VII

Una casa nuova di zecca

Dopo il naufragio della Fassa Bortolo, rischiavo di restare a piedi.

Per fortuna Alex Carera mi trovò un contratto di tre anni – il massimo al quale un ciclista possa aspirare – con la Liquigas.

Ero contento come una pasqua di essere rimasto nel Pro Tour in una squadra italiana, e presto mi resi conto che Alex aveva scelto per me una realtà seria e attenta a far crescere senza pressioni eccessive i propri giovani.

Il mio nuovo team era finanziato dalla divisione sportiva dell’azienda omonima, specializzata nella distribuzione di GPL, e non si concedeva presentazioni kolossal con star della televisione, ma badava al sodo.

Le redini dell’équipe erano affidate a Roberto Amadio, un veneto attentissimo a ogni aspetto della nostra preparazione, che non mancava mai di sottolineare l’importanza del concetto di “squadra”.

«Nessun ciclista può vincere da solo, per cui è fondamentale che vi fidiate l’uno dell’altro» spiegò il primo giorno di ritiro invernale a Moena. «Magari non diventerete tutti amici per la pelle, ma solo conoscendovi bene potrete apprezzarvi e aiutarvi nel momento del bisogno.»

Detto questo, ci fece calzare le racchette da neve per portarci a fare una passeggiata in mezzo ai boschi innevati. Nei miei anni nel team dalle maglie verde elettrico, sarebbe diventata una costante.

Era una persona molto diversa dal Sergente, ma, come lui, era un perfezionista, e pretendeva che i suoi direttori sportivi gli riferissero ogni sillaba che captavano dai corridori. Se c’erano avvisaglie di una rivalità, o di un semplice malumore, voleva saperlo all’istante.

Il suo uomo di fiducia era anche un amico, il conterraneo ed ex compagno di squadra Stefano Zanatta, mento squadrato e chioma incolta a ricordo della frangia che aveva portato da ragazzo. Entrambi avevano passato da poco i quarant’anni, e lavoravano per vincere come tecnici tutto quel che era sfuggito loro da ciclisti.

Completavano l’organico dei direttori sportivi altri “splendidi” quarantenni: Mario Chiesa, che avevo già incrociato alla Fassa, Dario Mariuzzo e l’ex decano della Nazionale Mario Scirea. Nei miei anni alla Liquigas avrei visto partire ciclisti e arrivarne altri, ma loro – e Zanatta in primis – sarebbero rimasti per molto tempo i miei punti di riferimento.

Il progetto della proprietà di impostare un lavoro a lungo termine era già evidente dall’età relativamente bassa dei tecnici, ma risultò ancor più chiaro quando facemmo la conoscenza del condottiero della squadra, Danilo Di Luca. Il temuto Killer abruzzese era – almeno finché correvi per lui – un formidabile motivatore, quello che nel calcio si sarebbe definito un uomo capace di “fare spogliatoio”.

«Quest’anno, ragazzi, bisogna vincere il Giro in faccia a tutti» fu la sua prima dichiarazione. «È tempo che la finiscano, i team stranieri, di venire a fare i padroni in casa nostra! Siamo o non siamo la migliore squadra d’Italia? Be’, ve lo dico io: lo siamo eccome, e mi dispiace per gli altri. Siamo ancora giovani, ma noi – e non la Lampre, e nemmeno quei pellegrini della Milram – diventeremo grandi come un tempo la Mapei. Vinceremo tutto quel che c’è da vincere. E allora, credetemi, i traditori che sono strisciati a mendicare un contratto all’estero torneranno con la coda fra le gambe. Tutti d’accordo, ragazzi?»

Potevi non essere d’accordo, a ventun anni appena compiuti, con uno così?

Correre per la Liquigas non era soltanto un lavoro. Era una missione, capace di farti sentire parte di una strategia votata al trionfo delle forze del bene.

E allora poco importava se, al debutto nella Milano-Sanremo, chiudevi soltanto al settantesimo posto, o se ti ritrovavi fuori dai giochi alla Liegi-Bastogne-Liegi: c’era sempre un nuovo obiettivo da inseguire, e non dubitavi per un istante che, presto, sarebbe arrivato anche il tuo momento.

Il mio arrivò il 22 marzo 2006, nella seconda tappa della Settimana internazionale di Coppi e Bartali. C’era anche il grande Paolo Bettini in corsa, e quando partii sui pedali per andarmene, sentii il suo gregario Bramati che diceva, con aria indecisa fra sufficienza e apprezzamento: «O Betto, l’hai visto che gamba quel giovane?».

«Dobbiamo starci attenti, Brama» aveva risposto Bettini, «altrimenti in due o tre anni quello ci fa il pelo.»

Sentir parlare di me in quei termini da un campione come lui mi diede una carica incredibile. Non mi fermai più sino al traguardo di Faenza, e conquistai così la mia prima vittoria da Pro.

La dedicai a tutti: alla mia famiglia, al Franceschi e agli amici di Mastromarco, ai miei compagni di squadra, a Elena, a Carera e, se non mi avessero fermato, sarei andato avanti ancora un pezzo.

Un altro compagno di squadra importante era Franco Pellizotti, chiamato il “Delfino di Bibione”, anche se, ormai da tempo, la sua base era a Conegliano. Ottimo scalatore, in gruppo si faceva riconoscere: aveva un gran naso a punta e, a ventott’anni, portava ancora i capelli, biondi e ricci, lunghi fino alle spalle.

Non appena mi sapeva libero da impegni, mi invitava a raggiungerlo: «Come fai ad allenarti da solo? Vieni subito su, c’è anche Zanatta! Dài, che pedaliamo un po’ insieme!».

Così saltavo sull’Audi, sistemavo le mie cose in albergo e uscivo con lui. Mi dava un sacco di consigli utili, soprattutto su come impostare la gara. Nella prima parte delle corse il “Pelli” non lo vedevi mai, faceva sempre finta di stare male, poi partiva con dei guizzi che ricordavano davvero i salti del mammifero marino dal quale aveva preso il soprannome.

Quell’anno, Franco arrivò ottavo in un Giro d’Italia stravinto da Ivan Basso. Il nostro capitano Danilo Di Luca, a dispetto di tutti i proclami e dei suoi furiosi tentativi di recuperare il distacco, non riuscì a classificarsi neppure fra i primi venti. Il Killer annunciò che avrebbe provato a rifarsi al Tour, ma in quell’inizio d’estate non furono le sue dichiarazioni a tenere banco.

Il mondo del ciclismo professionistico, infatti, era stato sconvolto dall’ennesimo scandalo legato al doping, e questa volta i nomi coinvolti erano molto pesanti.

La cosiddetta Operación Puerto era cominciata in Spagna con una perquisizione nel laboratorio di un medico chiamato Eufemiano Fuentes; benché avesse una formazione da ginecologo, il dottore era ben noto per le consulenze che forniva a numerosi sportivi di alto livello. Le forze dell’ordine avevano rinvenuto una sostanza chiamata in gergo “la polvere di madre Celestina”, e le analisi non avevano tardato a chiarire a cosa servisse: la polvere era destinata a coprire le tracce dell’assunzione di EPO, quindi ad aggirare i controlli antidoping.

In seguito a una fuga di notizie, vennero fatti i nomi di clienti illustri del medico: ciclisti di vertice, ma anche la star del tennis Rafael Nadal e una nutrita pattuglia di calciatori del Real Madrid. Seguì una smentita ufficiale del governo spagnolo, in cui si dichiarò che non c’erano né tennisti né calciatori coinvolti. Perciò, alla vigilia del Tour de France, il primo senza Armstrong dopo il suo clamoroso settennato, nell’occhio del ciclone restava solo il mondo del pedale.

Fu così che la tempesta, di dimensioni senza precedenti, si abbatté su intere squadre e su singoli ciclisti che avevano incautamente avuto relazioni con lo spregiudicato medico spagnolo. Almeno trenta corridori erano sospettati, e le verifiche avrebbero richiesto procedure lunghe e complesse. Il Tour, però, doveva partire a giorni, non poteva essere rimandato: così, con una decisione senza precedenti, vennero preventivamente esclusi tre dei favoriti, ovvero i corridori che si erano piazzati immediatamente alle spalle di Armstrong nell’ultima edizione della corsa: Ivan Basso, Jan Ullrich e Francisco Mancebo.

Ci restai di sasso. Da un lato ero contento che si facesse pulizia, mettendo in chiaro che non sarebbero state tollerate ulteriori schifezze, dall’altro non mi piaceva quella forma ipocrita di giustizia sommaria, che spingeva gli organizzatori a scaricare tutti i mali del ciclismo sui nomi più in vista. Un conto, infatti, era squalificare chi era stato beccato a doparsi, un altro impedire la partenza a chi doveva ancora essere giudicato.

