Marian ed Emmy attraversarono il cortile di Welhavensgate portando il quadro bianco ciascuna da un lato. Tutt’attorno c’erano dei bei palazzi antichi. Camminavano in fretta per non farlo bagnare. La prima neve impalpabile giaceva come un tessuto trasparente sull’asfalto. Un sistema di areazione fissato alla parete esterna emetteva un forte ronzio. Il cane era in macchina. Per fortuna la porta era aperta: Emmy la bloccò con il tallone. Marian la seguì. Si era portata appresso le fascette da elettricista che di solito aveva nella borsa; ce le aveva in tasca. Il vestibolo era vuoto. L’ascensore era al piano, ma la tela era troppo ingombrante, quindi dovettero salire le ampie scale con la ringhiera a volute e le mattonelle bianche e nere per terra. Marian appoggiò una mano alla parete per reggersi, e cominciò a salire all’indietro, un gradino per volta. Le punte delle dita le si erano macchiate di bianco. Sull’ampia, vecchia porta con i due riquadri di vetro smerigliato al primo piano, c’era scritto “Vita”. Anch’essa era aperta, ed entrarono in una specie di anticamera. La porta alle loro spalle si richiuse sbattendo. Poggiarono cautamente a terra il quadro.
«C’è nessuno?», gridò Emmy Hammer; ma non vi fu risposta. C’era un odore fresco di pulito, ma faceva un caldo eccessivo. Il soffitto era decorato con stucchi. Sopra il tavolo accanto al sofà c’era un candeliere, in un vaso, dei fiori appassiti. Due sedie rivestite di pelle erano sistemate al centro, con la spalliera arrotondata rivolta verso l’ingresso. Appoggiarono il quadro alle sedie, e guardarono giù per il piccolo corridoio con tre porte; due di esse portavano ad altrettanti uffici, ciascuno con una scrivania.
Le pareti beige erano spoglie, fatta eccezione per un poster incorniciato appeso tra due delle porte, che ricordò a Marian il periodo prima del suo trasferimento in Norvegia: alberi di un color verde tenue, fuori da una finestra, come se ne vedono soltanto all’inizio della primavera; il sole pomeridiano che gettava delle ombre sul pavimento di una grande sala. Molte persone. Solitudine. Paura. L’orfanotrofio.
«C’è nessuno?», gridò nuovamente Marian. C’era un soprabito appeso a un appendiabiti, con sotto un paio di scarpe da uomo. Erano grandi. «Eppure ci dev’essere qualcuno, qui. Su quella porta c’è un post-it». Emmy si avvicinò e lesse ad alta voce: «Ciao ragazzi. Vado a prendere Jan. Oggi lo lasciano uscire. La bara è pronta, andatela a prendere nella stanza di fronte al magazzino delle bare. Va portata alla chiesa di Fagerborg».
Si girò di scatto verso Marian. «Lo lasciano uscire, adesso, Jan?»
«Sì, lo lasciano uscire oggi. Non ci sono più elementi che giustifichino la sua carcerazione preventiva». Marian si pulì le punte delle dita con un pezzo di carta che prese dal cestino. «Lo lasciamo qui, il quadro? Tanto lo troveranno quando tornano. Noi ce ne andiamo».
Emmy aprì la porta sulla quale c’era il bigliettino giallo. La finestra all’interno della stanza aveva i vetri opachi. Era un laboratorio con un piano in acciaio, scaffali con delle bottiglie e un tavolino anch’esso in acciaio sul quale erano poggiati degli strumenti. Inoltre c’era uno sgabello regolabile del tipo usato dai dentisti. Su di un supporto c’era una bara di legno di pino. Era pronta per essere portata via. Emmy attraversò la stanza e si accorse che da lì si accedeva a un’altra. Diede un’occhiata al suo interno. Era un magazzino per le bare, privo di finestra. La parete lucida di linoleum era grigia. Su di una porta di ferro c’era una scritta: “Cella frigorifera”.
«Vieni qui!», disse Marian.
Emmy aprì la pesante porta di ferro e sbirciò dentro. La stanza era fornita di scaffali e illuminata da una luce bianchissima. Dentro c’era una donna morta. La sua pelle assomigliava alla cotenna di un maiale, gonfia e lucida. Il cadavere era parzialmente coperto da un lenzuolo bianco. Emmy richiuse la porta e tornò da Marian. «Nella cella frigorifera c’è una morta, Marian. Sono contenta di vedere dove lavora Jan. A mio padre non farebbe piacere sapere che sarà lui ad avere questo quadro». Accennò un sorriso. «Non vuole che frequenti gente dei tempi di Gaustad. E le agenzie funebri non sono roba per lui. Lo considera qualcosa a cui non c’è rimedio… morire». Emmy sorrise.
«Be’, in effetti…». Marian la osservò. C’era un che di particolare nel modo in cui la donna parlava del padre. Come una specie di orgoglio. «Sei sicura che Jan Hagg non sia il padre di tuo figlio, Emmy?»
«Ti ho già detto di no. Pensa se Ingrid ti sentisse».
«Ma Ingrid non c’è. Non c’è nessuno, qui». Marian aprì le braccia. «Sento che c’è qualcosa che non mi vuoi raccontare». Poi gettò la giacca di cuoio su una delle sedie chiare, e, per nascondere meglio l’arma alla cintola, si tirò giù la felpa col cappuccio, che si era sollevata mentre trasportava il quadro. Sentì un rumore da fuori; si avvicinò a una delle alte finestre, e guardò al di sopra della parte smerigliata su cui c’era scritto “Vita”. Birka era tranquilla, stesa sul sedile posteriore. «Allora adesso ce ne andiamo», disse distrattamente. Perché in realtà stava accadendo qualcosa: una Vespa entrò in cortile, e parcheggiò accanto al furgone.
L’uomo con il casco integrale alzò la visiera e si ravviò i capelli castani. Aveva un viso tondo con grosse sopracciglia unite al centro. Mise lo scooter sul cavalletto e smontò. Indossava un piumino beige di vecchio tipo, e ai piedi degli stivali militari di colore nero. Sulla schiena aveva uno zaino.
Marian vide che Birka si era alzata in piedi sul sedile posteriore e abbaiava contro di lui.
«Che c’è, Marian?». Emmy si avvicinò al finestrino.
L’uomo si tolse lo zaino, lo poggiò sul sedile ed estrasse qualcosa di marrone, qualcosa che lei non poté vedere. Emmy le stava attaccata; il suo respiro le sfiorava la guancia.
In quello stesso istante, Marian ebbe una vaga percezione, come di qualcosa che avrebbe dovuto ricordare. Qualcosa che il suo cervello non riusciva a collegare con la sua memoria. Allora Emmy disse ad alta voce: «Oh, è Piet! È da secoli che non lo vedo. Che cos’ha in mano?».
Marian fissò l’uomo, che nascondeva qualcosa sotto la giacca; quello si girò verso il palazzo e guardò su in alto. Marian si tirò indietro di scatto, spingendo via Emmy. «Ma dai, è Piet Hagg? Sei sicura, Emmy?»
«Certo che lo sono. Lui e Maike erano molto simili: non erano belli come Jan». Per un attimo, Emmy trattenne il respiro. «È proprio Piet Hagg. Ma ha un’arma?».
*
L’aria cittadina era pregna di gas di scarico. Quando espirava dalla bocca, si formava una condensa sottile. Piet guardò le macchine parcheggiate in cortile; sul sedile posteriore di un furgoncino bianco era seduto un cane. Il nevischio si scioglieva non appena i fiocchi grigi toccavano l’asfalto. Il cane lo guardò da dentro l’auto, e abbaiò rabbioso. L’uomo guardò di nuovo in su verso la fila delle finestre dell’agenzia funebre. C’era già stato, un paio di volte. Aveva visto il fratello che faceva avanti e indietro, di sopra. Talvolta gli sembrava addirittura un nemico. Per molto tempo, Piet aveva covato una rabbia profonda. Ma ora era finita, doveva agire. Attraversò il cortile, dirigendosi verso la porta.
*
All’improvviso dal pianerottolo giunse il fruscìo del cavo dell’ascensore. Tutto avvenne in fretta. Marian si sentì raggelare dalla paura: sarebbero dovute rimanere a Trosterudveien. Emmy Hammer aprì la porta con il foglietto giallo sopra. «Nascondiamoci nel magazzino delle bare dietro il laboratorio!».
Mentre la stava raggiungendo, Marian sentì il suono di qualcosa che cadeva. Si girò e vide che la sua giacca stava scivolando giù dalla sedia. In una delle tasche c’era la ricetrasmittente, nell’altra il cellulare, silenziato. Dal pianerottolo si udirono dei passi. Sgusciarono dentro, passarono accanto al supporto con la bara ed entrarono nel magazzino dove lungo le pareti c’era una serie di bare bianche impilate a seconda della grandezza. Al centro di una delle pareti c’era una porta di metallo. Era evidente che Piet Hagg era già nell’anticamera. Marian richiuse silenziosamente la porta alle loro spalle, e gettò un rapido sguardo alla bara di legno naturale, piazzata in mezzo alla stanza su di un carrello d’acciaio. Vide che accanto al coperchio c’era appeso un foglietto.
Emmy sussurrò: «Lì all’interno c’è un piccolissimo sgabuzzino. È pericoloso? È pericoloso, Piet?».
Marian sentì il sangue che le pulsava in corpo. Aprì la porta dello sgabuzzino. C’erano vari secchi gli uni dentro gli altri, e degli spazzoloni appoggiati alla parete di fondo. «Entra qui!», ordinò. Entrarono entrambe. Su di uno scaffale in alto c’erano bottiglie e scatole, un mucchio di panni e stracci logori da usare con gli spazzoloni nell’angolo. «Siediti», disse Marian richiudendo lo sgabuzzino. «Sono armata, Emmy». Estrasse la pistola dalla cintola.
*
Cato Isaksen si avvicinò alla macchinetta per il caffè. Irmelin ci aveva appena rimesso le capsule. Ne preparò due tazze e tornò dal collega.
Roger Høibakk si strofinò la fronte. «Penso stia arrivando l’inverno». Si spazzolò via la neve dalle spalle. Cato Isaksen gli porse una tazza di caffè. «Dal materiale raccolto sul luogo del delitto non sono emerse né le impronte digitali, né il dna di Ole Porat. Tra qualche ora arriverà la risposta che ci dirà se Porat o Hagg sono o meno il padre di Philip. Philip Hammer non sembra uno studente di medicina, ma piuttosto un ragazzo con i soldi a cui piace fare bisboccia».
«Qual è l’aspetto di uno studente di medicina, Cato?». Si rispose da solo: «Quello di Ole Porat da giovane, in effetti».
«Non capisco perché hanno lasciato andar via Werner Hagg. Ha perfino ammesso di essere venuto in città con la macchina la sera di Halloween. Le sue impronte digitali sono state trovate sul citofono di Aud Johnsen, e quella che vediamo nel filmato della telecamera di sorveglianza è la sua macchina; però la persona ai bordi dell’inquadratura con indosso la maschera da diavolo non siamo riusciti a identificarla. Dopo è andato a Trosterudveien per parlare con Emmy Hammer. Non capisco per quale motivo questo non sia sufficiente a trattenerlo più a lungo. Dobbiamo appellarci».
«E ora esce anche Jan Hagg. Piet Hagg è già a piede libero. I tre Hagg».
Roger bevve un sorso di caffè. «Hanno fatto una ricerca con cui credono di aver accertato che i criminali hanno una particolare proteina legata all’aggressività».
«Non mi sembra interessante», disse Cato Isaksen, stancamente. «Un criminale riuscito è uno che conosce i propri limiti». Si rese conto di avere il tono di voce di una persona esausta, quasi esaurita.
«C’è uno psichiatra forense e ricercatore presso l’ospedale universitario di Akershus che ha prelevato dei campioni di sangue dai detenuti del carcere di alta sicurezza di Ila».
«Piantala, Roger. Vuoi forse che facciamo prelievi a Jan Hagg, Werner Hagg, John Johnsen, Piet Hagg alias Per Hansen, Ole Porat, Norma Winther, Philip Hammer e Berit Adamsen per controllare?».
Roger bevve dalla tazza di caffè. «Ma è incredibilmente interessante che alcuni tipi di persone risultino essere soggetti a rischio. Le persone aggressive si distinguono nettamente dalle altre. Alcuni però sono bravissimi a nascondere la propria natura, e riescono ad apparire padroni di sé e tranquilli».
«È Piet Hagg che dobbiamo prendere, adesso», disse Cato Isaksen.
*
Sedevano per terra al buio con le ginocchia che si toccavano, e più su vedevano la luce che filtrava dal buco della serratura, come l’occhio giallo di un animale. Erano in ascolto. Il piumino di Emmy occupava molto spazio, e puzzava di trementina. Marian aveva il sedere gelato, e il freddo le si diffondeva per la schiena e su, fino alla nuca. La paura le faceva spuntare gocce di sudore lungo l’attaccatura dei capelli. Strizzò gli occhi per liberarsi del sudore che li faceva bruciare, e strinse forte l’arma tra le mani. Le venne l’idea di alzarsi, spalancare la porta, puntare l’arma contro Piet Hagg e costringerlo a stendersi per terra. Ma si sentiva paralizzata, come se Emmy l’avesse contagiata con la sua paura. Piet Hagg era un assassino pericoloso. Era armato. Aud Johnsen era stata fatta fuori a sangue freddo e in quattro e quattr’otto. Se solo non si fosse accorto che erano lì, se solo se ne fosse andato, lei avrebbe dato immediatamente l’allarme attraverso la ricetrasmittente.
*
«Tu mi devi proteggere», sussurrò Emmy, tremante. La vista di Piet aveva risvegliato in lei dei brutti ricordi. Funzionava così all’interno di qualsiasi gruppo: qualcuno doveva essere il più debole. Quando Emmy si era inventata che Maike aveva i vermi e si era procurata della trementina che poi le avevano somministrato, Piet aveva capito quanto fosse cattiva. Piet proteggeva la sorella minore. Le tornò in mente che da ragazzino girava sempre col coltello, perché dissezionava gli insetti. Pensò al nido d’uccello nella vetrina dell’atrio di Gaustad. L’uccello sembrava vivo, ma era morto da decenni e avrebbe sempre conservato lo stesso aspetto. Quell’uccello era il simbolo di tutto. A che livello poteva mai giungere l’intensità della paura che uno prova?
Si udì un rumore. Marian sentiva il sangue pulsarle nelle tempie. Si stava maledicendo per aver abbandonato la giacca con la ricetrasmittente e il telefono nell’anticamera. Come si faceva a essere così poco professionali?
Emmy Hammer rimase in silenzio per un po’, e poi sussurrò: «Ho paura. Ora viene. Sta per aprire la porta del magazzino delle bare», disse con voce secca e incrinata.
I fiocchi di neve cercavano di attecchire sulla superficie verde chiaro del campanile della chiesa di Fagerborg. Norma Winther era ferma sulla porta. Poco prima, alcune macchine si erano fermate di fronte all’ingresso posteriore, ed era entrato un commesso con degli scatoloni contenenti fiori e corone. Era importante che l’addobbo floreale fosse fatto con cura: Lilly avrebbe aiutato Ingrid Hagg. Ai piedi, il pastore portava delle ingombranti galosce verdi. Nevicava così fitto che l’aria sembrava grigia, come una cortina. La neve si accumulava sui cespugli e sugli alberi intorno al parcheggio, ma i fiocchi si scioglievano non appena toccavano terra. Norma Winther entrò dentro e sistemò il libro delle condoglianze sul tavolino nel vestibolo. Ci poggiò accanto una foto incorniciata della defunta, una signora anziana coi capelli permanentati. Ora mancava soltanto la bara. I ragazzi stavano andando a prenderla all’agenzia funebre “Vita”. Arrivò Ingrid Hagg con un vaso di fiori bianchi e foglie di un verde acceso. Sembrava distratta e non era affatto strano, considerato che dopo sarebbe andata a prendere il marito che stava per essere rilasciato dopo la custodia cautelare. Norma Winther percorse la navata centrale e si diresse verso il suo ufficio. Doveva cambiarsi e prendersi un attimo di raccoglimento prima dell’inizio della cerimonia, prevista di lì a un’ora.
*
In questura, Cato Isaksen e Roger Høybakk erano intenti a riesaminare tutti i documenti di quell’indagine. Cato Isaksen guardò oltre la parete di vetro dentro l’ufficio di Irmelin Quist, e la vide china su delle carte. I suoi capelli bianco ghiaccio erano ben pettinati. Poi si alzò e chiuse le veneziane che davano sul corridoio. D’un tratto, la vista della segretaria gli dava noia. Si sedette nuovamente e guardò Roger Høibakk. «Quando questo caso sarà risolto, io me ne andrò», disse. «Per molto tempo. Forse non ritornerò neanche».
«Mi stai mettendo un po’ paura, Cato. Cavolo, sono davvero preoccupato per te. Hai parlato con Bente?»
«Sì, lei vuole che ne parliamo ancora». Cato prese una penna. «Sto facendo già abbastanza fatica a reggermi in piedi, adesso. Una cosa che mi ha dato da pensare è stata la tua affermazione sulle donne. Che ruolo hanno avuto le madri?». Batté la penna sul bordo della scrivania.
«Ma quali madri?». Roger lo guardò. «Io non ho mica sentito parlare di madri».
«Appunto. Erano assenti. L’universo di Gaustad era fatto di pazienti e bambini. E i pazienti erano uomini. Quella faccenda dello strangolamento da dietro e il taglio del seno carotideo fanno pensare che si tratti di un omicidio eseguito in maniera professionale. Ole Porat è medico», disse Cato Isaksen. «Philip Hammer è uno studente di medicina. Jan Hagg si occupa dei morti. Werner Hagg sa tutto sugli attrezzi da lavoro, dal momento che fabbrica bare. E il pastore? Che possiamo dire di lei?». Si rispose da solo. «Nulla, probabilmente. Piet Hagg alias Per Hansen girava sempre col coltello, e Berit Adamsen faceva l’infermiera. Andiamo a Majorstua!». L’investigatore batté le mani sulla scrivania. «Berit Adamsen è un trait d’union».
«Adesso?». Roger lo guardò, stanco. «E perché mai?»
«Voglio entrare nel suo appartamento». Cato si alzò. «Hammer ha detto che è “persona non grata”».
«Che cosa voleva dire?». Roger tirò indietro la sedia.
Cato non rispose. Afferrò semplicemente la giacca e se la buttò sulle spalle. Berit Adamsen era al corrente di tutto quello che succedeva. Controllava lei gli archivi. Marian era a Trosterudveien a fare da guardia del corpo a Emmy Hammer. Quest’ultima aveva detto che Berit Adamsen era “quel tipo di donna” che se ne stava in cucina con la luce spenta. Al buio. Ogni sera. «Potrebbe aver tolto qualcosa dall’archivio sotterraneo il giorno in cui morì Maike Hagg. Non lo so, però sento che… quella storia delle donne… portiamoci appresso Randi. C’è qualcosa che non vediamo, Roger. Una vicenda secondaria. Chi ha sparato a Emmy Hammer in giardino? Chi si nasconde nell’arena del circo?
