IV

Il regno del ciclismo

«E così il mio bambino se ne va» sospirò mamma, distogliendo lo sguardo dalla tavola imbandita.

«Ma quale bambino, Giovanna!» protestò il Lupo, che non aveva ancora toccato la sua porzione di pasta ’ncasciata. Se continuava a ignorarla, presto si sarebbe raffreddata. Era stata preparata una cena speciale in mio onore, ma quella sera mangiavamo solo noi ragazzi.

«Non ha ancora sedici anni, Salvatore» gli ricordò lei in tono implorante.

«Li avrà nel giro di due mesi. Ma è un pezzo che non è più un picciriddu. Guardalo bene in faccia. Ha la barba, ormai!»

Aveva ragione: non fitta come quella di Carmelo Materia, ma l’avevo. E, se non mi radevo almeno una volta alla settimana, sembravo più grande. A fare la faccia seria, potevo quasi dimostrarne diciassette, di anni.

«Non si potrebbe ritardare la partenza?» domandò mamma, e questa volta sospirai io.

«Nossignora. Ne abbiamo già parlato mille volte, e ormai è tutto pronto» le ricordai. «Mica possiamo rimangiarci la parola con il Malucchi e il Franceschi. Quelli mi aspettano per domani sera.»

«Davvero potrò avere la camera tutta per me?» domandò Antonio, ancora incredulo.

«No. Affitteremo il letto di Enzo a un pensionante» lo prese in giro Carmen. «Uno studente dell’università, o forse un operaio dei cantieri navali.»

«Sul serio?» domandò il mio fratellino cercandomi con lo sguardo. «Ma io non voglio dormire con uno sconosciuto!»

«Stai tranquillo che non verrà nessun pensionante» lo rassicurai. «Il letto servirà a me tutte le volte che tornerò a casa.»

«Perché non parti dopo il tuo compleanno?» propose mamma. «Così io avrei il tempo di abituarmi all’idea.»

«Cui tempu aspetta, tempu perdi» feci presente.

«È tutta l’estate che ne parliamo, Giovanna» ribadì il Lupo. «Anch’io all’inizio ero perplesso. Questa cavolo di Mastromarco non si trova né sugli atlanti, né sulla carta stradale. Però su “Bicisport” c’è, eccome! È una società eccellente per far crescere gli Juniores. E se è questo che vuol fare Enzo, non vedo perché dovremmo metterci di traverso.» Riprese a fissare la sua porzione intatta di pasta come non capisse bene di cosa si trattava. «E poi il Franceschi è un galantuomo» aggiunse. «Quando è venuto qui per conoscerci, mi ha fatto un’ottima impressione. E anche la signora Bruna. Ha promesso che ci penserà lei, a nutrire il nostro ragazzo.»

Alla mamma sfuggì un singhiozzo.

«Non fare così» le disse Carmen. «Tornerà per le feste. E se adesso ti metti a piangere, piango anch’io.»

«Femmine» liquidò la questione Antonio, con l’aria di superiorità che possono avere i maschi a otto anni. «Hanno sempre le lacrime in tasca.»

«Porta rispetto a tua madre e tua sorella» lo ammonì il Lupo. Poi riprese: «Il Franceschi è un padre di famiglia, sa come ci si deve comportare con i ragazzi. A marzapane e mazzate! E non dimentichiamo che ai suoi tempi ha vinto il Campionato nazionale Allievi» aggiunse, come fosse la prova definitiva delle sue convinzioni. «Può insegnare tanto a Enzo.»

Mamma tirò su col naso, cercò il mio sguardo e domandò: «Ma tu sei sicuro? Ci vuoi andare, a correre in Toscana?».

«Certo. Lo hanno già fatto altri prima di me. E se l’hanno fatto loro, perché non io?» Gonfiai il petto e domandai con aria di sfida: «Valgo di meno?».

«Maria santissima» implorò mia madre. «Non dico questo, Enzo. Non l’ho mai pensato, e tu lo sai.» Alzò gli occhi al cielo e disse: «Solo una madre può capire come mi sento».

«Mi avete sempre detto che a diciott’anni dovevo uscire di casa» ricordai. «Non è grave se lo faccio un po’ prima.»

«Io non l’ho mai detto!» protestò mamma, e guardò papà con aria affranta. «È Salvatore che...»

«Ma che Salvatore e Salvatore!» alzò la voce lui. «È il buon senso che lo dice! I figli non sono bambolotti da cullare finché non ci si annoia! Devono andare incontro al mondo sulle loro gambe! E quelle di Enzo sono già forti abbastanza! Altrimenti, mica gli davo il permesso!»

Mamma abbassò lo sguardo, poi fissò il piatto del Lupo e disse in tono amorevole: «Mangia, adesso. Altrimenti si fredda».

Lui prese la forchetta, ma subito la fece ricadere. «Non ho fame» spiegò. «Devo avere mangiato troppo a pranzo, e mi sono guastato l’appetito.»

Per un po’ nessuno parlò. Si sentiva solo Antonio masticare di buon grado: ormai aveva spazzolato la sua porzione.

«Ma in Toscana ci andrai a scuola?» mi domandò a bocca piena.

«Come no» assicurai. «A Empoli.»

«Ci mancherebbe altro» sottolineò papà con aria severa. «È già iscritto, e la settimana prossima comincia. Mica può allenarsi e basta.»

«Prenderò tutte le mattine la corriera insieme a Carmelo» spiegai. «Andremo a Empoli insieme, poi ognuno per la sua strada: lui a Ragioneria, e io all’Istituto professionale.»

«Studia, Enzo» si raccomandò Carmen. «E non trovare da litigare, per cortesia.»

La guardai sorpreso: aveva solo tre anni più di me, e già faceva raccomandazioni come una donna adulta. Nel dubbio, decisi di ignorarla.

«La mia è una scuola piena di sportivi» ripresi. «Ci sono parecchi ragazzi dell’Empoli calcio, dice il Franceschi. Anche Montella, il calciatore della Roma e della Nazionale, ha studiato lì. Lui, in Toscana, ci si è trasferito a tredici anni.»

«Tredici...» ripeté incredula mamma. «Un picciriddu! Come possono averlo permesso, i suoi genitori?»