Questo, però, sembrava essere un ragionamento troppo sottile per l’uomo della strada, che si lascia suggestionare dai titoloni del tritacarne mediatico e non fa differenza fra un avviso di garanzia e una condanna. Per l’opinione pubblica, i ciclisti coinvolti erano già colpevoli per il solo fatto di apparire sui giornali e alla tivù in relazione all’Operación Puerto. E, in un Paese come il nostro, dove tutti si sentono fenomeni mancati per un pelo, tanti provavano un malsano piacere nel dare addosso al campione in difficoltà. L’avevano fatto con Pantani, passato da idolo a reietto – per poi tornare a essere celebrato post mortem –, e ora lo facevano con Basso.

Io non avevo prove di nessun tipo, ma mi sembrava impossibile che Ivan si fosse lasciato aiutare dagli stregoni della chimica. Perché uno come lui, che poteva fregiarsi di due podi al Tour e di un Giro d’Italia vinto a mani basse, doveva rischiare di compromettersi la carriera?

Non importava. Per la gente era diventato un mostro da sbattere in prima pagina. Anzi, lo eravamo diventati tutti. Anche chi non sapeva nemmeno dove stesse di casa il doping. Così, a forza di sentir ripetere che nel mondo del ciclismo c’era del marcio, le persone si convincevano che era tutto marcio, e l’intero sport perdeva credibilità.

Io, che ero diventato un professionista a forza di sacrifici, quando sentivo dire che il nostro era un mestiere disonesto andavo in bestia, soprattutto quando quelle accuse gratuite arrivavano da chi, in cuor suo, ci invidiava: dagli amatori, che coltivavano il sogno di vincere una gran fondo qualsiasi, o dagli ex dilettanti, che non erano riusciti a fare il salto di qualità perché si erano allenati poco e male.

Capitò persino questo. Nel bel mezzo di un allenamento con Pellizotti, ci fermammo a una fontana per riempire le borracce, quando un gruppo di ciclisti della domenica ci squadrò come fossimo dei criminali.

«Cosa ci fanno qui il Delfino e lo Squalo?» domandò, con aria polemica, un omone con le basette a punta e il pizzo da moschettiere. Indossava un’improbabile maglia zebrata dell’Acqua & Sapone, replica di quella resa celebre da Cipollini, ma il Cipo, lì dentro, ci sarebbe stato due o tre volte.

«Si beve» gli feci. «Perché?»

«Così voialtri bevete anche acqua?» chiese lui, suscitando le risatine dei compagni.

Ebbi la tentazione di tirargli la borraccia sul grugno, ma Franco se ne accorse e mi invitò a lasciar perdere.

«Non dar loro soddisfazione» mi consigliò. «Vogliono solo divertirsi un po’ prima di andare a farsi una mangiata.»

Così ripartimmo per la nostra strada, sfottuti dagli “hop, hop, hop” di quei deficienti.

Solo chi fa onestamente il corridore, il massaggiatore o il dirigente sa quanta fatica c’è dietro il nostro mestiere, così decisi che, da lì in avanti, ne avrei parlato solo con loro.

Quel Tour, partito sotto una cattiva stella, si dimostrò una débâcle per la Liquigas: il Killer Di Luca, tormentato da un’infiammazione al sottosella – la stampa parlò anche di infezione alle vie urinarie –, dovette ritirarsi dopo una sola tappa.

Vinse un ex gregario di Armstrong, Floyd Landis, che ben presto sarebbe stato squalificato, e la nostra squadra non riuscì a piazzare un solo uomo fra i primi cinquanta della classifica.

Né Amadio né Zanatta, però, fecero tragedie: eravamo un team giovane, e il tempo era dalla nostra.

Nella seconda metà di agosto ci trasferimmo sulla costa del mare del Nord per la seconda edizione dell’Eneco Tour, la corsa che aveva sostituito nel calendario internazionale il vecchio Giro d’Olanda.

Nei primi giorni di gara, adatta ai velocisti, figurarono bene i miei nuovi compagni Manuel Quinziato ed Enrico Gasparotto. La quarta tappa, invece, era una cronometro intorno alla cittadina di Landgraaf, celebre per il festival rock più vecchio d’Europa, e lì anch’io ebbi la mia chance. Filando come una furia lungo le dighe e all’ombra dei mulini a vento, feci un balzo avanti in classifica e mi posizionai al terzo posto.

Mentre l’americano Hincapie e il tedesco Schumacher lottavano per la leadership assoluta, io difesi la mia posizione sino alla fine, determinato a non cedere come un fante sul Piave, e così conobbi il mio primo podio nella classifica finale d’una corsa a tappe internazionale.

Pochi giorni dopo ci trasferimmo in Bretagna per lo storico Grand Prix de Ouest-France, che si correva dagli anni Trenta.

All’ultimo giro mi ritrovai nel gruppetto di testa insieme al mio ex compagno Flecha, a Popovych e Mori, e quando Juan Antonio mi disse: «Dài, Squalo! Andiamo, andiamo, andiamo!» scrollai le spalle. Sperava che lo tirassi sino alla fine, per provare a fregarmi in volata, così mi rifiutai di collaborare.

«No, io non tiro più» gli risposi. «Tanto, se andiamo, ci riprendono all’ultimo chilometro.»

Il finale di gara era in leggera salita: mi misi io alla ruota di Flecha, per risparmiare energie in vista degli ultimi metri. Lo scafato Pellizotti sarebbe stato fiero di me. A un certo punto ci spostammo a ventaglio dalla destra della carreggiata verso il lato opposto, e sentii che era il mio momento: risalii la pattuglia spingendo in piedi sui pedali e, quando gli misi la ruota davanti, Flecha mollò. Così andai dritto fino al traguardo.

“Porca miseria!” mi dissi. “Stavolta li ho fregati io!”

Era il mio primo successo all’estero, e i ragazzi della Liquigas mi festeggiarono come se avessi vinto la più prestigiosa fra le classiche.

Si viaggiava senza sosta. Il primo giorno d’autunno ero a Salisburgo, convocato per i miei primi Mondiali da Pro.

Quella volta dovetti accontentarmi di partecipare alla cronometro, anche se sapevo che non avrei combinato nulla: c’erano troppi specialisti in giro, e infatti arrivai a malapena fra i primi venti.

Vinse Cancellara, il mio ex compagno alla Fassa – l’unico uomo al mondo al quale avessi visto piegare un “53” –, ma non rimpiansi di trovarmi in Austria: nella prova in linea, alla quale sognavo di partecipare, vidi vincere Paolo Bettini.

Il Grillo livornese si era issato sul tetto del mondo, l’Italia era di nuovo al top fra le nazioni. E io, che avevo gioito per lui vedendogli vincere l’oro olimpico in televisione, mi sentii un privilegiato a partecipare alla sua festa.

Il minuto Bettini era un uomo dal cuore grande.

Me lo dimostrò tre settimane più tardi al Giro di Lombardia, che lui vinse e che io non riuscii neppure a concludere.

«Questa è per te, Squalo» mi disse sfilando la maglia iridata per regalarmela.

Non potevo credere ai miei occhi, così lo minacciai: «Betto, guarda che la tengo sul serio».

«Te la regalo» ribadì con un sorriso. «Che un domani non si dica che non ho saputo riconoscere i miei eredi.»

All’inizio del 2007, Danilo Di Luca era un animale ferito: nell’annata precedente aveva collezionato fiaschi al Giro, al Tour e anche alla Vuelta.

«Quest’anno, ragazzi, dobbiamo far vedere chi siamo!» proclamò al primo ritiro della stagione, mentre pedalavamo fra le abetaie imbiancate di Moena. «Dobbiamo spaccare tutto! Si comincia a sbaragliare la concorrenza nelle Ardenne, e non si smette più. Dritti fino a ottobre! Questo è l’anno del vincere o morire!»

Decisamente la grinta non gli mancava.

«Mi piace questo approccio» intervenne Zanatta, fermandosi di colpo. «Adesso, però, ascoltatemi tutti.»

Ci disponemmo in semicerchio intorno a lui. Aveva il fiatone, così, prima di parlare, sbuffò e si riempì i polmoni di ossigeno.

«Sapete tutti che genere di discorsi si fanno in giro» esordì con aria grave. «Noi dobbiamo essere l’emblema di un ciclismo nuovo e pulito. Meglio una vittoria in meno, che un casino in più. Mi capite, ragazzi?»

Sul nostro gruppo scese un silenzio tombale.

«Avete visto come vanno a finire le squadre di chi fa il furbo. E noi non abbiamo bisogno di furbi che sputtanino il lavoro di tutti. Per cui voglio essere molto chiaro: se qualcuno si fa beccare con le mani nella marmellata, il minuto dopo è fuori. Non quando la notizia esce sui giornali, o quando il giudice sportivo decide sul suo caso. Il minuto dopo» ripeté. «Sono stato chiaro?»

«Così si parla» approvò il Killer. «Abbiamo degli obiettivi da raggiungere. Se qualcuno mette la squadra nei guai, prima ancora che con i dirigenti dovrà fare i conti con me.»

