica di adrenalina e il sangue che mi è salito al cervello per la rabbia, ho ripassato agevolmente i piloti che mi avevano superato e ho raggiunto di nuovo Biaggi. L’ho sorpassato in un curvone veloce, a destra, e in uscita dalla curva ho tolto la mano sinistra dal manubrio alzando il dito medio…
Era il mio modo per manifestargli il mio pensiero su quell’episodio.
La gara l’ho vinta io, perché poi non ho concesso più niente. Ma la bagarre è continuata quando ci siamo fermati.
«Non ti ho fatto niente!» mi ha detto subito lui, appena l’ho aggredito verbalmente.
«No, certo, mi hai solo buttato verso il muro a oltre 200 all’ora» ho urlato io.
«Ma che dici!» ha cercato di difendersi.
«Guarda, la prossima volta prendi con te una pistola così mi spari e fai prima» ho risposto io, tutto d’un fiato.
Abbiamo continuato il tafferuglio verbale in sala stampa, tra molta tensione, poi ci siamo separati e ognuno è andato per la sua strada.
Oggi, come allora, non ho nulla da rimproverarmi per quel gesto. Per quel dito medio alzato. Non sarà stato un gesto elegante, ma avevo subito una grave scorrettezza che aveva messo in pericolo anche la mia incolumità fisica. Quindi ero molto teso e arrabbiato. Comunque, secondo me quello è stato uno dei momenti più belli della mia carriera.
La stampa italiana, però, ha messo sullo stesso piano il mio “gestaccio” e il suo tentativo di intimidazione. Diversi giornalisti hanno scritto che mi ero comportato come un pazzo e come un maleducato.
Quel moralismo, secondo me, era fuori luogo: i due episodi non erano paragonabili. Un gesto, per quanto volgare, non è accostabile a una scorrettezza.
Eppure, anziché chiedersi se la manovra di Biaggi andasse condannata, in molti si sono soffermati solo sul mio gesto. Qualcuno, poi, appoggiando la scusa trovata da Biaggi, scrisse addirittura che avevo sbagliato io: già, Biaggi aveva messo il gomito per motivi di sicurezza, per evitare che, causa la mia manovra azzardata, i manubri si impigliassero tra loro provocando così una rovinosa caduta. Incredibile!
Poiché a Suzuka eravamo all’inizio della stagione, è facile immaginare che a Barcellona tra noi ci fosse molta tensione.
Ci stuzzicavamo in continuazione, dentro e fuori la pista. A Barcellona siamo arrivati abbastanza vicini, in classifica, ma io ero davanti. Avevo vinto le prime tre gare: in Giappone, Sudafrica, Spagna (a Jerez). Lui aveva vinto in Francia. Al Mugello, poi, io sono caduto sull’acqua, nell’ultimo giro; lui era giunto terzo e mi aveva avvicinato nella classifica del campionato. Quindi quella di Barcellona era una gara delicata. Non potevo permettermi di sbagliare.
Ho conquistato la pole. Andavo forte, e pensavo che non avrei avuto nessun problema durante la corsa. Invece no. I guai che non c’erano, me li sono andati a cercare io. Partendo malissimo. Alla prima curva sono arrivato in decima posizione, e mi sono ritrovato in mezzo a un gruppo composto da gente nervosa. Gibernau ha fatto un’entrata dura su Criville, che è stato costretto a “raddrizzare” per non cadere. Solo che Alex ha “raddrizzato” anche me che gli ero a fianco; così tutti e due abbiamo fatto la prima curva praticamente sulla riga bianca, cercando più che altro di stare in piedi. All’uscita della curva ero dietro anche alla Sabre!”Ma sarà questo il modo di iniziare una gara?!” ho pensato io, offendendomi da solo. Mi sono lanciato subito all’inseguimento.
Volevo vincere; non potevo accettare di perdere a causa di una partenza così brutta. Staccata dopo staccata, piega dopo piega, li ho passati davvero tutti, fino ad arrivare alle spalle di Biaggi. L’ho superato senza problemi, ma poco dopo ho commesso un errore in una curva: sono andato un po’ largo, così ho aperto la porta e lui si è infilato. Dopo due giri, però, ero già lì. E l’ho superato di nuovo.
Fortunatamente non ho commesso lo stesso errore una seconda volta: ho guidato bene, l’ho lasciato lì e sono andato a vincere.
La gara era stata bellissima, per me. Pessima, per lui, che aveva preso una gran paga! Per quello, all’arrivo, quando ci siamo ritrovati nella zona del parco chiuso in cui bisognava lasciare le moto, era incazzato nero.
Io invece ero molto contento, così dopo l’arrivo mi sono messo subito a far festa con tutti quelli che avevo vicino. All’epoca i primi tre classificati non venivano immediatamente isolati dopo l’arrivo; ci si riuniva in una saletta, in mezzo a tante persone, molte più di quante ne sono state ammesse in seguito, proprio a causa di questo episodio. Quella volta, al Montmelò, c’erano meccanici, manager, amici, cineoperatori, un sacco di gente. Un gran casino, insomma.
Quando sono entrato io, dopo aver lasciato la moto nella zona del parco chiuso, ho iniziato a far festa con Gibo, che mi aspettava proprio lì. A un certo punto gli addetti della Dorna ci hanno invitato ad andare verso il podio. Per arrivarci bisognava salire i gradini di una scaletta piuttosto stretta. C’era molta confusione, Biaggi voleva passare in fretta, per salire la scala, ma non ci riusciva perché c’era il cameraman della Rai che ostruiva un po’ il passaggio. Era già furioso per come era andata la gara, in più quella situazione stava innervosendolo ancora di più. All’improvviso ha dato una spinta al cameraman, ha cercato quindi di passare ma ha trovato Gibo nel mezzo, che ha tardato a spostarsi; Biaggi gli ha dato una gomitata nella schiena. Poi è andato avanti un paio di metri. Di fronte alle proteste di Gibo, Biaggi si è girato e gli ha messo di nuovo le mani addosso.
«Ma che cazzo fai!» gli ho urlato io, mentre lui saliva le scale.
«Vieni su che ce n’è anche per te!» ha risposto, voltandosi verso di me.
«Bene, vengo subito!» ho replicato, raccogliendo immediatamente la sfida.
E quello è diventato il punto di non ritorno.
Ho iniziato a salire i gradini di corsa. Biaggi mi aspettava quasi alla fine della scala. Quando sono arrivato all’ultimo scalino mi è saltato addosso.
Lui aveva gli occhi rossi, era inferocito, non l’avevo mai visto così.
Sono volati schiaffi e pugni. La gente si è agitata. Dopo poco è arrivato Carlo Fiorani (che all’epoca era il mio team manager) e ci ha diviso.
È finita lì, perché poi gli addetti della Doma ci hanno spinto sul podio. Eravamo un po’ in ritardo, e quando ci siamo presentati di fronte al pubblico festante eravamo più agitati del solito. Avevamo il fiato lungo, i volti arrossati, ma abbiamo recitato bene.
Dopo la cerimonia di premiazione siamo andati in sala stampa.
Ci sforzavamo entrambi di sembrare calmi. Quando ci siamo sistemati dietro i microfoni, avevamo però il viso paonazzo.
«Gara dura, eh?» ha chiesto un giornalista che ci fissava entrambi.
«Eh sì, durissima!» ho detto subito io, ma mentre muovevo la testa in segno d’assenso, nella mia mente pronunciavo invece un’altra frase: “Proprio dura no, è che ci siamo appena messi le mani in faccia!”.
In sala stampa ancora nessuno sapeva che io e Biaggi ci eravamo messi le mani addosso. In verità qualcuno lo sapeva, perché dietro il podio c’era gente e avevamo soprattutto fatto un gran casino, ma i giornalisti che ci aspettavano nella sala stampa di Barcellona ancora non avevano ben chiara la situazione.
«Che cos’è?» ha chiesto un altro giornalista a Biaggi, avendo notato che sullo zigomo aveva un piccolo segno.
«Mosquito» ha ribattuto lui, prontamente. Tagliando corto.
La conferenza stampa è scivolata via senza intoppi, nessun altro ha fatto domande sulle nostre facce, noi abbiamo evitato di riaprire il caso. Ma subito dopo la conferenza stampa io e Biaggi, con i nostri rispettivi team manager, siamo stati convocati in direzione gara.
Al mio fianco c’era Fiorani. Lin Jarvis, in rappresentanza del Team Yamaha, ha accompagnato Biaggi.
«Adesso raccontateci cosa è successo» ci è stato immediatamente chiesto dai membri della direzione gara.
Volevano la nostra versione dei fatti. E ognuno ha fatto il proprio racconto. Poi ci hanno spiegato che sarebbero andati a riunirsi, per decidere se applicare delle sanzioni. Ci hanno lasciati lì, in quella stanza, in una situazione un po’ surreale.
Eravamo in quattro, uno di fronte all’altro, tutti rigorosamente zitti. Non parlava nessuno.
Visto che nessuno parlava, e che quel silenzio era davvero imbarazzante, Fiorani ha cercato di stemperare un po’ la tensione rivolgendosi a Biaggi.
«Che ha fatto la Roma?» gli ha chiesto.
«Non lo so!» ha ringhiato Biaggi, senza neanche alzare la testa.
«Ah, bene» ha detto subito Fiorani, ed è calato di nuovo il silenzio.
Per non scoppiare a ridere, ho dovuto mettermi una mano sulla bocca e stringere le mascelle.
Ma come, «che ha fatto la Roma»! Ma come, «non lo so»! Quella era la domenica in cui la Roma aveva vinto lo scudetto, e Biaggi sul podio era salito con il foulard giallo-rosso annodato al braccio; e lì, in quella stanza, di fianco a Fiorani, l’aveva ancora addosso!
Era chiaro che in quel momento Biaggi non aveva alcuna intenzione di parlare a Fiorani, ma fortunatamente il silenzio è stato interrotto da quelli della direzione gara.
«Non vi facciamo niente, per questa volta; ma non dovete raccontare nulla ai giornalisti. Cercate di minimizzare. Non fate altro casino!» si sono raccomandati.
«Va bene» abbiamo replicato noi.
«Siamo d’accordo, non ne parliamo ai giornalisti» ci siamo ripetuti, prima di uscire.