«Contando quanto guadagnerà adesso, ci hanno visto lungo» considerò papà. Poi scosse la testa, quasi a cancellare quel che aveva appena detto, e si corresse: «Hanno rischiato grosso, quei signori. Il mondo del calcio è molto diverso da quello del ciclismo. Anzi, quelli non sono neppure sportivi veri. Mica conoscono la fatica come i ciclisti». Li detestava proprio, i calciatori. «Io lo so come sono fatti, quelli: si allenano pochissimo e, con tutto il tempo libero che hanno, gli crescono in testa idee bacate. Pensano solo a pettinarsi da saltimbanchi, a comprare il macchinone e a correre dietro alle femmine poco serie.» Alla fine di quella tirata, levò l’indice e mi ammonì: «Stacci attento, a quei ragazzi. Scommetto che sono dei perdigiorno. E ricordati sempre, Enzo: cu pratica 'u zoppu, all’annu zuppìa».

Mi scappava da ridere al pensiero che i ragazzi delle giovanili fossero presi come esempio di viziose star del calcio, ma assicurai che li avrei evitati come la peste, quei lazzaroni.

Quella stessa sera, dopo cena, passarono da casa Raffaele Allò e il cugino Bongiovanni, vestiti a festa e inondati di profumo. Mi portarono fuori con la scusa di fare due passi, ma si comportavano in maniera sospetta, e capii che ci doveva essere sotto qualcosa.

«Dove stiamo andando?» domandai mentre scendevamo per via Cannizzaro.

«Alla sala giochi» fece l’uno.

«A prenderci una granita» aveva già risposto quell’altro.

Si erano traditi, e scoppiammo a ridere tutti insieme.

«Me lo volete dire oppure no?» insistetti.

«È stata un’idea dei fratelli Marchetta» confessò mio cugino. «Hanno organizzato un piccolo brindisi in onore tuo e di Carmelo.»

«Sono stati gentili. E dove?» volli sapere.

Mi parlarono di un bar elegante che sorgeva in piazza Cairoli, un posto coi tavolini all’aperto dove andavano i trentenni della Messina bene per pavoneggiarsi. Io ebbi un momento di esitazione: ero uscito in maglietta e bermuda jeans, e l’idea di presentarmi in un locale alla moda vestito così mi metteva a disagio.

«Non potevate dirmelo? Almeno mi mettevo elegante come voi!»

«E che ti importa?» protestò il cugino Bongiovanni. «Mica è un matrimonio.»

Parlava facile, lui, con la sua camiciola a scacchi appena stirata, i calzoni lunghi e i mocassini. Raffaele, poi, indossava addirittura una camicia bianca. Avrei fatto la parte dello straccione della compagnia, su questo non ci pioveva. Anche se la nostra meta non distava ormai che un paio di isolati, meditai di tornare a casa per cambiarmi. Poi mi dissi che i Marchetta erano venuti apposta, e farli aspettare mi sembrò una scortesia.

«Certo che siete delle belle teste!» insistetti. «Dovevate avvertirmi.»

«Quante storie, Enzo» si strinse nelle spalle Raffaele. «In fondo sei l’ospite d’onore. Potevi venire anche in mutande!»

Il cugino Bongiovanni rise, e un’ombra si affacciò sui miei pensieri. Che l’avessero fatto apposta, per invidia?

Tentai di cacciare via quell’idea velenosa mentre costeggiavamo una palazzina d’angolo, dai balconi in stile liberty: le ringhiere erano composte da intrecci in ferro battuto che ricordavano gambi di fiori, rami e tralci, ma ognuno di essi poteva anche somigliare alla curva di un circuito sul quale avevo corso, o al profilo di una salita affrontata in fuga solitaria. In qualche modo, questo pensiero mi diede forza.

Pippo e Michelangelo Marchetta avevano fatto le cose in grande: il nostro angolo era composto da due o tre tavoli ravvicinati, e sembrava preso d’assedio da giovani ciclisti, amici del quartiere e cugini di secondo e terzo grado, miei e di Carmelo. Fra due piante era stato steso un festone, simile allo striscione d’un traguardo, e sopra vi si leggeva “Buon viaggio campioni!”.

Non appena mi videro, fui salutato da un lungo applauso, da grida e cori che mi fecero girare la testa. Venni abbracciato dal presidente e dal direttore sportivo, dall’amico Eddy e dagli altri compagni della squadra Amatori di mio padre, infine da una quantità di giovanotti e ragazze che avevo frequentato negli anni, dai compagni di giochi in cortile agli amici dell’Istituto professionale.

Anche Carmelo, nonostante si fosse preparato indossando un sontuoso completo color crema da cerimonia, era spaesato: non riuscivamo a credere che tutta quella gente fosse lì per noi. Me ne resi conto solo quando vidi spuntare papà insieme a Carmen. Furono stappate bottiglie di spumante, birre e aranciate per i più giovani, poi i fratelli Marchetta reclamarono il silenzio e incoraggiarono il Lupo e il padre di Carmelo a fare un discorso.

Poiché non si sentirono di pronunciare che poche parole, il centro della scena fu occupato dal vulcanico Pippo: «Amici carissimi! Parenti adorati! Concittadini!» esordì con voce stentorea. «Oggi è un grande giorno per la Cicli Fratelli Marchetta e per la comunità tutta del ciclismo, siciliano in generale, e messinese in particolare!»

Partì un applauso scrosciante, ma il direttore sportivo lo rifiutò con modestia. Non era che all’inizio. «Come sapete meglio di me» riprese, «i signori Nibali Vincenzo e Materia Carmelo si sono fatti onore nelle corse di rilievo nazionale tenute in Toscana. Hanno battuto tutti!» s’infervorò alla sua maniera. «Li hanno travolti, distrutti, massacrati. Dovevate esserci per non capire che non esagero: li hanno fatti piangere lacrime di sangue! E hanno dato lezione di ciclismo anche ai Campionati regionali, alla faccia – con rispetto parlando – di quei superbi cornuti di Palermo!»

Un nuovo applauso lo sommerse.

«Ora il ciclismo nazionale ha bisogno di loro!» arrivò al punto. «Li desiderano! Li reclamano! E chi siamo noi per tappare le ali a due giovani rapaci che non conoscono la paura e vogliono volare nel cielo libero? Non ne abbiamo il diritto, signore e signori! E infatti non gliele tapperemo

Mi sembrava che tutti mi stessero guardando. Mi girava la testa, anche se avevo bevuto solo mezzo bicchiere di spumante. E prese a girarmi ancora di più quando riconobbi, fra tutti gli occhi che avevo puntati addosso, quelli di Elena. C’era anche lei! E io ero conciato come un poveraccio, di fianco al mio elegantissimo amico!