Subito dopo partimmo con la squadra per Tenerife. Ci si allenava senza sosta alle pendici d’un vulcano chiamato Teide, e trovavo il tempo di chiamare Elena soltanto una sera ogni due o tre. Parlavamo sempre di una vacanza da fare insieme, non necessariamente in una località esotica o in alberghi costosi, che, in ogni caso, non mi sarei potuto permettere. Ci sarebbe bastato un periodo tranquillo, nel quale dedicarci esclusivamente l’uno all’altra, e le assicurai che un giorno o l’altro ce lo saremmo potuti concedere.

«Ma quando?» fece lei una volta. «Sei sempre impegnato fin sopra i capelli: se non son gare, son ritiri. E io sto sempre ad aspettarti.»

«Amore mio» sospirai. «È la storia di tanti. Pensa a cosa dovrebbero dire le fidanzate dei marinai. O di chi fa il tecnico sulle piattaforme petrolifere, con turni lunghi mesi.»

«Sarà» sospirò lei. «Ma io vorrei vederti di più. Tutti i giorni, vorrei vederti. Mi piacerebbe trovarci insieme a casa, alla fine della giornata, e raccontarci come sono andate le cose. Invece siamo sempre appesi a un telefono del cavolo.»

«Credi che a me non piacerebbe?» domandai. «Ma è inutile sognare. È solo una scorciatoia, e le scorciatoie non portano da nessuna parte. Bisogna avere pazienza e costruire le cose un giorno alla volta.»

«Dici sempre così» protestò.

«Ti fidi di me?» chiesi. Non attesi la sua risposta e aggiunsi: «Vedrai che un giorno, più vicino di quanto non credi, avremo tempo per noi. E anche una casa».

«Come no. E una barca a vela, e un castello.»

«Perché fai così, Elena?» domandai, cercando di tenere a bada l’irritazione. «Proprio non ti fidi di me. Credi che sia qui in viaggio di piacere?»

Non rispose.

«Sto faticando come uno schiavo sumero, invece.» Questa mi era uscita bene. «E lo faccio perché ho un obiettivo, capisci? Ma non sarà sempre così. Quando sarò affermato, avrò più tempo, e potremo cominciare a organizzare le cose.»

Erano parole magiche, con lei. La semplice idea di poter, un giorno, “organizzare le cose” aveva il potere di calmarla all’istante, o distrarla. In ogni caso, scacciava le lamentele e la sfiducia. Così si poteva tornare, nonostante i nervi un po’ a pezzi, alle dolci moine da fidanzati.

Quando vennero annunciati i programmi della squadra per la prima parte della stagione, scoprii che quell’anno, finalmente, avrei partecipato al Giro d’Italia.

Era un sogno che coltivavo sin da piccolo, e Zanatta studiò per me un programma mirato di avvicinamento a quella che – mi assicurò – si sarebbe dimostrata una faticaccia.

«È come partire in barca» spiegò. «Per tre settimane si resta tagliati fuori dal mondo, così bisogna pensare prima a tutto quello che ti servirà a bordo. Nel nostro caso, significa arrivare con le gambe brillanti.»

Per entrare a pieno regime, in aprile andai a correre le quattro tappe del Giro del Trentino. Come l’anno precedente, si aggiudicò la corsa Damiano Cunego. Il “Piccolo principe” di Verona indossò la maglia fucsia del leader dal primo all’ultimo giorno, difendendola dagli attacchi del marchigiano Scarponi.

Anche noi della Liquigas ci comportammo bene, riuscendo a piazzare tre uomini fra i primi dieci: Pellizotti, lo scafato Andrea Noè e io. Per ricordo di quell’esperienza, avrei portato a casa la maglia bianca di miglior giovane della corsa.

Al termine della tappa conclusiva, sul lungolago di Arco, Cunego rilasciò dichiarazioni alla stampa sul fatto che non andavano confusi ciclisti onesti e disonesti. «Buttare tutti nello stesso calderone farà vendere qualche giornale in più, ma è un danno per il nostro sport» mise in chiaro. «E chi lo vive con passione fin da giovane, ne soffre, perché finisce per essere accomunato a chi lo rovina.»

Ammirai la sua decisione nell’esporsi su un tema così sentito nel gruppo ma, allo stesso tempo, ritenuto quasi scabroso. «Bravo» mi complimentai. «Hai parlato bene.»

Lui mi guardò con un’aria malinconica e disse: «Bisognerebbe fare qualcosa di più, Squalo, su questa faccenda. La gente deve capire che non siamo tutti dei deficienti pronti a giocarci la salute per una vittoria. E non importa se io corro per la Lampre e tu per la Liquigas. Bisogna far capire che, sul doping, la pensiamo alla stessa maniera».

La faccenda gli stava davvero a cuore, e gli assicurai che avrei appoggiato la sua battaglia.

Partii quella sera stessa per il Belgio, allo scopo di supportare Di Luca nell’atto conclusivo di una campagna delle Ardenne assai promettente.

Mentre noi correvamo in Trentino, infatti, il nostro capitano era riuscito a salire sul podio della Amstel dietro al tedesco Schumacher e a Rebellin, e si era ripetuto – stavolta dietro al solito Rebellin e a Valverde – anche alla Freccia Vallone.

«Alla Liegi tiro il collo a tutti» promise il Killer. «Sono nove anni che sogno di vincerla! Dovete aiutarmi a stare davanti e radere al suolo chiunque tenti di scappare. Poi, sul finale, ci penso io.»

Corsi così la mia terza Decana, forse la più tattica alla quale avessi mai partecipato. Le squadre si controllavano a vicenda finché, a 14 chilometri dalla fine, un attacco alla garibaldina di Paolo Bettini non sprofondò il gruppo nel caos. Da lì in avanti, tra contromosse e nuove fughe, non ci si capì più niente.

Quella volta rimasi nel vivo della corsa senza farmi staccare, ma compresi solo alla fine quello ch’era accaduto davanti: il Delfino Pellizotti aveva neutralizzato una pattuglia di fuggitivi, consentendo al Killer di non perdere terreno, e quello era riuscito a giocarsi tutto in un duello decisivo contro il lussemburghese Fränk Schleck, che correva stoicamente con una vertebra rotta in una caduta rimediata all’Amstel. Dimostrando tutto il cinismo che gli era valso il suo soprannome, Di Luca aveva lasciato il malconcio Schleck a tirare, e gli era andato via solo all’ultimo chilometro, giusto un attimo prima che Valverde e Bettini piombassero loro addosso.

Era transitato sotto lo striscione del traguardo digrignando i denti, il nostro capitano: adesso che aveva morso la Decana, era tempo di mangiarsi vivo il Giro.

Mentre il nostro capitano si affilava le unghie in vista della Corsa rosa, Pellizotti, io e il resto della squadra andammo a correre ancora un paio di gare di rifinitura.

Il 5 maggio si teneva il Gran Premio Industria e Artigianato a Larciano, comune confinante con Lamporecchio. Il Delfino guizzò via in salita nell’ultimo dei tre giri previsti, ma io lo andai a riprendere lanciandomi in picchiata nella discesa successiva.

«Pelli» lo chiamai, affiancandolo lungo il tratto finale in falsopiano. «Che si fa? Volata?»

«Be’, Squalo, sei a casa tua» considerò, e mi fece cenno di passare.

Mi lasciò vincere, da signore, sotto gli occhi dei Cannibali, ma non volevo passare per uno che ottiene le corse in regalo.

Così l’indomani, al Giro di Toscana, architettai una fuga precoce e me ne andai da solo per evitare situazioni imbarazzanti. Non è piacevole trovarsi a fare i conti fra amici nelle fasi clou di una gara, e con quella vittoria pulita dimostrai alla mia gente che, alla Corsa rosa, potevo dire la mia senza bisogno di aiuti.

Negli stessi giorni Ivan Basso e Michele Scarponi, finiti sotto indagine per l’Operación Puerto, avevano accettato di collaborare con il CONI per scoperchiare la pentola dei segreti e raccontare quello che sapevano sulle pratiche illegali.

Il capo della procura antidoping del CONI, Ettore Torri, aveva così commentato le loro dichiarazioni: «In un certo senso sono portato a scusare gli atleti, sono giovani, spesso inesperti. Scarponi ci ha raccontato certe cose su come i corridori venivano circuiti. Ha raccontato di questi dirigenti, di medici, di maneggioni che li allettavano. Ecco, il mio scopo è colpire questa categoria». Poi aveva proseguito: «I corridori hanno paura di essere messi al bando se non si dopano. E mi auguro che dopo Basso e Scarponi, altri seguano il loro esempio».

L’8 maggio Ivan il Terribile convocò una conferenza-stampa per raccontare ai giornalisti la sua versione degli eventi. Ammise di aver contattato Fuentes, lo stregone dell’Operación Puerto, in un momento di debolezza, ma sostenne anche di non avere mai fatto ricorso alle sue pratiche. «È solo “tentato doping”. Sconterò la mia pena e tornerò a correre. Saprò tornare a farmi volere bene.»

Di lì a poco, la pena sarebbe stata ufficializzata: due anni per Basso, diciotto mesi per Scarponi.

Fra mezze ammissioni dei corridori, dichiarazioni vagamente assolutorie del CONI e squalifiche pesanti che volavano, non ci capivo più niente.