Ma i giornalisti erano già lì fuori, ad aspettarci. Tutti in gruppo, famelici di notizie, di retroscena, di dichiarazioni forti. Perché intanto si era sparsa la voce, quindi loro lo sapevano cos’era successo, anche se non conoscevano i dettagli. La troupe della Rai, che era stata poi presente alla rissa, non aveva filmato niente ma aveva sentito tutto, e aveva inoltre la registrazione audio sui nastri.
«Ma sì, c’è stato uno scambio di opinioni un po’ acceso, ma niente di particolarmente serio» ho spiegato subito io, quando li ho incontrati. Ho fatto insomma quello che mi era stato detto: ho smorzato i toni, ho sdrammatizzato.
Biaggi invece ha raccontato tutto, spiegando che io l’avevo spinto e poi menato.
Quindi, ancora una volta, la figuraccia l’ho fatta io. Sui giornali infatti sono stato disegnato come il solito ragazzino attaccabrighe.
Comunque, la zuffa di Barcellona non è stato l’episodio che mi ha fatto più arrabbiare. Quello che ha causato la rottura definitiva dei nostri rapporti è quanto è avvenuto in Olanda, cioè nella gara seguente.
Ad Assen, la Doma ci ha praticamente imposto una pace forzata per chiudere la faccenda legata alla rissa di Barcellona. E ha voluto organizzare un incontro nel quale io e Biaggi ci saremmo dati la mano davanti a tutti. Cioè, davanti a giornalisti e fotografi.
Nessuno di noi due voleva partecipare a quell’incontro. Sono stati tutti molto insistenti, a tal punto che io mi sono detto: “Se dev’essere una rottura di coglioni così grande, gli do ‘sta mano così la gente è contenta e noi continuiamo a detestarci di nascosto”.
Ma, quando gli ho dato la mano, io ero abbastanza sincero. Lui davanti ai giornalisti ha fatto il gentile con me, dicendo belle parole, però mi ha dato la mano senza neanche guardarmi in faccia.
“Ma va bene lo stesso” ho pensato.
Il giorno dopo ci siamo incrociati, casualmente, nel corridoio del circuito. Eravamo a piedi. «Ciao!» gli ho detto.
Lui non mi ha salutato.
“A posto così, adesso abbiamo proprio chiuso” mi sono detto.
E ho chiuso davvero.
Non c’eravamo mai presi bene, quindi pensai che si poteva anche andare avanti così. In fondo non c’era nulla per cui scandalizzarsi: non è detto che si debba andare d’accordo con tutti. Le antipatie ci sono in qualsiasi ambiente, non solo in un circuito.
Certo, in pista abbiamo fatto sempre poco per arrivare a una conciliazione. E anche fuori. Comunque, dopo le mie sparate iniziali, al debutto nel Mondiale, ne ha fatte più lui a me che io a lui. E non parlo solo delle corse.
In pista, comunque, ci facevamo un sacco di dispetti. E l’apice l’abbiamo raggiunto proprio nel 2000 e nel 2001. Sì, ci sono stati alcuni episodi anche dopo, ma mai come in quel biennio in cui abbiamo corso nella 500.
A volte erano cose piccole, altre grosse. Molto spesso erano azioni che miravano a intimidire e a innervosire l’altro.
Lui ha sempre avuto la mania di arrivarti vicino all’improvviso, a forte velocità, quando meno te lo aspetti: tu stai andando piano, perché magari stai per rientrare ai box, lui ti arriva vicinissimo, ad alta velocità, e ti sfiora facendoti il pelo. Lo ha sempre fatto. Con tutti, non solo con me. Ed è la cosa più odiosa. Si diverte a sfrecciarti accanto, mentre si rientra ai box dopo la fine del turno di prova.
A Donington, nel 2002, me lo ha fatto anche nel giro d’onore, dopo la gara, mentre festeggiavo e mi ero messo seduto di traverso sulla moto.
Perché a lui piacciono un sacco quelle cazzate lì. Secondo lui sono una forma di intimidazione, e comunque non è mica il solo pilota a pensare che giochetti del genere siano utili.
Il problema è che a me queste cose non fanno né caldo né freddo. Possono dar fastidio a certi piloti, ma a me no. E proprio a Suzuka, nel 2001, gli ho fatto capire che nessuno può intimidirmi.
A volte gliel’ho dimostrato anche nelle prove. Perché spesso l’ho ignorato, ma in altre occasioni ho accettato la sfida. E una volta, nella stagione 2000, mi sono anche divertito.
Eravamo in Giappone, a Motegi. Dopo le prove lui mi ha fatto proprio quello scherzo lì: mi ha sfiorato all’improvviso. Allora io ho riaperto il gas e gli sono corso dietro.
Dopo poco l’ho visto fermo lungo la pista, perché voleva provare la partenza. Ho rallentato, gli sono arrivato dietro senza fare rumore, in folle, e l’ho colpito: con la mia gomma anteriore sono andato contro la sua posteriore. Un colpo secco e improvviso. Si è voltato di scatto e mi ha visto: io ero immobile, che lo salutavo con il palmo della mano aperta, muovendo l’avambraccio a destra e a sinistra: “Ciao ciao!” gli ho fatto.
Lui è ripartito, io gli sono corso dietro di nuovo. L’ho ritrovato fermo sul rettilineo prima del tunnel: voleva provare di nuovo la partenza, senza nessuno che lo disturbasse.
Mi sono fermato subito: e via, un altro colpo alla sua ruota posteriore con la mia anteriore. Proprio come prima.
Lui si è voltato, sempre di scatto, e io mi sono rimesso a salutarlo con la mano:
“Ciao ciao!”. Esattamente come prima.
Lui non ha replicato, siamo tornati ai box. Ed è finita lì.
Io non mi metto mai, volontariamente, in situazioni come questa. Ma reagisco, quando vedo uno che ha voglia di scherzare… Mi adeguo in fretta, perché ci vuole poco per coinvolgermi. In pista non mi tiro mai indietro, se vengo attaccato. Così, visto che a Biaggi piaceva fare questi giochetti, io rispondevo subito.
Anche perché non si limitava soltanto alla pista. Eh no, a lui piaceva fare queste cose anche nel paddock. Con lo scooter.
Una volta, a Jerez, sempre nel 2000, io ero in scooter con Alby, il mio amico Alberto Tebaldi. Portavamo nel box le carene che erano state colorate a casa, perché quell’anno le carene le verniciavano Aldo Drudi e Roby; io le portavo in circuito col motorhome e le davo a Jeremy, che faceva montare tutto dai meccanici.
Eravamo in una situazione già un po’ precaria perché in due sullo scooter: in più io, davanti, tenevo il serbatoio e le carene, completamente avvolte dalla plastica di protezione, mentre Alby, dietro, stringeva tra le mani il cupolino e altri accessori.
Biaggi ci ha puntato, ha dato tutto gas e ci ha fatto il pelo. È passato vicinissimo, abbiamo traballato per parecchi metri, però non siamo caduti e siamo riusciti a non rovinare il materiale che avevamo con noi. Abbiamo schivato il disastro, insomma.
Le stagioni 2000 e 2001 le abbiamo passate praticamente in questo modo.
Ci sono molti piloti che fanno questi giochetti. I primi li ho imparati da Jorge Martinez.
Con lui è nata una grande rivalità, ai tempi della 125. E già dai miei esordi internazionali, cioè ai tempi dell’Europeo.
Grande staccatore, Martinez. E anche molto furbo. Usava un sacco di malizie.
All’inizio non ci sopportavamo molto, abbiamo trovato il modo di apprezzarci solo dopo, quando lui ha concluso la carriera. Martinez ha molti anni più di me; all’inizio io ero veramente un ragazzino inesperto e lui un veterano. Tra le cose che più detestavo, nel repertorio dei suoi trucchetti, c’era l’abitudine di mettersi in mezzo alla mia traiettoria nel giro veloce; e comunque, mi ostacolava appena poteva, mi faceva un sacco di dispetti.
Nel 1995, agli Open Ducados, eravamo a Cartagena e venivamo da Jerez, dove avevamo corso una gara molto combattuta: io sono andato in testa, ho preso del vantaggio, poi ho finito la gomma e lui mi ha ripreso; quindi ha vinto lui. A Cartagena eravamo affiancati, sulla griglia. Lui è venuto da me e mi ha detto: «In bocca al lupo, ma mi raccomando, vai piano, cerca di non cadere…».
Gli avrei tirato il cavalletto della moto nella schiena!
«Adesso ti faccio vedere io» ho detto sottovoce.
Siamo partiti male, tutti e due. Eravamo indietro, ma abbiamo iniziato a recuperare. Io ho passato tutti e dopo tre giri ero in testa. Ma poco dopo sono caduto… E Martinez ha vinto.
Per la gara seguente, l’appuntamento era a Misano. E questa volta sono stato io a fare quello che aveva fatto lui a me a Cartagena.
«Oh, mi raccomando, in bocca al lupo, però calma, eh…» gli ho detto sulla griglia di partenza, dopo essere andato da lui picchiandogli la mano sulla spalla.
Lui mi ha guardato malissimo, proprio come avevo fatto io a Cartagena. Solo che a Misano andavo più forte, e infatti ho vinto.
7
Nel Mondiale del 1996 avevo capito molte cose. Una, in particolare: avevo il potenziale per vincerlo, quel titolo. E volevo riuscirci. Anche perché la 125 mi è sempre piaciuta moltissimo, quindi volevo completare un percorso iniziato nella Sport Production.
Dopo la stagione 1996, Carlo Pernat ha deciso di scommettere di nuovo su di me.
Ha fatto quindi in modo che la mia condizione tecnica migliorasse: sono rimasto nel Team AGV, con Sacchi e Noccioli, ma Pernat mi ha fatto avere l’Aprilia ufficiale.
Sentivo che il 1997 sarebbe stato il mio anno. Ecco perché non ne ho voluto sapere di passare subito nella quarto di litro. Eh sì, perché l’Aprilia mi ha proposto la 250.
«Sei alto, pesi abbastanza, sei più adatto alla 250; perché non lasci subito la 125?»
mi ha proposto Pernat.
Graziano la pensava come lui, io invece no. E ho spiegato subito quale fosse la mia idea per l’immediato futuro.