*
Sentirono dei passi leggeri che si avvicinavano e si fermavano di fronte alla porta dello sgabuzzino. L’uomo era stato dentro la cella frigorifera. La porta di metallo aveva cigolato quando l’aveva aperta, e quando poi l’aveva richiusa. Per un attimo, il buco della serratura si oscurò. Silenzio. E il respiro. A lungo. Si rannicchiarono ancora di più, l’una addosso all’altra. Marian guardava rigida verso la maniglia appena visibile grazie alla luce che filtrava dal buco della serratura. Sentiva il respiro di Emmy sulla guancia. Sul labbro, aveva dei segni leggeri lasciati dai denti: quando aveva paura, se lo mordeva. Quel silenzio non finiva mai. Ma all’improvviso sentirono diverse voci nel locale. C’erano altri due uomini. Parlavano con Piet. Di un appuntamento con Ingrid, o qualcosa del genere. Poi si sentì uno sferragliare. Stavano portando via la bara sul carrello, che in quel momento oltrepassava la soglia. Marian si alzò. Dovevano uscire di lì? Ma, prima che prendesse una decisione, tutto tacque nuovamente. Forse aveva sentito male?
Emmy sedeva ancora per terra. Marian premette il pulsante che illuminava il suo orologio digitale. Erano state sedute lì per un quarto d’ora. Da uno degli scaffali più in alto cadde uno straccio. Per un attimo parve un piccolo fantasma in caduta libera. Marian lo afferrò rapidamente e lo rimise a posto. Entrambe capirono che non si trattava di uno straccio, ma di un velo di quelli che si poggiano sul viso dei defunti per coprirli. Emmy si lasciò sfuggire un singhiozzo.
«Controllati, Emmy!», bisbigliò Marian. «Alzati in piedi! Chiudi il becco e stai ferma. Rimaniamo qui ancora per un po’».
«Devo uscire. Tu non hai figli. Non capisci. Sto perdendo la testa!», bisbigliò Emmy.
«E io ho un cane», sfuggì di bocca a Marian. Nello stesso tempo fu come se una nube nera si espandesse nel suo cervello. Lei non aveva proprio nulla: soltanto l’arma che stringeva tra le mani.
*
All’improvviso, Norma Winther vide Piet Hagg. Lo riconobbe immediatamente. Non era cambiato molto. Il ragazzino con i capelli castani non c’era più, ed era stato rimpiazzato da quell’uomo con lo sguardo penetrante. Stava giù presso il portone della chiesa, un po’ incerto, come se stesse cercando di decidere se entrare o dileguarsi del tutto. Portava un casco sottobraccio, e la sua giacca era bagnata per via della neve. Era ricercato: questo lo sapevano tutti. Lei lo guardò, ma distolse subito lo sguardo. I ragazzi entrarono spingendo la bara sul carrello. L’odore dei fiori era troppo dolce e un po’ nauseabondo. Norma Winther si avvicinò a Ingrid Hagg, si accovacciò per terra e sistemò un paio di corone. «Tuo cognato è qui».
Ingrid si alzò di scatto e si girò. Si passò una mano tra i corti capelli biondi con un gesto rapido, e si avviò di corsa verso Piet. Norma avrebbe cercato di calmare gli animi e di consolarsi con la predica che stava per tenere; ma cosa aveva di positivo la morte, salvo il fatto che si portava via tutti, alti e bassi, delinquenti e angeli, quelli che volevano andarsene e quelli che non volevano? La morte era una punizione, ma poteva anche essere una liberazione. La gente non immaginava neanche quale disagio potesse provare un prete. Norma vide che Ingrid dava la mano a Piet; lo salutava formalmente, come se fosse uno sconosciuto. E forse lo era. Una volta, mentre celebrava il funerale di un neonato, era rimasta paralizzata dal dolore. Il suolo era fangoso e i genitori se ne stavano abbracciati sotto un ombrello, con davanti una vita segnata per sempre. Norma si era messa a piangere. Ma i preti non dovevano piangere. I preti dovevano dare un senso di sicurezza, sostenere che la morte portava la pace. Lei invece aveva voltato loro le spalle ed era corsa dentro la chiesa. Era imperdonabile, un gesto del genere. Quel senso di inadeguatezza lo aveva provato anche al funerale di Maike. Piet Hagg si alzò, e uscì dalla chiesa. Ingrid lo seguì, ma poi tornò dentro. A Norma sembrò di veder nero. Forse doveva andarsene per un po’. Insieme a Lilly. Lilly Hausmann ripiegò il carrello funebre e lo portò in macchina. Portò via i candelabri, i vasi per i fiori e i supporti che non servivano. Norma la guardò. I movimenti della ragazza erano rapidi ed energici. Norma aveva viaggiato per l’Europa, aveva visitato delle cattedrali. I viaggi li aveva fatti da sola, ma la sua vita ora era cambiata. Avrebbe lasciato la canonica. Sarebbe stata onesta: si sarebbe cancellata dal sindacato dei pastori norvegesi, e si sarebbe cercata un appartamentino. Ma quella canonica bianca l’avrebbe seguita ovunque. Era come se quell’abitazione le fosse cresciuta addosso. La portava sulla schiena, come fosse una lumaca.
*
Il silenzio durava ormai da parecchio tempo. Marian aveva i palmi delle mani sudati. L’arma era diventata scivolosa. Socchiuse la porta e guardò fuori. Poté guardare all’interno di un armadio semiaperto con dentro vari tipi di urne, che prima era chiuso. La bara sul carrello era sparita, ma Piet Hagg era ancora lì? Stava forse in agguato? La porta che dava sul laboratorio era accostata. Marian piegò le ginocchia e sollevò le braccia stringendo la pistola con entrambe le mani. Piet poteva nascondersi in uno degli uffici. Aveva trovato la sua giacca dietro la sedia? Marian uscì lentamente, e sentì che Emmy la stava seguendo. La porta che conduceva all’anticamera era aperta. Marian vide che la giacca era sempre allo stesso posto: nascosta dietro la tela che a sua volta era appoggiata alle spalliere delle sedie.
Rimase così per un po’, prima di raddrizzarsi e infilarsi nuovamente la pistola nella cintola. Si avvicinò rapidamente alla porta e aprì la serratura. «Tranquilla, Emmy. Se n’è andato. Adesso usciamo di qui». Si avvicinò alla finestra e guardò giù in cortile. La Vespa non c’era più. Si accorse che Emmy le stava attaccata. «Piet non sta bene», disse la donna. «Hai mai sentito parlare di masochismo benigno? Gli piaceva uccidere gli insetti».
Marian non rispose; si girò soltanto, passò accanto al quadro ed entrò nel piccolo corridoio. Adesso le porte che davano sui due uffici erano aperte.
Emmy la seguì. «È quando uno gode nel provare delle sensazioni negative, nell’esporsi a pericoli moderati. Piet era così. Me lo ricordo».
Marian si avviò verso quello che doveva essere l’ufficio di Jan Hagg. Aveva un che di maschile. La debole luce della lampada che ora era accesa, formava un cerchio sulla superficie del tavolo. Dietro la scrivania in legno scuro c’era una bacheca con attaccati un paio di ritagli di giornale e alcuni foglietti bianchi. Marian indugiò un attimo sulla soglia. “È veramente un tipo ordinato”, pensò. Non c’era neanche un pezzo di carta, sulla scrivania. Lo sguardo le cadde su uno dei due ritagli: una persona sorridente in una stanza piccola e buia; ma Marian non prese realmente coscienza di ciò che aveva visto alla parete. Fece qualche passo nella stanza.
Emmy la osservava con curiosità. «Pensi che Piet Hagg stesse cercando qualcosa?»
«Qui è tutto in ordine». Marian fissò un diploma incorniciato su cui c’era scritto che Jan Hagg era stato nominato cavaliere di qualcosa. Sul pavimento, dietro alla scrivania, c’era una scatola di cartone. Era evidente che era stata aperta, ma poi lo spesso spago con cui era legata era stato rimesso al suo posto. Marian la trascinò al centro della stanza, tolse lo spago, si accovacciò ed estrasse una cosa alla volta: una bambola di plastica con un buco in testa, dei sassi tondi e una pistola giocattolo.
Avevano preso due macchine: Randi e Roger erano insieme, mentre Cato Isaksen era solo. La neve batteva fitta contro il parabrezza. I tergicristalli andavano al massimo della velocità. I fiocchi di neve cercavano caparbiamente di ricoprire l’asfalto, sulle strade. Parcheggiarono a un isolato di distanza e si avviarono tutti insieme verso il condominio in cui abitava Berit Adamsen. «Come al solito non c’è luce alle finestre», disse Randi. Ma in fondo era pieno giorno, e non era così scontato che le luci fossero accese. Si era fatta l’una.
«Suoniamo al citofono», disse Roger.
«Se è a casa, la portiamo con noi», disse Cato Isaksen. «Se non c’è, dobbiamo comunque entrare nel suo appartamento».
Nessuno venne ad aprire. Gli investigatori entrarono nell’androne suonando a un’altra persona, che aprì loro la porta. Attraverso la fessura della cassetta delle lettere videro che era stata vuotata. Giunti alla porta di Berit, si fermarono e rimasero in ascolto. Suonarono di nuovo. Randi provò ad aprire: la porta era chiusa a chiave.
*
Emmy sbadigliò dietro di lei. «Piet deve aver trovato quegli oggetti di quando erano bambini. Sono la bambola di Maike, i sassi di Jan e la sua pistola giocattolo», sussurrò.
Per un istante, Marian pensò a se stessa. A come da piccola avesse giocato a fare la rock star. L’infanzia consisteva nel voler assomigliare a qualcuno. Quando entrò nell’altro ufficio e si avvicinò alla cassettiera tra le due finestre, provò una fitta al petto. Emmy rimase per un attimo dentro l’ufficio di Jan Hagg, poi la seguì. Marian estrasse degli oggetti dai cassetti della scrivania. L’arma era poggiata sul piano del tavolo. «Aspettami nell’anticamera», disse a Emmy. «Faccio subito».
«Ma quanto tempo ci metti? Vorrei andarmene via da quest’agenzia funebre».
«Dammi qualche minuto». Marian aprì il cassetto inferiore e sparpagliò il contenuto sulla scrivania. I tecnici avevano ispezionato i locali, ma poteva essergli sfuggito qualcosa. Frugò rapidissima tra le carte, le rimise a posto ed estrasse il cassetto successivo. Il suo subconscio era al lavoro. Il suo cervello aveva registrato qualcosa dentro l’ufficio di Jan Hagg, ma il filo dei suoi pensieri sfumò nello stress di dover portare a termine la perquisizione prima che arrivasse qualcuno. Marian spalancò l’anta di un armadio.
*
Lilly Hausmann salì nella macchina di Norma. Doveva andare giù all’agenzia per riconsegnare tutto quanto. Ingrid Hagg le aveva dato le chiavi. La donna appariva molto stressata in seguito all’incontro con l’uomo del casco. Ora sarebbe andata al tribunale a riprendersi suo marito.
*
«Sei tu che hai insegnato a me e a Marian a scassinare le porte, Cato». Randi maneggiò qualcosa nella tasca della giacca. Era un mazzo di grimaldelli. Cato Isaksen sentì che stava perdendo la pazienza. Ci sarebbe voluto del tempo. Roger ricevette un sms e si tirò un po’ in disparte. Randi appoggiò un attimo l’orecchio alla porta prima di mettersi al lavoro.
La porta si aprì con un piccolo clic. C’era voluto meno di quanto Cato avesse temuto. Randi la spalancò, ed entrarono nello stretto ingresso. L’odore li colpì subito: ricordava quello di un cadavere. Le assi del pavimento scricchiolarono sotto i loro passi. Cato Isaksen accese una lampada che si trovava all’ingresso sopra una cassettiera, il cui ultimo cassetto non era chiuso fino in fondo. In cima era poggiato un mucchio di lettere. L’odore di qualcosa di putrefatto proveniva dalla cucina. Là dentro c’erano dei detersivi sul tavolo, e la porta che conduceva a una specie di sala da pranzo era semiaperta. Lungo il battiscopa camminavano due insetti marroni. Il secchio della spazzatura era vuoto, ma sul fondo c’era un liquido bruno. Era evidente che la puzza proveniva da lì.
*
Emmy era seduta sul divano di pelle. Spostò un po’ il quadro e lo appoggiò meglio alle spalliere delle sedie. La sua mente stava elaborando qualcosa, ma non fece in tempo a creare dei nessi e a comprendere il pericolo, perché proprio in quell’istante si sentì di nuovo il fruscio dell’ascensore. Si alzò in piedi.
«Sta arrivando qualcuno, Marian». Emmy la raggiunse di corsa. Marian prese la pistola che si trovava sulla scrivania, se la infilò di nuovo nella cintola e la fissò spaventata. Emmy era più pallida di prima. I documenti erano sparsi ovunque sul tavolo. «Torna nello sgabuzzino, Emmy!», le ordinò la poliziotta.
*
Arrivò un sms accompagnato dal solito segnale acustico. Cato Isaksen lo guardò. Era di Norma Winther. Poco fa è passato in chiesa Piet Hagg. Non so se sia ancora qui fuori, era a bordo di una Vespa bianca. Aveva indosso un piumino beige e dei pantaloni marroni; ai piedi aveva stivali neri di tipo militare, e portava un casco integrale bianco. Io ho un funerale che sta iniziando proprio adesso. Cato Isaksen cercò di chiamarla subito, ma lei naturalmente aveva già spento il cellulare. «Porca miseria, dobbiamo assolutamente andare alla chiesa di Fagerborg», gridò agli altri due. Roger si mise alla guida. Randi era rimasta sul pianerottolo di Berit Adamsen, con la porta dell’appartamento accostata. Aveva l’ordine di avvertire subito qualora fosse arrivata la donna. Cato Isaksen si sentì pervadere da una sensazione di freddo. «Perché diavolo Piet Hagg è andato a cercare il pastore?». Che cos’è che aveva detto Jan Hagg del fratello durante il primo interrogatorio? È meglio non averci a che fare. Lo so che è la risposta sbagliata, ma è la verità.
«Voglio Piet Hagg nella saletta degli interrogatori. E gli farò sputare fuori la verità a forza di botte. Lo farò crollare».
«Calmati, Cato». Roger guardò a sinistra, e imboccò Bogstadveien a tutta velocità. Il lampeggiante blu sul tetto illuminava il buio precoce di quel pomeriggio con i suoi bagliori. «Se hai un crollo, non ce la farai mai a risolvere questo caso. È arrivato un rapporto di duecento pagine del procuratore generale sulle tecniche di interrogatorio. Il problema delle false confessioni…».
«Piantala, Roger».
«Chi conduce un interrogatorio deve mantenere un atteggiamento neutro. E tra l’altro ancora non l’abbiamo preso, Cato».
«Non ci credi neanche tu a quello che stai dicendo, Roger. Che i bugiardi guardano da un’altra parte quando parlano, e tutte quelle stronzate lì. È come lo sport per i bambini: l’importante non è vincere, ma partecipare».
Lilly Hausmann era in ascensore con i due pesanti candelabri di ottone che non erano serviti durante la cerimonia. Le porte di acciaio si aprirono e lei si avvicinò all’ingresso dell’agenzia “Vita”, poggiò per terra i candelabri, cercò la chiave nella tasca del cappotto lilla e la infilò nella serratura. Indossava delle galosce verdi, da cui scivolava via del nevischio. Dentro c’era un tepore gradevole. Nell’anticamera c’era un grande quadro. Dietro una delle sedie giaceva una giacca di pelle nera. Si fermò ad ascoltare. Sbirciò dentro all’ufficio di Jan: sul pavimento c’era uno scatolone aperto. Nell’altro ufficio c’erano delle carte sparse sulla scrivania. C’era forse qualcuno? Ebbe un’intuizione, e provò un brivido freddo. Rise un po’ di se stessa. Aveva imparato l’autodifesa, come se lì potesse essere necessario. Non è che si trovasse in un qualche vicolo buio: era nei locali di Jan e Ingrid! E lì non c’era nessuno, tranne forse qualche morto nella cella frigorifera. Attraversò lentamente il laboratorio, ed entrò nel magazzino delle bare con i candelabri in mano. Tese l’orecchio e li poggiò su di una mensola. Poi gridò: «C’è nessuno?». E rimase in attesa.
*
L’auto-civetta svoltò a tutta velocità, entrò nel parcheggio di fronte alla chiesa di Fagerborg e frenò bruscamente. Ne saltarono giù gli investigatori. I fiocchi di neve gli si scioglievano in viso. Sentirono che dentro stavano cantando un salmo. Che cosa aveva detto, Johnsen? L’unico contributo che posso dare è far capire a voi tutti che il diavolo è travestito da angelo. E le parole di Norma Winther: una morte moltiplicata per due, in un certo senso. Ma a me che ci lavoro, la morte non fa paura.
La frangetta grigia di Norma Winther le copriva la fronte come una fitta tendina, e il lungo paramento bianco aveva il bordo inferiore macchiato dalla neve sporca.
I congiunti non erano molti, ma sedevano sparpagliati.
Cato Isaksen e Roger Høibakk li passarono in rassegna con lo sguardo. Nessuno di loro poteva essere Piet Hagg.
«Piet Hagg deve aver sentito puzza di bruciato», disse Cato Isaksen quando furono di nuovo all’aperto. «Era a bordo di una Vespa bianca». Fece un cenno col capo in direzione di un’impronta netta e sottile, come una striscia bianca e molto evidente sul nevischio umido, in mezzo alle tracce lasciate dalle macchine nel parcheggio.
*
Marian sentiva il respiro di Emmy sulla guancia. Una voce di donna gridò ancora una volta: «C’è nessuno?». Che follia. Forse era soltanto Ingrid Hagg. Marian si infilò la mano in tasca per assicurarsi che la fascetta da elettricista fosse ancora là. Emmy Hammer sembrava assente e allo stesso tempo concentrata, e si premeva le mani sulle guance. La sua giacca di piumino sembrava un pallone. Marian teneva stretta la pistola. Era come se quella scena si stesse svolgendo altrove, come se lei fosse stata contagiata da una forma irrazionale di paura. Una condizione di follia in cui non avrebbe voluto trovarsi. Doveva capire cosa aveva visto. Il ritaglio di giornale, la sequenza dei suoi pensieri, tutto quanto. Marian si alzò cautamente e guardò fuori attraverso il buco della serratura. Sentì la mano di Emmy sulle reni. Vide un’ombra, lì fuori. La luce proveniente da quella fessura formò un alone bianco intorno al suo occhio. Non era Ingrid Hagg: era una donna sconosciuta con un cappotto viola. Dapprima non vide chi era, ma poi lo capì. La catecheta uscì dal magazzino delle bare chiudendosi dietro la porta.
«È Lilly Hausmann», sussurrò Marian.
«Chi è?»
«Lavora insieme a Norma Winther. Sai cos’è lo strangolamento da dietro, Emmy?».
Emmy Hammer scosse la testa. «Che cos’è che hai visto su quella bacheca, Marian? Hai visto qualcosa, no?»
«Nulla. Soltanto un articolo di un vecchio giornale». La sua mente elaborò quel dato. All’improvviso Marian si sentì poco bene, ma quella sensazione si trasformò in un calore appiccicoso, perché di colpo riuscì a richiamare alla mente il ricordo dell’odore che aveva sentito a Gaustad. Era successo mentre Deidrée li portava in giro, e loro avevano aperto una porta per sbirciare dentro una stanza vuota. Era lì che conducevano le impronte bagnate. Una sostanza.
«Jan non è pericoloso», sussurrò Emmy con un filo di voce.