«E allora, amici e parenti carissimi, appassionati del ciclismo e popolo di Messina, salutiamo come conviene i nostri giovani che vanno a farsi valere in Alta Italia.» Pippo tacque per un attimo, ma subito dopo sovrastò il brusio lanciando un grido selvaggio: «Viva la Cicli Fratelli Marchetta! Viva la grande Messina e la sua bella provincia! Viva la Sicilia e viva l’Italia! E adesso, gente, fatemi sentire tutto il vostro affetto per i nostri giovani eroi, Nibali Vincenzo e Materia Carmelo!».

Gli animi dei presenti, eccitati da tanta energia retorica, non poterono che lasciarsi andare: partì un applauso fragoroso, sentito e liberatorio.

Controllai che l’entusiasmo dello zio avesse contagiato anche Elena, e il cuore mi rimbalzò in gola quando mi accorsi che, nel battere le mani, mi sorrideva. Trovai la forza di sorriderle anch’io e, non appena le celebrazioni ufficiali lasciarono posto a un secondo e a un terzo brindisi, ne approfittai per smarcarmi e raggiungerla.

«Così parti» considerò lei. Profumava di pesca e di mandorli in fiore.

«Già» ammisi, mentre le guance mi andavano a fuoco e le radici dei capelli parevano farsi elettriche. Non ero mai stato un campione nel tenere discorsi, ma meglio di un “già” potevo fare. «Vado a cercare fortuna» aggiunsi, sforzandomi di sembrare consapevole e spiritoso. «Come quegli emigranti che partivano con la valigia di cartone.»

Lei sorrise e distolse gli occhi, pudica. «Ci vuole coraggio» ammise, poi tornò a guardarmi, le labbra che tremavano, e aggiunse: «Ti auguro di avere successo».

La ringraziai, e mi dissi che non poteva esistere un’altra ragazza capace di farmi sentire a quel modo: le punte delle orecchie mi si erano fatte incandescenti, e temevo di stramazzare a terra da un momento all’altro, svenuto senza rimedio sul selciato di piazza Cairoli.

Non era molto il tempo a nostra disposizione: presto suo padre e suo zio avrebbero finito di salutare i conoscenti, e qualcuno sarebbe venuto a reclamare la mia presenza, o la sua. Se volevo gettare un ponte fra noi due, capace di superare la grande distanza fra la nostra città e la Toscana, dovevo sbrigarmi. “Ti va se ci scambiamo i numeri di telefono?” Ecco cosa avrei dovuto domandarle, invece di continuare a fissare le sue spalle scoperte e a cullarmi nell’illusione di far sparire all’improvviso tutti i presenti eccetto lei.

«Tuo padre e tuo zio sono stati molto gentili» mi uscì invece. «È venuta proprio tanta gente...» Mi sarei strappato la lingua.

Elena annuì. «Sono affezionati a te. Sia mio padre che Pippo. E anche gli altri.»

Poi vidi Raffaele che si avvicinava, il braccio sulla spalla del cugino Bongiovanni e un calice nell’altra mano: cosa diavolo stavano facendo, adesso? Venivano a disturbarmi?

«Alla salute, caro socio!» esclamò Raffaele, levando il calice al mio indirizzo. «Che tu possa vincere tutto il vincibile!» Sembrava mezzo brillo.

«Salute» balbettai, terrorizzato all’idea che volesse attaccare bottone, ma subito mio cugino lo dirottò verso un gruppetto di amici e, in cuor mio, gliene fui immensamente grato.

«Forse ha bevuto un bicchiere di troppo» sussurrò Elena, divertita.

«Può darsi» concessi. «In fondo è una festa. E poi sono le ultime sere d’estate.»

Cosa cavolo stavo dicendo, adesso? Parlavo delle stagioni? Mi sarei preso a schiaffi.

Lei si guardò intorno. Controllava la situazione, come fanno le ragazze quando sentono di essersi trattenute abbastanza con qualcuno.

“Forza Vincenzo!” mi dissi. “Cui tempu aspetta, tempu perdi!”

«È tua sorella, la ragazza insieme a tuo padre?» domandò lei, ma le mie orecchie sentirono un messaggio diverso. “Ti sbrighi a chiedermi questo numero di telefono, citrullo che non sei altro, o devo piantarti in asso?” Così mi parve che dicesse. Allora vinsi il mio riserbo, la paura di svenire e l’immenso calore che sprigionava dalle mie guance: mi schiarii la voce, e domandai se le avrebbe fatto piacere, ogni tanto, scambiarci qualche messaggio.

Prima ancora di rispondere, lei diede un sospiro di sollievo. Un attimo più tardi, ci stavamo scambiando i numeri.

Il paese di Mastromarco era minuscolo, e già arrivarci era una piccola impresa.

Per prima cosa, occorreva andare a Firenze e di lì scendere la valle dell’Arno per una trentina di chilometri, fino a Empoli. A quel punto si superava il fiume per prendere la provinciale numero 9 e successivamente imboccare, sulla sinistra, la provinciale Cerretese.

Superato La Stella, estremo abitato della provincia di Firenze, un cartello segnalava l’ingresso nel comune di Lamporecchio. Cinquanta metri più in là si entrava nella fatidica frazione di Mastromarco.

Una volta giunti in questo borgo sospeso fra le pendici del Montalbano e la pianura della Valdinievole, cuore d’una contrada insigne per il suo olio e il suo Chianti, non restava che prenderle le misure: a stare larghi, erano un paio di chilometri di strada, che correvano verso nord.

Su quei duemila metri scarsi d’asfalto si addossavano case modeste, di due o tre piani al massimo, che nascondevano dietro a sé solo campagna. I luoghi d’interesse pubblico si limitavano alla chiesa parrocchiale in mattoni rossi, alla Casa del Popolo, all’ufficio delle Poste e alla scuola materna. Vi erano poi due bar, uno dei quali lavorava anche come pizzeria, un tabaccaio, un panificio, la ditta dolciaria Rinati – specializzata in torrone e brigidini – e un pugno di altre botteghe.

Mastromarco era tutta qui.

Empoli e il trafficato fondovalle dell’Arno sembravano ormai lontani, il bailamme di Firenze remotissimo... E la ventosa Messina, che mi era parsa fin lì il centro del mondo, pareva, a dir poco, perduta su un altro pianeta.

Il “Quartiere corridori” del Gruppo sportivo Mastromarco era un casale a due piani in via dell’Apparita, dal cortile in ghiaia e affiancato da un erboso declivio che scendeva verso i campi. La costruzione era di proprietà di Piero Trinci, detto “Nano”, benché fosse tutt’altro che minuto, il fornitore di vino d’elezione del Malucchi e del Franceschi.