Zanatta aveva ragione: partire per il Giro era come salpare e lasciarsi dietro la vita ordinaria. Tanto più se la Corsa rosa, come accadde in quell’edizione, prendeva il via dalla Sardegna.

Ivan Basso stava scontando la sua squalifica, così i più autorevoli candidati alla vittoria finale erano il Killer, il Piccolo Principe Cunego, chiamato a ripetersi dopo il giovanile exploit del 2004, e il veterano Gilberto Simoni. Lo scalatore trentino della Saunier Duval aveva già al suo attivo due edizioni della corsa, e negli ultimi tre anni era sempre salito sul podio; gli avrebbe dato manforte l’estroverso emiliano Riccardo Riccò, detto il “Cobra”, che si annunciava un potenziale rivale del sottoscritto nella corsa alla maglia bianca riservata al miglior giovane. Un altro debuttante da tenere d’occhio era la mia vecchia conoscenza Visconti, approdato al servizio di Bettini nella Quick Step.

Il Marine era ben noto anche al compagno della Liquigas col quale avrei diviso la stanza durante la corsa, Alessandro Vanotti. Moro, longilineo e dagli occhi azzurri, discendeva da una famiglia di ciclisti da quattro generazioni, aveva altrettanti anni più di me, ma un palmarès ancora deserto di vittorie.

«Piacere, Squalo. Vanotti Alessandro» si era presentato, senza nascondere il suo accento orobico. «L’anno scorso dormivo in camera con Visconti.»

Non erano le credenziali migliori per conquistare la mia simpatia, ma “Vano” era un ragazzo semplice e gentile, col quale avrei stretto una grande amicizia.

Ero carico ed emozionato all’idea di debuttare nella Corsa rosa. Giusto per non farmi mancare nulla, il commissario tecnico della Nazionale Franco Ballerini azzardò un paragone pesantissimo: «Ricordo bene uno sconosciuto di ventidue anni vincere il Tour de France del 1965. Si chiamava Felice Gimondi. Ecco, al Giro di quest’anno seguirei con la stessa attenzione Vincenzo Nibali».

«Niente scherzi!» reagì, irritato, il Killer. «Il capitano sono io, e non voglio colpi di testa. Dovete aiutarmi a vincere, non a pensare a mettervi in mostra!»

Ci teneva alle gerarchie, tanto che, quando vincemmo la cronometro a squadre da Caprera a La Maddalena, anziché festeggiare se ne ebbe a male. Il guaio era che il povero Gasparotto, incaricato di tirare il nostro gruppo nell’ultima fase, aveva tagliato il traguardo prima di lui, guadagnando suo malgrado una maglia rosa della quale, in privato, dovette scusarsi.

Dopo tre giorni ci fu una giornata di pausa per consentire alla carovana di tornare sul continente.

Eravamo davvero tutti nella stessa barca, noi della Liquigas: otto marinai alle dipendenze del capitano Killer. Il lamentoso Andrea Noè, detto “Brontolo”, coi suoi trentotto anni era il nostromo; il Delfino Pellizotti il secondo in comando; poi c’era la ciurma, composta dal sottoscritto e dal mio compagno di stanza Vanotti, da Spezialetti e dalla maglia rosa involontaria Gasparotto – lui sì che rischiava un giro di chiglia –, dal croato Miholjević e dal britannico Wegelius.

L’umore del nostro capitano migliorò decisamente dopo la vittoria nella quarta tappa, ottenuta in Irpinia regolando Riccò e Cunego: adesso era lui, e solo lui, a vestire in rosa. Non voleva togliersi la maglia fino all’ultimo giorno, e guai a chi provasse a metterlo in ombra.

Andò fuori di testa quando non riuscimmo a contenere una fuga alla volta di Spoleto, e si trovò attardato in classifica di oltre quattro minuti.

«Allora mi remate contro» ci accusò. «Ditelo, che volete il mio male!»

«Ci sono scappati» dovemmo ammettere.

«Non l’abbiamo fatto apposta» garantì per tutti Noè. «Ma stai tranquillo, Killer. Era solo la sesta tappa. Mancano ancora quindici giorni. Alla fine, la maglia sarà tua.»

Anche Noè, però, finì per essere sospettato dal capitano di volergli fare le scarpe, quando al termine della decima tappa, nella quale si era dato da fare per contenere una fuga, si ritrovò in rosa per la prima volta in carriera.

«Adesso quello s’incazza» mugugnò Brontolo invece di festeggiare. «Tanto lo so che s’incazza.»

La nostra era una gara doppia, contro gli avversari e contro l’indole sospettosa del capitano. Non vedevamo l’ora di arrivare in montagna perché Di Luca potesse scatenarsi e scacciare i propri fantasmi.

L’indomani ebbi la prova che il Giro stava mettendo alla prova i nervi di parecchi corridori. Quelli del francese Buffaz, protagonista di una fuga solitaria che l’aveva portato a ottenere otto minuti di vantaggio, cedettero in maniera indecorosa: non riuscendo più a sopportare l’assenza dei compagni, o forse vinto da pensieri personali, il poverino scese di sella e scoppiò a piangere a dirotto. Quando tornò in sé, aveva ormai sprecato tutto il vantaggio, e il fatto che la scena fosse stata trasmessa in mondovisione non lo aiutò a farsi la fama del duro.

Io, invece, dovetti sorbirmi per mezza tappa la filippica di Noè contro il tempo che minacciava di mettersi al brutto, poi contro la pioggia e infine contro l’eventualità – anzi, la certezza – di buscarsi un raffreddore. L’unica disgrazia che non aveva contemplato fu quella che si verificò per le strade di Pinerolo, a pochi metri dall’arrivo: una gigantesca caduta collettiva provocata dalle scritte pubblicitarie rese viscide dall’acqua. Uno spagnolo si fece male sul serio, mentre Brontolo conobbe l’insolito destino di tagliare il traguardo planando di chiappe sull’asfalto. Era uscito illeso dallo scivolone e aveva conservato la maglia rosa, ma trovò ugualmente da lamentarsi: «Ma porca miseria! Ho rovinato il pantaloncino!».

Con ben altra grinta affrontò l’episodio Paolo Bettini. Il campione del mondo, infatti, si rialzò scrollando le spalle e assicurando al gruppo: «Tutto normale! Son cose che succedono!».

Non avevo mai corso una competizione così lunga e, nonostante le gambe girassero bene, ero ogni giorno più stanco. Anche Vano era a pezzi, e la sera, nella nostra stanza, facevamo il conto alla rovescia delle tappe mancanti.

«È ancora lunga, Squalo» gemeva prima di spegnere la luce. «E, se non chiudiamo la finestra, ho paura di prendere un malanno.»

«Chiudila» lo assecondavo. «E poi spegni.»

Andava a chiuderla, poi lo sentivo rientrare nel suo letto mentre uno sfinimento totale s’impadroniva di me.

«Sai che ho male a un gluteo, Squalo?» era capace di ragguagliarmi quando ormai stavo perdendo conoscenza. «Forse dovevo avvertire il massaggiatore.»

«Non è niente» lo rassicuravo. «Spegni la luce, adesso.»

Vano faceva buio e, per un po’, taceva, ma potevo sentire il rumore dei suoi pensieri.

«Dici che è grave?» domandava ancora.

«Ma cosa, Vano?»

«Il gluteo. Lo sento strano.»

«Se ti dico che non è niente...»

«Meglio così» ammetteva nel buio, ma sapevo che il suo animo non era ancora tranquillo.

«Un’altra cosa, Squalo.»

«Cosa, stavolta?» domandavo soffocando uno sbadiglio.

«Dici che facciamo bene a dormire con la finestra sigillata?»

«Se l’hai appena chiusa!»

«Magari apro uno spiraglio, così entra un po’ d’aria.»

«Fa’ un po’ quel che ti pare, con la finestra! Ma adesso, per pietà, lasciami riposare!»

Eravamo una strana coppia: lui ipocondriaco, io capace di dormire anche sul ferro, eppure ci davamo forza a vicenda.

Di Luca era deciso a rimpossessarsi della maglia rosa nel giorno delle salite più dure, che ci condusse a sconfinare in Francia.

Dopo essersi lasciato alle spalle il Colle dell’Agnello – coi suoi 2744 metri, la Cima Coppi del Giro – e l’Izoard, il Killer aveva ancora abbastanza benzina nelle gambe per ingaggiare una sfida fra scalatori con Gilberto Simoni, e la vinse prevalendo di mezza bicicletta sul traguardo di Briançon.

Il primato della corsa era di nuovo del nostro capitano, che non avrebbe più mollato l’osso nemmeno se minacciato con un’arma da fuoco. Quanto a me, ero sopravanzato nella classifica giovani da Andy Schleck, sorprendente secondo in classifica generale, e dal Cobra Riccò, ma dalla scuderia giunse l’ordine di non tentare azioni di forza: ogni briciola d’energia residua andava spesa per propiziare il successo del capitano.