Cato Isaksen e Roger Høibakk tornarono rapidamente all’appartamento di Berit Adamsen. Avevano diramato, attraverso la centrale operativa, un nuovo dettagliato mandato di ricerca nei confronti di Piet Hagg. Le volanti l’avrebbero cercato in quella zona. Ora sapevano che era a bordo di una Vespa, e com’era vestito.
Randi aspettava sul pianerottolo, e insieme entrarono nel salotto di Berit Adamsen. Sul tavolino ovale c’era un videogioco con accanto una busta di patatine fritte ancora chiusa. Sotto c’erano un paio di pantofole da uomo gettate lì alla rinfusa.
«Qui ci abita anche un uomo», constatò Randi.
«Come no, accidenti». Cato Isaksen si mise in mezzo alla stanza e girò lentamente su se stesso. Quell’angusto salottino era pieno di mobili massicci addossati gli uni agli altri. La stanza era piccola, ma il soffitto era alto. Alle finestre c’erano alcuni vasi con dei fiori rossi, il cui terriccio era secco e solcato da crepe. Alle pareti erano appesi dei quadri, dei ricami e delle foto. Cato si avvicinò a guardarne una, e riconobbe subito il luogo. La foto mostrava tre ragazze sulle scale della cappella dell’ospedale di Gaustad. Le ragazze sedevano una dietro l’altra, accanto al corrimano. Emmy Hammer era quella più in alto, con i suoi capelli biondo platino che le scendevano sulle spalle; poi c’era Aud Johnsen con il suo sguardo cupo, e sul gradino più in basso c’era Maike Hagg, che teneva entrambe le mani attaccate alla ringhiera. E dietro, nel vano della porta, c’era una versione più giovane e magra di Norma Winther.
Quella foto aveva qualcosa di singolare. Poi Cato ne notò anche un’altra, accanto allo specchio della consolle, scattata presso un’altra scalinata. In alto c’erano i quattro dipendenti: Norma Winther, Berit Adamsen, Carl Hammer e un Ole Porat molto giovane. Entrambi gli uomini indossavano camici bianchi da medico. I due pazienti, Werner Hagg e John Johnsen, entrambi con indosso delle camicie beige, sedevano un gradino più in basso. E sotto ancora c’erano i bambini: la figlia di Hammer, Emmy, insieme ad Aud Johnsen; e Jan, il figlio di Werner Hagg, con un altro bambino che doveva essere Piet. C’era anche un’altra figura in mezzo ai cespugli; se ne vedevano solo le gambe. Ai piedi indossava scarpette rosse da bambina.
*
Nel bagno di Berit Adamsen c’era una cesta per la biancheria sporca con dentro dei vestiti da lavoro. Una giacca color verde militare, un mucchio di T-shirt e di maglie, un paio di jeans sdruciti e un pantalone in goretex. Cato Isaksen aprì la porta della camera da letto. La sovracoperta di seta era lilla chiaro a fiorellini con delle balze. «Questa è la sua stanza da letto».
«Ma qua dentro ce n’è un’altra», gli gridò Roger dalla cucina. Dal lato opposto rispetto alla sala da pranzo c’era una stanzetta piccola, con una finestra alta e stretta. «Questa un tempo era la stanza della donna di servizio», disse Roger, aprendo un armadio. «Qui dentro sono appesi degli indumenti da uomo piuttosto malridotti». Poi aprì i cassetti del comò. Lo fece in fretta, con una sequenza di rumori secchi. Frugò tra le carte che c’erano dentro. «Il tizio che abita qui è chiaramente un cacciatore che va a caccia di uccelli e piccoli mammiferi. Qui ci sono delle istruzioni su come si usano le tagliole, e alcuni manuali di tassidermia: l’imbalsamazione di piccoli animali». Poi estrasse un certificato. «È un cambiamento di nome. Dal ministero di Giustizia». Lo sollevò. «Un documento ufficiale dell’Agenzia delle entrate: Con la presente dichiarazione, hai modificato il tuo nome da Piet Hagg a Per Hansen».
Tutti i pensieri le attraversarono la mente in ordine inverso. Erano fuori, nella sala d’attesa. Marian entrò di nuovo nell’ufficio di Jan Hagg. Il trafiletto di giornale era lì, quasi come se lucesse per farsi guardare. «Devo rimettere in ordine l’altro ufficio», si affrettò a dire. La donna della foto indossava un grembiule di plastica lungo. E sul muro alle sue spalle si poteva intravvedere qualcosa: una maschera da diavolo. E un falcetto. Marian vide chiaramente la donna in piedi accanto al cavalletto, e vide anche la maschera appesa sullo sfondo con sotto gli stivali riposti ordinatamente, ma i suoi pensieri si bloccarono lì. C’era qualcosa che non tornava. Chiuse gli occhi, e sotto le palpebre vide la maschera da diavolo che si tramutava in una torbida superficie rossastra.
*
Cato Isaksen sentiva una morsa al petto. «E quella faccenda del seno carotideo… Piet Hagg va a caccia di piccoli animali!». Pensò allo scoiattolo impagliato nello chalet in mezzo al bosco. «Berit Adamsen abita con Piet Hagg. E lui vive proprio qui, porca puttana!».
«C’è una lettera nel comò», gridò tutto d’un tratto Roger dall’ingresso. «È del 1988, scritta a macchina. C’è la firma di Carl Hammer». La porse a Cato Isaksen, e Randi gli si fece accanto.
Ospedale di Gaustad, 27 novembre 1988
Cara Berit,
ciò che è successo una settimana fa è una cosa terribile. È orribile che Maike Hagg se ne sia andata a soli dodici anni. La polizia è stata qui e mi ha interrogato, e so che sono venuti anche a casa tua. Ma che cosa ci faceva la bambina giù nell’archivio sotterraneo? Da questo momento in poi, le giornate dei bambini sono cancellate. Ti sembra sia stato intelligente pensare che i figli di pazienti psichiatrici avessero bisogno di mescolarsi con altri bambini nella stessa situazione? I degenti del reparto di sicurezza sono pericolosi. Questo lo sai. Come ha fatto Maike a venire in possesso della chiave? Tu hai portato in giro i bambini là sotto, hai lasciato che vedessero la stanza chiusa a chiave con le vecchie tavole di legno e le cinghie di contenimento. Tu li hai portati nei passaggi sotterranei, gli hai permesso di inoltrarsi nelle catacombe, e gli hai mostrato dove si trovassero la stanza dell’elettroshock e gli archivi sotterranei. È possibile che Maike stesse cercando qualcosa negli archivi, magari istigata del padre?
Perché te ne stai a casa? Devi tornare al lavoro! Io con te ho discusso analisi e relazioni scritte. Tu stessa hai commesso delle cose illegali e hai informato i pazienti sulle loro diagnosi in maniera più dettagliata di quanto non abbia fatto io come primario. Questa cosa io non l’ho denunciata alla polizia. D’ora in avanti ti proibisco di avvicinare i pazienti con quella tua indole che dissimuli pretendendo di essere premurosa. D’ora in poi saremo solo Norma e io che ci prenderemo cura di loro quando hanno bisogno di parlare dei loro problemi. Lei è un sacerdote. Tu sei una segretaria, Berit.
La bocca della bambina impiastricciata di rossetto ha suscitato molti sospetti nella polizia. Di quello dovrai rendere conto tu. Adesso è importante proteggere gli altri bambini e prenderci cura di loro. Specialmente dei fratelli di Maike, Jan e Piet, ma anche di Aud e della mia Emmy.
Saluti, Carl
«Questa frase qui», disse Cato Isaksen facendoci scorrere sotto il dito: Tu stessa hai commesso delle cose illegali. Guardò gli altri due. «Secondo voi che cosa avrà voluto dire con questo, Hammer?».
La domanda rimase come sospesa nel vuoto.
«Proteggere gli altri bambini e prenderci cura di loro», c’è scritto qui, «specialmente Aud e Emmy», proseguì. «Adesso diamo un’occhiata rapida al resto della casa, poi io telefono a Marian». Cato Isaksen tornò in salotto. In quello stesso istante squillò il suo cellulare. Era Deidrée da Gaustad. «Abbiamo trovato una cartella d’archivio anonima risalente agli anni Novanta. O meglio: non si tratta di una vera cartella, ma piuttosto di un appunto in una busta che poi è stata sigillata. Può essere che sia stato scritto da un collega di Hammer, perché è scritto a mano. Si parla di una selezione di pazienti problematici, del comportamento poco delicato nei confronti dei parenti, e ci sono anche delle descrizioni degli effetti fatali causati dagli interventi praticati nello scantinato dell’edificio per le lobotomie. Dopo il 1974. In una cella che non veniva usata da anni. Piccola, dotata di isolamento acustico e umida. Furono praticati vari esperimenti con l’elettroshock e la lobotomia anche dopo che ciò era diventato illegale».
«Devo avere quelle carte, Deidrée». Cato Isaksen guardò Roger con aria seria.
«Le avrai. Te le posso mandare giù con un corriere. Ma c’è di più. Pare che Hammer abbia manipolato alcune relazioni di esperti. In particolare quando c’erano di mezzo delle donne. Qui c’è una nota che dice che Ole Porat, uno studente di medicina, fu colto con le mani nel sacco mentre cercava di portar via dei documenti dall’archivio. Si giustificò dicendo che era su incarico di Hammer. C’erano alcune donne ricoverate che sostenevano che Hammer abusava di loro, ma le accuse non ebbero seguito. L’ultimo intervento ufficiale di lobotomia fu eseguito verso il ’74-75, ma qui c’è scritto che una donna, di cui non è nota l’identità, fu lobotomizzata nel 1991. L’intervento fu eseguito da Carl Hammer. Con l’aiuto di Ole Porat».
*
«Ora dobbiamo tornare a Trosterudveien», disse Marian freddamente. «Passerò dei guai, per questa faccenda». Fuori, per strada, passò un tram sferragliando. Marian giocherellò nervosamente con il badge che portava appeso al collo, e fissò Emmy per un istante.
«Sei cambiata, Marian», disse Emmy. «Mi stai guardando come se non ci fossimo mai incontrate prima».
Marian provò un dolore cupo allo stomaco. Il filmato della telecamera di sorveglianza presso la palestra di Myrens Verksted… quella maschera. Era come se un serpente velenoso le si snodasse in corpo. Era allarme rosso.
«Sono io quella sul ritaglio di giornale, Marian. Ma perché reagisci così?». Emmy Hammer continuò a sostenere lo sguardo di Marian con fare indagatore. «Jan aveva detto di aver attaccato quel ritaglio alla parete. Che era fiero di conoscermi».
«Dov’è stata scattata quella foto?». Marian si diede un colpetto sul fianco. L’arma! l’aveva lasciata nello sgabuzzino… doveva esserle scivolata per terra mentre sedevano lì. La pistola giocattolo che desiderava da bambina mentre ascoltava il suono dei battiti del suo cuore di notte. «Dov’è stata scattata?», ripeté.
«Nel mio atelier», disse Emmy. «Prima di una mostra che stavo preparando». Cercò di sorridere, ma la sua bocca divenne una riga storta e tremante.
«Non sapevo avessi un atelier», rispose Marian, tranquilla. Non si può dipingere a olio dentro casa.
«Sì, ce l’ho».
«Dove?»
«Nel vecchio edificio delle caldaie. Su a Gaustad».
Marian la fissò. «L’assassino è passato dal tuo atelier, Emmy. E ha preso la maschera e l’arma del delitto. Chi altro ha accesso a quel posto? Lo troveremo, Emmy. Te lo prometto».
*
Cato Isaksen compose il numero di Karsten Tønnesen, e sentì la voce profonda all’altro capo. Gli spiegò in fretta ciò che aveva detto Deidrée. Gli sembrava che la confusione dentro di lui stesse aumentando ancora. Che cosa poteva mai avere a che fare una donna lobotomizzata con quel caso?
«Non mi meraviglia affatto, Cato. Molti dottori si sfogavano sui pazienti. Succedeva spesso che non venisse chiesta la loro autorizzazione prima di operarli. Ricordo in particolare una donna che non era particolarmente anormale, ma soltanto un po’ troppo fissata con gli uomini. La calmarono lobotomizzandola. Sapevo che era sbagliato, che era una cosa disumana, ma non avevo alcuna possibilità di fermare ciò che stava accadendo. Questo succedeva negli anni Sessanta. La lobotomia era come una pesante nave cisterna che scivolava sull’acqua. Nessuno poteva frenarla. Se pensi che Porat possa sapere qualcosa, prendilo di petto».
*
L’arma non era nello sgabuzzino. Marian si girò veloce, sgusciò accanto a Emmy Hammer, entrò nella sala d’attesa e si chinò per raccogliere la giacca. Ma Emmy le stava addosso, e fu più rapida: mise il piede sulla giacca e le puntò qualcosa alla schiena. Era la pistola. Marian rimase in piedi, china. Era come se dalla nuca una corrente elettrica le scorresse giù per la spina dorsale.
«Tirati su!». Emmy Hammer le puntò contro l’arma. Marian raddrizzò la schiena e arretrò di qualche passo verso la porta col vetro smerigliato. Sollevò istintivamente le mani. Emmy si sollevò i capelli con la mano libera e li torse come a legarseli in una specie di nodo. La sua voce era cambiata, era diventata sottile e artefatta, come quella di una bambina. «Hai detto: Lo troveremo, Emmy. Te lo prometto. E invece no», sussurrò. «Non la troverete».
Berit Adamsen, con dei pantaloni lunghi e un corto piumino marrone, salì per le scale. Camminava lentamente. Guardò i poliziotti. «Dov’è Piet Hagg?», chiese Cato Isaksen. Berit Adamsen sospirò. «Piet abita qui. Io sono sua madre adottiva. Non abbiamo mai espletato le formalità. È semplicemente venuto ad abitare con me».
«Dove si trova?»
«Non lo so».
«È appena stato da Norma Winther alla chiesa di Fagerborg. Perché ha cambiato nome?»
«È stato un modo per sparire, ma l’ha fatto soltanto sulla carta. Non dice mai di chiamarsi Per».
Cato Isaksen la guardò, e indicò il salottino. «Entra e siediti. Devo fare una telefonata».
*
Ole Porat stava di fronte alla porta della sala operatoria. Era davvero stufo delle intrusioni della polizia. Adesso lo stava di nuovo chiamando quel Cato Isaksen. Aveva un tono di voce duro.
«Chi era la donna sconosciuta che fu lobotomizzata nel 1991?».
Ole Porat guardò in fondo al lungo corridoio. Sentì che qualcosa di remoto gli stava ormai alle costole. Da giovane aveva ammirato Carl Hammer. Era un dio. Una roccia. Una luce intensa. Insieme avevano costruito un futuro: ciò che andava detto e ciò che andava taciuto. Cos’era necessario per diventare il miglior chirurgo, quello che curava le malattie e i danni più concreti. Ma le cicatrici erano visibili. E poi c’erano gli esperimenti, che andavano tenuti nascosti.
«Stiamo parlando di due omicidi e di un tentato omicidio», tuonò la voce del poliziotto. «Adesso dobbiamo andare fino in fondo. Stiamo dando la caccia a un assassino. Se non mi racconti quello che sai, ti porto dentro».
Dal suo taschino si sentì un bip. «Ho un paziente sul tavolo operatorio. Se mi arresti adesso, l’assassino sei tu. I delinquenti sono ribelli con una loro dignità. Dovete sapere quello che fate».
«Verrai arrestato dopo l’operazione. Un agente ti aspetterà qui fuori».
«Non posso rifiutarmi, ma come medico ho il segreto professionale. Ci sono delle cose che non posso dire. Il consiglio che ti posso dare è di parlare con Norma Winther. Ma forse prima ancora con Berit Adamsen», disse Ole Porat.
«Siamo a casa sua, in questo momento», disse Cato Isaksen.
*
Marian era raggelata: stava lentamente prendendo coscienza, come se qualcosa si stesse sciogliendo all’interno di ciascuno dei suoi nervi, sebbene con la velocità di un fulmine. Teneva le mani in alto. Quando le cose erano così semplici che la polizia non le vedeva, allora si era geniali. Ma non riusciva a capire i collegamenti. Sentiva i battiti del proprio cuore che picchiavano contro lo sterno. «Quella maschera della foto, sulla parete dietro il cavalletto: assomiglia molto alla maschera da diavolo filmata dalla telecamera di sorveglianza fuori dalla palestra di Myrens Verksted». Marian si rese conto di aver parlato troppo. Lo capì in quello stesso istante, ma ormai era troppo tardi. Eppure non poteva essere stata Emmy a uccidere Aud Johnsen! Non era compatibile con le informazioni fornite dalla compagnia telefonica…
«Abbiamo visto anche la Volvo di Werner Hagg, in quel filmato», balbettò.
Emmy raccolse la giacca di Marian e la gettò sulla sedia. «Quella dannata maschera mi nascondeva, e mi ha permesso di non dover guardare negli occhi Aud. Il fatto che fosse Halloween cascava a fagiolo. Naturalmente Aud mi ha riconosciuta. Io l’ho buttata per terra, ho usato la tecnica dello strangolamento alle spalle e le ho tagliato rapidamente la gola. Mi sono allenata nell’autodifesa per molti anni. Quando uno stringe il braccio intorno al collo, vengono compresse le arterie da entrambi i lati, e arriva troppo poco ossigeno al cervello».
Marian la fissò. I suoi occhi erano lucidi per lo shock che le doleva in corpo. «Ma io non capisco…».
Emmy Hammer aveva assunto una voce da bambina: «L’equilibrio è sparito. Per tutti questi anni, tutto è stato taciuto. Io non ho ucciso nessuno, Marian, lo giuro». La voce infantile si era fatta molto flebile. «Ho fatto soltanto come papà: ho eliminato i problemi. I bambini fanno come i genitori, assorbono il loro modo di essere così come le piante assorbono l’ossigeno. Per osmosi. Attraverso l’osservazione e l’empatia».
*
Cato Isaksen fissò Berit Adamsen. «Si può sapere di che cosa hai paura?»
«Qui non si tratta di Jan Hagg», disse lei. «Né di Werner, né di me. E neanche di Ole Porat. Piet è venuto a vivere a casa mia. Non ce la faceva più. E nessuno poteva riportare in vita Maike. Ma qui Piet non c’entra».
«Abbiamo trovato questa lettera». Roger Høibakk gliela mostrò, sollevandola. «Tu stessa avevi commesso delle cose illegali, dice Carl Hammer. Che cosa voleva dire? Perché smettesti di lavorare?».
Cato si alzò in piedi.
«È possibile che Maike fosse andata a frugare nelle carte in cantina alla ricerca di qualcosa? Informazioni delicate sul padre, sull’omicidio della madre… Roba del genere».
Berit Adamsen non rispose.
«È verosimile che lì ci fossero documenti del genere? E che cosa ci voleva fare, lei? E le altre ragazzine, poi?».
*
Marian gettava rapide occhiate verso la porta. «Non ci pensare neanche. Cato Isaksen in questo momento sta venendo qui», mentì.
Emmy le puntò la pistola alla testa. «No, Cato Isaksen pensa che siamo nella dépendance».
«C’è di mezzo Maike Hagg». Marian tremava impercettibilmente.