Un paio d’anni prima, i due dirigenti avevano preferito affittare la struttura per alloggiare i giovani atleti venuti da fuori piuttosto che confinarli in un albergo, e offrire una base logistica alla squadra in occasione dei ritiri, dando riparo al piccolo arsenale di biciclette di proprietà del club. Carmelo e io ci saremmo abituati a chiamarlo casa, come aveva fatto prima di noi un altro ragazzo siciliano, Dario Benenati, ragusano di Vittoria. Fu lui a raccontarci dei viaggi epici che altri giovani dell’isola avevano intrapreso per raggiungere l’Alta Italia. A quanto riferiva, Paolo Tiralongo da Avola, diventato di recente professionista nelle file della Fassa-Bortolo, era salito al Nord a bordo di un camion di arance.

Al piano terra del casale si trovavano il magazzino degli attrezzi, dal cui soffitto pendevano rastrelliere cariche di ruote spaiate, e un’ampia cucina dotata di un tavolone in grado di ospitare una dozzina di persone. Era il regno del fratello di Bruno Malucchi, Giancarlo detto “il Fattore”, factotum della Mastromarco, che, fra le altre mansioni, aveva il compito di cucinare per noi pasti adatti alla vita da atleti.

Una scala conduceva al piano superiore, di fronte a un camerone chiuso a chiave, detto “stanza dei segreti”, nel quale più avanti scoprimmo che si ammassavano una mezza dozzina di letti a castello e il parco-bici messo insieme negli anni dalla società. Le vecchie cavalcature servivano come rincalzi nel caso si guastassero quelle personali degli atleti, oppure venivano vendute per finanziare le attività del gruppo.

Sul corridoio si aprivano poi le porte di quattro stanze singole e, sul fondo, l’ampio ambiente dei bagni, con docce comuni e le indispensabili lavatrici. Separati da questo, gli ombrosi gabinetti.

«Qui non s’ha donna di servizio» mise subito in chiaro Carlo Franceschi. «Ognuno deve fare la propria parte per tenere in ordine, ed è responsabile della propria roba. Avrete una cameretta ciascuno, e di giorno la chiuderete a chiave. La sera, però, voglio che siano aperte per poter controllare che alle undici siate a letto. Abbiate pazienza, ma qui siete sotto la mia responsabilità, e mi è già capitato che qualcuno facesse il furbo.»

«Ah sì?» domandò Carmelo. «E cosa ha combinato?»

«Non si comportava da atleta» tagliò corto il nostro nuovo direttore sportivo. Poi ci guardò negli occhi, prima uno e poi l’altro, e argomentò: «Qui non c’è niente di proibito. Però voglio sapere sempre dove siete. Il rispetto è il rispetto. E chi sgarra lo butto fuori: si prende una corriera e si torna a casa».

Annuimmo all’unisono, intimoriti. Carlo Franceschi levò l’indice e aggiunse: «Patti chiari e amicizia lunga».

Pensai ai racconti di chi aveva fatto il militare, e mi dissi che non doveva essere poi tanto diverso. Con la differenza che andavo per i sedici anni, e avevo l’indubbio privilegio di una stanza tutta mia.

Al letto e all’armadio aggiunsi una scrivania e un cesto per i panni sporchi; nel giro di poche settimane, grazie a una visita di Pippo Marchetta, potei arricchire l’ambiente con una poltrona, un televisore e un piccolo impianto hi-fi. Decisamente non mi potevo lamentare della mia stanza, né si poteva lamentare Carmelo, che aveva arredato la sua in maniera non dissimile, con l’unica differenza che la sua televisione era gigantesca, e fornita di un videoregistratore che ci sarebbe tornato prezioso nelle lunghe sere d’autunno, quando fuori si gelava, e solo le volpi si avventuravano per le campagne.

La zona brulicava di squadre ciclistiche di Juniores e di Dilettanti, anticamera del professionismo. Senza uscire dal comune di Lamporecchio, che contava settemila anime scarse, si incontravano il Gruppo sportivo Poggio alla Cavalla e il forte team Finauto, che aveva sede nella frazione di San Baronto, abbarbicata sulle prime alture del Montalbano.

Per orientarmi nella mappa delle rivalità locali, dovevo rendermi conto che il territorio municipale era diviso in rioni, ognuno dei quali aveva i propri colori tradizionali e le proprie rappresentative sportive. Funzionava un po’ come per le contrade di Siena, insomma, solo che c’erano biciclette e ciclisti al posto di cavalli e fantini.

I colori di Mastromarco erano il giallo e il blu. Erano riprodotti sulle bandiere a scacchi in bella mostra ai davanzali delle case, si ritrovavano sulle casacche da calcio impiegate per l’annuale torneo dei rioni – amatoriale ma combattuto all’ultimo sangue – e non avrebbero potuto avere altre tinte le nostre maglie da ciclismo: blu sul petto e sulle maniche fino all’altezza del gomito, gialle sull’addome e sugli avambracci.

Allontanandosi di poco dal paese, s’incontravano altre squadre di spicco, e altrettanti serbatoi di futuri professionisti: la Giusti a Pistoia, la Bottegone nell’omonima borgata, la Milleluci a Casalguidi, la Sfinge a Spedalino di Agliana, la Vellutex, con le sue gloriose maglie viola, a Quarrata, la Maltinti a Empoli, la Pozzarello a Monsummano, la Torre a Fucecchio. Alcune di esse organizzavano da decenni corse di spicco, cresciute nel tempo sino a diventare appuntamenti internazionali per il circuito dei professionisti, come il Gran Premio Industria e Artigianato organizzato dall’Unione ciclistica di Larciano, comune contiguo a Lamporecchio.

Era possibile, in linea teorica, che esistessero cittadine, borghi o frazioni dove il ciclismo non fosse praticato, ma io non ne venni a conoscenza.

Data la passione per le due ruote che incendiava il circondario, i campioni del pedale erano tenuti in grande stima.

Non a caso, si sentiva parlare come di una leggenda vivente di Andrea Tafi, emerso dalle categorie giovanili per diventare professionista sul finire degli anni Ottanta; compagno del pisano Bartoli e del livornese Bettini nello squadrone Mapei, si era messo in luce a suon di vittorie nonostante la vicinanza di quei due Giganti della strada. Tafi era un membro fisso della Nazionale azzurra in occasione dei Mondiali, e nel suo palmarès spiccavano trionfi da capogiro: una maglia tricolore di campione italiano e una doppietta di classiche-monumento come il Giro di Lombardia e la Parigi-Roubaix, annoverate fra le cinque corse di un giorno più importanti del pianeta.