Di Luca difese in maniera eroica la sua maglia rosa nel tappone dolomitico vinto da Riccò sulla rampa micidiale delle Tre Cime di Lavaredo; giocò in difesa nell’ascesa dello Zoncolan, e uscì indenne dalla cronometro di Verona.

Era fatta. Non restava che scortarlo a Milano, come avevo visto fare tante volte in televisione dai “treni” dei vincitori designati. Nel pedalare con il Vano e il Delfino, Brontolo e tutti gli altri nel centro di Milano, provai una strana sensazione di déjà-vu, forse perché, oltre a vederla, quella scena l’avevo anche sognata.

Scivolavamo agili lungo corso Venezia, simili nelle nostre divise verde elettrico a imprendibili creature degli abissi, per scortare il Killer verso il suo trionfo, e quando finalmente il capitano salì sul gradino più alto del podio, provai una sensazione di fierezza mai sperimentata prima. Se ce l’aveva fatta, era anche merito nostro.

Sì, avevo portato a termine il mio primo Giro d’Italia, e avevo aiutato il mio capitano a vincerlo. Dovevo sentirmi fortunato, perché a tanti corridori non era mai stato concesso un simile privilegio.

Quella sera i dirigenti ci portarono a festeggiare a Brescia, nella villa del numero uno della Liquigas. Eravamo così euforici che gli devastammo il prato col tagliaerba, ma lui assicurò che non era un problema, anzi era felice di poter ospitare una festa del genere.

«Grazie, ragazzi. Senza di voi non ce l’avrei fatta» riconobbe Di Luca, che finalmente aveva abbandonato la sua espressione truce per lasciare spazio alla commozione. «Questa maglia rosa è anche vostra. Per ringraziarvi, ho pensato a un ricordino.»

Ognuno di noi ricevette in regalo un costoso Rolex Explorer. Per un po’ ci pavoneggiammo con i nostri orologi d’oro al polso. Eravamo diventati di colpo dei signori, o eravamo pur sempre dei marinai?

Ci avrei pensato l’indomani. Per il momento, avevo solo voglia di fare festa sino all’alba coi miei compagni, e poi trovare un posto tranquillo dove si potesse dormire una settimana di fila.

Ancora una volta il Tour de France venne corso senza il vincitore dell’anno precedente. Floyd Landis era stato squalificato, e la sua vittoria del 2006 dichiarata nulla.

La Liquigas partecipò con il nuovo acquisto Pippo Pozzato, il “bello del Pro Tour”, che riuscì a vincere una tappa ma dovette ritirarsi prima della fine. Ancora una volta, la Grande Boucle si dimostrava troppo dura per i nostri colori.

E, ancora una volta, ci furono cacciate di atleti in tempo reale: il kazako Vinokurov fu squalificato per trasfusioni illegali, l’italiano Moreni per avere assunto testosterone, e le loro due squadre – l’Astana e la Cofidis – vennero escluse dalla corsa.

Ancora più clamorosa la gogna pubblica toccata a Rasmussen, il danese in maglia gialla fino alla sedicesima tappa. Sosteneva di avere preparato le sue clamorose performance in altura allenandosi in Messico nelle settimane precedenti la corsa, ma Davide Cassani affermò in diretta RAI di averlo incontrato in Trentino. La situazione puzzava tremendamente, e la sua squadra lo rispedì a casa, giusto in tempo per non essere cacciata essa stessa: infatti saltò fuori che le prestazioni da superman del danese erano riconducibili non già a un allenamento ad altissime quote, quanto a un nuovo farmaco chiamato Dynepo, la nuova frontiera dell’artificiale. Per arrivare a fare pulizia nelle farmacie della carovana, la strada era ancora lunga.

Conobbe la gioia del trionfo, invece, Alberto Contador, un ciclista spagnolo di nemmeno venticinque anni, un fenomeno in salita come nelle cronometro. Era al suo primo successo in una grande corsa a tappe, e aveva l’abitudine di esultare simulando a indici puntati un doppio colpo di pistola. Correva per la Discovery Channel, la vecchia squadra di Armstrong, e venne salutato come il portabandiera di un nuovo ciclismo, estraneo alle pratiche pericolose della vecchia generazione.

Non trascorsero che poche settimane, e finì nei guai il manager della stessa Discovery: sospettato di aver sin troppa confidenza con gli stregoni della chimica, si ritrovò senza sponsor e dovette smantellare la squadra.

Elena reclamava una vacanza degna di questo nome. Mi faceva pesare che le sue amiche venivano portate dai fidanzati in posti dai nomi esotici come Formentera, Mykonos e Sharm el-Sheikh, mentre io le avevo concesso sì e no qualche giornata in spiaggia a Milazzo, per di più impiegando i pomeriggi a pedalare col cugino Cosimo Bongiovanni, il fratello minore di Giuseppe.

Il fatto era che non avevo modo di fermarmi un attimo: i posti esotici dovevo raggiungerli per lavoro, e non restava comunque il tempo di visitarli come avrebbero meritato. In agosto, per esempio, volai con la Nazionale a Pechino per il test preolimpico, prova generale dei Giochi 2008: feci sì e no in tempo a rendermi conto delle dimensioni della città e della sua aria umida e malsana, che produceva quell’effetto noto ai Toscani come “appiccicottìo”, ed ero già in sella agli ordini del CT Franco Ballerini.

Il percorso partiva da piazza Tienanmen in direzione del Palazzo d’Estate, per poi immettersi in un circuito che lambiva la Grande Muraglia: l’unico modo per godersi quel panorama superbo fu partire in fuga con Gasparotto.

Era uno strano modo di fare i turisti, ma questo la mia fidanzata non sembrava capirlo.

Ancora qualche settimana, e con gli Azzurri ci ritrovammo a Stoccarda per la nuova edizione dei Mondiali.

Ballerini aveva deciso che avrei disputato ancora una volta la cronometro, una specialità nella quale non avevo niente da dire rispetto agli specialisti, e infatti la mia prestazione fu appena decente. Per l’agognata gara in linea, invece, mi selezionò soltanto come riserva insieme a Visconti, che nel frattempo si era guadagnato la prestigiosa maglia tricolore di campione d’Italia.

«Voi due siete il futuro della nostra Nazionale» assicurò. «Vedete di andare d’accordo.»

Per assistere alla corsa della domenica, ci toccò sederci fianco a fianco come due fidanzatini, e costò un certo sforzo a entrambi. Però finimmo per abbracciarci – un attimo solo, prima di renderci conto di cosa stavamo facendo – quando Paolo Bettini spezzò la resistenza di quattro avversari sull’ultima salita e tagliò il traguardo per primo.

«Ditemi che è vero!» ripeteva, inebetito dalla gioia, Ballerini. «Ditemi che è vero!»

Era vero, sì. Il Grillo era riuscito nell’impresa di confermarsi campione del mondo, eguagliando la storica doppietta di Bugno e lasciando una traccia indelebile nella storia della competizione iridata.

E io, a casa, avevo la sua maglia.

Giusto il tempo di tornare per il “Foglie morte”, quel giro di Lombardia che chiude la stagione, e fu notificata una squalifica di tre mesi al Killer Di Luca.

Il nostro capitano, l’uomo che ci aveva raccomandato di non mettere la squadra nei guai, aveva avuto frequentazioni pericolose con un medico talmente spregiudicato da meritare la radiazione dall’Albo.

Bastò un attimo e, da eroe ed esempio di abnegazione, si trasformò di colpo in un fuoricasta: la Liquigas non volle più avere a che fare con lui, né gli riuscì di trovare un’altra squadra Pro Tour disposta a ingaggiarlo. Perciò, nonostante la recentissima vittoria al Giro, dovette adattarsi a scendere di categoria.

Era un incubo senza fine, un gioco di specchi, una trappola capace di farti impazzire. Non sapevo più chi dicesse il vero e chi no, quali vittorie erano genuine e quali suscettibili di essere revocate, di chi ci si poteva fidare e chi, invece, andava tenuto a distanza.

La paranoia, ormai, si era impadronita di tutti noi, che avevamo fatto del ciclismo un mestiere.

Arrivai a credere di essere l’unico pulito, la vittima di un tragico “Truman show”, poi mi davo del matto da solo, elencando i compagni per i quali avrei messo la mano sul fuoco, i tanti sui quali non era mai pesata nemmeno l’ombra di un’accusa.

Poi, la paranoia tornava a impadronirsi dei miei pensieri. E se invece, di nascosto da me, si procuravano delle bombe nel sottoscala di qualche farmacia? Ero troppo ingenuo per capirlo, troppo stupido, troppo pulito? E sarei mai riuscito a contare qualcosa in un mondo del quale non sapevo decifrare i codici? O invece tutto quello che accadeva era un bene, un passo in avanti verso un ciclismo finalmente pulito, dove avrebbero trionfato i puri?

Nel dubbio, dichiarai ai miei dirigenti che, se qualcuno mi avesse avvicinato per offrirmi sostanze indesiderate, lo avrei denunciato.