«Certo che c’è di mezzo Maike Hagg. Il caso era stato abbandonato per quasi venticinque anni. Ma Aud voleva scriverci un articolo. Mi pregò di andare al Theatercaféen». Nella testa di Emmy risuonò la voce cristallina di Aud. Tuo padre è una persona cattiva. «Aud mi guardò e mi disse: “Tuo padre abusava di me. Sicuramente abusava anche di Maike, in cantina, nei giorni dedicati ai bambini. Voleva sempre mostrarci qualcosa in cantina, uno alla volta. Lui deve avere ucciso Maike. Sicuramente lei voleva parlare”. E a quel punto per me fu tutto chiaro, nitido, ciò che dovevo fare. Era un’operazione di salvataggio: dovevo recitare e portarla a termine. Era come mettersi sotto un fascio di luce bianca. Come se la mia mente fosse illuminata da un lampo bianco. Non avevo mai capito cosa mio padre facesse alle ragazze».
Marian rimase calma. «Ma Emmy, tu eri da Burns. Non è possibile!».
«Mi sono inventata una storia. Dovevo salvare la mia famiglia».
«Te stessa, vuoi dire. Stai rovinando tutto quanto, per te stessa, adesso».
«Andrà tutto bene», disse Emmy con la voce da bambina. Poi fece una smorfia che ricordava un sorriso. «Finora ce l’ho fatta: nessuno ha capito come fossero collegati i fatti».
*
Berit Adamsen chinò il capo. «Già, e le altre bambine?», sussurrò.
«Cos’è che stai omettendo?». A Cato sembrava che le cose andassero troppo per le lunghe. «C’è qualcosa a proposito di Norma Winther?»
«No, no, Norma Winther non ha nulla a che fare con tutto questo. Anche se…».
«Anche se cosa?». Cato Isaksen teneva stretto il cellulare, pronto a mandare un qualche messaggio alla centrale operativa.
Randi teneva la mano sulla ricetrasmittente nella tasca interna della giacca di pelle. Roger si alzò.
«Una volta Norma Winther mi confidò che provava qualcosa per me. Fu allucinante. Ma questo non c’entra niente». Guardò Cato Isaksen.
«E allora cos’è che c’entra, porco cane?»
«Era mio, il rossetto che Maike aveva sulla bocca». Si strinse la testa tra le mani. «Io l’avevo sporcata. Ma era già morta. La respirazione bocca a bocca. Ho cercato di salvarla. Il fatto che il rossetto avesse lasciato un’impronta su di lei fu terribile per me, quando arrivò la polizia. Poteva essere male interpretato. Ci venne il panico».
«Ci venne?».
Cato Isaksen, Randi Johnsen e Roger Høibakk la fissarono.
«Fu Carl Hammer a trovarla morta. Si disse che era caduta dalla scala pieghevole. Naturalmente non era così. Che ci faceva Carl Hammer in cantina, quel giorno?». Si diede la risposta da sola: «Lui si prendeva la briga di parlare con i bambini, era così che si esprimeva».
Cato Isaksen guardò Berit Adamsen. «Che cosa intendi, esattamente? Hammer dice che tu stessa avevi fatto delle cose illegali».
«Stava soltanto cercando di manipolarmi».
Cato Isaksen spostò il peso sull’altra gamba.
«Fu Carl Hammer a trovarla», ripeté la donna. «Il sangue aveva formato un rivoletto lungo il pavimento ed era arrivato nel corridoio della cantina. Da quel giorno non ho mai più usato il rossetto».
Il viso immacolato di Berit Adamsen era senza trucco. La donna lo guardò negli occhi. «Ho avuto centinaia di incubi che riguardavano proprio quella sensazione: le mie labbra contro le sue. Fu come baciare la morte. Quando mi girai, Hammer se n’era andato. Maike Hagg era morta. Io ebbi un conato di vomito e corsi su. Una volta in bagno lavai via il sangue e il rossetto dalla bocca. Lasciammo lì Maike per un pochino. Come se ci stessimo prendendo un time-out. Poi Carl Hammer chiamò la polizia».
*
«Mentre correvo da Burns, mi inventai una nuova storia. È come giocare a scacchi: devi sempre muovere i pezzi giusti e pensare alle mosse successive. Ed ecco che torna quella faccenda del domatore, della tigre e dell’arena di cui parlavi tu».
«Tu sei malata», sussurrò Marian, e pensò alla fascetta da elettricista che aveva in tasca. «Nella cantina di Gaustad c’era odore di trementina. Dentro quella stanza».
«Sì, giro parecchio per la cantina. La mia versione era la seguente: avevo incontrato Aud al Theatercaféen. Lei mi aveva raccontato che non era stato Werner a uccidere la moglie, nell’84: era stato Jan. Dopodiché Piet aveva dato fuoco alla casa per coprirlo. Maike voleva fare la spia, e dunque Jan aveva dovuto uccidere anche lei. E Ole Porat ne era a conoscenza. Ho telefonato a Jan e Porat. Jan ha chiamato Werner. Si sono fatti fregare tutti e tre. E anche la polizia».
«E il tuo cellulare?», chiese Marian. «I dati relativi a quella sera dicono che è stato collegato a una sola cella, nell’orario dell’omicidio».
«È stato facile. Io sono arrivata da Burns alle sette meno un quarto, ho comprato un paio di drink che ho trangugiato, e poi ho nascosto il cellulare sotto uno dei cuscini di pelle dei divanetti più interni. Nessuno l’avrebbe potuto trovare. L’avevo silenziato».
«Avresti potuto spegnerlo».
«Non sono mica stupida! Non spengo mai il cellulare. La polizia lo troverebbe strano. Poi ho preso un taxi, sono andata a Gaustad, e sono andata a prendere le cose che mi servivano dall’atelier. Di fronte a Burns ci sono dei taxi. Chi mi avrebbe potuta tirare in ballo? Una donna che viene accompagnata a Gaustad per andare a prendere qualcosa. Nella sala caldaie ho preso l’impermeabile, i guanti, il cappello, gli stivali e la maschera da diavolo. E la falce. È entrato tutto nel mio borsone, e il taxi mi ha portata di nuovo da Burns. Poco prima delle otto e mezza ero già di ritorno, e ho preso un altro drink. Ho parlato con il barman. Lui credeva che fossi stata lì tutto il tempo. Era strapieno di gente. Poi ho telefonato a Jan alle otto e mezza e gli ho raccontato quelle bugie. Ha funzionato. Lui ha chiamato Werner. Io ho chiamato Ole Porat per seminare un’altra traccia telefonica. La polizia avrebbe visto che era vero che avevo parlato con lui. A quel punto si erano fatte le nove meno dieci. Ho raccolto alcune cicche di sigaretta da un portacenere che sta fuori da Burns. Pensavo fosse una buona idea sparpagliare delle false tracce vicino casa di Aud. Ole Porat fuma: avevo trovato una sua foto con la sigaretta su internet. Poi ho preso un altro taxi per andare a Sandakerveien. Ci ho messo otto minuti. Sono scesa su alla curva, e ho indossato l’impermeabile e la maschera, tanto era Halloween… dev’essere stato quello il momento in cui le telecamere di sorveglianza mi hanno ripresa di sfuggita. Il fatto che Werner sia andato a Sandakerveien e abbia lasciato l’impronta del suo dito sul campanello è stato davvero un grosso vantaggio. Era come se tutto quanto fosse stato messo in scena da un genio del Male di regista: me! Mi è venuto perfino in mente di telefonare alla polizia. Soltanto per gettare le giuste premesse, e dire le stesse cose che avevo detto a Jan e Porat. Poi ho buttato il cellulare di Aud nel fiume, e sono tornata da Burns alle dieci e cinque. Ho recuperato il mio cellulare prima di riprendere il tram verso casa, e sono arrivata lì verso le dieci e mezza. Mentre ero sul tram ho telefonato ad Aud, e le ho mandato dei messaggi anche il giorno dopo. La polizia ha trovato tutti i collegamenti con le varie celle, quando hanno interpellato le compagnie telefoniche. Mentre salivo per Trosterudveien, ho visto una macchina parcheggiata. Ho fatto una corsa attraverso il giardino dei vicini perché pensavo fosse un’auto-civetta della polizia che mi aspettava. Avevo una paura terribile. Dannazione, che razza di situazione ambigua. Io non sapevo che si trattasse di Werner Hagg, che mi voleva parlare. Era perfetto! E naturalmente non ho aperto la porta».
Piet Hagg entrò nuovamente nel cortile di Welhavensgate. Aveva comprato un hamburger da un negozietto per far passare il tempo. La moglie di Jan, Ingrid, in chiesa gli aveva detto che doveva andare a prendere Jan in prigione; avrebbero mangiato un boccone e dopo Jan avrebbe fatto un salto in ufficio. Se voleva, poteva incontrarlo lì. Era questo il motivo per cui era venuto. Parcheggiò accanto al furgoncino, si tolse il casco e lo poggiò sul sellino. Nello zaino aveva una figurina che aveva intagliato nel legno. Era per Jan. In quel momento entrò nel cortile un’auto della Securitas. Piet rimase immobile. La macchina fermò al centro dello spiazzo e ne scese un uomo con un completo blu che si avviò verso la porta principale.
*
Berit Adamsen guardò i poliziotti. «Vi racconterò tutto. Quando entrai, Carl Hammer era nell’archivio sotterraneo e stava armeggiando con i suoi pantaloni. Era bianco in viso. Maike era stesa per terra. Aveva i vestiti addosso, ma fissava il soffitto con uno sguardo vuoto.
Io mi inginocchiai e cercai di farla rinvenire. Lui ripeteva che era stato un incidente, e io capii che quella doveva essere la nostra versione ufficiale. Quando nella lettera scrive che anch’io avevo commesso delle cose illegali, era per minacciarmi. Io non avevo mai raccontato ai pazienti cose che non dovevano sapere. Voleva soltanto spaventarmi. E ci riuscì».
«Perché lo aiutasti a nascondere il suo delitto?»
«Carl Hammer è un uomo potente. Io non avevo mezzi con cui combatterlo. Secondo me, anche Norma aveva capito. Non ci tornai mai più. Avevo paura che i sospetti sarebbero caduti su di me. E quell’atmosfera… penso che ci si debba sentire proprio così, in seguito a un trattamento di elettroshock. Come se un fulmine avesse ripulito il cervello. Mi venne una psicosi. È un altro modo per dire che i nervi sono a fior di pelle: il corpo obbedisce e spariscono tutte le inibizioni, ed è come se il cervello si espandesse per adattarsi alla situazione. Carl Hammer è gelido e intelligente. Recitava la parte del paladino dei deboli. Normalmente le valutazioni sui pazienti sono corrette, in psichiatria, eppure vengono fatti errori sistematici. Non sempre sono i malati a essere i più malati».
«È stato papà a uccidere Maike. Pare che le abbia dato uno spintone. Ma io dovevo salvare mio figlio. Immaginati i titoli: Noto psichiatra abusava dei figli dei pazienti. Uccise una dodicenne. Non avevo scelta! Ho ammazzato Aud, e il giorno dopo ho seminato delle orme intorno a casa mia con gli stessi stivali che avevo utilizzato per uccidere Aud, quelli vecchi del guardiano che sono nel locale caldaie».
«Ma chi ti ha sparato contro, in giardino?»
«Nessuno. Sicuramente era papà che volevano uccidere, era di certo una vendetta. Johnsen oppure Werner, chissà». Emmy alzò le spalle, indifferente. «E io sono diventata una creatura perseguitata, una povera, piccola, delicata bionda che aveva bisogno di essere protetta dalla polizia. Il problema è soltanto che tu, poliziotta di merda, sei un po’ troppo simile a me. Ma non brava a fare la guardia! Io stanotte ho tagliato la corda dalla finestra. Ho attraversato il bosco correndo fino al locale caldaie e ho preso un tubetto di colore a olio. Ha un odore intenso e asciuga lentamente, ma non avevo più acrilico, per terminare il quadro. Tu dormivi sul sofà. Non ti sei accorta di nulla. Io ho sistemato bene l’asciugamano sotto il piumone, per farti credere di essere stesa lì sotto».
«Veramente ho sentito un rumore. Mi sono affacciata da te». Il cuore di Marian batteva come se avesse corso.
«Il tuo cane è talmente stupido che non reagisce a nulla. Il tubetto era sul bordo del cavalletto al piano di sotto; io lo chiamo tripode perché è fatto di metallo».
Marian fece una rapida manovra: sgusciò accanto a Emmy Hammer, entrò nel magazzino delle bare e cercò di sbattere la porta, appoggiandoci la schiena contro. Se il magazzino delle bare era la tana di una volpe, lo sgabuzzino era peggio. Lì dentro non ci sarebbe entrata.
Emmy Hammer riuscì ad aprire la porta, e Marian fece un volo in avanti e cadde per terra. Parò la caduta con le mani, ma si fece male ai polsi.
Emmy Hammer le fu addosso, puntandole la pistola alla testa. Mise il dito sul grilletto. «Alzati!».
Marian si alzò, si girò e fece alcuni passi indietro. Il piumino di Emmy sembrava un’armatura che le rivestiva il corpo. Marian andò a sbattere di schiena contro le bare accatastate le une sopra le altre.
Emmy Hammer la fissava negli occhi. Aveva una specie di bagliore nero nelle pupille, un puntino nero luminoso, che ricordava il carbone.
«Dammi la fascetta che hai in tasca, poi togliti il badge e dallo a me», disse. «Preferirei evitare di ammazzarti qui, ma forse ci sarò costretta. Dipende solo da te».
Marian si sfilò il badge da sopra la testa e glielo porse.
Lei glielo strappò di mano e se lo ficcò dentro al maglione, poi infilò la mano nella tasca di Marian e ne estrasse la fascetta. «Vai nell’anticamera. Cammina all’indietro».
Marian fece come le diceva, poi però urtò il quadro vicino alle sedie. Quello oscillò, ma l’altra riuscì a prenderlo prima che cadesse.
Emmy le ordinò di porgerle le mani. Le mise la fascetta intorno ai polsi con una mano, mentre con l’altra stringeva nervosamente la pistola. Marian stava per assestarle un calcio: piegare la gamba e piantarle un piede in pancia, quando all’improvviso sentì il rumore dell’ascensore che vibrava nella parete. Questo la aiutò a scaricare in parte la sua fortissima tensione nervosa. Stava arrivando qualcuno. Il servizio di sicurezza, la Securitas: naturalmente anche qui c’era qualcuno che faceva la guardia. Di certo dovevano perfino esserci dei pazzi che cercavano di entrare negli impianti per la cremazione e nelle agenzie di pompe funebri! Emmy raccolse della carta da cucina da un cestino. Rapidamente la ficcò nella bocca di Marian e la tirò indietro per i capelli, allontanandola dalla porta.
Rimasero entrambe come pietrificate a guardare attraverso il vetro smerigliato. Apparve una sagoma indistinta che si avvicinava. La bocca della pistola era incollata alla testa di Marian. Gli occhi di Emmy gettavano occhiate colme di panico ora alla porta, ora a Marian. La donna era già in posizione, con le ginocchia piegate e pronta ad agire se fosse stato necessario. La follia conferiva al suo viso un che di freddo e di composto.
Marian ebbe un conato di vomito. Le sembrava che la carta in gola la stesse per soffocare. Cercò di contorcere le mani per liberarsi della fascetta. Ma Emmy le strinse intorno il braccio libero, e le puntò la pistola alla gola. Marian tremava e sentiva la nausea salirle su come un’onda dallo stomaco. Emmy le coprì il viso con la mano. Marian sentì l’odore delle dita sudate che le premevano sul naso. Venti secondi, pensò. Calmati, ce la fai a non respirare per venti secondi. La morte arriva facilmente.
La guardia giurata fischiettava una melodia. La det swinge. La dannata canzone vincitrice del Melodi Grand Prix 1985. Poi infilò la chiave nella serratura. In quello stesso momento il suo cellulare iniziò a suonare, e il fischiettio cessò bruscamente. Voltò le spalle alla porta. «Sì, pronto». La sua ombra al di là del vetro smerigliato divenne sempre più piccola, e la voce e le risate si fecero sempre più allegre. Non ci voleva un grande intuito per capire che stava parlando con una donna. La luce nel pianerottolo si spense. Scese le scale. La ricetrasmittente che stava dentro la giacca sulla sedia iniziò a gracchiare. Una voce metallica stava chiamando Marian Dahle. Emmy le tolse la mano dal viso, e Marian respirò profondamente attraverso le narici. E poi si sentì sbattere il portone giù in basso. Quel rumore penetrò nella coscienza di Marian, più e più volte.
*
Marian non rispondeva al telefono. E neanche alla ricetrasmittente. Cato Isaksen attraversò l’appartamento a grandi passi, aprì la porta di casa e corse giù per le scale bestemmiando a voce alta e battendo ripetutamente sul corrimano. Poi aprì il portone e uscì in mezzo al nevischio che cadeva dal cielo. Roger gli corse dietro. Randi rimase su da Berit Adamsen.
Roger Høibakk protese la mandibola con fare aggressivo, e prese posto al volante. Si allungò per aprire la porta a Cato. «Perché qualcuno vuole uccidere Emmy Hammer?», disse, girando la chiave dell’accensione.
«Emmy dice che non sa nulla di importante. Ma ti ricordi cosa ha detto sulla tempistica?»
«Sulla tempistica? Cosa, Cato?»
«Ha detto che erano passati circa venti anni dall’ultima volta che si erano viste, lei e Aud Johnsen».
«E con ciò?»
«Accelera. Vai a Trosterudveien. L’omicidio cade in prescrizione dopo venticinque anni. Lei quel venti lo ha detto apposta. Forse dovremmo studiarcela meglio? Se non fosse che hanno tentato di ammazzarla, avrei quasi puntato i fari su di lei». Cato Isaksen trovò una penna caduta per terra, la tirò su e si mise a batterla ritmicamente sul cruscotto. «Quanto è affidabile?»
«Basta con quella penna».
In quel momento squillò il telefono di Cato, che lo guardò subito. Non era Marian, era Ellen Grue. «Abbiamo ricevuto la risposta dei test del dna. Non è stato Ole Porat a gettar via quei mozziconi di sigaretta. Il risultato non corrisponde a nessuno dei dna che già abbiamo. E poi c’è dell’altro».
«Cosa?»
«Il padre di Philip Hammer». La sua voce era limpida.
«Ebbene?»
«Non troviamo tracce di dna del padre. Vuol dire che è imparentato con se stesso, se capisci cosa intendo».
Cato Isaksen fissò lo sguardo nel vuoto.
«Emmy Hammer è sua madre, e qualcuno della stessa famiglia è il padre».
La parola “emulazione” gli frullava in testa. Cato Isaksen provò come un crampo allo stomaco. In quello stesso istante capì. Di certo “emulazione” non era la parola giusta: nell’88 era stata uccisa una bambina; quasi venticinque anni dopo era stata la volta di una donna di trentasette anni. Qualcuno aveva cambiato il proprio modus operandi. Il tentato omicidio di Emmy Hammer era una cosa diversa. Non era lei, l’obiettivo, ma Carl Hammer. Possibile che avesse messo incinta la propria figlia? I colpi di pistola in giardino. Dovevano essere stati John Johnsen o Werner Hagg nel tentativo di uccidere lo psichiatra. Logico. Avevano tutti e due qualcosa di cui vendicarsi. Hammer era il padre del proprio nipote. «Porca puttana, Roger! Hai sentito cos’ha detto Ellen?»
«Ho sentito».
Cato chiamò nuovamente Marian. Fece squillare più a lungo, questa volta. Ma neppure adesso lei rispose. «Forse l’assassino non voleva uccidere Emmy Hammer, Roger, ma Carl Hammer».