Il suo barbiere di fiducia era Vieri Corsini, che aveva la propria bottega nel cuore di Mastromarco, e quando il Tafi arrivava a farsi i capelli, la voce correva per tutta la borgata. Allora il Malucchi e il Franceschi andavano a scambiarci due chiacchiere e i dilettanti a rendergli omaggio, mentre i ragazzini si affollavano per chiedere autografi e fotografie, o semplicemente per guardarlo in silenzio, convinti che la vicinanza del campione li potesse rendere più forti.

Se esisteva un regno del ciclismo, una terra dove le due ruote fossero considerate qualcosa di simile a una religione o a un’ideologia, era proprio la terra che mi aveva accolto. Ora, spettava al sottoscritto passare da ospite a cittadino onorario.

Difficile dire quale delle équipe vicine fosse più detestata dai frequentatori della Casa del Popolo, centro nevralgico di Mastromarco e covo del Malucchi, del Franceschi, del vicepresidente Zeffiro Vescovi e dei loro fedelissimi.

Dietro il bancone del bar a pianterreno regnava il Mazzei, dispensatore di cappuccini e lezioni di vita, supportato dal figlio Massimiliano, mentre erano quasi immancabili le presenze in sala di “Nano” Trinci, di Roberto Boldrini detto “Giubba”, un omone dalle mani forti come tenaglie, incaricato di guidare il furgone del Gruppo sportivo e di calmare gli eventuali bollenti spiriti dei rivali. Una volta chiusa la loro bottega di barbiere, si presentavano sempre anche Vieri Corsini e il figlio Massimo, per tutti “Pettinino”.

Dentro il bar si parlava a voce altissima – per i miei standard, praticamente si gridava senza sosta –, tanto che si parlasse di ciclismo, quanto si contestasse una mano al tavolo del ramino.

Avevano tutti una lingua lunga e tagliente, a Mastromarco, e mi aspettavo scoppiassero risse da un momento all’altro, invece quel modo di comunicare, comprensivo di offese sanguinose, battutacce e prese in giro, era per loro la normalità. Ognuno, infatti, sopportava sorridendo, e fare il muso lungo era l’unica reazione da evitare: la permalosità era considerata un sintomo di debolezza.

Mica si offendeva, Carlo Franceschi, se lo chiamavano “il Puzzola” – non per via di odori corporali fuori luogo, ma per la chioma sale e pepe che ricordava il mantello della bestiola – e nessuno protestava o minacciava vendetta se si tirava fuori in pubblico qualche disavventura del suo passato.

Dovetti rendermi conto che, nonostante si urlassero addosso, mica si odiavano, anzi. Si volevano bene. E mi meravigliai di quanto fossero solidali l’uno con l’altro, al punto che ognuno condivideva senza vergogna i dettagli della propria vita, compresi quelli che in Sicilia ci si sarebbe tenuti per sé.

I miei ospiti sapevano fare squadra, era fuor di dubbio, ma ancora non avevo capito fino a che punto potessero voler bene ai loro portacolori, e male a quelli delle comunità vicine.

La mattina si partiva con la corriera scolastica delle 6.54, che mezz’ora più tardi ci scaricava di fronte alla stazione di Empoli.

Il centro storico della cittadina, stretto fra i binari della strada ferrata e la riva dell’Arno, era di dimensioni ridotte e non offriva grandi distrazioni, così Carmelo e io profittavamo della mezz’ora d’anticipo rispetto all’inizio delle lezioni per rifugiarci in qualche bar.

Si beveva un cappuccino e si sfogliavano le pagine di cronaca locale della “Nazione”: una volta appurato che il giorno prima non era accaduto nulla di particolarmente eccitante, si passava alle pagine di sport. Poi Carmelo si avviava alla volta della scuola per ragionieri; io, invece, attraversavo i giardinetti antistanti la stazione e, ignorando le vetrine di via Roma, che conduceva alla piazza centrale, svoltavo a sinistra in via Giuseppe Verdi. Mi lasciavo indietro tre isolati, ed ero già di fronte alla mia scuola, l’Istituto professionale Leonardo da Vinci.

Fra i miei compagni, c’erano parecchi sportivi fuori sede come me: trovai un paio di ragazzi napoletani, un siciliano e un grossetano che militavano nelle giovanili dell’Empoli calcio. Nessuno di loro pareva avere atteggiamenti da divo, e sembravano anzi decisi a non sprecare l’opportunità che si era presentata loro: a differenza di quanto avveniva nel ciclismo, dove normalmente si diventa professionisti intorno ai ventitré anni, i calciatori potevano sperare di ottenere un contratto redditizio nel giro di tre-quattro stagioni. Non sfuggiva a nessuno, però, che la concorrenza era agguerritissima, e fors’anche per questo sembravano avere in mente solo schemi di gioco, tornei e allenamenti.

Nella mia classe c’erano anche due sportivi locali: il giovane cestista Gabriele Baldacci, di ruolo playmaker, e un collega delle due ruote, che però faceva parte di una formazione rivale, e quindi non mi rivolgeva la parola.

Alla fine delle lezioni, tornavo alla stazione per incontrarmi con Carmelo e riprendere la corriera.

Nessuno dei due ricordava granché delle cinque ore precedenti, in quanto i nostri pensieri erano rivolti solo al pranzo e alla sgambata in collina che ci attendeva nel pomeriggio sotto la direzione del Franceschi.

«Non vi voglio mettere pressione» puntualizzava il direttore sportivo al momento di salire in bici. «Niente gare, e niente sparate da fenomeni. Non siete qui per abbracciare il mondo, ma per crescere un giorno alla volta.»

Quando gli sembrava che in salita mi dessi troppo da fare, spingendo in piedi sui rapporti più duri, mi invitava a rimettermi seduto e calare il ritmo: «Giù quei rapportoni! Abbi pazienza, Nibalino! Ora si lavora sull’agilità! Per sputare l’anima, c’è tutta primavera prossima!».

«Per studiare, non mi sembra che studiate troppo. Anzi, a dire il vero, non vi ho mai visti con un libro in mano» notò Carlo Franceschi un sabato pomeriggio. «Come va a scuola?»

«Bene» ci affrettammo a rispondere, all’unisono, Carmelo e io.