«Per chi ci hai preso?» replicò, tesissimo, Amadio. «Guarda che noi siamo i primi a subire un danno se un tesserato se ne va per conto proprio da un mascalzone di dottore! E, per colpa sua, rischiamo il posto!»

Lui e Zanatta, in ogni caso, avevano fiducia nei miei mezzi: mi offrirono un prolungamento di contratto fino al 2010, e mi annunciarono che, nella stagione entrante, la squadra pensava di schierarmi tanto al Giro quanto al Tour.

«Vogliamo che pensi alla Liquigas come a casa tua» spiegò il team manager. «Un posto dove stare tranquillo e crescere senza troppe pressioni, lontano da tutta la merda che gira là fuori.»

C’era un posto solo dove potessi meditare sulle mie nuove prospettive e starmene in santa pace per qualche giorno.

Era la frazione del comune di Lamporecchio, provincia di Pistoia, dove mi avevano accolto quando ero solo un ragazzino e considerato uno di loro.

Stare a Mastromarco mi faceva bene. Bastava una passeggiata fra i campi, un pranzo a casa Franceschi e una partita a ramino con Carlo, Giubba e Nano al bar della Casa del Popolo, per rimettere insieme i miei pezzi, assorbire le rivelazioni più sconvolgenti e tornare a riflettere sulle cose in maniera serena.

Una sera accompagnai Carlo al vecchio Quartiere corridori per controllare che i ragazzi fossero nelle loro stanze. Mentre tornavamo a casa, il vecchio direttore sportivo mi fece un discorso che mi lasciò secco.

«Lo so che non è facile la vita che fai, Vincenzo» mi disse mentre passeggiavamo sotto un cielo trapunto da migliaia di stelle. «Vai sempre di corsa, anche quando non sei in bicicletta.»

«Soprattutto quando non sono in bicicletta» confermai. «Un bel po’ di tempo se ne va per gli spostamenti.»

«Può andare bene per un ragazzo» considerò. «Ma tu, ormai, sei un uomo. E un uomo ha bisogno di una casa. Magari ci sta poco, ma è importante sapere dov’è.»

«Io di case ne ho due» considerai. «Messina, e qui.»

Carlo scosse la testa e si fermò lungo la sterrata. «No, figliolo. Tu non ne hai nessuna. Messina è casa dei tuoi, e questo è solo il posto dove sei diventato grande. Quando ti parlo di una casa, intendo una casa vera: quattro mura con una porta che ti puoi tirare dietro e lasciare il mondo fuori. A oggi, non ce l’hai. Sei un randagio, più fortunato di altri, ma sempre un randagio. E se non rimedi a questa situazione adesso, che ne hai finalmente la possibilità, non rimedierai più. E il giorno in cui non ci sarà più una squadra a prenotarti gli alberghi, sarai in mezzo a una strada.»

Mi stava facendo venire i brividi.

«Lo so che non hai tempo di fare il giro delle sette chiese, fra agenzie immobiliari e costruttori» riprese. «Ma forse i tuoi possono aiutarti. Conosceranno qualcuno, giù da voi.»

«Immagino di sì» mormorai. Poi aggiunsi: «Io, però, se proprio devo scegliere, preferirei stare qui».

Non ci avevo mai pensato prima, eppure era come lo sapessi da sempre. «Dai miei posso tornare quando voglio» ribadii. «La Sicilia è la mia terra, e Messina sarà per sempre la mia città, ma è qui che voglio abitare.»

«E la tua ragazza cosa ne dice?» domandò Carlo.

«Non gliene ho mai parlato, finora» ammisi. «Ma è la mia ragazza e, se va bene a me, andrà bene anche a lei.»

«Quanto sei giovane, Vincenzo» sospirò Carlo. «Però, alla fine, hai ragione. L’importante è proprio che vada bene a te.»

Mi guardai intorno come se potessi penetrare la notte con la vista a infrarossi di un supereroe, ma non vedevo più in là del mio naso. «Tu, forse, puoi aiutarmi» mormorai. «Sai di qualche casa in vendita, qui in paese?»

Alla Liquigas avremmo sopperito all’esclusione del Killer facendo a meno di un líder máximo: nella stagione 2008, si sarebbero dovuti dividere le responsabilità il Delfino Pellizotti, capitano designato per il Giro d’Italia, e Pippo Pozzato, che invece avrebbe corso il Tour.

Il terzo uomo era il nuovo acquisto aretino Daniele Bennati, detto il “Pantera” solo dai giornalisti, che subito ricamarono su una presunta rivalità fra lui e Pozzato a causa delle comuni doti da velocisti che li avrebbero portati a competere nelle corse di un giorno e negli arrivi in volata di quelle a tappe.

Al di là delle caratteristiche tecniche, non potevano esistere due tipi più diversi. Pozzato, parlantina sciolta e chioma fluente, appariva sicuro di sé fino alla guasconeria, tanto da essersi costruito un’immeritata fama da antipatico. La verità era che in tanti lo invidiavano per la sua bruciante ascesa giovanile, che l’aveva proiettato fra i Pro saltando la categoria Dilettanti, e non gli perdonavano la disinvoltura e il seguito fra le tifose. Era vero che nelle interviste giocava un po’ alla popstar, ma con i compagni era leale e generoso: una sera, nel nostro nuovo ritiro invernale di San Pellegrino Terme, mi ero fermato a guardare un giaccone esposto nella vetrina d’un negozio di articoli tecnici, e la mattina dopo Pippo, senza dire niente, me l’aveva fatto trovare in regalo.

Bennati, invece, era uno sprinter che dei grandi felini aveva lo scatto, ma non certo il carattere: era timido, silenzioso, devotissimo, e infatti noi non lo chiamavamo Pantera ma, più semplicemente, “Benna”.

Alla presentazione della squadra, sul palco di Bibione, ci fu un siparietto fra i due: per smentire ogni rivalità, Pippo prese in braccio il nuovo arrivato come fosse un bimbo e gli diede il benvenuto fra noi.

Poteva essere un anno di festa, invece si sarebbe rivelato durissimo.

Il mio 2008 cominciò col piede giusto. Vinsi il Giro del Trentino grazie a una fuga azzeccatissima nella tappa di Folgaria, che mi consentì di indossare la maglia fucsia del leader senza mollarla più.

«Per me è una grande soddisfazione vincere qui, dopo che l’anno scorso mi ero dimostrato il miglior giovane» dichiarai alla stampa. «E sono fiero di succedere nell’albo d’oro a un corridore che stimo come Damiano Cunego.»

Subito dopo, volai in Belgio per la Decana.

La campagna delle Ardenne finora aveva arriso al Piccolo Principe veronese, vittorioso nella Amstel e terzo nella Freccia, e al mio vecchio compagno Kim Kirchen, che aveva colto il successo nella seconda gara. Erano dunque loro gli uomini da marcare nell’atto conclusivo.

Il bello della Liegi era che, una volta dopo l’altra, imparavi a conoscerla e a regolarti di conseguenza. Restava pur sempre una gran bastarda, ma almeno imparavi a sopravviverle.

A fare la differenza sulla penultima salita, la severa Roche-aux-Faucons, fu un’azione di Rebellin, Valverde e Fränk Schleck, che si giocarono il traguardo allo sprint. Prevalse lo spagnolo, per il quale nutrivo un’istintiva antipatia.

In ogni caso, a forza di spingere sui pedali con un compagno d’eccezione come Paolo Bettini, arrivai appena un minuto dopo, e riuscii per la prima volta a classificarmi nei primi dieci.

Per il momento, andava ancora tutto bene.

Johan Bruyneel, l’ex team manager della Discovery Channel che aveva portato Armstrong a vincere sette Tour de France e il giovane Contador ad aggiudicarsi l’ultimo, era un uomo pieno di risorse.

Smantellato il suo squadrone, aveva dichiarato in un primo tempo che meditava di ritirarsi per scrivere un libro, ma in realtà si era dato da fare per trovare un ingaggio per sé e per il “Pistolero” spagnolo che aveva portato al trionfo.

L’opportunità gli era stata fornita dall’Astana, il team bandiera del Kazakistan finito nei guai durante il Tour 2008. E, non appena si riseppe che Contador avrebbe vestito la divisa celeste della squadra eurasiatica, gli organizzatori del Giro si affrettarono a invitare l’Astana alla nuova edizione della Corsa rosa, che prevedeva belle tappe di montagna ma anche l’inconsueta presenza di ben quattro frazioni a cronometro.

«Un bel guaio» osservò Zanatta. «Lo spagnolo è praticamente imbattibile, al momento.»

E dire che già avevamo i nostri problemi a gestire la squadra orfana del Killer.

I gradi di capitano della Liquigas erano passati al Delfino Pellizotti, forte in montagna ma debole nelle cronometro, e considerato dalla stampa troppo poco esperto per pilotarci alla vittoria. Il secondo in comando, di fatto, ero io, ma non avevo che ventitré anni. Con noi la solita ciurma, Vano e Brontolo, Miholjević e Wegelius, più il finlandese Carlström e due nuovi acquisti. Il primo era il neo Pro abruzzese Dario Cataldo, cresciuto sportivamente a pochi chilometri dalla mia Mastromarco e detto “Picasso” per la sua stupefacente bravura nel disegnare. L’altro, il devoto velocista Bennati, doveva puntare a prendersi qualche soddisfazione negli arrivi in volata, giacché il trono degli sprinter era vacante.