Cato Isaksen chiuse gli occhi. «Quando John Johnsen blaterava dell’angelo che era un diavolo, non intendeva Norma Winther, ma Carl Hammer. Dobbiamo metterlo di nuovo sotto sorveglianza, ma di certo non posso dare disposizioni proprio adesso. Maledetto bastardo. Ora l’importante è trovare Marian». Si strofinò energicamente la faccia. «Su ciò che si dissero quella sera al Theatercaféen, abbiamo soltanto la versione di Emmy Hammer. Potrebbero essere delle bugie, Roger». Si girò e guardò il collega. «Forse Emmy Hammer voleva soltanto impedire ad Aud Johnsen di scrivere la verità».
«Aud chiamò suo padre subito prima di essere uccisa. Naturalmente Hammer aveva abusato anche di lei. E Johnsen lo venne a sapere. Io mobilito una volante e gli dico di sorvegliarlo. Altrimenti dopo ci troviamo nei guai, se non lo facciamo».
*
Quando i due poliziotti se ne furono andati, Berit Adamsen rimase con gli occhi fissi nel vuoto e iniziò a singhiozzare forte. Mandò un sms al figliastro: Non c’è più bisogno che tu ti nasconda, Piet, se è quello che stai facendo. Vieni a casa, adesso.
Randi Johnsen le chiese di calmarsi. «Quando arriva, vedremo cosa fare», disse.
*
Piet non aveva più voglia di aspettare Jan: non arrivava mai. Aveva freddo. Adesso nevicava ancora più forte. Era fradicio. La guardia della Securitas aveva chiuso a chiave il portone prima di andarsene, quindi lui non poteva entrare per riscaldarsi. Stava per salire in sella allo scooter quando sentì qualcuno che apriva il portone. Di riflesso si nascose dietro a un container, e ci appoggiò la Vespa. Poi sbirciò fuori e vide subito che si trattava di Emmy Hammer. Era una vita che non la vedeva. Che ci faceva, lì? Piet rimase immobile. Dietro il container c’erano pile di carta per la raccolta differenziata. Immagini frammentate baluginarono nella sua mente: le ragazzine, che ridacchiavano per delle stupidaggini e che indossavano vestitini di colori tenui: verde menta, rosa, bianco. I capelli di Emmy, bianchi quasi come la lana delle pecore, che formavano una spessa coda di cavallo che dondolava avanti e indietro. Emmy che gli strappava di mano la pistola giocattolo. Emmy che somministrava un vermifugo a Maike. Emmy e la sua cattiveria, quando gettava indietro la testa e rideva. Lei e Aud che prendevano in giro Maike per via della bambola, l’unica cosa che le era rimasta di quando era piccola. Le ombre dei grandi alberi che si muovevano su tutto il verde del parco. Eppure quello era stato il suo anno più felice. Non poteva farsi vedere da lei, adesso; aveva la stessa sensazione di quando andava dal pediatra, da piccolo, spesso accompagnato da una qualche donna che lavorava presso la casa di accoglienza. Il medico diceva che non sarebbe cresciuto molto, che non sarebbe mai diventato forte e bello come Jan.
*
Emmy Hammer aprì le portiere posteriori e tirò a sé il borsone grigio. Sul fondo c’era il vecchio, grosso portachiavi. Erano le chiavi arrugginite di tutti gli edifici di Gaustad. I fiocchi di neve le gelavano la fronte. L’oscurità pomeridiana stava già calando. Emmy afferrò la parrucca. Prese il badge di Marian e lo mise nella borsa di lei. Il cane guaì, ma lei richiuse le portiere, sbattendole, e corse a piccoli passi verso il portone che aveva bloccato con lo zerbino. Aveva legato Marian a una delle maniglie della porta, con lo spago dello scatolone che conteneva i giocattoli.
Quando fu arrivata su, guardò Marian e disse: «Devi metterti questa», e nascose i capelli corti della poliziotta sotto la parrucca. «Tu sei me», disse piano; poi estrasse dal borsone una grossa felpa nera col cappuccio, si tolse il giaccone e il maglione verde, e la indossò sopra il giubbotto antiproiettile. «La felpa di Philip», disse. Poi tolse il cellulare di Marian dalla tasca della giacca da poliziotta, e ficcò quest’ultima nel borsone mentre seguitava a parlare. «Ho raccontato ad Aud di Philip, che studia medicina in Polonia. Ma a lei non interessava. Adesso capisco perché non aveva figli. Era stata rovinata. Le ho raccontato di quanto papà fosse orgoglioso del nipote dal momento che anche lui vuole fare lo psichiatra. Fu allora che Aud disse: Tuo padre è una persona cattiva. E poi seguì tutto il resto. Ma io già lo sapevo, dentro di me, che quello di Maike non era stato un incidente. Di sicuro Maike aveva minacciato di fare la spia. Ma papà era il re di Gaustad».
*
L’auto-civetta percorse veloce la salita di Trosterudveien, e sterzò bruscamente per entrare sul vialetto che portava alle due case bianche. Il crepuscolo faceva sembrare i fiocchi di neve piume fuoriuscite da un piumone che veniva scosso. «Penso che Norma Winther abbia una relazione con Lilly Hausmann, Roger. Forse è semplicemente l’impressione che fa: ha la coscienza sporca».
L’auto frenò di botto di fronte alla dépendance, e Roger mise il motore in folle mantenendo accesi i tergicristalli. Cato Isaksen salì i tre gradini e batté i pugni sulla porta. Non aprì nessuno. Allora corsero da Carl e Solveig Hammer.
Cato Isaksen si sforzava di liberare la propria mente dai pensieri inutili. Ci volle parecchio tempo prima che sentissero i passi strascicati di Carl Hammer. Poi aprì la porta.
«Dov’è tua figlia?», gridò Cato Isaksen.
Carl Hammer lo guardò, irritato. «Che diavolo ne so, io».
Solveig Hammer lo raggiunse con i suoi passetti incerti. «Dovevano consegnare un quadro all’agenzia di pompe funebri», disse a bassa voce, guardando i poliziotti.
«Dove?»
«A una qualche agenzia di pompe funebri», rispose la donna.
Cato Isaksen si girò, e scese lentamente le scale mentre componeva il numero di Jan Hagg sul cellulare. Quest’ultimo rispose immediatamente. «Sì, pronto», disse con voce profonda dall’altro capo.
«Ho una breve domanda per te». Cato Isaksen si girò lentamente e guardò verso il limitare del bosco. Dietro un albero, qualcosa si mosse. Di certo doveva essere qualcuno che faceva jogging.
«Per caso Emmy Hammer doveva consegnarti un quadro, oggi? All’agenzia di pompe funebri?»
«Be’, sì, è possibile. È possibile che Ingrid sia uscita lasciando aperta la porta. Era parecchio fuori di sé, ultimamente, quindi Emmy potrebbe essere andata lì a portarlo. Non saprei. Ingrid, io e le bambine in questo momento siamo in un locale all’aperto, e stiamo mangiando un boccone».
*
Vanja vide che i due poliziotti attraversavano di corsa il prato per tornare all’auto-civetta con sopra il lampeggiante, e salivano a bordo. La macchina fece un’inversione a U e si diresse veloce su, verso la strada. Lì accesero il lampeggiante, che gettò ombre bluastre sul cofano. Subito dopo sentì il suono della sirena. Potevano sopraggiungere altre macchine della polizia. Vanja si accovacciò dietro ad alcuni fitti arbusti di pino. L’uomo nella casa più grande doveva morire. Era cattivo. Una persona orribile, aveva detto l’uomo del soprabito. E questa volta, Vanja non avrebbe sbagliato. Se avessero chiuso di nuovo le tende, lui avrebbe suonato alla porta e gli avrebbe sparato a bruciapelo. Quello poteva farlo. Ma c’era qualcosa della moglie di quell’uomo che gli ricordava sua madre. Presto sarebbe stato più buio. Aveva freddo alle gambe. La neve si attaccava ai rami che oscillavano, su e giù. Avrebbe lasciato il Paese già l’indomani, con i soldi che gli avrebbe dato quel pazzoide. L’uomo del soprabito sembrava sfuggente come un’anguilla; aveva mantenuto l’anonimato, ed era impossibile da minacciare. Ma i suoi soldi li avrebbe avuti. Vanja gli aveva detto che non si fidava di lui. L’uomo del soprabito aveva promesso di pagarlo. Gli aveva detto che i soldi si trovavano già in un posto sicuro, e che potevano essere ritirati una volta che avesse portato a termine la sua missione. Gli aveva dato un pezzetto di carta con un numero a cui telefonare. Vanja l’aveva controllato: era il telefono di una donna sconosciuta, una certa Miriam Balshauer. Non appena i notiziari avessero dato la notizia dell’omicidio – l’uomo del soprabito gli aveva detto che sarebbe stato ad ascoltare la radio – Vanja avrebbe potuto telefonare alla donna, e lei gli avrebbe dato una parola d’ordine, una parola in codice che lui avrebbe compreso, circa il luogo in cui si trovavano i soldi.
*
C’erano di nuovo da scendere trenta gradini con le mattonelle bianche e nere, lo stesso numero di quando erano salite. «Cammina come una persona qualsiasi». Emmy Hammer teneva l’arma nascosta per metà nella manica dell’ingombrante giacca. Sporgeva fuori soltanto la canna, puntata contro la schiena di Marian. Il cuore teneva lo stesso ritmo con cui lei contava, mentalmente. L’eco dei passi. Uccidere. Camminare lungo la parete, poi proseguire. Sorridere. Camminare. Lentamente. Chiudersi dietro la porta. Fuori. Neve nell’aria. Androne. Cortile. Cane e macchina. Quel piccolo, sconfinato cortile. Come muoversi in un cilindro luminoso, come indossare una torcia frontale, una colonna di luce bianca che poteva spingersi a un paio di metri dai propri piedi, e che proiettava un disegno su per le pareti di muratura dei vecchi condomini. Marian non sentiva il traffico che rombava sulla strada lì fuori.
Una giovane donna le superò sul marciapiede lì fuori. «Cammina come una persona qualsiasi», le sussurrò Emmy Hammer, tirandola a sé. I sensi, in pieno stato di allerta, amplificavano i suoni e ingrandivano tutto.
Marian aveva ancora la carta di cucina che le riempiva la bocca; alcuni frammenti bagnati le scesero in gola, e le sembrò ripetutamente di dover vomitare. Si guardava intorno disperata, ma Emmy aveva la pistola e Birka la fissava vergognosa dal sedile posteriore. Nel cortile non c’era anima viva. Le finestre del palazzo erano vuote. La stretta parrucca pizzicava, e le dava un senso di calore nella parte alta della fronte.
*
Di primo acchito sembravano gemelle; l’una indossava un piumino chiaro e aveva un borsone appeso al braccio; l’altra indossava soltanto una felpa nera col cappuccio. Ma poi Piet vide la differenza. La donna con la felpa aveva un viso largo da orientale. Camminavano spalla a spalla in modo singolare. I muscoli della mascella gli si irrigidirono. Emmy aveva assicurato una corda intorno al corpo dell’altra donna, che aveva i polsi legati con una fascetta da elettricista. Alcuni ciuffi di capelli le calavano sul viso. C’era qualcosa che non quadrava, riguardo a quelle donne. All’improvviso sentì il brusìo delle macchine per strada, lì fuori. Avrebbe dovuto correre per andare a fermarne una. Ma rimase immobile: non riusciva a muoversi.
*
Emmy aprì la portiera dal lato del passeggero. Poi ordinò sottovoce a Marian: «Dentro!».
Richiuse la portiera, aprì quella posteriore, gettò dentro il borsone, fece il giro della macchina e si lasciò cadere sul suo sedile. L’auto partì. Birka scodinzolava piano. «Mi piacciono i cani, capisci. Un po’ troppo. Per questo ho lasciato vivere quello di Aud, e per questo adesso stiamo portando a casa il tuo. So dove abiti».
*
La sirena ululava. Quel suono attraversò l’auto, e la luce squarciò i fiocchi di neve che danzavano sul cofano. «Marian è armata, Cato».
«Perché non segue le istruzioni? Accidenti a lei! È possibile che sia successo qualcosa, Roger». Cato Isaksen pensò all’espressione “missing link”35 mentre passavano accanto allo Chateau Neuf36. Avevano passato in rassegna e analizzato tutte le sequenze di eventi possibili e immaginabili, e nominato una per una tutte le persone potenzialmente coinvolte.
«È possibile che ci sia qualcosa che non torna riguardo a ciò che successe al Theatercaféen. Ci hai pensato? Il fatto che Aud Johnsen aveva visto Jan Hagg seguire la sorella in cantina. Potrebb’essere una balla bella e buona! Del resto noi abbiamo soltanto la versione di Emmy Hammer».
«Il padre è un uomo con un’ottima reputazione», disse Roger. «Un uomo che ha molto da perdere. Stai dicendo che Emmy Hammer è pericolosa?»
«Non lo so, Roger».
Emmy Hammer strinse il volante e fece marcia indietro per uscire in strada. Inserì la prima e avanzò leggermente, facendo manovra tra le altre macchine. «Non volevo che Aud morisse. Ma ho una madre e ho anche un figlio: si tratta di amore. Gli stivali sono rimasti nel locale caldaie fin dai tempi del guardiano. Il soprabito è uno dei camici che uso quando dipingo. Ho utilizzato quel luogo per molti anni. Nessuno sa che l’avevo trasformato nel mio atelier. La mia tana. L’unico posto dove mi sento libera».
Emmy aveva il telefono di Marian tra le gambe, insieme alla pistola. Arrivò un sms, accompagnato da un segnale acustico. Emmy Hammer lo guardò. Dove sei? Emmy Hammer può essere pericolosa.
Emmy Hammer accostò. La macchina salì sul marciapiedi, sobbalzando. Lei mise il motore in folle e rispose: Rilassati. Siamo in un caffè. Non è pericolosa. Non rompere.
Emmy gettò il cellulare sul sedile posteriore e riprese la strada. Marian Dahle era un personaggio difficile: insicura ma molto forte. Una combinazione pericolosa. Il suo cane non rappresentava un grosso problema: adesso era irrequieto, ma non faceva paura. Però poteva cambiare, poteva aggredirla; gli istinti avrebbero potuto trasformarlo in una bestia selvaggia, un lupo vendicatore, se avesse capito che la sua padrona era in pericolo. Emmy pensò a mente fredda: perché non lasciarlo andare per strada, così almeno se ne liberava? La macchina davanti fermò. Lei frenò. Più avanti ancora c’era un semaforo rosso. Mentre guardava nello specchietto retrovisore, vide un’auto-civetta con il lampeggiante blu salire sul marciapiedi a qualche distanza da loro e fermarsi lì. Sentì un nodo in gola per la paura e gettò un’occhiata veloce su Marian Dahle. Seguì i contorni del suo viso: non si riusciva a vedere un granché, sotto quei capelli che le coprivano le guance come una cortina.
*
Roger fece un’inversione a U, scese dal marciapiedi con un sobbalzo e, tagliando la strada, entrò con la macchina nel cortile dell’edificio dove si trovava l’agenzia funebre. Frenò di colpo di fianco al container.
«Dice che sono in un caffè, Roger, ma non risponde mica al cellulare, maledizione. Accidenti a Marian!». Saltò giù e alzò lo sguardo verso la facciata del palazzo che era appena stato ripulito. Cato Isaksen aveva dei fiocchi di neve sul viso stanco. «A ogni modo, la sua macchina non è qui», disse, e chiamò la centrale. «Cercate il furgoncino bianco di Marian Dahle», disse. «Marian non ha seguito le istruzioni. Adesso spacchiamo il vetro ed entriamo dentro l’agenzia di pompe funebri».
*
Il cane le aveva poggiato la testa sulla spalla. Qualcuno stava attraversando sulle strisce. Marian cercò di fare un cenno alla donna della macchina accanto. Aprì la bocca per farle vedere che c’era della carta. Ma era coperta dai capelli. Come poteva capire la gente che in quella macchina c’era un’assassina con un ostaggio?
Emmy Hammer era concentrata sulla guida. Marian si girò all’indietro, rigida. Emmy guardò rapidamente nello specchietto retrovisore e sollevò il piede dalla frizione. «Non farò nulla al tuo cane», disse.
L’insulso quadro bianco era appoggiato a una delle piccole sedie nere. Emanava un odore intenso di colori a olio. L’altra sedia era rovesciata a terra. Accanto c’era un cestino della carta straccia. Cercarono in tutte le stanze, compresa la cella frigorifera. L’agenzia era vuota. Dentro uno degli uffici c’era uno scatolone di cartone per terra che conteneva una bambola, alcuni sassi e una pistola giocattolo.
Corsero di nuovo giù in cortile. Cato Isaksen era in contatto con la centrale tramite la ricetrasmittente. All’improvviso spuntò fuori un uomo da dietro il container, come fosse un pupazzo a molla.
«Sono Piet Hagg», disse.
«Che diavolo ci fai, qui?». Cato guardò quel tipo robusto con i capelli marroni e lo zaino sulla schiena.
«Non mi sto mica nascondendo».
«Che diavolo ci fai, qui?», ripeté Cato.
«Sto aspettando Jan. Finalmente mi sono deciso a ricominciare tutto da capo. Però poco fa è scesa giù Emmy Hammer insieme a una donna che era stata legata. Anche lei era bionda, ma aveva un viso orientale.
«Quando? Quanto tempo fa?»
«È successo proprio adesso. Subito prima che veniste voi».
«Accidenti, Roger!». A Cato Isaksen venne in mente il profilo dell’assassino descritto da Karsten Tønnesen. Malato di mente, malvagio, intelligente, e ha delle doti da attore. Corrispondeva tutto quanto! Emmy Hammer era senza scrupoli e psicotica. Schizofrenica, di certo. Furba e lucida. Cattiva. Fredda. Forte; probabilmente la sua forza si fondava sul fatto che credeva nell’illusione che si era costruita. Ed ecco che tornava l’arena del circo, l’immagine di Marian: Se entri nell’arena e ti metti sotto ai riflettori, non ti vede nessuno.
«Sali in macchina, dietro», ordinò Cato Isaksen e inviò un messaggio via radio.
«Potrebbe esserci una situazione di pericolo. Marian Dahle è incaricata di fare da guardia a una persona, ed è armata. La persona di cui si sta occupando è Emmy Hammer. È possibile che i ruoli si siano invertiti».
Roger Høibakk stringeva il volante con entrambe le mani. La sirena ululava. «Dove diavolo andiamo?»
«Da quando ho messo piede in casa di Berit, sono stato al sicuro», disse Piet.
Cato Isaksen girò la testa all’indietro. «Basta, Piet Hagg», disse. «Chiudi il becco». Davanti a sé immaginò una donna vestita da prestigiatore. Era colpita in pieno da un fascio di luce fredda. Una donna dagli occhi azzurri e penetranti, e dai capelli biondo platino che formavano dei boccoli, quasi come quelli dei rasta.
In quell’istante entrarono nel cortile due volanti della polizia. Ne uscirono uomini e donne in uniforme con le giacche e i pantaloni dotati di bande catarifrangenti.