«Occhio, che presto andrò a parlare con i vostri professori. ’Un ci sono mai andato per la mi’ figliola» considerò sovrappensiero, poi tornò a fissarci severo e proseguì: «Ma per voi ci andrò, e non voglio scherzi da prete».

«State tranquillo» garantì il mio amico. «Non vogliamo mica farci bocciare.»

«Sarà meglio» commentò Franceschi in tono sulfureo. «Ma non era di questo che volevo parlarvi. Mi dicevo che domenica, già che la giornata è libera dagli allenamenti, magari vi annoiereste, qui al paese. Così mi chiedevo se avreste voglia di fare una passeggiata insieme. C’è anche il Malucchi.»

Carmelo e io ci guardammo interdetti: si era previsto di spingerci in corriera a Montecatini, per concederci una gita di piacere nel disperato tentativo di attaccare bottone con qualche ragazza. Però il fine settimana si annunciava uggioso e, di fronte all’ipotesi di un’escursione con i dirigenti, avremmo ben potuto rimandare.

«Perché no, signor Franceschi» rispose per primo Carmelo. «Con piacere. E dove si va di bello?»

«Pensavo di andare dalle parti di Volterra» spiegò il direttore sportivo. «Giù per certe maremme che conosco io.»

Avevamo sentito parlare fin lì di una sola Maremma, ma evidentemente il Franceschi la sapeva più lunga di noi.

«Mi raccomando di vestirvi sportivi» si raccomandò. «E di andare a letto presto: si parte alle quattro e mezzo.»

«Del mattino?» sbiancai, mentre il mio amico si colpiva con una manata sulla fronte.

Il direttore sportivo non rispose neppure. «Vi vengo a prendere io al Quartiere corridori. Fatevi trovare pronti. E vestitevi sportivi» ribadì.

Non mi ero mai svegliato alle quattro e un quarto in tutta la vita, neppure per andare in bagno, e riuscire a scendere dal letto fu un’esperienza spaventosa.

Fuori era buio pesto, e riuscii con grande fatica a indossare una tuta in acetato, le scarpe da educazione fisica, un berretto di lana e un giacchino impermeabile.

Fu una sorpresa vedere che Carmelo, gli occhi ridotti a due fessure, era già pronto a uscire con i mocassini dalla suola di para, la giacca di tweed e il cappotto delle grandi occasioni.

«Ma non aveva detto di vestirsi sportivi?» protestai. «Sembri il principe Carlo d’Inghilterra!»

«Elegante ma sportivo» si compiacque. «Adatto a tutte le occasioni. Metti che ci portino a pranzo, e a tavola ci siano delle femmine...»

«Ti sei messo persino il profumo!» notai.

«Appunto.»

In quella sentimmo il rumore di un veicolo che arrivava in cortile e si arrestava sulla ghiaia, così troncammo la nostra discussione e scendemmo le scale.

Quando spalancammo il portoncino, ci trovammo di fronte il presidente Bruno Malucchi e il direttore sportivo vestiti in tenuta mimetica. Erano arrivati con un fuoristrada che non avevamo mai visto, e nella parte posteriore dell’abitacolo era alloggiata una gabbia dentro la quale si agitava un setter bianco e nero.

«O come ti sei vestito, Carmelo?» trasalì il Franceschi. «Credi ti si porti al ballo?»

«Ma... Dove andiamo?» domandò lui.

«Non gliel’hai spiegato, Carlo?» domandò il Malucchi con un risolino. «Adesso lo vedrete, giovani! Su, montiamo in macchina.»

Andare a caccia fu un’esperienza nuova sia per Carmelo sia per me. Il nostro incarico era quello di darci da fare come battitori: quando il cane si fermava in punta, di fronte a una macchia o a un semplice cespuglio, anche il Malucchi e il Franceschi si fermavano, imbracciavano il fucile e ci comandavano una manovra a tenaglia. Allora dovevamo dirigerci uno da una parte e uno dall’altra, in silenzio, per convincere la preda a farsi vedere.

Il più delle volte era un falso allarme, ma non lo si poteva sapere fino all’ultimo. Quando c’era, il fagiano si manifestava all’improvviso, rompendo il silenzio con un battito d’ali. Allora tutto esplodeva all’improvviso: il cane si slanciava in avanti, folle d’eccitazione, l’aria crepitava di fucilate, e noi ci gettavamo a terra per paura di essere colpiti.

«Tira, tira!» s’incoraggiavano l’un l’altro i nostri dirigenti nel rimbombare delle schioppettate, e non appena il pennuto, folgorato da una palla, piombava giù a corpo morto, il cane gli era già addosso per recuperarlo.

Dopo un paio d’ore di quella pratica, eravamo infangati sino alle orecchie, e Carmelo malediceva il momento in cui aveva deciso di vestirsi da giovin signore.

Rientrammo alla base col carniere pieno, e quella sera fummo invitati a casa Franceschi per una cena speciale, forse non esattamente da atleti, ma sicuramente deliziosa.

A casa Franceschi, incorniciato e sotto vetro, era esposto un articolo che risaliva ai Campionati nazionali Allievi tenuti a Trento nel 1963: nella foto in bianco e nero si vedeva il nostro direttore, giovanissimo, che alzava le braccia al cielo senza smettere di pedalare, un nugolo di concorrenti alle spalle. Di fianco, a mo’ di didascalia, era scritto: “Trionfa in volata davanti a cento avversari”.

A due palmi di distanza, un secondo quadretto conteneva una foto dello stesso Carlo, questa volta a colori, con indosso la maglia vinta in quella corsa, bianca con una fascia tricolore che correva intorno al busto.

«Ho smesso di correre due anni dopo» ci raccontò. «A casa mia non s’era ricchi, e mi son dovuto mettere a lavorare sodo appena fatto il militare. Sono andato in cantiere da mio cugino, e ho iniziato a fare il manovale. Si lavorava tutto il giorno, da sole a sole, per un guadagno di quattromila lire. I primi soldi che misi da parte, li spesi per il matrimonio, e li rifinii tutti un’altra volta.»

«Si andò in viaggio di nozze con la Bianchina del mi’ babbo» raccontò la signora Bruna, senza distogliere l’attenzione dai fornelli. «Avevamo sempre con noi un taccuino per annotare le spese. Centoventimila lire, spendemmo. E ce ne restarono centomila per comprare i mobili.»

Tempo che la cacciagione fosse cucinata, e salirono dall’appartamento del piano di sotto la figlia Barbara insieme al marito Adolfo e alla piccola Arianna, una bimbetta d’un paio d’anni.