«Sono arrivato al punto di poterlo vincere, questo Mondiale, e voi mi volete fare andare via proprio sul più bello?» dissi, in tono provocatorio.
«Hai ragione, però se ti fai un anno di esperienza con la 250, poi potresti avere la moto ufficiale nel ‘98, e a quel punto avresti la possibilità di vincere il Mondiale» mi ha risposto Pernat, spiegandomi quali fossero i piani Aprilia.
«Sì, ma perché? Io prima voglio vincere la 125!» ho replicato.
«Non vado in 250, se non ho prima vinto il titolo della 125» ho aggiunto. E non ho lasciato spazio a ulteriori discussioni.
Su questo punto non transigevo allora, e non transigerei adesso. Secondo me un pilota deve fare un passo alla volta: se ci sono le possibilità di vincere un titolo bisogna provarci, prima di passare alla categoria superiore. Io, almeno, ho sempre voluto fare così.
Allo stesso modo, infatti, non sono stato accomodante anni dopo, nel momento in cui la Honda mi ha proposto la 500 quando non avevo ancora vinto il Mondiale 250.
Alla fine, sono rimasto in 125 in vista della stagione 1997. E ho fatto bene.
Quel Mondiale del 1997 l’ho dominato, cogliendo undici successi. Ho vinto sull’asciutto, sul bagnato, su piste di ogni tipo.
Una delle più belle gare che ho corso in quel campionato, ma probabilmente anche nella mia intera esperienza nella 125, è stato il GP Olanda ad Assen.
Visto che prima della gara c’era una temperatura piuttosto bassa, ero partito col copridisco in carbonio. Poi la temperatura è cambiata, si è alzata, e il calore faceva
“gonfiare” il freno. La leva arrivava a toccare la manopola.
All’epoca non avevamo il registro del freno direttamente sulla manopola: era posizionato nella zona del cruscotto. Non volendo mollare il gas, per non distanziarmi troppo dagli avversari, cercavo di azionare il registro con la mano sinistra. Per tre o quattro giri non ho risolto nulla; durante un tentativo, poi, si è anche agganciato il guanto nel cruscotto e nella curva successiva ho rischiato di perdere il controllo della moto. Allora mi sono stancato: ho mollato il gas, rallentando di colpo, ho tolto la mano dal comando del gas e ho registrato la leva del freno.
Ho perso moltissimo, logicamente, perché mi sono quasi fermato, ma quando ho ripreso mi sono scatenato: a metà dell’ultimo giro ho agguantato il gruppo, inserendomi in quarta posizione, ma ho continuato a spingere. E alla fine ho vinto!
Mi veniva tutto facile, nel 1997.
Avevo imparato la lezione: durante la gara gestivo bene la moto, ma soprattutto me stesso.
In quell’anno, in Italia, è scoppiata una vera mania per me. Infatti, un po’ per le mie vittorie, un po’ per il modo con cui le festeggiavo, sono diventato… Valentino Rossi.
Le gag mi hanno fatto apprezzare dal pubblico di tutto il mondo, e mi hanno permesso di presentarmi con un volto nuovo in un ambiente che si è sempre preso troppo sul serio.
Sono tutte preparate, così da poter essere eseguite “sul posto” in modo veloce e senza errori. Molte le ideo io, altre i miei amici. Quando programmiamo le scenette, pensiamo a tutto: io dico, se vinco ci vediamo lì e facciamo quello che abbiamo deciso. Se arrivo secondo non si fa niente.
Le cose sono cambiate, però, col passare degli anni. All’inizio le gag nascevano al Bar dello sport di Tavullia, che era del mio amico Pedro, che adesso ha un ristorante, sempre in paese.
Eravamo dei ragazzini, all’epoca, e il bar del paese era un po’ la nostra seconda casa. Ci trovavamo lì. E lì nascevano le scenette. La sera, quando il bar si svuotava, restavamo per ore a parlare di tutto e di niente, ma certe sere nascevano queste idee, come quella della bambola gonfiabile, ad esempio.
Ma col passare degli anni l’ideazione e la realizzazione delle gag è stata sempre una cosa tra me e Flavio Fratesi, collaboratore fidato ed efficiente quando si tratta di mettere in atto le gag e di preparare le magliette celebrative: le idee a volte le hanno altri, non necessariamente noi due, ma alla fine siamo noi che le realizziamo.
Nei miei primi armi di Mondiale ne facevo spesso, di siparietti, poi ho diminuito il ritmo. Un po’ perché con gli anni si cambia, e poi perché andando avanti non è così facile trovare sempre spunti brillanti, che facciano ridere.
Perché è questo il loro scopo: far ridere la gente.
Per arrivarci serve innanzitutto l’idea, ma quella giusta non la compri, ti deve venire. E non arriva a ogni gara.
Per questi motivi, dopo un po’ ho deciso che avremmo fatto solo cose che avessero una certa importanza simbolica. E, soprattutto, dopo il Gran Premio d’Italia del 1998, ho deciso che queste gag le avrei fatte solo in caso di vittoria.
Al Mugello, quell’anno, io correvo in 250 e la gara l’ha vinta Marcellino Lucchi.
Avevo deciso che sul podio ci sarei andato svestito, cioè in versione spiaggia: costume, occhiali da sole, asciugamano al collo. E ho commesso l’errore di farlo pur non avendo vinto.
Sul momento non gli ho dato peso, perché ero molto contento dell’esito di quella gara: aveva vinto Lucchi, a 43 anni, l’evento quindi era particolare, mentre io avevo battuto Capirossi e Harada, i miei veri rivali. Così ho pensato che qualcosa da festeggiare ci fosse lo stesso, e alla fine la mia scenetta l’ho fatta. E sono andato sul podio in versione “spiaggia”.
Il giorno dopo sui giornali ho letto il disappunto più totale. Hanno scritto che mi ero comportato da egocentrico ed egoista perché avevo voluto togliere visibilità a Lucchi; gli avevo impedito di godersi quel momento bellissimo, perché volevo essere comunque io al centro dell’attenzione. Ingenuamente, io volevo solo fare un po’ di festa.
“Basta, queste cose hanno ragione di esistere solo se si vince” mi sono detto, perché l’episodio e i commenti maligni che sono seguiti mi hanno dato molto fastidio.
Prima dell’inizio del Mondiale 2004 avevo pensato all’eventualità di organizzare qualche cosa di celebrativo, nel caso in cui fossi riuscito a vincere subito. Cioè, alla prima gara. Poi ho deciso che non avrei preparato niente.
Quindi, a Welkom non avevo programmato di scendere dalla moto, appoggiarla a un muretto, sedermi sull’erba accanto a lei, poi alzarmi e baciarla sul cupolino.
Un’immagine che ha fatto il giro del mondo.
In realtà quella scena non si può considerare una vera e propria gag. È stato un momento intenso, ma personale.
Quello che ho fatto dopo l’arrivo del Gran Premio del Sudafrica mi è venuto spontaneamente: c’era stato un tale accumulo di tensione per quella gara che, quando è finita, mi sono sentito come se avessi buttato fuori tutte le mie emozioni e i miei pensieri.
È stato l’istinto a indurmi a fermarmi lungo la pista e a baciare poi la mia moto: quella è stata una scena straordinaria, che ha identificato un momento straordinario.
Le gag sono tutta un’altra cosa. Vengono pensate e preparate nei minimi dettagli, non c’è mai improvvisazione. Si arriva in circuito già sapendo che cosa si farà domenica dopo la gara. Quindi a Welkom non è andata come a Sepang, oppure come a Phillip Island.
Due luoghi, due eventi, per i quali erano state programmate una scena precisa e una forma di festeggiamento particolare. La Rapida, in Malesia, per ironizzare su un episodio… poco pulito; la maglietta “che spettacolo”, in Australia, per celebrare un’impresa… spettacolare.
Perché poi queste magliette sono difficili da fare. Non possono essere banali; non le voglio così, ma non è neanche facile trovare sempre uno spunto originale.
La maglia “che spettacolo”, a dire il vero, non è stata una vera e propria idea. Si è trattato di un sogno che ho fatto verso la fine dell’estate del 2004, quando ero in condizioni di pensare che il titolo avrei potuto vincerlo davvero.
Una notte, a casa mia, mi è apparso in sogno il podio del GP Australia: io festeggiavo con una maglia sulla quale c’era scritto “che spettacolo”.
È stata una cosa che mi ha colpito molto, questa, perché io di solito non sogno mai di me stesso in moto.
Non ne ho parlato a nessuno, di questo. Però dopo la gara della Malesia, ero con Gibo e Uccio, ho detto: «Ho pensato alla maglietta per il Mondiale». E c’è stato un attimo di silenzio.
Quando si arriva al punto in cui possiamo parlare del titolo, vuol dire che la situazione è già molto chiara e positiva. Avevo vinto a Sepang, stavamo trasferendoci in Australia con grande entusiasmo. E lì, infatti, ho poi vinto il titolo.
Flavio era ripartito subito per l’Italia. Al suo arrivo avrebbe dovuto realizzarla immediatamente: avrebbe avuto solo un paio di giorni a disposizione, poi sarebbe dovuto ripartire subito per Melbourne. Un viaggio devastante, ma ne valeva la pena.
E comunque, i ragazzi del Fan Club sono capaci di sopportare di tutto, quando bisogna organizzare gli eventi importanti.
Di fatto il Fan Club è nato in occasione della prima gara del campionato italiano 125, nel 1995, a Misano. Quella è stata la prima gara in cui un gruppo di gente si è spostato in circuito per venirmi a vedere gareggiare. Ed erano arrivati da Tavullia.
Certo, quel gruppo non è che abbia affrontato una grande trasferta, visto che Misano è a una decina di minuti di auto da Tavullia, ma per me era stato comunque un evento. La gara, poi, è una di quelle che non dimenticherò.
Avendo sbagliato la partenza, mi sono ritrovato ultimo, dopo il via: ho fatto una grande rimonta, raggiungendo Cecchinello che era in testa. Subito dopo lui è caduto, e io ho vinto. Una bella vittoria, accolta con grande entusiasmo da chi era venuto a vedermi da Tavullia. E da lì si è formato il gruppo dei miei primi sostenitori.
Quindi, a Sepang, dopo la gara, io ho iniziato a spiegare a Uccio e Gibo come doveva essere la maglietta che avrei ricevuto a Phillip Island.