*
Marian poggiò la nuca sul poggiatesta. Come faceva Emmy a sapere dove abitava? Il traffico pomeridiano era intenso. I tergicristalli andavano al massimo. Poco più su per la strada, a sinistra, c’era il Soria Moria, un edificio con il nome di un luogo fiabesco. Sentì il naso di Birka contro la nuca. Il cane scodinzolava piano. Marian inghiottì un frammento di carta. Il getto di aria secca proveniente dalla bocchetta del riscaldamento la colpiva con forza. Emmy parlava a voce bassa, come se recitasse un sermone. «La regista del Male: ho messo in scena azione dopo azione. Prima un pensiero, poi determinazione, pianificazione e mosse giuste. È come un teatrino delle marionette. Si tratta di tirare i fili». Si girò verso Marian. «Penso anzi che se c’è qualcuno che mi capisce, quella sei proprio tu. Sai, ne abbiamo parlato, a proposito dei genitori».
Marian si girò dall’altra parte, ma Emmy proseguì. «A un certo punto in me si è innescato qualcosa. Mi sono accorta di essere preda di una gelida lucidità che permetteva al mio cervello di lavorare a tutta forza. Sapevo di avere un vantaggio su tutti. Ho chiesto a quella segretaria, Irmelin Quist, dove abitavi. Pensavo che mi sarebbe stato utile. So molte cose sulle diverse condizioni mentali per via di mio padre. Una delle cose che ricordo meglio a proposito di Maike, era che voleva bene a suo padre. Il padre di Maike era gentile. Solo che aveva ucciso sua moglie con l’accetta».
John Johnsen aprì la porta. Fuori c’erano due poliziotti in divisa che non aveva mai visto. La vicina di casa col naso aquilino, Miriam, si alzò dal divano. Era andata a fargli visita. Lui si era preparato a lungo su cosa dire e come comportarsi. Aveva visto alla tv che usava servire qualcosa di buono, versare del vino nei bicchieri e fare conversazione, e dunque aveva preso degli appunti su argomenti di cui avrebbero potuto parlare. La cosa che avevano in comune erano le loro casette in quell’orto comunale. Lei non capiva che era stata invitata al fine di fornirgli un alibi. Avevano chiacchierato, parlato di libri. «Le parole pongono un limite alla verità», aveva detto lui.
I poliziotti entrarono in salotto. Chiesero qualcosa a Miriam, ma lei non volle rispondere. Sganciò la pesante giacca di lana dall’appendiabiti, e se ne andò. Dopo sarebbe andato da lei. Morto Hammer, lo avrebbero lasciato di nuovo in pace. Ora aveva incollato per bene la trave del pavimento, e aveva rifatto le fughe. La cassettiera con i libri stava ancora lì. Nessuno avrebbe più trovato quel quaderno rosa pallido. Le parole di Aud le conosceva a memoria: Maike vuole molto bene al suo papà. Io voglio bene al mio. La cosa strana è che anche Emmy dice che vuole bene al suo papà. Anche se mi ha fatto tutte quelle brutte cose in cantina. Dice che se lo dico a qualcuno, tutti i papà moriranno e non li vedremo mai più. Non ho detto nulla a Berit e a Norma. Ma io penso che sappiano. Perché hanno sempre così paura di noi. Carl Hammer è cattivo. Vuole di nuovo mostrare qualcosa a Maike nell’archivio sotterraneo. Lei non ha voglia, ma deve andarci. Da qualche parte ho letto questo: la cattiveria è come una stella. Non puoi vederla tutto il tempo, ma sai che c’è sempre. Ora non voglio più scrivere nel mio diario.
*
Nel cortile di Valdresgata tutto taceva. Non si vedeva un’anima. Le finestre erano buie e vuote, come occhi ciechi. La porta di Marian era quella di fronte, al pianterreno, accanto alla fila di bidoni della spazzatura.
Marian aveva la cintura di sicurezza allacciata: sembrava un’onorificenza, così di traverso sul busto. Emmy Hammer scese e lasciò che il cane saltasse giù dal sedile posteriore. Prese il cellulare di Marian, andò sul retro e aprì il bagagliaio. Tirò fuori la borsa con dentro il badge, estrasse la giacca di Marian dal borsone e richiuse gli sportelli sbattendoli. Poi mise il cellulare nella tasca della giacca in cui si trovava anche la ricetrasmittente. Birka stirò le zampe, si scosse, fece pipì in un’aiuola bruna e spoglia, e si diresse felice verso la porta. Emmy aprì con le chiavi di Marian e la lasciò entrare. Poi entrò lei stessa, rapidamente, e gettò sul letto borsa e giacca. La radio stava di nuovo gracchiando quando riuscì e richiuse a chiave la porta.
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John Johnsen uscì dalla casetta degli orti scortato da due agenti che non aveva mai visto prima.
La polizia non avrebbe trovato prelievi insoliti sul suo conto in banca. I soldi li aveva messi da parte nel corso degli anni. Le cinquantamila corone che doveva a Vanja erano già in una delle casette per i tisici, bene avvolte in una busta di plastica. Era prevista neve, nell’arco della giornata, quindi non avrebbero trovato le sue tracce che conducevano lì. A Vanja aveva dato il numero di telefono di Miriam. Non appena Hammer fosse stato ucciso, Vanja l’avrebbe chiamata e lei gli avrebbe detto: “la casetta per i tisici”, senza capirne il perché. Johnsen saldava i suoi debiti: era un tipo tutto d’un pezzo. L’amore era sottovalutato: il cane di Aud lui l’aveva regalato a Werner. Ma anche la vendetta era sottovalutata: infatti anche Werner aveva una figlia da vendicare. Vanja avrebbe ucciso per conto di entrambi. Lui e Miriam erano amici. Le cose adesso sarebbero andate bene. Tutto si sarebbe sistemato. Qualche giorno dopo, una volta passato il funerale di Aud, sarebbero state soltanto chiacchiere da bar. Una storia basata sul nulla, totalmente priva di fondamenta. E a primavera, lui avrebbe di nuovo piantato i semi di girasole.
*
Si fermarono di fronte alla casa di Berit Adamsen. Cato Isaksen telefonò a Randi dalla macchina. «Randi, scendi giù. Piet Hagg sta salendo adesso. È Emmy Hammer che dobbiamo cercare. Marian potrebbe essere in pericolo di vita».
Si diressero verso la questura. Cato Isaksen aveva le mani che gli tremavano. Le teneva strette intorno al volante. «Emmy Hammer si dev’essere inventata una falsa pista, deve aver disseminato delle false tracce». L’ispettore aveva un dolore al cranio che gli scendeva giù per la nuca fino alla schiena.
Roger lo guardò. «Accelera! La Hammer ha indirizzato i nostri sospetti su Jan e Werner Hagg; quest’ultimo del resto aveva preso la macchina ed era venuto a Oslo. E da parte sua Jan aveva raccontato alla moglie una bugia innocente, dicendole che era ad allenarsi invece che alla loggia. Inoltre abbiamo trovato le impronte di Werner Hagg sul campanello di Aud Johnsen».
«Forse Emmy Hammer pensava che Werner sarebbe venuto in centro per parlarle», disse Randi. «E che avrebbe cercato anche Aud Johnsen».
Tornati al loro reparto in questura, dove regnava un gran fermento, Cato Isaksen si sentì svenire dallo stress e dalla fame. A Roger diede istruzioni di parlare con John Johnsen, non appena fosse arrivato con la sua scorta. Avevano anche telefonato a Werner Hagg, che sosteneva di trovarsi alla fattoria, e una pattuglia vi era già diretta. A Trosterudveien era tutto tranquillo, a sentire i poliziotti che erano lì di guardia. Irmelin Quist andò a prendere dei panini e il caffè. Cato Isaksen ne mangiò uno in due bocconi mentre dava incarichi agli altri. Era continuamente in contatto con la centrale operativa. Per il momento, nessuna pattuglia aveva trovato il furgoncino di Marian. Cato guardò Roger. «Io prendo la macchina e vado al suo indirizzo».
«Ma tu devi stare qui. Ci sta andando già una volante!».
«Torno subito», disse Cato. «Continuate a fare tutto ciò che potete, quaggiù, e tenetemi informato».
*
Emmy Hammer lasciò la strada principale subito dopo lo stadio di Ullevål, prese la rotatoria e si diresse verso Gaustad. Una volpe attraversò la strada, lasciando delle impronte nella neve. Poi la donna imboccò la stradina dissestata a destra della rotatoria presso il Rikshospitalet. Guardò Marian di sottecchi. Il suo profilo, con quel piccolo naso, sembrava fragile, incorniciato com’era dai capelli della parrucca. Emmy pensò alla bugia, ai fatti negati, alla sensazione di essere stata tradita. Quel tradimento di suo padre, a cui lei non aveva voluto pensare come un tradimento, perché la vita non era sempre fatta di rette vie. Dopo che era rimasta incinta, non l’aveva più toccata. E da quel momento avevano recitato. Erano stati mamma, figlio, nonno e nonna. Strinse il volante. Aveva la pistola tra le cosce. All’improvviso quel silenzio in macchina le sembrò fastidioso. Si girò di nuovo verso Marian Dahle. «Speravo che non avreste trovato Berit Adamsen. So che aveva smascherato papà. E aveva paura di lui. Lei, ma anche Norma. Con voi ho provato a sminuire il ruolo di Berit Adamsen. Aud mi ha parlato di dissociazione, del fatto che le percezioni sensoriali possono accumularsi nella corteccia cerebrale, e che gran parte della memoria non fa mai breccia nella coscienza. Di questo io so tutto».
Del resto anche Marian aveva una famiglia totalmente anomala. La maggior parte delle famiglie è così, ha qualcosa di particolare. Molti nascondono segreti e fatti inquietanti tra le mura di casa. E ora erano in macchina, insieme in una buia serata di novembre; insieme verso la fine. La fine. Mise la freccia a destra. Emmy assomigliava a suo padre. La cattiveria di lui le era entrata dentro. Non aveva mai parlato di questo, prima d’ora. Ma adesso poteva dirlo a Marian, perché tanto sarebbe morta.
*
Cato Isaksen parcheggiò di fronte all’appartamento di Marian a Valdresgata, e spense il motore. Scese dalla macchina, andò alla porta di casa e cominciò a tempestarla di pugni. Sentì Birka che abbaiava, lì dentro. Chiamò il cellulare della collega, e lo udì squillare attraverso la porta chiusa. Quando la sfondò, il cane corse fuori. Lui entrò, ma il monolocale era vuoto. Sul letto c’era la borsetta di Marian con dentro il badge, e accanto la giacca di pelle. Nella tasca trovò la ricetrasmittente e il cellulare di lei. L’ultimo sms era il suo. Prese il telefono e sbirciò in bagno. Birka tornò e gli venne incontro scodinzolante. Il tutto era molto inquietante, così Cato decise di portare con sé il cane. Birka si mise a sedere tranquilla sul sedile posteriore. In quell’istante entrò in cortile una volante. Lui consegnò loro il cellulare, e li informò brevemente di ciò che aveva fatto. Mentre era di nuovo diretto verso il centro, sentì che uno speaker radiofonico blaterava di come le autorità volessero ridurre da ventisette a sei i distretti di polizia.
Spense la radio.
Poi accostò in corrispondenza di una piazzola dell´autobus, e telefonò a Ole Porat. La strada trafficata con i binari del tram bagnati era lucida e nera come il carbone.
Il chirurgo rispose secco. «Siamo in piena crisi, Porat», gli disse Cato. «Pensiamo di sapere chi è l’assassino. Potrebbe essere Emmy Hammer». Senza attendere la sua reazione, proseguì: «Tu non sei più sospettato. Forse una delle nostre agenti è stata rapita. Carl Hammer ha commesso degli abusi fisici e forse ha anche ucciso. Aveva delle cose da nascondere. Tu lo sapevi, vero? Cos’è che sai?».
All’altro capo ci fu silenzio.
«Giravano delle voci», sospirò infine. «Ma nel nostro ambiente bisogna essere cauti. Hammer aveva molto potere, e ce l’ha ancora».
«Di che tipo di voci parli?»
«Succedevano delle cose, a Gaustad. Nei giorni dedicati ai bambini, le madri non avevano accesso. Le madri sono troppo intuitive. Carl Hammer era sospettato di abusi verso le pazienti donne. Lui incolpò un altro medico, per uscirne pulito. Ricordo esattamente il rapporto che elaborarono insieme. Era assolutamente illegale, sia da un punto di vista giuridico, sia per le omissioni che conteneva, e anche dal punto di vista delle misure da prendere».
«Vieni al dunque».
Ci fu silenzio, poi Porat disse: «Adesso che mi racconti queste cose, tutto acquista un senso. Carl Hammer lobotomizzò sua moglie, Solveig, perché mi sembrò di capire che tutto d’un tratto era diventato difficile averci a che fare. Probabilmente l’aveva smascherato. È chiaro che il modo in cui l’aveva tradita le doveva risultare insopportabile. Fu ricoverata con la forza. Rimase lì per qualche settimana. Lui mi pregò di aiutarlo a eseguire l’operazione. Mi minacciò di rovinarmi la carriera se non l’avessi fatto. A me sembrò di non avere scelta. Dopo quel fatto, mi allontanai lentamente da Gaustad e dall’universo di Hammer. Solveig Hammer si trasformò in una zombie. Ora se ne gironzola per casa e mette fiori dappertutto. Penso viva in un mondo tutto suo».
Il furgoncino bianco oltrepassò il cancello di ferro battuto, passò accanto alla fontana vuota e attraversò uno degli archi per poi fermarsi sul prato dietro all’edificio principale. Quest’ultimo, quello con la torre, era tutto buio. Tirava un vento leggero. La neve si era infittita. Si poggiava come un manto sul piazzale lastricato, si insinuava sotto i portici e si attaccava alle finestre. Era bella, come una decorazione natalizia. Lo strato nevoso era talmente sottile che c’era da sperare che le tracce finissero sepolte sotto altra neve. L’auto era nascosta alla vista se si guardava il palazzo da davanti.
«Io ho le chiavi di tutti gli edifici. C’era il vecchio mazzo di chiavi, nel locale caldaie. Vengo spesso quaggiù a dipingere: non ci vuole molto, a piedi. I colori a olio hanno un odore intenso, come le sostanze chimiche, perciò a casa uso solo gli acrilici. So quando viene la guardia della Securitas, e quando se ne va. Non è ancora arrivata. Figurati, pensa che io abbia il permesso! Questo fatto lo trovo eccitante. Spesso di notte me ne sto qui, perché non riesco a dormire. Ora ti porto al locale caldaie. Avrai l’onore di portare tu il mio borsone marrone». All’improvviso, Emmy sentì che tutto ciò aveva un senso, che era proprio così che dovevano andare le cose: una di loro doveva perdere, e non era lei.
*
Sapere cosa era realmente accaduto era atroce. Cato Isaksen si guardò nello specchietto retrovisore. Era Solveig Hammer, la donna lobotomizzata nel ’91. Gli venne in mente che Philip Hammer era nato nello stesso anno. Quell’uomo aveva reso inoffensiva la moglie. Cato non aveva notato le cicatrici che doveva avere alle tempie. Non era poi tanto strano: lei portava i bei ricci della permanente in maniera tale che le coprissero tutta la fronte, fino a sfiorarle le sopracciglia chiare.
La realtà superava di gran lunga la fantasia. Ormai nulla di ciò che riguardava gli esseri umani riusciva più a sorprenderlo. Cato sapeva che la storia raccontata da Ole Porat era vera.
*
Piet se ne stava in poltrona nel salotto di Berit Adamsen quando ricevette una telefonata, in cui il fratello gli chiedeva di venirgli incontro alla fermata dei pullman presso la stazione centrale. Jan sarebbe venuto a prenderlo, e l’avrebbe portato nella piccola fattoria, dal padre. Nell’armadio del ragazzo, Berit trovò un paio di pantaloni e un maglione puliti. Piet disse che poteva andarci anche da solo, ma la donna gli diede un passaggio con la sua Micra.
Jan era lì ad aspettarlo. Era proprio come lo ricordava Piet. Stessa altezza, bello come allora. Sollevò la mano per salutarlo, e Piet fece la stessa cosa prima di guardare Berit e scendere dalla macchina. «Adesso vai, ti aspetto a casa», sorrise la donna. «Voglio che mi racconti tutto».
*
Il cellulare di Cato Isaksen squillò. Era Asle. «Ascolta, gli agenti che sono andati alla fattoria di Werner Hagg dicono che lì si stanno preparando a una riunione familiare. Ci sono anche la nuora e le due nipotine. Quest’ultima dice che Jan è andato in centro a prelevare il fratello. Quindi non c’è pericolo che Werner Hagg vada a Trosterudveien per eliminare Carl Hammer».
*
«Esci!». Emmy agitò l’arma. Marian poggiò i piedi a terra e sentì la pistola puntata alla schiena. Non indossava nulla, sopra la felpa nera. Faceva un freddo gelido. Il calore della parrucca le faceva prudere la cute. Le mani, legate insieme, le dolevano. Fu colta da una sensazione di torpore. Il suo stomaco brontolò per la fame. Non avevano mangiato nulla, dopo i vafler di quella mattina.
Emmy tirò fuori il borsone e glielo appese ai polsi legati, spingendolo poi fino all’altezza dei gomiti. Marian sentì che pesava, e pensò che le avrebbe ostacolato i movimenti. Si avviarono verso la porta principale dell’edificio con la torre, ed Emmy Hammer aprì. «Entra dentro!», disse impaziente, richiuse la porta alle loro spalle con un calcio e girò il chiavistello. Nessuno doveva poter seguire le loro impronte che conducevano al locale caldaie. Nell’ingresso principale, le arcate gettavano delle ombre alla tenue luce di un piccolo lume isolato che si trovava sopra la vetrina con l’uccello. Passarono accanto ai mobili di velluto, e Marian gettò un’occhiata verso il lucernario. Pensò alla mano di Cato, quando le aveva fatto una carezza sulla schiena lassù in soffitta, e avevano ascoltato la storia della cesta della sposa: quella donna che cent’anni prima desiderava morire, e del suo spasimante che l’aveva bruciata nella fornace. Passarono accanto all’uccellino.
«Quello lì l’ha impagliato Piet», disse Emmy. «Adesso ti tolgo la carta dalla bocca, tanto qui non c’è nessuno. Nessuno ti potrà sentire».
Emmy le tolse la carta dalla bocca. Marian sentì che alcuni frammenti le erano rimasti attaccati dietro i denti, sulla lingua e in gola. «Che razza di persona sei?». Si chinò in avanti ed ebbe un conato, e respirò profondamente mentre sputava fuori quelle parole.
«Bada a quello che dici. Io sono una brava madre. Philip è un germoglio innocente nel bel mezzo di un bosco nero e maledetto. Come madre non sono mai stata negligente, e neanche come figlia».
I cardini cigolarono quando Emmy Hammer aprì la porta della cantina con una chiave di quel mazzo vecchio e arrugginito. La scala curvava leggermente. Scesero giù.
«Non ci credi neanche tu, Emmy». La voce di Marian tremava. «Il tuo problema principale è che disprezzi te stessa. Non sei una buona madre».
Emmy Hammer fu colta dalla rabbia, ma riuscì a dominarsi. Di cure materne lei stessa ne aveva ricevute poche, ma quando era piccola la madre le riempiva l’armadio di vestitini e non si arrabbiava mai. E non si era arrabbiata neanche quando era rimasta incinta e aveva abbandonato il liceo già al primo anno, né quando si era messa a fare la pittrice. All’ospedale aveva sperato che la madre capisse che quella bisognosa era lei, e non il bambino nel lettino di plastica trasparente. Ma la madre era diventata sempre più assente, e si era calata nelle sue vesti di nonna.