«Allora come vi trovate, qui in paese?» domandò la giovane di casa. «Vi bastona troppo, il mio babbo?»

«Ma no» garantì Carmelo. «È gentile, e ci insegna un sacco di cose.»

«Lo so bene, com’è fatto» sospirò lei. «A volte è un po’ selvatico, ma è buono come il pane. E al Quartiere corridori come va?»

«Bene» assicurò il mio amico. «Non ci manca nulla» garantì, esaltato dal profumino che saliva dai fornelli.

«Perlomeno vi farete compagnia a vicenda» osservò la signora Bruna mentre metteva in tavola lo spezzatino con le verdure. «Se penso che i vostri genitori volevano mettervi in albergo... Proprio ’un mi garberebbe di sapere un ragazzo di sedici anni da solo in una stanza d’albergo.»

«Lì, magari, potrebbero portarsi una ragazza, ogni tanto» insinuò Adolfo.

«O che tu dici!» protestò la suocera. «Vuoi che ti lasci senza fagiano?» Poi guardò me come le facessi pena, e disse: «Quando vi ho visti per la prima volta, alla Coppa Mazzola, ho pensato che eravate tanto giovani per partire da casa. Soprattutto Vincenzo. Questo hosino piccolino e magro magro... Ma adesso ci penso io, a sfamarvi!».

Fummo serviti con abbondanza, ma Carlo stabilì che ci spettava una e una sola fetta di pane a testa. «Anche quando si fa una cena speciale, ricordatevi che il pane ’un va d’accordo con la bicicletta.»

«Qui, comunque, è tutta roba sana» garantì la signora. «Olio del paese, verdure dell’orto e carne fresca, non le schifezze che vi servono nei ristoranti, cucinate Dio solo sa come.»

Si mangiò in silenzio. Il fagiano era spettacolare, e quando i piatti furono puliti, Adolfo si tagliò un’altra fetta di pane e la mangiò in maniera ostentata. «Tanto io non sono corridore» fece presente, poi domandò con un sorrisetto: «La conoscete, la storia di quel ragazzo emiliano che correva per la Mastromarco?».

«Non credo» risposi. «Chi era?»

«Proprio di lui, bisogna parlare?» domandò Carlo, rabbuiato.

«È una storiella divertente» garantì Adolfo. «La volete sentire?»

Carmelo e io non sapevamo che pesci pigliare, al che il direttore sportivo esclamò spazientito: «E va bene, ve la racconto io». Si versò mezzo bicchiere di vino, e attaccò: «C’era questo giovanotto che era venuto a stare al Quartiere corridori. Bell’atleta, ma dopo un po’ si lamentava di avere sempre male a qualcosa. Una volta era un ginocchio, un’altra la schiena... fatto sta che non era mai a posto. Poi un amico mi chiama a casa sua perché vuole mostrarmi una cosa: sul computer aveva una foto scattata la sera prima dal figlio durante una festa in discoteca, e nella foto c’era il nostro bravo atleta che smaniava a torso nudo con un bicchiere in mano, mentre ballava sul cubo come l’ultima delle checche!».

«Ahio!» esclamò Carmelo.

«Sono ragazzi...» fece Adolfo. «A chi non è mai...»

«Macché ragazzi!» lo interruppe il direttore. «Quello era un bischero bello e buono! Noi dietro a pagargli visite su visite, massaggi e agopunture, e lui si ubriacava e ballava fino al mattino, ridotto da fare schifo ai maiali! Allora son piombato al Quartiere e l’ho messo spalle al muro: “Dov’eri ieri sera? E cosa tu ha’ fatto?”. Speravo mi rispondesse, magari c’era stato un errore di persona, invece lui ha tenuto gli occhi bassi, e ho capito che si vergognava.»

Sulla tavolata era sceso un silenzio minaccioso, ma Carmelo trovò la forza di domandare: «E poi com’è andata a finire?».

«Che l’ho cacciato! “Se fra dieci minuti sei ancora qui” gli ho detto, “ti butto la roba sull’aia, e ti faccio volare dalle scale”» ricordò il Franceschi. Poi fece schioccare la lingua e aggiunse: «Mai più visto».

Ben presto ebbero inizio allenamenti più seri, ascensioni a cronometro sul colle di Vinci e serie ripetute di accelerazioni.

«Adesso si va per un minuto a tutta!» ordinava Carlo, e noi ci mettevamo a pancia bassa pistonando al massimo delle nostre possibilità. Erano minuti più lunghi di quelli che avevo conosciuto sin lì, e brevissimi, al contrario, mi sembravano i sessanta secondi d’intervallo nei quali ci era consentito rifiatare prima che il Franceschi ci spronasse da capo a pedalare a tutta birra.

Con mio grande stupore, andare in bicicletta era solo una piccola parte dei nostri impegni nei confronti del Gruppo sportivo Mastromarco e della comunità che rappresentava. Un’altra grossa responsabilità, infatti, derivava dall’alimentarsi secondo i precetti del nostro nuovo direttore sportivo: il corpo di un atleta, sosteneva, era una macchina da tarare al punto giusto, altrimenti l’allenamento non sarebbe servito a nulla.

Era letteralmente inorridito quando aveva appreso che, sino al giorno del nostro trasferimento, ci eravamo sempre ingozzati di arancini, pituni e fritture in maniera disordinata, a seconda dell’estro e delle occasioni. Di conseguenza, ci proibì rigorosamente patatine, hamburger, merendine e gelati confezionati; su quelli artigianali era più possibilista – una tantum, non avrebbero ucciso nessuno –, ma non c’era in paese un luogo che li producesse, né tantomeno si trovavano granite degne di questo nome.

Quel che ci lasciò sbigottiti, fu il razionamento del pane. Potevamo mangiarne una fetta a testa a pranzo, e un’altra a cena, non di più, pena il vanificarsi di tutti gli effetti benefici dell’allenamento.

«Il ciclista ha da essere magro, forte e resistente, con una muscolatura lunga e reattiva» ripeteva. «E perché la macchina del corpo funzioni a dovere, bisogna evitare di mangiare a caso: la colazione dev’essere robusta, il pranzo frugale, la merenda sana e leggera, e la sera cena alle sette in punto, per dare il tempo al corpo di assimilarla.»

Le sue “sette in punto” non erano un modo di dire: il pasto era servito allo scoccare dell’ora, al che ci buttavamo sui piatti, e chi arrivava in ritardo, foss’anche alle sette e dieci, non trovava più niente da mangiare.