«Voglio una maglietta bianca, con solo la scritta “che spettacolo”. Niente altro, non voglio che ci sia scritto campione del mondo, oppure dei marchi, o frasi e disegni vari. Solo quella scritta lì.»
Loro mi hanno guardato con un po’ di stupore, in silenzio.
«Perché non te l’aspetti che uno esca con una maglietta così» ho poi aggiunto io, completando la spiegazione.
Infatti erano rimasti sorpresi anche loro. Anzi, c’erano rimasti un po’ male. Poi però ci hanno pensato, e mi hanno detto: «E bellissima!».
Non avrei voluto mettere neanche il numero 46, proprio perché la volevo tutta bianca, ma alla fine è stato messo.
In fondo quello è il mio numero, non potevo non portarlo con me anche su quella stoffa diventata poi preziosissima.
La gag de La Rapida è stata invece pensata quando erano passate poche ore dalla fine della gara del Qatar.
Ero ancora in hotel, la sera, con Uccio. Guardavamo in tv i programmi italiani via satellite, in attesa di andare in aeroporto dove avremmo preso un volo per l’Italia.
Non avevo previsto, quando sono partito per Doha, di rientrare in patria così presto. Ma ero talmente deluso e arrabbiato, per quella storia del reclamo inoltrato dalla Honda (perché Jeremy aveva pulito dalla polvere la mia zona di partenza), che sentivo il bisogno di rigenerarmi.
Anche perché avevo davanti, una successiva all’altra, due gare molto importanti: i Gran Premi di Malesia e Australia.
Quindi avevo deciso di tornare a casa, in Italia.
Lì in hotel, mentre guardavo la televisione per far passare il tempo, l’aereo sarebbe infatti partito in piena notte, mi è venuta l’idea de La Rapida.
«Se vinco a Sepang, la prossima settimana, dopo mi metto a pulire la pista» ho deciso.
Al rientro in Italia, dove mi sono anche sottoposto alle cure per la ferita alla mano che mi ero procurato cadendo in gara, ho chiamato Drudi.
«Ci dobbiamo vedere» ho detto.
«Anch’io ho un’idea, mettiamola a confronto con la tua» mi ha risposto lui.
Così siamo andati a cena, a mangiare il pesce in un ristorante sulla costa romagnola.
Eravamo praticamente sulla stessa linea, avevamo avuto più o meno la stessa idea.
Ed è così che è nata La Rapida.
Come sempre ho subito convocato Flavio Fratesi, che è l’addetto alla realizzazione delle scenette. Le gag le proviamo riunendoci in una stanza. Non c’è mai nessuno, oltre a noi. Ed è lo stesso quando dobbiamo verificare una nuova maglietta.
Flavio è sempre l’unico che può vedere la maglietta, oltre a me; perché è lui che la fabbrica. Magari l’ha disegnata Aldo, però a produrla è Flavio. È accaduto anche per La Rapida: Aldo l’ha disegnata, Flavio l’ha realizzata. In due soli esemplari: uno per me, l’altro per Jeremy.
Ma non l’ha fatta vedere a nessuno, neanche ad Aldo. Eh sì, perché va rispettata la cabala: altrimenti porta sfiga e la cosa non riesce più.
Nel mio personale podio delle nostre scenette più belle c’è senza dubbio il Pollo Osvaldo. In testa c’è il bagno di Jerez, ma a fianco piazzo il Pollo Osvaldo e i vigili di Tavullia che mi hanno fermato al Mugello.
Certo, ho grande affetto anche per la prima, vera, geniale trovata: la bambola gonfiabile.
L’idea della bambola è nata nel Bar dello sport di Tavullia. Per festeggiare la mia eventuale vittoria nel Gran Premio di Imola 125 del 1996. Perché a Imola avrei potuto farcela, a vincere. Invece non ho vinto, così si è deciso di lasciarla nascosta. In quell’anno, nel 1996, cioè nella stagione del mio debutto nel Mondiale, io e i miei amici guardavamo tutto quello che succedeva intorno a noi; studiavamo gli altri piloti, il loro modo di correre e di presentarsi alla gente. E proprio partendo da queste valutazioni,arrivammo alla conclusione che in giro c’era molta noia, uniformità, piattezza.
«Che palle, i piloti che vincono e portano in giro solo la bandiera del proprio Paese» commentavamo.
«Perché non facciamo noi qualcosa che ancora nelle moto non si è visto?» ha proposto a un certo punto uno di noi. Abbiamo iniziato a pensare a cose strane. Pensa e ripensa, ci è venuta l’idea giusta.
«Si porta una bambola gonfiabile!» e c’è stata un’esplosione di entusiasmo, accompagnata dall’approvazione generale.
È scattata la macchina organizzativa. Siamo partiti, in delegazione, verso il Sexy Shop di Misano. Timidamente, siamo entrati; eravamo più o meno maggiorenni, io avevo 17 anni. Avevamo, quindi, anche un po’ d’imbarazzo.
«Scusi, vorremmo una bambola gonfiabile» ha detto il più spavaldo.
«Dobbiamo fare uno scherzo…» ho aggiunto io, per mettere subito le mani avanti.
Il gestore ci ha guardato con aria di compatimento.
«Sì, certo, uno scherzo, dicono tutti così… va bene ragazzi, bravi, fate lo scherzo…» ci ha detto, dimostrando che non credeva a una sola parola.
«No, guardi, facciamo lo scherzo per davvero…» abbiamo replicato, quasi in coro.
«Certo, uno scherzo, ma io vi capisco: eccola, la vostra bella bambola!» ci ha liquidato lui.
La bambola l’abbiamo portata al Mugello, nel 1997, e ha suscitato un grande scalpore. Anche perché i giornalisti scrissero che avevo pensato lo scherzo come risposta a Biaggi, che in quel periodo si era fatto vedere con Naomi Campbell.
A ingannare tutti è stato il nome, sbagliato, scelto per la bambola: Claudia Schiffer, da pronunciare “Skiffer”, in modo che in italiano avesse assonanza con schifo.
Questa volta è stato fatto un errore, perché la battuta è stata male interpretata.
Bisogna anche dire che i fatti hanno giocato contro di noi. È stato facile, per tutti, collegarsi a un episodio precedente, in cui Biaggi aveva annunciato, prima della gara del Mugello: «Tra i miei ospiti ci sarà anche Naomi».
Allora io, per tutta risposta, ai giornalisti avevo detto: «Ehm, ragazzi, sapete com’è, al Mugello verrà a vedermi Claudia Schiffer».
Poiché quelli del Fan Club sulla bambola avevano scritto Schiffer - ma come schifo - tutti poi hanno pensato che quella fosse la mia replica a Biaggi.
Invece non è vero. Era una scenetta pronta addirittura dall’anno prima, per Imola
‘96. Ma a Imola, in gara, ho rotto la candela e non ho vinto, così la gag è saltata.
Allora è stata rimandata al GP Italia del 1997.
Comunque, questo episodio non contribuì a creare un rapporto sereno e amichevole con Biaggi.
Il bagno di Jerez è stato, secondo me, la più bella trovata mai realizzata. La metto in cima al podio. Perché è anche l’unica che non abbiamo pensato e organizzato prima. Tutto è successo sul posto, durante il Gran Premio di Spagna 250 del 1999.
Entrare nel bagno a bordo pista è stata un’idea mia. E mi è venuta giocando a calcio. Sì, a calcio. All’epoca avevo l’abitudine di fare un giro di pista, in bici o con i pattini, il giovedì prima della gara. Quella volta, insieme a Michele, Uccio e Albi, abbiamo deciso di andare in giro per la pista giocando a calcio.
Tira, passa, crossa, lancia, e siamo arrivati all’ingresso della zona in cui il circuito si snoda dentro una sorta di grande stadio naturale; e ho notato che dentro la pista avevano messo una cabina, un bagno chimico.
Mi aveva colpito perché mi sembrava che stonasse con l’insieme: vedevo la collina, dove sapevo si sarebbe riunito il pubblico “della curva”, e il bagno nella parte bassa non stava bene per niente.
Però mi sono anche immaginato la folla, sui tre lati di questa tribuna naturale creata dalle colline; ho pensato a tutta la gente che urla e mi sono detto: “Se domenica vinco, mi fermo qui e vado dentro quel bagno”.
Non l’ho detto a nessuno, ho pensato solo a preparare la gara.
Domenica ho vinto. Sono arrivato lì, nel punto in cui era sistemato il bagno, mi sono fermato e ho appoggiato la moto. Le gente urlava, urlava fortissimo, pensava che stessi per andare vicino alle reti a festeggiare, come fanno i calciatori quando raggiungono la curva. Ma ho cambiato traiettoria, sono andato verso il bagno, e la gente continuava a urlare, perché non aveva ancora capito.
Sono entrato nel bagno e all’improvviso non si è sentito più niente. La folla, incredula, per un attimo ha smesso di urlare. È stato un momento impagabile. Sarà durato un paio di secondi, ma è stato incredibile, quel silenzio. Poi sono uscito, e la folla ha ripreso a urlare.
È stato bellissimo, indimenticabile. È stata l’idea più folle che abbiamo mai avuto.
Tanta gente che non aveva mai guardato una gara di moto con particolare passione, ha parlato solo di quella scena lì, e se ne parla ancora adesso che sono passati degli anni.
Perché è questo il senso che abbiamo sempre voluto dare alle gag: far ridere la gente, farla divertire. Per questo ho sempre voluto cose semplici, facili da capire, di grande immediatezza: perché la scenetta deve durare poco e far ridere subito.
E dev’essere legata a un episodio che ha fatto discutere. Nel 2004, ad esempio, mi sono presentato al Mugello col casco disegnato come una medaglia di legno. Non è venuta esattamente come pensavo io, ma è stata bella lo stesso. Venivo da due gare nelle quali ero stato quarto, una cosa insolita per me. Infatti tutti hanno iniziato a dire che ero già in crisi, che stavano emergendo i problemi che tutti avevano predetto quando ho lasciato la Honda per la Yamaha.
Nulla di nuovo, per l’ambiente: le solite chiacchiere, i soliti giudizi affrettati, le solite cose inutili. Proprio per questo decisi di fare un casco color legno: Perché mi ha sempre colpito quel detto secondo cui alle Olimpiadi chi arriva quarto riceve la medaglia di legno.