Scesi dodici gradini si trovarono in basso, al freddo, sul pavimento di pietra. Marian sentì la corrente investirle come un vento che portava un odore di marcio. Il peso della borsa le stroncava le braccia. Guardò a sinistra, lungo lo spesso muro di pietra, lì dove si trovavano tutte le piccole stanze.
«So a cosa stai pensando», disse Emmy. «Sei già stata qui, giusto? Eri insieme ad altre persone. Io ero in una delle stanze, dietro la porta. Stavo facendo una delle mie spedizioni esplorative».
Il cunicolo era come la nera tana di un topo scavata dentro un muro. Emmy accese una torcia che estrasse da dietro un sasso nella parete. La gora luminosa illuminò la muffa sul soffitto e sul suolo di terra battuta più in profondità. «Tu non sei abituata a muoverti qui dentro, al buio», disse, e strappò via la parrucca a Marian. «Questa non ti serve più». Poi la gettò accanto a un grosso tubo di acciaio che correva lungo la parete di pietra.
Marian si prese una ginocchiata nella schiena. «Cammina!», disse Emmy Hammer.
Avanzarono senza girare né a destra né a sinistra; continuarono a procedere dritte. Lungo le pareti, da entrambi i lati, c’erano tubature recenti e cavi elettrici. Il subconscio era al lavoro, e diceva a Marian: “Rimani tranquilla, continua a fare conversazione, fai quello che ti dice lei. Cerca di farla rilassare”.
«Ascolta». Marian deglutì. «Mia madre cercò di uccidermi quando avevo sedici anni. Mi ha rovinato la vita. Ora non sono più in contatto con lei, ma molte volte ho avuto voglia di prendere la macchina per andare a dirle che l’ho perdonata».
«Smettila con queste stronzate», sentenziò Emmy Hammer.
«Ma non l’ho fatto. E sai perché?»
«No», rispose Emmy Hammer. «Stai zitta. Stai zitta e cammina».
Ma Marian proseguì. «Perché è una tecnica di sopraffazione, quella di perdonare qualcuno che non sente di aver fatto nulla di male. I bambini dovrebbero crescere alla luce dei loro genitori, e non morire nella loro ombra».
«Crescere alla luce, figuriamoci. L’ho capito subito che non ero io, l’obiettivo, quando sono arrivati gli spari. Era papà che doveva essere ucciso».
«Per quale motivo?»
«Cammina!».
«Chi ha cercato di uccidere tuo padre?»
«Johnsen oppure Werner. Oppure Jan. O Piet. Dio solo lo sa. Qualcuno che cercava vendetta. Ma adesso sarai tu a morire».
«E la tua, di storia, Emmy?». Le ruvide pareti di pietra le circondavano in maniera opprimente.
«Io non ho una storia». Emmy puntò la pistola alle reni di Marian, e provò un’improvvisa stanchezza. Nella stanza di Philip da piccolo c’erano delle tendine bianche con i merletti, cucite da sua madre. Assomigliavano a due vestiti da sposa, così, appese davanti alla finestra. Emmy le aveva tirate giù, le aveva strappate dalle loro bacchette, le aveva fatte a pezzi, aveva distrutto il bel merletto, ascoltando il rumore gradevole e delicato della stoffa fatta a brandelli. Non era più possibile ripararle: le aveva calpestate e scagliate in un angolo con un calcio.
«Sistemo le cose», disse. «Non potevo lasciare che Aud rovinasse tutto. Tanto Maike non sarebbe comunque tornata. Avrai un funerale solenne».
Naturalmente non ci sarebbe stato alcun funerale. Marian Dahle sarebbe stata ridotta in cenere, sarebbe bruciata dentro la cesta di vimini nel locale caldaie quella notte, e una volta polvere sarebbe finita dentro un bidone di metallo col coperchio, che Emmy l’indomani avrebbe fatto sparire. Stavano per arrivare alla biforcazione del cunicolo, ma avrebbero proseguito dritto, verso l’edificio delle caldaie.
Marian si sforzava di mantenere la calma. Quella tecnica di lotta israeliana non serviva a nulla, per lo meno quando ad assalirti era una persona al tuo stesso livello. Era la legge della giungla: Emmy era alle sue spalle, ed era armata. Marian sentiva l’aria fredda in faccia e il peso del borsone grigio e nel frattempo pensava ai corsi sulle situazioni di emergenza frequentati in polizia.
*
Cato guidava per le strade di Oslo senza darsi pace. Sul sedile posteriore c’era il cane di Marian. Si teneva in contatto con i colleghi e con la centrale operativa della questura, ma non c’era niente di nuovo da riferire. Johnsen era in custodia cautelare. A Trosterudveien tutto taceva, e la pattuglia di guardia stava per staccare. Era meglio tornare in questura o andare su a Gaustad? Qual era il collegamento attuale tra Emmy Hammer e Gaustad? Nessuno, concluse. Deidrée aveva detto che spesso i pazienti tornavano. Ebbe un’illuminazione. Emmy Hammer non era un paziente, ma chi era poi, in effetti? La figlia dello psichiatra. Una figlia che aveva subito dei danni. Una persona che custodiva un segreto di famiglia. Fino a che punto era pronta a spingersi?
Girò la macchina. Le ruote slittavano sul manto ghiacciato, e quelle posteriori facevano schizzare la neve. Superò una Honda che andava piano; sbandò, ma poi riprese il controllo. I tergicristalli si muovevano ritmicamente per liberare i vetri dai fiocchi di neve.
Werner Hagg tirò fuori due bottiglie di Coca-cola, una per ciascuna delle bambine. Ma forse non avevano il permesso di bere quella roba e non sapeva nemmeno se a loro piacesse. Gli saltellavano intorno, assediandolo. La più piccola, Thea, si accovacciò sotto la finestra e iniziò a toccare la ragnatela con le mosche morte. Lungo il battiscopa c’era della sporcizia. La bambina alzò gli occhi verso di lui. «Non ho paura del tuo cane». Guardò Bruff che sedeva in mezzo alla cucina; poi sollevò timidamente le spalle e intrecciò le manine, mentre si dondolava in avanti e indietro e lo guardava. Era radiosa, come solo una bambina piccola può esserlo.
«Questo è il cane del nonno», disse Tilde, entrando in cucina dal salotto. «Il nonno è gentile».
Werner Hagg stava zitto. Provava una paura che poteva mettere in pericolo quel miraggio, al quale avrebbe tanto desiderato poter credere.
Ingrid stava rassettando il piano della cucina. «Ti servirebbe una lavastoviglie, papà», disse, aprendo al massimo il rubinetto per sciacquare via i resti di cibo con l’acqua calda.
Werner la guardò incerto. Voleva dirle di lasciar perdere, ma non ci riuscì. Poi sentì il rumore di una macchina, andò in salotto e guardò attraverso una delle finestre. Stava venendo in giù per la strada: era la macchina con Jan e Piet. Werner Hagg si avvicinò alla credenza su cui era poggiata la radio, e alzò un po’ il volume. Aveva bisogno di un rumore di sottofondo. Il silenzio lacerava la stanza. In quell’istante, i suoi nervi non sopportavano la quiete. Werner irrigidì i muscoli delle mascelle.
Ingrid lo guardò. «Ecco che arrivano i tuoi ragazzi, Werner. Vai a dargli il benvenuto!».
Werner uscì di casa. Piet scese dalla macchina, e si vennero incontro.
*
Emmy non la smetteva di parlare. Marian pensò che avesse i nervi tesi, e continuò a farle domande.
«Aud voleva avvisarmi. Era un gesto gentile, da parte sua. Sapeva che la pubblicazione di quell’articolo sarebbe stata una cosa terribile per me, ma era necessario che papà fosse arrestato, disse. Prima della scadenza della prescrizione».
Erano arrivate. Emmy Hammer premette l’interruttore. «Non avevo proprio scelta. O sbaglio?».
Il tubo al neon sul soffitto sfrigolò. La luce illuminò i capelli biondo platino di Emmy. La donna salì su di un panchetto, e spinse verso l’alto una botola di legno sul soffitto. Nel frattempo non distoglieva lo sguardo da Marian, e le teneva la pistola puntata contro. Poi scese di nuovo e disse a Marian di salire. «Fai come ti dico». Marian la guardò. «Non ce la faccio a passare attraverso questo pertugio con le mani legate dalla fascetta, e con il tuo maledetto borsone appeso alle mie braccia».
Emmy le sorrise freddamente e prese il borsone.
«Il caso è già stato riaperto, Emmy. Quindi quella scadenza di venticinque anni non esiste più».
«Stai mentendo. Mi prendi per stupida?». Puntò l’arma. «Sali su!».
Cato Isaksen entrò nel parcheggio a tutta velocità, e frenò bruscamente di fronte alla cancellata di ferro battuto con l’ingresso aperto. Le luci frontali sfiorarono le sommità aguzze delle sbarre prima di spegnersi. Cato si strinse nella giacca e scese, lasciando il cane in macchina. La luce dell’unico lampione del parcheggio si rifletteva sul parabrezza. Chiuse la portiera, e si avviò di corsa per quel complesso immerso nel buio. Il rumore delle macchine proveniente dalla strada più sotto era attutito dalla neve. Vide alcune tracce di pneumatici, quasi ricoperte dalla neve, che proseguivano oltre il cancello. Ma in quel momento non c’era alcuna macchina parcheggiata. La temperatura era crollata. Il cielo si aprì ancora di più. I fiocchi fendevano l’aria. Le pareti della torre dell’edificio principale, con le sue finestre buie, erano coperte di ombre. La neve si era poggiata come ovatta intorno agli infissi e sul tetto. Quel palazzo ricordava una cattedrale di ghiaccio. Guardò la facciata con le spesse mura di mattoni. Era come se gli giungesse un suono proprio da lì. Eppure regnava un silenzio assoluto… Doveva stare attento, ora. Il pensiero di Marian gli bruciava dentro. Si identificava completamente con lei; non come un uomo che normalmente prova dei sentimenti per una donna. No, era una cosa più forte. Lei era come lui. Lei era lui. Quell’indagine era proprio assurda, assurdi gli eventi, gli omicidi e le persone coinvolte. Cato stava per crollare, era davvero troppo. E Marian era un mistero: cupa, rabbiosa, abile e bella. Irraggiungibile. Lui però era veramente senza cuore! Povera Bente… Poi pensò alle parole di Karsten Tønnesen: A volte è inutile voler vedere le cose per più di ciò che sono. Bestemmiò. La paura gli si avvicinò strisciando per quello spiazzo buio. Scese nel piccolo passaggio con la porta verde chiaro, e risalì all’estremità opposta. Se fosse stato tutto a posto, sarebbe rientrato presto in questura.
I vecchi stivali del guardiano erano sistemati accanto al cavalletto di ferro. Sotto c’era un grande rotolo di tela per dipingere, a fianco c’erano un affilato coltello da tappezziere e una bottiglia di trementina. Un ragno sfrecciava avanti e indietro sul pavimento, nascondendosi dietro alcuni quadri ammucchiati lungo la parete. Il cavalletto era vuoto. Alla parete alle sue spalle c’era la maschera da diavolo. E anche la falce. Sopra un tavolo da lavoro era appesa una fila di attrezzi. Emmy accese ancora una lampada, una specie di lanterna fissata alla parete di pietra. La luce le illuminò il viso. Marian guardò i suoi occhi celesti. Erano brillanti, come se la luce venisse da dentro la testa. Per un istante vide quant’era bella Emmy Hammer.
«Ai vecchi tempi, i pazienti lavoravano nei campi», disse, seguendo lo sguardo di Marian. «Sì, è quello il falcetto che ho usato. È grande quanto un arnese da cucina». Sulla lama lucida e tonda per un attimo Marian vide rispecchiarsi il proprio viso, che poi si trasformò in una striscia semicircolare del colore della pelle.
«Niente mi impedisce di spararti adesso». Le nocche di Emmy erano bianche, mentre stringeva l’arma. Si avvicinò alla botola e la richiuse con un calcio. Poi accese la fornace. Ci mise dentro un’unica trave di legno.
Marian sentì la paura gelarle il petto.
«E invece non ti sparerò. Esce troppo sangue. E il sangue lascia delle tracce».
«Perché hai rimesso a posto il falcetto? Avresti potuto sbarazzartene». Il cuore le martellava in petto.
«Qui tanto non viene nessuno. E poi l’ho pulito. L’ho messo a bagno nella trementina mista ad alcol. Non ha un segno: né un’impronta digitale né tracce di sangue. Non è più neanche arrugginito, anzi, è bello lucido. Non devi pensare che io stia bene, adesso. La paura si espande dentro di me come una ragnatela nera. Eppure io non sono un’omicida; non esattamente». Entrò nello stanzino e fece scattare una leva del quadro elettrico. La ventola si accese. Marian ne intravvide il bagliore attraverso la feritoia del grosso sportello della fornace. Nell’angolo dietro la fornace c’era una cesta intrecciata senza coperchio. Marian si sentì raggelare. Era una “cesta della sposa” di colore grigio, una di quelle di cui aveva parlato Deidrée. Marian deglutì. «Poveraccio, tuo figlio», disse con voce tremante.
«Smettila di parlare di Philip!». Emmy prese il borsone grigio e lo poggiò su di un vecchio divano di velluto lilla nell’altra stanza. «Ho cercato di immaginare che Philip fosse il figlio di un tizio che avevo incontrato a una festa. Ma io alle feste non ci andavo mai. Me ne stavo sempre a casa».
«Che cosa vuoi dire?».
*
Vanja si guardò rapidamente intorno. Il freddo si trasformava in una condensa sottile che entrava e usciva dalla sua bocca. I morbidi fiocchi di neve gli si attaccavano ai capelli e gli gelavano le mani. La pattuglia di guardia se n’era appena andata. Era il momento di agire. C’era luce, in casa. E le tendine non erano tirate. Vide dei movimenti, lì dentro. Si avvicinò, raggiunse il muro, lo costeggiò, girò l’angolo e trovò qualcosa su cui salire: un mucchio di assi lasciato lì, materiale che forse doveva servire a costruire una piattaforma. Guardò dentro al salotto. La donna con la permanente sedeva sul divano, dandogli la schiena, e guardava la tv. Era da sola, in quella stanza. L’uomo dai capelli grigi non si vedeva, ma poco dopo entrò dalla porta con la sua pancia prominente. Aveva soltanto un asciugamano alla vita, e i capelli erano bagnati. Vanja brandì il martello e ruppe la finestra. I vetri si infransero fragorosamente. Poi infilò la Glock nel buco, prese la mira e sparò due volte. Una macchia di sangue si allargò sul petto dell’uomo. Poi cadde. Vanja scese dal mucchio di assi, e un paio di sci di legno rotolarono giù. Gettò il martello e l’arma nello zaino, tremante. Poi se lo infilò su una sola spalla, e corse via. Quei pochi metri attraverso il giardino, fuori sul vialetto e giù nel bosco imbiancato. Un ghigno gli si allargò sulla bocca. Il cuore pompava. I polmoni si alzavano e abbassavano in petto. La neve sul terreno sembrava una schiuma bianca.
*
Emmy Hammer si tolse la giacca e la gettò nello stanzino di dietro. Poi si arrotolò le maniche della felpa, e le mostrò le grosse cicatrici che aveva sugli avambracci. Marian le fissò. «Cosa vuoi dire?», ripeté.
«Papà disse che sarebbe passato, col tempo, il dolore nell’anima. Sai, lui sa tutto di quelle cose. Io penso che Norma lo avesse capito, che era… ma i preti hanno il segreto professionale… lo sai… loro…».
«È lui, tuo padre…? Ti aiuterò, Emmy. Non è colpa tua».
«Non voglio il tuo aiuto», disse Emmy Hammer. «Ricordo soltanto che me ne stavo in rannicchiata, nella mia stanza. Ero al quinto mese. Raccontai alla mamma cosa aveva fatto papà. Lei è diventata furibonda, isterica. L’hanno ricoverata per alcune settimane. Poi si calmò. Rimasi scioccata quando mi misero in braccio il bambino: non ci avevo pensato come a una creatura vivente. Non avevo più avuto amiche, dalla morte di Maike. Qui stavo bene. Mi sentivo infelice, altrove. E io non voglio andare via, Marian. Quando tu sarai morta, sarà finita. Tutti penseranno che l’assassino ti abbia acciuffata, e che io sia riuscita a scappare. E naturalmente io lui non l’ho visto, e non è successo qui, bensì da qualche parte giù in città. Mi inventerò qualcosa. Forse assomiglia un po’ a Jan. O a Ole Porat. Oppure a Piet Hagg. L’assassino ti ha portato via in macchina».
«Cara Emmy…».
«Chiudi il becco, Marian. La polizia parlerà bene di te, ti saranno grati per il tuo impegno. Io sarò tristissima per la tua morte!».
Marian deglutì.
Emmy Hammer si avvicinò alla cesta di vimini e la gettò sul pavimento. «Ci entri dentro da sola, o ti devo prima sparare?»
«Mi devi sparare», disse Marian in tono calmo.
«Faranno una veglia», proseguì Emmy. Uno spasmo le attraversò il viso. «Ma del tuo corpo non ci sarà alcuna traccia. La cerimonia sarà solenne».
«Tu sei cattiva», disse Marian.
«La cattiveria, quando è la tua, non fa male». Emmy sostenne il suo sguardo.
Cato Isaksen si trovava nell’angusto passaggio tra i palazzi arancioni, e guardava in direzione della cappella. Il locale caldaie si trovava un po’ più su, a destra. Lui si avvicinò; vide che alle finestre piombate c’era una luce fioca. Guardarci dentro era impossibile. C’era odore di fumo. La statua in marmo che ricordava una mummia era sempre lì, vicino alla porta. Non si vedeva nessuno: nessuna impronta. Per terra, tra gli edifici, c’era un sottile strato bianco di brina che ricopriva il lastricato; neve leggera, come zucchero a velo, lungo i bordi, mentre una coltre bianca copriva i prati alle spalle degli edifici, il piazzale centrale e il sentiero che portava su al bosco, dietro il complesso ospedaliero. Ora dalla ciminiera usciva più fumo. Non erano forse delle ombre, quelle che vedeva all’interno? Qualcuno si stava muovendo. Delle voci? Dentro di sé, risentì le parole di Deidrée: Chissà cosa succedeva, qui dentro. I pazienti, ai vecchi tempi, credevano si trattasse di un forno crematorio.
*
Marian si gettò all’indietro, ma urtò contro una sedia e rimase stesa a terra. Piegò le gambe rannicchiandosi su un lato, poi portò istintivamente le mani legate alla gola, rotolò su se stessa e credette di urlare, ma l’urlo le rimase in gola.
Emmy poggiò l’arma per terra, a una buona distanza da Marian.
Marian sentì che la prendeva per le ascelle. I suoi talloni strusciarono sul pavimento mentre Emmy la trascinava attraverso la stanza; poi la fece rotolare oltre il bordo della cesta intrecciata. Raccolse l’arma e gliela puntò contro. «Se ti muovi, ti sparo». La donna prese altra carta da un rotolo da cucina, e gliela ficcò in bocca. Marian ebbe un conato di vomito.
*
Cato Isaksen tendeva l’orecchio. Batté forte alla porta. «C’è qualcuno qui dentro?». Si mise di nuovo in ascolto, ma dalle spesse pareti di pietra gli giunse soltanto il silenzio.