Dopo il dissolvimento della Fassa Bortolo, infatti, il Jet Petacchi aveva imboccato una parabola discendente, contrassegnata da un’ira funesta e autolesionistica – alla Vuelta, per tirare un pugno al pullman di una squadra avversaria, si era rotto una mano – e, da ultimo, aveva rimediato una squalifica di un anno.

In definitiva, erano in pochi a credere che la Liquigas potesse puntare alla vittoria finale. Fino a poche settimane prima, gli esperti davano molte più chance al veterano Gilberto Simoni e, in alternativa, facevano i nomi del nostro ex leader e di Riccardo Riccò. Nonostante la sua LPR fosse una squadra di caratura modesta, infatti, Di Luca era tornato alle gare animato da un furibondo desiderio di rivalsa.

Quanto a Riccò, ormai correva da capitano, con la Saunier Duval al proprio servizio.

Adesso che sul Giro si era affacciata l’ombra minacciosa del Pistolero spagnolo, però, i pronostici erano tutti per lui.

Doveva essere scritto nelle stelle. Per quanto ci dannassimo l’anima, Pellizotti riuscì a tenere la maglia rosa solo i primi giorni.

Troppo cinico e regolare Contador – non vinceva mai una tappa, ma era sempre a ridosso dei primi – per poter essere regolato con un’azione di forza; troppo ingenui noi a lasciar scappare Visconti nella frazione del Gargano, permettendogli di arrivare con oltre undici minuti sul gruppo e regalandogli così un primato difficile da erodere; troppo sfortunato io, a cadere mentre me ne andavo verso Carpi nella dodicesima tappa; troppo imprevedibile, infine, il doppio exploit della “Pulce” Emanuele Sella nelle tappe di montagna.

Nella frazione di Pampeago, già teatro di un’impresa di Pantani, se ne andò a 50 chilometri dall’arrivo, rifilando nove minuti agli uomini di classifica e sbriciolando la leadership di Visconti, che accumulò ben diciotto minuti di ritardo. L’indomani provai a fermare quel piccolo diavolo lanciandomi in discesa giù per il Falzarego, ma, come lo raggiunsi ai Serrai di Sottoguda, quello ripartì a velocità doppia su per il Fedaia, e poco ci mancava che fischiettasse.

«Lascia perdere, Squalo» mi invitò lo spagnolo “Purito” Rodríguez, uno che in salita sapeva il fatto suo. «Quest’anno c’è chi va a pedali e chi va a motore. Noi è già tanto se riusciamo a stargli a ruota.»

Ancora un po’, e Sella vinceva la terza tappa consecutiva nella cronoscalata di Plan de Corones. E dire che fino a quel momento nessuno sapeva chi fosse, Emanuele Sella. Eppure, prima della fine del Giro, trionfò ancora a Tirano, alla faccia di tutti i pronostici, e si sarebbe portato a casa la maglia verde di miglior scalatore.

No, quell’anno andava tutto storto. L’unico dei nostri a gioire era la Pantera Bennati, che si aggiudicò tre tappe allo sprint, e avrebbe vinto la maglia ciclamino della classifica a punti.

E in tutto questo, mentre i grandi Simoni e Di Luca arrancavano, mentre Pellizotti e io ci dannavamo l’anima in salita e nuovi fenomeni mettevano a segno incredibili exploit, Contador, senza neppure sudare troppo, continuava a guadagnare vantaggio in classifica.

E il meglio – o il peggio – era che veniva contrastato soltanto dal Cobra Riccò, un ragazzo così simpatico e sportivo da aspettarci al traguardo per sfotterci.

«Anche oggi avete la lingua fuori» ridacchiava. «Perché non vi ritirate?», e rincarava la dose chiamandoci sfigati, falliti, paraplegici.

Quasi mi stupivo di avere provato tanta avversione per Visconti, che, pur altezzoso, restava al confronto un gentleman britannico.

Riccò, invece, sembrava preda di un delirio di onnipotenza che lo portava a mancare di rispetto non solo a me, che lo avevo sopravanzato nelle categorie giovanili, ma anche agli ex vincitori del Giro come Simoni e Di Luca, ai senatori e ai gregari che faticavano tra i Giganti della strada quando lui ancora correva fra gli Juniores.

L’emiliano calpestava tutte le regole non scritte del rispetto reciproco, ed era, per distacco, l’uomo più odiato dal gruppo. Avevamo un bel ripeterci l’un l’altro che era un imbecille, e la sua squadra una banda di bananari: alla penultima tappa, il Cobra era a soli quattro secondi dal Pistolero in maglia rosa, e la semplice ipotesi che potesse vincere il Giro era considerata una catastrofe per l’intera carovana.

Così, quando Alberto Contador lo disintegrò nella cronometro finale, fu un sollievo per tutti.

Era la prima volta da dodici anni che uno straniero vinceva il Giro, ma era pur sempre meglio farsi battere da un fenomeno di Madrid che da uno stronzo della provincia di Modena.

Il battage del novantacinquesimo Tour de France partì all’insegna della “tolleranza zero”. Dopo gli scandali degli anni precedenti, gli organizzatori avevano bisogno di dimostrare che la corsa a tappe più importante del mondo era riservata ai virtuosi.

Nel mondo del ciclismo, le strategie per affrontare il problema del doping avevano scatenato una guerra politica, economica e d’immagine: da una parte c’era l’Unione Ciclistica Internazionale che, dalla Svizzera, gestiva il calendario Pro Tour, dall’altra gli organizzatori della Grande Boucle.

I francesi erano abbastanza potenti da accusare l’UCI di chiudere un occhio sulla piaga dei “ciclisti drogati” e rivendicarono la propria autonomia: sarebbero stati loro, e nessun altro, a decidere chi poteva prendere parte al Tour, e quale tipo di controlli sarebbero stati effettuati durante le tre settimane della competizione.

Così, quando ancora mancavano settimane alla partenza, fu dichiarato ospite non gradito il supersprinter belga Tom Boonen, trovato positivo alla cocaina, e venne esclusa dalla competizione anche l’Astana di Contador. Che al Giro si baloccassero pure con il Pistolero: loro non ne avevano bisogno.

Anche la Corsa rosa, in realtà, si era sottratta al controllo dell’UCI, ma i francesi si ritenevano da sempre un passo avanti a noi e guardavano con sufficienza anche alle sanzioni che s’infliggevano in Italia in caso di positività: secondo la stampa d’Oltralpe, le nostre squadre erano assai sospette, così come quelle spagnole... D’altronde, cos’erano Giro e Vuelta in confronto al solo, unico, grandioso Tour de France?

L’aria che si respirava nello sfogliare i giornali dava conto di un intreccio indissolubile fra il tradizionale sciovinismo dei “cugini” e istanze sacrosante di pulizia, e anche noi, alla Liquigas, non sapevamo bene cosa pensare: come italiani, provavamo l’istinto di respingere un pregiudizio ai nostri danni, ma come sportivi salutavamo con sollievo il nuovo corso.

«Ben vengano, queste “pulizie di primavera”» commentò Zanatta. «E, se proprio devono cominciare dalla Francia, che comincino da lì.»

Non partivamo per vincere la maglia gialla, ma con la semplice speranza di aiutare Pozzato a mettersi in mostra in qualche tappa, come aveva fatto alla Milano-Sanremo, chiusa al secondo posto.

Sarebbe stato il nostro D’Artagnan, e i suoi moschettieri eravamo io e il giovane Roman Kreuziger, un ragazzo della Repubblica Ceca che si era imposto nell’élite del ciclismo vincendo l’ultimo Giro di Svizzera. La squadra contava su di noi per continuare a crescere nelle stagioni a venire, e ci teneva che prendessimo confidenza con i ritmi e l’atmosfera del Tour, che entrambi correvamo da esordienti. A darci una mano per ambientarci sarebbe stato lo spagnolo Beltrán, che aveva già corso la Grande Boucle otto volte, e si diceva conoscesse a memoria ogni singola svolta delle strade di Francia.

I veri favoriti per la vittoria, in assenza di Contador, erano l’australiano Cadel Evans, già campione del mondo di mountain bike e secondo al Tour 2007, l’antipatico spagnolo Valverde e il buon Damiano Cunego.

Fu lui a convincermi che, per ribaltare il pregiudizio che ci voleva puliti ma complici di chi non lo era, sarebbe stato opportuno correre esibendo sul braccio una decalcomania contro ogni forma di aiuto chimico.

«Ci sto» approvai, e quello stemma rotondo, che riproduceva uno smile circondato dalla scritta “I’m doping free”, si fece assai notare durante le riprese televisive. Era forse un messaggio in codice a qualche altro giovane italiano? Magari a quel Riccò della Saunier Duval, che al suo primo Tour era arrivato a malapena fra i primi cento, e adesso staccava in salita Evans e Valverde?