Così come nel 2003 scelsi la scena del recluso che scappa spezzando la catena ai piedi: ero un condannato a vincere, bastava che chiudessi una gara in seconda posizione, perdendo magari solo in volata, e mi davano già del pilota finito!
Quella del Pollo Osvaldo, però, è stata la sceneggiata che è durata di più.
È nata da una partita di calcio. Quindi, non per le moto. Per l’annuale sfida di pallone “scapoli contro ammogliati” di Tavullia. Facevamo quella partita ogni anno, col Fan Club. La tribù, che si può considerare la squadra degli scapoli in quanto eravamo i ragazzini, contro i più grandi, cioè gli ammogliati. Giovani contro “vecchi”.
Vale a dire, le compagnie di Tavullia. Noi in quel periodo eravamo la compagnia dei ragazzini e facevamo sempre un gran casino.
La sfida era diventata importante, molto sentita. Avevamo persino l’allenatore.
Un giorno Flavio Fratesi ci ha detto: «Ragazzi, quest’anno c’è anche lo sponsor!
Ma impone una divisa scelta da lui».
«Va bene, di fronte allo sponsor…» abbiamo commentato noi.
Arrivati alla partita, Fratesi ha estratto le maglie con lo sponsor: “Polleria Osvaldo”.
Già, perché in quel modo voleva dirci che noi eravamo dei polli!
«Non la vogliamo» abbiamo detto subito, offesi.
Alcuni si sono ribellati di fronte all’imposizione, e per protesta hanno giocato con la maglia al contrario.
Io in quell’anno avevo debuttato in 250, era il 1998, ed era stata una stagione dura.
In effetti, ero stato spesso un”pollo”. Ero veloce, ma Capirossi e Harada mi fregavano regolarmente nel finale. Soprattutto Harada. Ecco poi perché Fratesi pensò che quella maglietta sarebbe stata utile anche per una gara di moto.
Infatti arrivammo a Imola, in settembre. Io avevo voluto la mia Aprilia con i colori italiani, mi ero anche fatto dipingere i capelli con il tricolore. Mi sono presentato rigenerato, molto concentrato e sereno, dopo la pausa estiva. E ho vinto.
Quando mi sono fermato sotto la tributa del Fan Club, prima della variante bassa, è arrivato Flavio.
«Prendi questa, è la maglietta della partita» mi ha detto gettandomela addosso.
«Ma che cazzo ci faccio, io, con la maglietta della partita?»
«Non lo so, ma tu tienila che va bene: vai, vai…» ha esclamato.
Sono ripartito infilando la maglietta nella tuta. Mentre stavo finendo il giro d’onore mi chiedevo: “Ma cosa ci faccio io sul podio con la maglietta della Polleria Osvaldo?
Mi serve un’idea, e anche in fretta!”.
Quando ho visto arrivare i giornalisti, i microfoni delle televisioni, non sapevo ancora cosa dire. Ma all’improvviso, quando ho iniziato a parlare, mi è venuta l’idea:
«Adesso è giunto il momento di ringraziare il mio sponsor, Osvaldo, perché lui mi è stato vicino sin dagli inizi della mia carriera, sin dalle minimoto; ha sempre creduto in me, non mi ha mai fatto mancare il suo supporto anche in questa stagione in cui ho vinto poco, e da qui vedi gli amici veri. Allora io in questo momento felice voglio ringraziarlo pubblicamente!».
«Ma chi è questo Osvaldo?» hanno iniziato a chiedere tutti quanti. Alcuni erano molto perplessi; altri ci hanno creduto e mi hanno fatto persino i complimenti.
«Bravo Valentino, ti ricordi degli amici, sei riconoscente…» ha detto chi non si è fatto troppe domande sulla possibilità che esistesse davvero uno sponsor del genere.
Tra l’altro avevamo fatto anche lo slogan, sulla maglietta. Da una parte c’era scritto
“Pollo Osvaldo”, dall’altra “Tutti i polli conoscono Osvaldo”.
Ma per noi era finita lì. Ancora non sapevamo in quali casini stavamo per andarci a infilare. Infatti nei giorni successivi, cioè prima di partire per la gara di Barcellona, ci ha chiamato un ragazzo che costruiva le mascotte per le squadre di basket. Ha chiamato il Fan Club.
«Ho sentito che Valentino ha come sponsor una polleria; be’, io avevo fatto una mascotte a forma di pollo, per una squadra di basket, ma non è mai stata usata: può interessare?»
«Cosa aspetti? Portala subito!» gli è stato ordinato.
E lui l’ha portata.
Era così bello, quel pollo gigante, che abbiamo deciso che sarebbe venuto con noi a Barcellona. E l’abbiamo poi usato nel giro d’onore, dopo la mia vittoria, obbligando un nostro amico a infilarsi dentro la struttura per animarlo. Solo che a quel punto la storia del pollo è diventata più grande di noi.
Pochi giornalisti avevano creduto alla storia del Pollo Osvaldo. Anzi, quasi nessuno, per la verità. Ma poiché c’è sempre l’eccezione, uno c’era cascato in pieno: un giornalista Rai.
«Dai, Valentino, facciamo un servizio su Osvaldo, che è un personaggio positivo»
ci ha chiesto, un giorno, il giornalista della Rai. E noi ci siamo ritrovati in una situazione di grande difficoltà.
“Che facciamo? Non possiamo certo rivelare che è tutto inventato, dopo quello che ho dichiarato io sul podio, parlando di riconoscenza…” mi dicevo. Anche perché, in fondo, era divertente constatare che qualcuno l’aveva bevuta.
Allora abbiamo provato a scoraggiare il giornalista.
«Guarda che Osvaldo è un burbero, è timido, non vuole parlare con i giornalisti; non ce la fa proprio, non ci combini niente di buono. Lascia perdere, che è meglio.»
Niente, lui continuava a insistere.
«Facciamo venire questo giornalista, e ci inventiamo Osvaldo» abbiamo quindi deciso, a un certo punto, per risolvere il problema.
Ed è partita, ancora una volta, la nostra poderosa macchina organizzativa.
Abbiamo subito cercato chi avrebbe potuto interpretare Osvaldo. Abbiamo pensato a un nostro amico di Rimini, Stefano Bordoni, che lavorava al casello dell’autostrada.
Lui era un po’ grosso, aveva anche la barba, quindi ci sembrava il tipo adatto.
Poi, trovato Osvaldo, bisognava costruire la polleria. Uno del Fan Club, Palazzi, si è ricordato che il suo babbo aveva una casa in campagna dismessa; siamo andati là, l’abbiamo un po’ ripulita e in seguito riempita di polli. Poi abbiamo costruito l’insegna, disegnando lo stesso marchio delle magliette e riproponendo lo slogan.
Infine, immaginando un mezzo di trasporto degno di Osvaldo, abbiamo allestito un’Apecar-polleria mobile.
A quel punto eravamo pronti: avevamo la nostra Polleria Osvaldo.
«Se proprio vuoi venire, cerchiamo di fare qualcosa per te» abbiamo detto al giornalista Rai. Appena è arrivato, abbiamo iniziato la recita.
«Sai, Osvaldo proprio non ne vuole sapere, non vuol fare niente.» E mentre dicevamo queste cose, si è vista arrivare da lontano l’Apecar-polleria.
«Eccolo, è lui, è Osvaldo!» abbiamo gridato.
L’operatore ha acceso subito la telecamera, cercando di rubare qualche immagine.
«Dai, inseguiamolo!» ha detto uno della troupe.
«No, guarda, non ci fare litigare, lascialo stare» lo abbiamo pregato.
«Ma no, corriamogli dietro, andiamo!» hanno insistito.
«Va bene, ma se poi litighiamo è colpa tua» abbiamo chiarito, con tono serio.
«Ma va, andiamo!»
«E va bene…»
Quando siamo arrivati, Osvaldo ha recitato bene.
«Chi è, chi siete, andate via, ma chi vi ha portato qui!» ha cominciato a urlare.
«No, dai, Osvaldo» abbiamo fatto finta di supplicarlo.
«Via, andate via!» ha risposto.
«Va be’, adesso ci vado a parlare io» ho detto ai presenti, partendo in direzione di Osvaldo.
Siamo stati lì qualche minuto, facendo finta di discutere, e dopo la finta discussione sono tornato verso la troupe della Rai con aria soddisfatta.
«Ha detto che la fa!» ho urlato, e la notizia è stata accolta con grande sollievo.
Osvaldo accettava di rispondere a qualche domanda.
L’intervista sarà durata un quarto d’ora. E il finto Osvaldo ha anche detto cose intelligenti.
Il servizio su Osvaldo è andato in onda, regolarmente, sulla Tv di Stato.
Naturalmente nessuno di noi ha mai avuto il coraggio di raccontare alla Rai questa storia.
Anche perché, in fondo, era stata proprio una bella intervista.
La gag dei vigili è nata da un’altra considerazione. Nel 2002, cioè nella prima stagione della MotoGP, dopo poche gare era ormai opinione comune che io stessi dominando solo perché avevo una moto straordinaria. La mia Honda, dicevano tutti, andava troppo forte!
Quindi è nata l’idea di fermarmi dopo l’arrivo del Gran Premio d’Italia, alla fine del rettilineo del Mugello dove si passa a 340 all’ora. Lì mi avrebbero bloccato i vigili, appostati con l’autovelox. E mi avrebbero fatto la multa, per eccesso di velocità!
L’idea è stata di uno dei ragazzi del Fan Club, Stefano Franca, che di mestiere fa il maestro di violino. E lui ha anche interpretato la parte di uno dei due vigili.
La ricerca degli interpreti più idonei è partita dalle nostre esperienze adolescenziali. Vedevamo sempre che i vigili, quando ci fermavano perché avevamo esagerato con i motorini, erano sempre in coppia. Come i carabinieri. Ce n’era sempre uno magro, e un altro più grosso.
Il magro, chissà perché, era sempre il più cattivo, quello inflessibile. Il cicciotto era quello che ci diceva: «Dai, ragazzi, andate più piano che è pericoloso». Il magro tirava subito fuori il libretto e faceva la multa.
O almeno, a noi, da ragazzini, succedevano sempre queste cose.
Quindi decidemmo che ci servivano due figure: una magra, una più cicciottella.