A sentir lui, solo un pazzo avrebbe sgranocchiato qualcos’altro prima di coricarsi, che doveva avvenire tassativamente entro le undici.

Per fortuna, non eravamo i soli sottoposti a questi precetti, così non li avvertivamo come una tortura riservata a noi ultimi arrivati. Tutti i ragazzi della squadra Juniores della Mastromarco si facevano un punto d’onore nel mantenere la forma, e infatti erano tutti asciutti e scattanti.

Pensavamo a noi stessi come a un corpo d’élite, una falange di spartani: se ci sacrificavamo, era per la causa. Bisognava render gloria al nome di Mastromarco, e l’intero paese ci controllava. Se pensavamo di fare i furbi ordinando una cestina di riso o un cornetto al bar della Casa del Popolo, ci ritrovavamo addosso tanti sguardi di condanna quanti erano i presenti: volevamo forse ingrassare, rendendo vita facile alle squadre dei paesi rivali? Ben presto imparammo che ogni sgarro, foss’anche un caffè fuori orario, veniva riferito al nostro direttore sportivo. Se volevamo frequentare il bar, dovevamo ordinare solo acqua minerale.

Ma eravamo pur sempre dei ragazzi e, non appena ci allontanavamo dall’abitato alla volta di Empoli, correvamo a comprare di nascosto merende e panini, lattine di Coca-Cola e barrette di cioccolato. Ancora non avevamo capito fino a che punto servissero rigore e autocontrollo.

Men che meno ce lo ricordammo durante le feste natalizie, quando caricammo le nostre cose in treno per rientrare in famiglia un paio di settimane.

Eravamo saliti con le bici sul regionale Empoli-Firenze, e a Santa Maria Novella ci eravamo imbarcati sull’Espresso 1908, il “treno della speranza” Milano-Palermo, dove ci era toccato infilare le bici sotto le cuccette.

«Finalmente si va a casa e si mangia!» aveva esultato Carmelo. «Non ne posso più di patire la fame!»

Avevamo viaggiato tutta la notte, e all’alba il treno era salito sul traghetto a Villa San Giovanni.

Mentre solcavamo le acque dello Stretto, sentivamo arrivare ondate di profumi: ci attendeva un’isola intera carica di cremose granite e gelati deliziosi, arancini appena fritti e pituni ricolmi di erbe, formaggio e alici, e ancora focacce e casseruole di pasta ’ncaciata, ricotte al forno e caponate, sarde a beccaficu e involtini di pesce spada, pignolate e cannoli...

«Dobbiamo controllarci» stabilii. «Se ingrassiamo, Carlo se ne accorgerà subito, e ci farà un cazziatone.»

«Un piccolo strappo alle regole ci può stare» insinuò Carmelo. «In fondo è quasi Natale.»

Sbarcammo a Messina con l’acquolina in bocca e ci precipitammo a fare colazione con granita e brioche.

A casa trovammo tavole imbandite di ogni ben di Dio, e gli strappi alle regole si succedettero come il Natale succede alla Vigilia, e Santo Stefano al Natale.

«Mi avete preso due chili a testa, Madonna bona!» annunciò il Franceschi il giorno dopo il nostro ritorno, lasciandoci col dubbio che il pavimento delle nostre stanze funzionasse come una pesa di precisione. «La stagione si avvicina, ragazzi! Bisogna mettersi a regime. Ricordatevi che un ciclista, in periodo di gare, deve avere sempre fame. Se non ha fame, significa che ha mangiato troppo, e in corsa non combinerà un accidenti.»

Quindi ci portò a Lucca da un rinomato medico sportivo, il dottor Carlo Giammattei, che assegnò tanto a me quanto a Carmelo delle precise tabelle nutrizionali. Dopo averci pesati, calcolò la nostra massa grassa e ci mostrò i dati con aria grave: sembrava avesse di fronte degli obesi. «Se volete correre, dovete ridurla al minimo» spiegò, quindi calcolò il nostro fabbisogno giornaliero e stabilì a quanti grammi di pasta avevamo diritto nel corso della stagione agonistica. Pochissima.

La nostra preparazione cominciò a farsi seria. Adesso si succedevano i weekend di ritiro, in occasione dei quali si univano a noi altri giovani prospetti, e due massaggiatori di vaglia, il Reali e il Talini, che praticava anche l’agopuntura, venivano a trovarci una volta alla settimana.

La sera scattava il coprifuoco. Dopo cena, avevamo solo il tempo di concederci un film, preso in prestito al videonoleggio di Lamporecchio, e poi dovevamo subito andare a coricarci.

Per controllare che fossimo effettivamente a letto, alle undici e un quarto Carlo Franceschi arrivava al Quartiere corridori e saliva quatto quatto al piano alto, aiutandosi con una pila tascabile per non incespicare. Si affacciava sulla soglia di ogni camera, puntava il cono di luce verso il giaciglio e, appurato che eravamo tutti al nostro posto, rincasava dalla moglie.

Io di solito dormivo della grossa, ma una sera mi era presa la malinconia. Pensavo a Elena, che non ero riuscito a incontrare sotto le feste e non rispondeva quasi mai ai miei messaggi, e mi era venuta una terribile nostalgia di casa. Così mi ero messo a piangere, cercando di soffocare i singhiozzi sotto le coperte per non farmi sentire da Carmelo e dagli altri, quando all’improvviso mi accorsi dei passi che si avvicinavano su per le scale. Se il Franceschi si fosse avveduto che frignavo come un bambino, mi sarei sotterrato dalla vergogna, così inghiottii le lacrime, mi girai verso la parete e feci finta di dormire.

Quando la luce della pila mi puntò, trattenni il fiato.

Il direttore sportivo esitò per un attimo, poi lo sentii sussurrare: «E bravo, Nibalino, che se la dorme. Fai sogni d’oro, ragazzo mio».

Quando se ne andò, la malinconia aveva lasciato il posto a una strana tenerezza. Perché quell’uomo mi trattava come un figlio? Forse, mi dissi, perché la vita gli aveva dato in sorte solo una figlia femmina, e a Barbara non c’era stato modo di trasmettere la propria passione.

Carlo era un uomo severo, ma era anche capace di grande amore, un po’ come papà, e quella sera mi resi conto di voler bene a lui e a sua moglie come a persone di famiglia.

Ormai eravamo, in modo sghembo, parenti anche noi – parenti per parte di bicicletta –, e mi ripromisi di non deluderli mai.