Il mio sincero impegno contro le bombe, in ogni caso, fu ridicolizzato dopo la prima settimana di corsa.

«Che figura di merda!» ripeteva sconsolato Amadio. «Che razza di figura di merda!»

Lo spagnolo Beltrán, l’uomo che ci avrebbe dovuto aiutare a fare esperienza al Tour, era finito su tutti i giornali. Il primo squalificato per doping della Grande Boucle era proprio lui, e la tempesta si era abbattuta sulla Liquigas.

«Cos’ha in testa, quello? La merda?» si disperava il team manager. «Proprio quest’anno, l’anno delle grandi pulizie! Ma io lo ammazzo con le mie mani!»

Per colpa sua, ci eravamo ritrovati i gendarmi in albergo. Avevano rivoltato le stanze come fossero quelle di una banda di criminali, esaminato ogni singolo prodotto in possesso di ciclisti, dirigenti, massaggiatori e meccanici, ma non avevano trovato un capello fuori posto.

Lo spagnolo, trovato positivo al termine della primissima tappa, con ogni evidenza si era bombato per conto suo, prima dell’inizio del Tour, ma il danno d’immagine fu comunque enorme.

Amadio passò ore al telefono con la base, giurando e spergiurando alla direzione della Liquigas che noi non sapevamo niente, e le analisi alle quali fummo sottoposti lo confermarono. Potemmo così proseguire la corsa, ma ormai eravamo esposti alla gogna.

Oltre al danno del sospetto, provai la beffa atroce di essermi esposto con la decalcomania contro il doping, e avere condiviso il mio primo Tour con uno scellerato. Quella che era la prova adamantina della mia buona fede, si risolse in un autogol mediatico.

«Così voi siete Nibali, la verginella che non si era accorta di avere in squadra un drogato»: mi apostrofavano i giornalisti francesi a fine tappa, ridacchiando sotto i baffi.

Riccò, nel frattempo, proseguiva indisturbato il proprio delirante assalto al cielo: vinse due tappe clamorose, e un’altra andò al suo gregario e compare Piepoli.

A me ridevano dietro, e il Cobra indossava la maglia a pois del re delle montagne. Esisteva una giustizia, o il mondo era davvero dei furbi?

Il 17 luglio, nel pieno della seconda settimana di corsa, saltò fuori che Riccò era risultato positivo al CERA, un farmaco di nuovissima generazione che rappresentava l’evoluzione dell’EPO.

Se quell’italiano dall’aspetto patibolare pensava di farla franca, non aveva fatto i conti con i laboratori transalpini. Fu condannato a restituire la maglia a pois, portato in guardina per una notte e, infine, cacciato con ignominia dal Tour. Per la legge francese aveva commesso un atto criminale, e gli sarebbe toccato affrontare un processo: rischiava sino a cinque anni di carcere, oltre a una forte multa.

Con lui se ne andò tutta la Saunier Duval, ritenendo meglio riparare oltreconfine prima che venissero resi noti i risultati di altre analisi. Di lì a poco, infatti, sarebbe stata dichiarata anche la positività di Piepoli.

Quindi, alla fine di quella stagione densa di rivelazioni, sarebbe arrivato il turno di Emanuele Sella, il piccolo diavolo delle Dolomiti.

Gli appassionati erano ormai furibondi, e i commenti sui forum di ciclismo non lasciavano spazio a malintesi. “Ecco spiegati gli exploit al Giro, che amarezza”, “Sella è passato nel giro di un anno da discreto corridore a miglior scalatore del Giro d’Italia, ma per favore...”, “Che pagliacci! San Paolino Bettini, salvaci tu!”, “Questi imbroglioni dovrebbero pagare i danni a tutti i ragazzi che hanno corso e corrono onestamente”.

A questi ultimi, il Tour della “grande pulizia” non aveva portato grandi risultati: Cunego si era schiantato battendo il mento a terra nella diciottesima tappa, Pozzato si era dovuto inchinare nelle volate allo strapotere del britannico Cavendish, nativo dell’isola di Man che si era trasferito in provincia di Pistoia, e l’onore della Liquigas era stato ristabilito solo grazie alle buone prestazioni dei suoi giovani. Ero riuscito, infatti, a indossare per alcuni giorni la maglia bianca di miglior giovane, e anche quando avevo dovuto cederla a Andy Schleck, avevo continuato a mettermi in luce aiutando Kreuziger, il meglio piazzato in classifica della squadra.

A ben vedere, non erano risultati da buttar via, ma la soddisfazione più grande era stata quella di avere spento i sorrisetti di sufficienza, le ironie e i sospetti: la gente, alla fine, aveva capito che non eravamo tutti dei furbacchioni, e che le analisi di laboratorio non mentivano.

No, i ciclisti non erano tutti uguali. Ce n’erano, e finalmente cominciava a venire in chiaro, di due tipi: quelli che rischiavano di farsi venire una trombosi per vincere una tappa, e quelli che potevano portare con orgoglio una decalcomania con scritto sopra “I’m doping free”.

San Paolo Bettini fu il nostro nume tutelare anche alle Olimpiadi di Pechino: corremmo tutti per lui, il 9 agosto, nella gara su strada. Purtroppo, però, una foratura lo tagliò fuori dalla possibilità di regalarci un nuovo successo, e tutti i nostri piani andarono a monte. Ormai liberi da ogni schema, assistemmo all’azione decisa di Davide Rebellin – proprio quel giorno festeggiava il trentasettesimo compleanno – che andò a giocarsi la medaglia d’oro con lo spagnolo Sánchez. L’iberico, però, gli rovinò la festa, inducendo i giornali a parlare di un argento dal retrogusto di fiele.

Rebellin, per conto suo, rilasciò un’intervista nella quale si proclamava soddisfatto e dichiarava che la sua medaglia era una testimonianza preziosa di quanto il lavoro onesto, alla fine, ripaghi sempre. «Questa è la rivincita del ciclismo pulito. Credo di essere un esempio per tutti i giovani» si sbilanciò a dire.

Qualcuno, nel gruppo, scosse la testa. «Per i giovani farmacisti, forse» sentii dire in tono sarcastico.

Fu festa piena per il ciclismo italiano, invece, quella di settembre ai Mondiali di Varese: Alessandro Ballan da Castelfranco Veneto, a sorpresa, tagliò il traguardo per primo, seguito dal suo capitano alla Lampre Damiano Cunego.

A me, però, toccò guardare quella gara in televisione, e non riuscii davvero a godermela.

La mia nuova casa sorgeva a un tiro di voce dal cuore di Mastromarco, ed era disposta su due piani: al pianoterra si apriva un ampio ambiente che faceva da soggiorno e sala da pranzo, dotato di cucina e con un bagno annesso. Sopra, invece, c’erano le camere, una delle quali era riservata agli ospiti. Ero orgoglioso di poter invitare mio fratello o gli amici a trascorrere qualche giorno in Toscana, per far conoscere loro il paese che mi aveva accolto e allenarci insieme lungo le strade che avevo percorso in lungo e in largo da Juniores e Dilettante.

Quella casa mi sembrava la naturale evoluzione della mia cameretta al Quartiere corridori e, anche se ci avrei messo anni a saldare il mutuo, mi dava una soddisfazione speciale arrivarci in macchina dopo le corse e i ritiri e godermela per due, tre o cinque giorni. Di più era difficile, al momento, ma sapevo che lei mi avrebbe sempre aspettato esattamente dov’era.

Aveva fatto bene, il Franceschi, a spiegarmi quant’è importante, per un uomo, avere quattro mura fra le quali sentirsi al sicuro. Purtroppo, però, avevo capito anche cosa intendeva quando aveva espresso i suoi dubbi sul fatto che, se quella soluzione andava bene a me, sarebbe andata bene anche a Elena.

A lei, quel posto, non piaceva fino in fondo. Non lo sentiva suo e, invece di essere contenta per il sottoscritto, si lamentava del fatto che Mastromarco fosse fuori mano, piccola e povera di vita sociale. Erano esattamente gli stessi motivi per i quali io mi ci trovavo bene, e mi dispiaceva che lei venisse a trovarmi solo di rado, e malvolentieri.

Un’altra cosa che non le piaceva era l’andirivieni continuo di parenti e amici, di colleghi e gente del paese.

«Questa non è casa nostra» mi disse una volta, spezzandomi il cuore. «È un porto di mare.»

E io, che le volevo bene, dovetti prometterle che le cose sarebbero cambiate.

Quando andammo insieme al matrimonio di mia sorella Carmen, in Sicilia, cominciammo a parlare di sposarci anche noi, come fanno tutti i fidanzati in simili occasioni.

«Però non staremo per sempre in Toscana» fu la sua prima condizione. «E, fino a quando abiteremo lassù, voglio che si faccia una vita decente: niente gente che arriva ogni due giorni. Altrimenti, Enzo, non se ne parla neppure.»

Si dice che le mogli siano le regine della casa, ma lei aveva cominciato a dare ordini ancor prima che si stabilisse una data per le nozze.