Per il vigile magro abbiamo scelto appunto Stefano, il maestro di violino. Per il
“grosso” abbiamo ingaggiato Rino, il papà di Uccio.
Le uniformi erano vere, cioè proprio quelle dei Vigili Urbani di Tavullia. Per poterle avere, infatti, abbiamo dovuto firmare un foglio in cui se ne giustificava l’utilizzo.
Chiedemmo poi alla Dorna (l’organizzatore del campionato mondiale) il permesso di piazzare la pattuglia dopo l’arrivo, dove io mi sono fermato nel giro d’onore.
Prendendomi la multa.
Solo che, almeno per questa volta, era tutto uno scherzo.
8
Jeremy ha deciso dopo di me di abbandonare la Honda. Ma ha creduto prima di me nella possibilità di riuscire a vincere, con la Yamaha, sin dal primo anno.
L’ho capito nel novembre del 2003. Cioè durante un test che la Yamaha ha svolto in Malesia. Io non ho potuto partecipare, perché la Honda mi aveva negato il permesso di provare la Yamaha prima del 31 dicembre, giorno della scadenza del contratto.
Abbiamo deciso che sarei rimasto a casa, però sarebbe stato presente Jeremy.
Il suo parere era molto importante, per me. Lo ritenevo utile per capire quale fosse realmente la nostra situazione.
“Viene da vent’anni di successi con la Honda, riuscirà a individuare esattamente cosa serve al team della Yamaha per essere vincente” riflettevo.
Anche lui aveva realizzato che le difficoltà c’erano. Nonostante l’entusiasmo, Jeremy faceva fatica a nascondere i problemi che la moto aveva evidenziato nella stagione 2003. Erano complicazioni grosse: per questo ha scelto di essere presente ai test di novembre. Voleva rendersi conto della situazione che avrei trovato io, in gennaio.
In quel momento il Team Yamaha non era vincente, questo lo sapevamo tutti e due. Volevamo però capire al più presto il perché non lo fosse, che cosa gli mancasse.
Era quella, la nostra priorità, in novembre; cioè prima che io salissi sulla M1. Per questo ritenevo che il viaggio di Jeremy in Malesia fosse fondamentale.
“Mi basta che lui mi dica che ci sono i presupposti giusti per diventare vincenti subito” mi dicevo, mentre lo salutavo, alla vigilia della sua partenza per Sepang.
«Vado a vedere come lavorano e poi ti faccio una relazione, stai tranquillo» mi ha rassicurato lui.
Ma io, tranquillo, non lo ero affatto. Pensavo e ripensavo, aspettando le sue telefonate dalla Malesia. In quel periodo, ci siamo sentiti almeno due volte al giorno.
«Non ti preoccupare più, siamo a posto. Ho capito che in Yamaha c’è quello che ci serve!» mi ha detto nell’ultima telefonata, mentre ero in giro per Londra, in macchina.
«Ah sì, bene: dimmi com’è questa moto» ho chiesto subito, con un po’ di ansia e molta curiosità.
«Da quello che ho potuto capire, ha il comando del gas a destra, la leva della frizione a sinistra, quella del freno anteriore a destra…» Ha risposto così, in un tono molto serio. Siamo scoppiati a ridere, lui a Sepang e io a Londra.
Avevo capito il messaggio, e Jeremy era contento perché era riuscito a spiegarsi.
“La Yamaha è pur sempre una moto, dipende molto da chi la sviluppa e da chi la guida.” Ecco il suo messaggio. Dopo pochi mesi ero già nella condizione di dirgli che effettivamente aveva ragione lui.
Però, in quella telefonata finale, cioè quella in cui mi ha rassicurato, secondo me Jeremy ha un po’ bluffato: magari solo leggermente, ma lo ha fatto.
Ma non mi aveva disturbato, questo suo atteggiamento, perché sapevo che la sua positività sarebbe stata determinante per arrivare al successo finale. Lui aveva cercato di essere costruttivo: si era reso conto che i problemi c’erano, ma allo stesso tempo aveva anche capito che insieme li avremmo potuti risolvere. Non c’era alcun motivo, quindi, per iniziare a disperarci così presto. Io l’ho capito, e apprezzato, subito.
Poiché lo conosco bene, sapevo che la sua era una tattica: voleva innanzitutto portare positività nel nuovo gruppo, perché sapeva che in quel periodo, cioè nel momento iniziale della nostra avventura, la tranquillità, la fiducia, l’entusiasmo sarebbero stati importantissimi. Sarebbe stata la base sulla quale partire, insomma, perché era ciò che ci serviva di più. E io ero assolutamente d’accordo con lui.
Del resto, questo è Jeremy Burgess. È fatto così, è il suo modo di essere. Ed è anche il suo modo di intendere le gare, nonché il lavoro nel box.
Lui usa la calma, la riflessione, l’ottimismo, per arrivare alle sue intuizioni: è così che mette a punto la moto.
A me piace moltissimo, questo suo atteggiamento, perché se c’è una cosa che io proprio non sopporto sono le persone pessimiste. E quelle agitate.
Mi fa veramente arrabbiare chi analizza una situazione guardando innanzitutto i punti negativi. Mi trasmette subito nervosismo.
Jeremy è l’opposto: quando c’è una gara che non va bene lui fa la sua analisi, sempre basata su una visione ottimistica.
Non è un sognatore. Non è che lui veda cose che non esistono: però cerca di scorgere sempre i lati positivi, in modo da trovare poi la forza per superare quelli negativi. Questo modo di affrontare le cose lo condivido pienamente. Per questo io e Jeremy lavoriamo così bene insieme.
Ricordo sempre, quando rifletto sull’atteggiamento mentale di Jeremy, il GP
Germania 2001. Quello è stato un esempio al quale ho sempre attinto, in seguito.
Era un momento di grandissima tensione. Al Sachsenring sono arrivato settimo, ha vinto Biaggi e a quel punto mi sono ritrovato ancora al comando della classifica ma con soli dieci punti di vantaggio. Avevo corso male, e lo sapevo.
Dopo la gara stavo seduto sopra le casse che contengono la moto e i ricambi, ero giù di morale e attorno a me erano tutti abbastanza tristi. Inoltre vedevo già le iene che giravano attorno a noi, come per aspettare di mangiare la carcassa: vedevo cioè i giornalisti italiani, che sentivano già l’odore della preda ferita che sta per essere finita.
Volevano quindi parlare con me, ma io non avevo voglia di parlare con loro, né avevo qualcosa da dire sull’argomento. Quello che pensavo, lo volevo tenere per me.
Stavo parlando con Jeremy di questioni molto importanti, che secondo me avevano la priorità, quindi abbiamo detto ai giornalisti che ci saremmo visti più tardi. Ed è scoppiato un gran casino.
Era già successo altre volte di posticipare le interviste per motivi analoghi, ma in quella occasione i giornalisti hanno iniziato a dire cose senza senso: «Ah, ecco, adesso che avete fatto una brutta gara Valentino non vuole più parlare, complimenti, bell’esempio di sportività!».
Non lo dicevano direttamente a me, perché io ero dentro il box; ma sentivo le loro voci perché ero nel retrobox, cioè dietro la porta di metallo.
Ho continuato a stare seduto sulle casse, con le gambe ciondolanti: ero tutto incurvato, stringevo la testa tra le mani puntando i gomiti sulle gambe, vicino alle ginocchia.
Ero molto avvilito, ma anche piuttosto arrabbiato e nervoso. Avevo 22 anni, ero al mio secondo anno nella 500, stavo facendo esperienza ma ero anche il leader del Mondiale.
Jeremy è venuto da me, abbiamo iniziato a parlare.
Ha cominciato a fare l’analisi della gara, cercando i perché dei problemi, facendo poi considerazioni sulla situazione che stavamo vivendo. E mi sembrava di buonumore. Mi sono reso conto che tutta la sua analisi era basata sull’ottimismo.
«Non mi sembra un momento da prendere con così tanto ottimismo» gli ho detto io.
Jeremy mi ha sorriso, e sembrava perfino divertito.
In effetti, io dovevo essere in una situazione che poteva anche suscitare ilarità. Ma il fatto è che io non ho mai preso bene le giornate storte. Non mi sono mai divertito a prendere paga. Mi sono sempre arrabbiato quando sono stato battuto per un soffio, molte volte ho preso male anche un secondo posto, figuriamoci quella volta lì che sono arrivato settimo!
«Senti, questa è una pista che non ti è mai piaciuta» ha iniziato così, Jeremy.
«Arriviamo dai test in Giappone per la Otto Ore; la Honda ti ha obbligato a farli, quindi non sei giunto qui di buonumore, in più eri stanchissimo. Tutto questo ha minato la tua condizione psicologica, perché non avevi nessuna voglia di andare a fare quei test: oltre al fuso orario, alla fatica del viaggio, psicologicamente non sei arrivato qui con molta felicità addosso, quindi non eri nella migliore condizione per correre questo gran premio.»
Già questo discorso mi aveva fatto riflettere.
«Inoltre qui ti sono arrivate davanti cinque Yamaha, e succede abbastanza di rado.
Vuol dire che queste erano condizioni inusuali, quindi significa che la normalità è un’altra: siamo i più veloci, di solito.»
E a questo punto mi aveva già convinto.
«E poi, scusa, siamo comunque davanti noi. Con dieci punti. Che non sono pochi.
Quindi, in fin dei conti, che problema c’è?» ha concluso Jeremy.
Io l’ho guardato con occhi diversi.
«Ma sì, in effetti, pensandoci bene, hai ragione: ma che problema c’è!» gli ho detto io, guardandolo negli occhi. Mi era tornato il buonumore.
Avevo iniziato a vedere le cose mettendomi dal suo punto di vista, usando la sua positività, e ho scoperto che c’era effettivamente un’altra via per affrontare quella circostanza. Lì ho imparato che se ci sono due modi di vedere una situazione, è sempre meglio scegliere quello ottimistico. E così ho fatto. Mi sono messo a pensare al futuro, a quello che dovevamo ancora fare, quindi alle gare che ci aspettavano.
La tappa successiva era il Gran Premio della Repubblica Ceca, a Brno.
Tra la gara del Sachsenring e quella di Brno il campionato del mondo prevedeva una pausa di un mese, e io sapevo già che non avrei beneficiato di così tanto tempo, per le mie vacanze. Infatti dopo la gara in Germania sono partito per Suzuka, pur senza averne alcuna voglia, dove ho corso e vinto la Otto Ore.
Tornato dal Giappone, ho cercato di riposarmi. Ma non ci sono riuscito a lungo.
Già, perché in realtà ho dovuto sorbirmi un mese di commenti e articoli in cui si diceva che Biaggi mi aveva preso, gli mancavano solo dieci punti, e che questa volta mi avrebbe dato una bella lezione. Erano queste l’opinione e la sensazione manifestate da un’ampia parte della stampa e da altri personaggi.
Anche perché, quella di Brno, era la pista preferita di Biaggi: lì aveva vinto tante volte, su quel circuito si è sempre trovato molto bene. Quindi, era lecito ipotizzare che avrebbe impostato una gara d’attacco, mentre io avrei dovuto correre in difesa.
Come accade per tutte le grandi sfide, poi, alla vigilia non erano mancati neppure degli episodi tipici del tifo, quando ci si divide in due fazioni.
Addirittura, un gruppo di un paese vicino a Tavullia che aveva creato un Fan Club di Biaggi, aveva cercato di fare qualche azione di disturbo.
Sono cose che fanno parte del gioco, perché c’è sempre del movimento nelle varie tifoserie, ma avevano contribuito a fare aumentare tensione e nervosismo.
A Brno sono arrivato mantenendo un atteggiamento piuttosto dimesso. Nella conferenza stampa del giovedì, infatti, sono rimasto molto calmo. Ho lasciato parlare gli altri.
Stavo molto in disparte, e avevo anche tenuto gli occhiali da sole. Ero proprio di fianco a Biaggi.
«Non ti abbiamo mai visto così scuro in volto, così arrabbiato; è per caso la pressione?» mi hanno chiesto.
«No, sono così perché non mi piace la compagnia!» ho risposto io.
Venerdì, nelle prove, Biaggi è andato fortissimo. Era stato il più veloce. Io, solo settimo.
Mi aveva inflitto un distacco di un secondo e mezzo!
Sabato, invece, Biaggi ha ottenuto comunque la pole, ma io sono stato secondo a un decimo. Ero migliorato molto, insomma.
In gara lui è partito forte, cercando di imprimere subito un gran ritmo, ma sono riuscito a stargli dietro.
Stranamente, per quel periodo, sono infatti partito bene. Una cosa inusuale, perché in quegli anni la partenza spesso non mi veniva bene.
Quindi, la gara è iniziata con lui davanti e io dietro. Lui scappava, io inseguivo. Ed è cominciata anche una delle battaglie più dure e più dense di significati. È stata un po’ come la gara di Welkom. Anzi, forse di più. Perché lui voleva vincere il Mondiale, in quella stagione, e in quella fase del campionato doveva attaccare.
Doveva battermi.
Io facevo fatica a restargli dietro, perché lui spingeva molto e andava al massimo.
Ero impegnatissimo. Stavamo rischiando, tutti e due. Eppure dovevo tenere duro.
C’era un punto, cioè all’uscita della “esse” sinistra-destra che va in salita, in cui lui si girava sempre. Per controllare dove fossi. Io, quindi, cercavo di farmi ritrovare il più vicino possibile, in quel punto lì. E ogni volta che si girava, io staccavo per un attimo la mano sinistra dal manubrio e lo salutavo. Era il modo per fargli vedere che non ero al limite, che io ero sempre lì…
“Tutto a posto!” era il segnale che mandavo, salutandolo, ma non è che fosse proprio così. In realtà io stavo tirando moltissimo!
Ma lo stavamo facendo tutti e due. A forza di spingere, lui è caduto.
Siamo entrati in una curva a sinistra: era talmente piegato che è finito l’appoggio della gomma sull’asfalto, quindi la sua Yamaha ha perso l’aderenza al suolo ed è scivolata via. È stata una caduta lenta, quasi al rallentatore. Nulla a che vedere con quei botti che si davano con la 500. È come se la moto si fosse appoggiata sull’asfalto.
Ho percorso quel giro vivendo in uno stato emotivo anomalo. Un po’ strano. Non mi rendevo conto, ma probabilmente non volevo rendermi conto, che Biaggi era caduto.
Ero talmente concentrato sul mio unico obiettivo - non volevo farlo andare via, per non permettergli di allungare - che quando è scivolato ci sono quasi rimasto male.
“Forse non è vero, aspettiamo un po’…” ho pensato.
Poi, al passaggio successivo, ho visto i segni sull’asfalto.
“È scivolato davvero!” mi sono detto, con stupore.
Eppure ho continuato a tirare, anche se avevo un grande vantaggio sugli altri e mancava ancora una decina di giri alla fine.
All’improvviso ho cominciato a sentire un rumore provenire dalla mia NSR.
Assomigliava al suono di qualcosa che si sta allentando e che inizia quindi a vibrare.
Non mi è mai accaduto una cosa simile, su una Honda, e infatti non era successo niente. All’arrivo ho parlato ai meccanici del rumore, loro hanno controllato la moto ma non è emerso niente di insolito. Perché non c’era niente: ero io che mi ero suggestionato.
Me l’ero immaginato quel rumore.
Ma quella di Brno era stata “la sfida”. Sapevamo, tutti e due, che chi sarebbe arrivato davanti avrebbe avuto le maggiori chance di vincere poi il Mondiale. Ecco perché eravamo in questa condizione.
Io, prima della gara, parlando con Jeremy, dicevo: «Va be’, se lui vincerà e io arriverò secondo, guadagnerà cinque punti; però me ne resteranno altri cinque, con ancora diverse gare da disputare; quindi ce la giocheremo…».
Era un ragionamento che dimostrava come noi, in fondo, fossimo tranquilli. Ma non era proprio così: ero entrato anch’io in quella situazione così tesa, cioè in quel clima di sfida decisiva. Così quella di Brno sembrava la gara in cui ci saremmo giocati il titolo. E per certi aspetti, soprattutto a livello psicologico, era così.
È stata davvero una gara decisiva. Al di là della mia posizione in campionato, che con la caduta di Biaggi era diventata molto più confortevole, ciò che contava veramente era che io avevo reagito subito, e anche molto bene, ai problemi che avevo avuto al Sachsenring.
E ce l’avevo fatta anche grazie a Jeremy.
La recente esperienza che avevo fatto a Suzuka, dove avevo vinto una gara molto dura, nella quale avevo dovuto dare fondo veramente a ogni mia energia pur di vincere, e poi i miei colloqui con Jeremy, avevano prodotto un effetto estremamente positivo.
Ecco, questo suo atteggiamento, Jeremy l’ha trasmesso piano piano a tutta la Yamaha: e ha cominciato a diffonderlo quando è andato ai test di Sepang nel novembre del 2003.
Pensandoci bene, Jeremy avrebbe potuto iniziare parlando dei problemi, che c’erano; delle cose che non funzionavano, ed erano molte; delle cose da cambiare, e alcune andavano modificate in fretta.
Sinceramente, quando l’ho sentito, al telefono, e gli ho chiesto le sue impressioni, mi aspettavo di sentire altre parole. Cose del tipo «il quattro cilindri in linea non va bene, l’erogazione non è quella della Honda, neanche la potenza, il telaio è da rifare, la moto consuma troppo le gomme…». Tutte osservazioni vere, peraltro, perché la Yamaha 2003 era proprio così, in rapporto alla Honda che guidavo io. Quindi, se Jeremy mi avesse parlato in quel modo non mi sarei stupito. Ci stavano, in quella fase, dei commenti del genere. Mi avrebbero allarmato, certo, ma non sorpreso.
Tra l’altro io ho anche apprezzato, di Jeremy, l’aver accettato di prendersi delle responsabilità. Eh sì, perché partendo con l’elencare solo i problemi avrebbe anche in un certo modo scaricato le responsabilità. Sarebbe stato come dire: «Ci sono un sacco di guai, io te lo avevo detto, quindi se le cose non andranno bene non sarà certo colpa nostra: la Yamaha è la Yamaha…». Sarebbe stato come mettere le mani avanti.
Invece lui ha detto: «Starà a noi, metterla a posto!» e questo mi è piaciuto.
Lui, le sue responsabilità se le assume sempre. È equilibrato, sereno, ottimista: quando le cose vanno bene, ma anche quando non vanno per niente. E questo è sempre stato il nostro modo di lavorare.
Anzi, quando siamo passati in Yamaha, Jeremy mi è piaciuto ancora di più. E stato grande, nel modo in cui anche lui ha reagito quando ci siamo trovati in difficoltà. Già, perché prima anche lui si faceva un po’ influenzare dall’ambiente Honda. Quando si vinceva, col Team HRC, nessuno si scomponeva troppo: prendevano una vittoria come una cosa normale, in fondo logica, quindi nessuno si lasciava andare a un po’ di entusiasmo. E Jeremy, negli ultimi tempi con la Honda, si comportava un po’ allo stesso modo: ci metteva poco trasporto. Invece alla Yamaha è tornato come lui è di solito: tranquillo, sereno, ma anche concentrato e determinato.
Non è di quelli che arrivano urlando, facendo casino. Lo vedi sempre sorridente, contento; si lascia andare alle emozioni, gioisce liberamente. Se la gode, insomma, ma con calma.
Così facendo, Jeremy mi tiene calmo. Perché io, attorno a me, ho bisogno di gente tranquilla. Che mantenga un atteggiamento quieto ma positivo all’interno del box, e un profilo moderato all’esterno. Perché io sono così.
Un’altra cosa che mi è piaciuta, da subito, e che ci ha fatto andare sempre d’accordo, è che Jeremy non gira tanto intorno alle cose: è molto diretto. Proprio come lo sono io.
Noi parliamo, ci diciamo le cose importanti. Punto. Non c’è bisogno di stare lì a parlare un’ora in più, per poi dirsi cose non essenziali o poco importanti. Jeremy non è uno che sta nel box fino alle dieci di sera tanto per vedere se c’è qualcosa da fare, o per controllare la squadra, oppure chissà cosa…
Si parla, si lavora, se non ci sono problemi quando è finito il lavoro ci si rilassa. E
questo, io l’ho sempre apprezzato molto: sia in lui che nei suoi ragazzi, che poi sono diventati i miei meccanici.
Jeremy è metodico, ma soprattutto sa esattamente quello che vuole: ecco perché noi abbiamo sempre fatto dei meeting tecnici molto corti. Sappiamo sempre cosa dirci, siamo abituati a concentrarci solo sulle priorità: cerchiamo di individuare subito il problema principale, lasciando perdere quelli collaterali; e poi ognuno si mette a lavorare. Io indico le mie sensazioni, Jeremy le confronta con i dati della telemetria.
Andiamo a cercare i punti importanti, guardiamo le gomme, le regolazioni, facciamo le comparazioni, stabiliamo cosa fare. E basta. Il resto sono chiacchiere inutili. Il nostro concetto di moto da corsa è l’essenzialità.
Lui ha sempre le idee molto chiare: pensa, ragiona, analizza. Non si fa niente fino a quando lui non pronuncia la fatidica frase: «Facciamo così!». Io ascolto, analizzo a mia volta, e quando dico «va bene» ci muoviamo rapidamente. Perché siamo sempre in sintonia, la pensiamo allo stesso modo, non mettiamo mai in dubbio la valutazione dell’altro. Ci fidiamo.
Dopo aver svolto il nostro lavoro, ci rilassiamo e riusciamo anche a divertirci parecchio. Dentro e fuori dal box.
Io non sopporto quelli che parlano in continuazione, che ripetono le cose. Non serve a niente. Anche Jeremy è come me. Anzi, a volte, durante i meeting tecnici, finisco per essere io quello che si perde un po’ in chiacchiere. Noto che lui a un certo punto non mi sta più a sentire: fa dei cenni con la testa, ma in realtà vedo che inizia a pensare ad altro, a guardarsi intorno. Gli altri continuano ad ascoltare, invece lui si estranea, perché la sua attenzione è già su altre cose. Non va via, non sarebbe carino, però quando ritiene che le cose importanti ce le siamo già dette, lui si isola. E inizia a pensare. Questo lo apprezzo molto, perché anch’io faccio così.
Io e Jeremy comunichiamo anche con gli sguardi. Oltre che con le parole, naturalmente. Usiamo l’inglese, e non è stata una scelta ma un obbligo.
«Dovresti imparare bene i termini tecnici, ma io mi impegnerò comunque a imparare un po’ l’italiano, così ci veniamo incontro» mi ha detto, appena sono arrivato in Honda, nella sua squadra, alla fine del 1999.
Io i termini tecnici li ho imparati, lui non ha appreso una sola parola di italiano.
All’inizio ci ha provato, ma erano tentativi che sapevo non avrebbero portato a niente. Quando ha visto che io ero tutto impegnato a impadronirmi dei termini tecnici in inglese, e quando ha capito che l’italiano non è essenziale per la sua carriera o la sua vita, non ha più fatto niente.
Quindi, Jeremy in italiano sa dire più che altro qualche parolaccia, che naturalmente ha imparato da me o da qualche mio amico, ma per il resto non sa dire assolutamente niente.
E questa, gli rinfaccio ogni tanto, naturalmente scherzando, è stata l’unica promessa che non ha mantenuto.
Però devo anche riconoscere che quando faccio degli sfondoni parlando in inglese, e accade molto spesso, lui non mi corregge: cerca di capire il senso delle mie frasi, che a volte sono un po’ strampalate, quindi a quel punto è lui che si adatta a me.
Anche perché lui sa bene che se iniziasse a prendermi in giro per il mio inglese, io gli rinfaccerei subito la storia del suo italiano…
Anche i ragazzi del team hanno appreso la filosofia di Jeremy. Quel modo di pensare e di fare è comune a tutti. Sono bravi a fare il loro lavoro, ma sono sempre precisi ed essenziali anche nelle cose che dicono.
Jeremy è quasi filosofico, nelle sue esternazioni, tanto è vero che all’interno della squadra abbiamo ben presto iniziato a chiamarlo “il saggio”.
Quando parliamo, ogni tanto per citare una dichiarazione di Jeremy ci diciamo:
«Allora, come dice il saggio…» e poi ripetiamo quello che ha sentenziato lui.
Jeremy ascolta, e dopo qualche minuto viene fuori con la sua frase che riassume il concetto, in modo anche ironico. Dice le cose come stanno.
Un’altra caratteristica che ci ha legati moltissimo è la sua mentalità vincente: lui ha sempre un’enorme voglia di primeggiare. A volte persino più di me.
Già, lui vorrebbe arrivare primo in tutte le gare. Vincere sempre. Non gli interessano gli eventuali problemi, lui vorrebbe vincere comunque.
Naturalmente, se prendo paga, non è che viene da me a protestare, dicendo che avrei potuto comportarmi meglio, che avrei dovuto fare di più. Non si occupa di problemi legati al modo di guidare. E anche questa è una cosa inusuale: di solito tutti hanno sempre consigli da dare, si occupano di cose che dovrebbero riguardare solo il pilota, e a volte i problemi nascono proprio da lì. Da questa interferenza. Per me, questa è sempre stata una cosa importantissima: ognuno deve fare il proprio lavoro, e in pista ci va il pilota.
Se Jeremy pensa che tutti noi avremmo potuto fare meglio, logicamente lo dice, ma cerca sempre di farlo con calma; non è che sta lì a disperarsi o a rompere troppo i coglioni, come fanno tanti team manager. Non ti mette mai addosso della pressione inutile.
Quindi, uno dei maggiori meriti di Jeremy Burgess, nella stagione 2004, cioè all’inizio della nostra avventura con la Yamaha, è stata l’immensa positività che lui ha portato nella squadra, addirittura nell’intero reparto corse, fino alle stanze dei dirigenti.
Quando ha cominciato a crederci, si è dato completamente alla causa. Soprattutto, ha iniziato subito a credere che avremmo potuto vincere già al primo tentativo.
«Abbiamo due anni: nel primo è impossibile che si vinca ma nel secondo ce la possiamo fare» ho ipotizzato subito io, quando abbiamo iniziato a pianificare il lavoro.
Lui mi ha guardato facendo una smorfia strana; era un po’ perplesso.
«Mettiamo a posto la moto, e magari in sette-otto gare riusciamo a essere lì davanti» ho continuato, spiegando le mie aspettative.
Jeremy ha continuato ad ascoltare e a guardarmi; poi ha iniziato a dirmi cosa pensava lui, riguardo al nostro piano di lavoro.
«Certo, si può anche fare così, ma io penso che possiamo vincere subito» mi ha detto, con la solita calma.
«Subito? Cioè, nel primo anno?» ho chiesto. E questa volta ero io a essere stupito, perché è quasi impossibile trovare un tecnico che si sbilancia così tanto prima di iniziare un’avventura molto complicata.
«Sì, subito» ha confermato lui.
«Spiegamela un po’, questa» l’ho provocato.
«Vedi, io non sono mai partito per partecipare a un campionato senza sapere che avrei potuto vincerlo; e non voglio cominciare adesso.»
L’argomentazione era interessante, senza dubbio. Le sue parole, in effetti, avevano un senso.
«Guarda, non dobbiamo rifare l’errore del 2000. Te lo ricordi, vero?» mi ha poi interrogato.
«Certo che me lo ricordo!» ho prontamente risposto.
«Bene, non lo dobbiamo fare mai più!» ha sentenziato Jeremy, chiudendo di fatto la discussione.
Nel 2000 avevamo effettivamente commesso un errore. Non ci abbiamo creduto fin dall’inizio, alla possibilità di conquistare il titolo. Io ero alla stagione d’esordio nella 500, quindi nel nostro primo anno di collaborazione. Avevo 21 anni. Siamo partiti pensando che sarebbe stato impossibile vincere già al debutto, cioè in quella stagione 2000, e alla fine ci siamo pentiti. Perché, pur senza impegnarci troppo, alla fine Kenny Roberts non era poi così lontano. Aveva sì un certo vantaggio, ma io avevo corso pensando solo a fare esperienza, non mi sono preparato per puntare al titolo. Infatti, analizzando le mie prestazioni e quelle degli altri, quindi l’andamento del campionato, siamo arrivati alla conclusione che avremmo potuto farcela.
Jeremy in questo modo mi ha fatto capire che in effetti avremmo dovuto attaccare subito, sin dalla stagione 2004. Anche se eravamo al debutto, con la Yamaha.
«Dobbiamo preparare la moto pensando di vincere subito. Già la prima gara!» mi ha proposto lui. Era davvero una prospettiva eccitante.
È Jeremy, quindi, che mi ha spinto a pensare in quest’ottica. Sì, a Brivio, durante le trattative, avevo detto che avrei voluto una moto per arrivare primo a Welkom, ma è stato poi Jeremy a trasmettermi la reale convinzione sulle nostre possibilità di riuscita.
Non solo. Lentamente ma inesorabilmente, Jeremy ha fatto la stessa cosa nei confronti di tutti gli uomini della Yamaha. Già, è andato a stuzzicare anche loro, uno per uno. È riuscito a tirare fuori la motivazione in ognuno di quelli che si sono occupati del progetto.
Ed è così che è andata, in effetti. Abbiamo fatto un grandissimo lavoro durante la stagione dei test invernali, e abbiamo poi iniziato a vincere subito. Sin dalla prima gara, in aprile.
Durante la mia tradizionale vacanza in montagna, in gennaio, quando vado a sciare con i miei amici, ero molto tranquillo. Ma aumentava, giorno dopo giorno, l’attesa.
«Perché non fai 200 chilometri in più, quando rientri, e passi per Monza?» mi ha proposto Davide Brivio, un giorno, durante una telefonata.
«Sono arrivate le tue moto dal Giappone: sono qui, da noi. E poi arriva anche Jeremy, con i ragazzi, per iniziare a lavorarci su» mi ha spiegato.
Inutile sottolineare come ho reagito: quando è finita la vacanza ho fatto le valigie, ho sistemato in macchina lo snowboard e tutta la mia roba, e dopo aver lasciato il nostro paesino di montagna ho fatto rotta direttamente su Monza. Perché è lì, a Gemo di Lesmo, accanto alla pista di Monza, che sorge la sede italiana della Yamaha. Ed è lì che la squadra ha la sua base.
Quando mi sono presentato, avevo con me anche qualche amico; non potevo certo lasciarli a piedi. Ma non ci ha fatto caso nessuno.