All’improvviso comparve alle sue spalle la guardia della Securitas. «Che stai facendo?».
Cato Isaksen gli mostrò il badge. «Polizia», disse.
«Qui non c’è nessuno di sera. Chi cerchi?»
«Non lo so», fece lui.
«Qui non c’è nessuno. A parte la pittrice», aggiunse.
«Nel locale caldaie?». Cato Isaksen lo fissò. «Una donna bionda? Emmy Hammer?»
«Non so come si chiami. Lavora spesso la notte. Evidentemente è quello il momento in cui trovano l’ispirazione, questi artisti. A proposito, c’è una macchina bianca parcheggiata di fianco al muro dietro l’edificio principale. È tua?».
Cato Isaksen sentì la paura stringergli il petto. «Dobbiamo sfondare la porta di questo edificio», disse.
«Non possiamo», disse la guardia. «È di quercia massiccia. Io le chiavi di qui non ce le ho. E poi ci sono le sbarre alle finestre. Non possiamo entrare. Ma di cosa si tratta?».
Cato Isaksen lo guardò, attonito.
«Io continuo il mio giro», disse la guardia, «poi torno». L’uomo ricevette una chiamata sul suo walkie-talkie, e si dileguò parlando giù per la discesa.
Cato Isaksen era rimasto lì, senza sapere che fare. Corse di nuovo alla porta e vi batté sopra. La tempestò di pugni. «Aprite! Aprite!», tuonò. Ma non successe nulla. Appoggiò nuovamente l’orecchio alla porta. Ora tutto taceva, dentro.
*
Qualcuno aveva bussato. Emmy Hammer si sentì raggelare. Sollevò per metà la cesta, e cominciò a spingerla dentro la bassa fornace. «La fornace funziona pure a elettricità», mormorò. «Adesso accendo anche il fuoco con la legna. Avrò un sacco di tempo per eliminare i resti, domani. Dirò che l’assassino ti ha catturata, e che io sono riuscita a fuggire all’ultimo istante. Mi assegneranno il programma di protezione con il livello più alto: il cinque. Un’identità fittizia. Mi porteranno di nuovo al nascondiglio, per alcune settimane. Ma alla fine sarò libera. La guardia della Securitas pensa che sia normale che mi trovi qui. Non si pone domande su nulla. Spesso scambiamo due chiacchiere, poi lui prosegue la sua ronda. Prima pensavo che la cremazione fosse troppo definitiva, ma è peggio starsene nella terra a farsi mangiare dai vermi. Puoi esserne contenta!». Strinse i denti, e con uno sforzo spinse per un altro pezzo la cesta nella fornace, che ormai era calda.
*
All’improvviso Cato Isaksen scorse la striscia: quell’ampio tratto di terreno privo di brina, come un nastro largo un metro e mezzo fatto di erba vizza, cemento e asfalto. Lì la neve non c’era: si scioglieva a causa del calore sotterraneo proveniente dal cunicolo. Cato cominciò a scendere lentamente verso il sottopassaggio. Quella striscia partiva dall’edificio principale, attraversava il prato, e poi finiva al locale caldaie. Di nuovo risentì la voce di Deidrée: Ci sono due modi per uscire dalla cantina… la porta di legno… Accelerò il passo. E attraverso i cunicoli. Uno può uscire di qui anche attraverso i cunicoli sotterranei.
*
Vanja correva lungo il sentiero nella foresta, lungo il ruscello grigio con le pietre coperte di neve. Sotto la crosta di ghiaccio si sentiva costante il rumore dell’acqua. I fiocchi di neve gli si attaccavano in faccia. Scivolò, ma ritrovò l’equilibrio. Il cuore gli batteva all’impazzata. Non appena fosse arrivata la polizia, gli avrebbero sguinzagliato appresso i cani. Forse avrebbe dovuto sparare anche alla donna anziana, che così non avrebbe dato l’allarme. Si fermò, respirò affannosamente, si guardò alle spalle, estrasse il cellulare dalla tasca e chiamò il numero che l’uomo del soprabito gli aveva scritto su di un foglietto bianco. Lo sapeva a memoria. Ansimava a tal punto, che quasi non riuscì a sentire ciò che gli dicevano. La donna all’altro capo aveva una voce cupa e profonda. Vanja trattenne il respiro. La donna disse: «La casetta per i tisici», e poi riattaccò. Lui deglutì, si ficcò il cellulare in tasca e continuò a correre. La casetta dei tisici. Una di quelle piccole palafitte color albicocca. Poco prima di arrivare al ponte tagliò a sinistra attraverso il bosco, estrasse una piccola torcia e si precipitò verso il ruscello. Scivolò e cadde, ma riuscì a rialzarsi e a guadare quella corrente d’acqua grigia. Il ghiaccio scricchiolava sotto il suo peso, e l’acqua gli entrava dentro le galosce. Ma riuscì ad attraversarlo, e giunse alla prima casetta di legno. Perse quasi lo zaino, ma poi se lo infilò meglio. Fu sul punto di scivolare sul pavimento di legno da cui sbucavano i pali portanti, e cadde in ginocchio vicino a una sedia rovesciata. Estrasse di nuovo il telefono. Le narici gli si riempirono dell’odore del legno gelato. Ebbe un’intuizione. La luce bluastra del cellulare illuminò il pavimento sotto la sedia. Lui scorse un lembo della busta di plastica, allungò il braccio e la tirò a sé. Poi la aprì con mani tremanti, e vide che era piena di banconote.
*
Forse quel bussare esisteva solo dentro la sua testa. Forse era la paura che stava colpendo la porta di quercia. Emmy Hammer prese la maschera da diavolo alla parete. Se la polizia avesse scovato questo nascondiglio, cosa altamente improbabile, non avrebbero trovato alcuna prova che conducesse a lei. Ormai era al corrente dell’esistenza di quel video di sorveglianza. Si diresse verso il divano nell’altra stanza, dove c’era appoggiato il suo borsone. Sul cuoio si vedeva il riflesso della luce intensa della lampadina appesa al soffitto. Emmy ci ficcò dentro la pistola e la maschera da diavolo.
*
Per un attimo, Cato Isaksen fissò la porta arcuata di legno verde chiaro. Chiamò i rinforzi: diede l’allarme alla centrale operativa e subito dopo contattò Roger. «Manda qui a Gaustad delle squadre, perché perlustrino immediatamente la zona intorno al locale caldaie e la cantina». Riattaccò, prese lo slancio e con tutta la forza che aveva in corpo assestò un calcio alla porta di legno. Quella non si mosse e si era fatto male alla gamba, ma diede un altro calcio. E un altro ancora. All’improvviso la porta cedette, e piccole schegge di legno volarono da tutte le parti. Entrò in cantina e si infilò nel cunicolo a sinistra. C’era un forte odore di terra. A tentoni, si inoltrò nel buio pesto del tunnel. Doveva andare dritto: né a destra né a sinistra. Sempre dritto, in direzione del locale caldaie. Inciampò in qualcosa: una parrucca bionda. La gettò via, disgustato, e continuò a inoltrarsi.
*
Lo sportello della fornace era socchiuso. Presto avrebbe acceso il fuoco con i fiammiferi che stavano sul tavolo da lavoro. Il fumo sarebbe salito ancora più copiosamente, dall’alta ciminiera. Nel corso della notte tutto si sarebbe spento, e sarebbero rimasti soltanto cenere e resti di ossa. Lei avrebbe spazzato via la cenere dal piano della fornace, l’avrebbe trasferita in una scatola di metallo che si trovava sotto il letto al piano di sopra, vi avrebbe aggiunto i resti delle ossa e il cranio, e avrebbe eliminato tutto quanto, perché l’indomani mattina presto la gente sarebbe ritornata all’interno del complesso ospedaliero. Emmy andò a prendere la scatola di fiammiferi e spalancò lo sportello.
*
Marian sentì cigolare la porta. Quel suono si trasformò in una cupa melodia, nella sua mente. La ventola della fornace ronzava lassù in alto, da qualche parte, in quel buco nero. Come il rantolo di un animale. Era riuscita a sputare fuori la carta, ma respirava affannosamente. Era come se si trovasse già altrove: all’inferno. Sentiva il fondo intrecciato della cesta contro la schiena, un rametto appuntito la pungeva. Guardava in su, verso il soffitto della fornace; non riusciva a respirare perché il caldo le premeva sul viso, soffocandola come una coperta. Sentì un fruscio quando Emmy arrotolò un giornale e poi lo ficcò lì dentro. Aprì la bocca per gridare, ma gola e polmoni le si riempirono di fumo ardente che si stava diffondendo, grigio e nero al di sopra di lei. Chi mai avrebbe pianto la sua scomparsa? E Birka? Cosa ne sarebbe stato di Birka? La sequenza di pensieri si fermò lì. Non udì più niente, e tutto quanto si dissolse in un’intensa luce bianca.
*
Il caldo la avviluppò. Emmy Hammer strappò un altro giornale e gli diede fuoco. La carta avvampò lentamente, arricciandosi ai bordi. Ora le fiamme lambivano i lati della cesta grigia. Il cono di luce proiettava un semicerchio giallo sul pavimento di pietra. Emmy chiuse la porta della fornace, entrò nella stanzetta e si sedette sul divano di velluto. Le molle allentate cedevano. Rimase seduta lì, con le mani in grembo, a guardare innanzi a sé, e si lasciò andare ai pensieri. Quelli cupi.
Il locale caldaie è rimasto chiuso per parecchi anni. Passo il tempo nel piccolo edificio di mattoni sulle cui pareti esterne la vite selvatica si abbarbica come io mi aggrappo al futuro. Qui ho tutto: pace, silenzio, oscurità. Non devo rimuginare sui miei problemi personali: soltanto portare a termine il mio piano. Mi sembra quasi di essere l’unica creatura sopravvissuta a un’inquietante catastrofe. Il termine “omicida” non mi si addice, non esattamente. La paura si espande dentro di me come una ragnatela nera. È proprio qui intorno che tutto ebbe luogo, tanto tempo fa. Fu come cadere in un pozzo. Ma il tempo è passato, e io me la sono cavata. Tutto è come prima, qui: la scala d’acciaio con il muschio, i passerotti che becchettano l’asfalto. Le volpi al limitare del bosco. Insetti che d’estate ronzano contro i piccoli riquadri delle finestre piombate; nessuno può guardare all’interno, ma da dentro si possono comunque intravvedere le grandi ombre delle chiome degli alberi sull’erba, d’estate. Sento lo scalpiccio dei topi in cantina, e l’odore freddo del muro che dal cunicolo sotterraneo filtra tra le fessure della botola. Sta nevicando. L’odore dell’inverno ha impregnato le pareti. La coltre bianco ghiaccio sullo spiazzo tra gli edifici ricorda un sudario, fatta eccezione per quella striscia priva di neve e larga un metro che attraversa il prato, lì dove il calore del tunnel sotterraneo mantiene sgombro il terreno. Il tunnel parte dall’edificio principale. La guardia della Securitas pensa che sia normale che mi trovi qui. Non si pone domande su nulla. Spesso scambiamo due chiacchiere, poi lui prosegue il giro. Quando sarà il momento, me ne andrò via. Penso proprio che avverrà questa notte. La cesta di vimini ora è dentro la fornace. Quando il suo corpo sarà bruciato completamente, abbandonerò per sempre questo luogo.
Più avanti scorse finalmente alcuni tenui, sottili raggi di luce alla fine del tunnel. E sotto la luce c’era un panchetto abbandonato. Quando lo raggiunse, vide che la luce proveniva dalle fessure di una botola sul soffitto.
Cato Isaksen salì sul panchetto traballante. In seguito avrebbe ricordato i minuti successivi come una follia senza fine. Aprì con forza la botola, si issò sulle braccia e rotolò sul pavimento. Gli giunse un leggero odore di trementina. Si alzò veloce. La stanza era vuota. In mezzo al pavimento c’era una grossa struttura di ferro, che doveva servire da cavalletto per i quadri. Sotto c’era un rotolo di tela per dipingere. E un coltello. Nella stanzetta accanto, su di un divano di velluto lilla, sedeva Emmy Hammer con accanto a sé un borsone grigio. «Ciao», gli disse. «Volevo soltanto dipingere un po’. Ma guarda un po’ questo ragno. È salito di nuovo sul soffitto».
Marian non c’era. Cato Isaksen per un attimo rimase sconcertato, e guardò lo sportello della botola, che era ancora aperto. Possibile che si fosse sbagliato?
«L’ha presa con sé», gridò Emmy Hammer con una vocina sottile, come se stesse imitando quella di un bambino. Si alzò e incrociò le dita davanti a sé. «Un uomo», urlò. «Uno che non ho mai visto prima. L’ha trascinata via per i sotterranei. Ha detto di volerla nascondere in un posto dove nessuno l’avrebbe trovata».
Cato si girò. Il fuoco ardeva nella fornace. Un calore opprimente stava invadendo la stanza.
Emmy Hammer pensò alla pistola dentro al borsone. Vide lo sguardo cupo del poliziotto e la bocca con quei segni ai lati, due solchi profondi. «Basta che mi porti via», gli disse, tranquilla. Ma era troppo tardi.
*
Cato Isaksen spalancò lo sportello di ferro. Fu colpito da un’ondata di calore. Il fumo denso invase la stanza. Cato tossì, agitando le braccia. Poi sentì grattare, un rumore leggero, come se qualcuno stesse raspando. Per qualche secondo rimase fermo. Bagliori arancioni illuminavano l’interno della grossa fornace. Qualcosa stava per prendere fuoco. La cesta di vimini bruciava da un lato. Ne afferrò l’estremità con entrambe le mani e la tirò fuori, poi si tolse la giacca e soffocò le fiamme.
Dentro c’era Marian, nera di fuliggine. Un lato del viso era ustionato, e così anche il collo e un braccio. Si vedeva la carne viva, mentre la pelle si era come raggrinzita per il calore. La tirò fuori. Era inerte. La testa si piegò sul suo sterno, le braccia erano tese verso l’alto; poi Marian scivolò sul pavimento di pietra. Cato corse alla porta. Ruotò il chiavistello e la spalancò per far sì che l’aria fresca si riversasse nella stanza piena di fumo. Si inginocchiò vicino a Marian, le tolse la fascetta dalle mani e premette la sua bocca sulla sua, soffiandole l’aria tra le labbra bruciate, come in un bacio funebre. Fu allora che sentì la canna della pistola contro la nuca. Diede una gomitata all’indietro, colpendo la coscia di Emmy Hammer. Si alzò di botto, piegò la gamba e le diede un calcio nella pancia. Lei arretrò, cadde e perse l’arma; infine sbatté forte per terra con la testa. Rimase supina, sul pavimento. Poi iniziò a urlare istericamente. Cato Isaksen raccolse la pistola. La stanza era sempre piena di fumo. Con la coda dell’occhio vide che Emmy Hammer apriva la botola sul pavimento di pietra e scivolava giù, sparendo nel nulla. Cato trascinò fuori Marian, sulla neve, e continuò a praticarle la respirazione bocca a bocca.
*
Il rumore del motore dell’elicottero era come un brusio costante, su in alto. Le eliche vorticavano come se stessero affettando l’aria. Cato Isaksen seguì con lo sguardo l’ambulanza gialla che si allontanava con Marian a bordo. Il suono della sirena gli trapassò il corpo, procurandogli un dolore fisico. Roger gli disse qualcosa, ma lui non sentì le sue parole. «Emmy Hammer è giù in cantina», disse, estraendo la pistola. «Ecco, prendi. Dovete cercarla. Adesso arriva l’unità cinofila. Io vado all’ospedale». Si girò e si avviò verso il piccolo sottopassaggio, la cui porta di legno era aperta. Gettò uno sguardo giù in cantina, poi proseguì, attraversò il grande piazzale e varcò il cancello di ferro battuto. Arrivarono altri veicoli di emergenza; la luce blu delle macchine lampeggiava nel buio. Donne e uomini in uniforme, con le loro bande catarifrangenti, saltarono giù dalle auto. La voce gracchiante delle radio della polizia diramava un annuncio dopo l’altro.
Quaggiù è buio pesto. Mi sono nascosta sotto la cappella, nel punto più interno, dove il cunicolo forma una piccola rientranza presso la scaletta di legno che porta su alla sagrestia. Il suolo sotto di me è freddo e umido. Io affondo le mani nel terreno, come artigli, e le riempio di terra. Puzzo di fumo, ma andrà tutto bene. È proprio qui intorno che tutto ebbe luogo, tanto tempo fa. Fu come cadere in un pozzo. Ma il tempo è passato e io me la sono cavata. Ora però sono dentro a quel pozzo. Proprio giù in fondo. Tutto è come prima, qui: la scala d’acciaio con il muschio, i passerotti che becchettano l’asfalto. Le volpi al limitare del bosco. Insetti che d’estate ronzano contro i piccoli riquadri delle finestre piombate; nessuno può guardare dentro. Shh, ora sento un rumore. Ora sento i ratti. Anzi, un attimo, non erano i ratti. Un debole abbaiare mi viene incontro attraverso il tunnel sotterraneo. Il suono echeggia. Rimbomba. Sono cani. Abbaiano senza sosta. Trattengo il respiro. Abbaiano di più. E il suono è sempre più vicino. Ora sento ansimare. La bestia che arriva. Ora è qui. Il suono mi colpisce in viso. Mi ferisce l’udito. Abbaia. Con le fauci spalancate e l’alito fetido, così che la saliva mi finisce sulle guance. E con denti gialli e aguzzi.
Cato Isaksen era nel corridoio del reparto di terapia intensiva del Rikshospitalet. Era nero in viso e sulle mani, e guardava fuori dalla finestra. Lì davanti c’erano parcheggiate due macchine della polizia. Un fotografo stava fotografando l’entrata principale. Birka alzò lo sguardo, verso di lui, e guaì. Cato si girò nuovamente verso la parete di vetro, e guardò dentro la saletta nella quale Marian era attaccata a tubi e apparecchiature, su di un letto dalle lenzuola bianche. Due infermiere erano chine su di lei. L’osso della tempia era scoperto. La pelle era bruciata, e il viso era nero di fuliggine. Le mani e il collo erano coperti da ustioni; le si vedeva la carne viva. Poco prima, Cato aveva detto al medico che era il suo parente più prossimo. Ed era vero: Marian aveva soltanto lui.
L’apparecchio dal grande monitor con i diagrammi all’improvviso divenne nero. Poi ci furono dei piccoli lampeggiamenti verde chiaro in basso nell’angolo destro. Poi riapparve il diagramma. Infine si spense completamente. Il monitor era nero.
Cato Isaksen se ne stava lì, senza provare nulla. Ora Marian se n’era andata: era tutto passato, non doveva più temere che morisse. Perché non poteva morire un’altra volta. Rimase da solo, con il cane al guinzaglio, e sparì. Diventò bianco come le pareti, bianco come il pavimento, rettangolare come il tavolo d’acciaio con sopra gli strumenti medici. Risentì la sua voce. Xiao San, Piccola Terza persona.
All’improvviso comparve l’infermiera. «Non puoi stare qui con il cane. Vuoi qualcosa con cui darti una pulita? Hai la faccia, la bocca e le mani piene di fuliggine».
«No, grazie», disse lui, e sentì il sapore acre del fumo sulle labbra.
«Qui non è permesso portare cani. Di sicuro avrai una macchina in cui lasciarlo, giusto?».
La macchina ce l’aveva, e Birka non era un cane come un altro. Si girò dall’altra parte e la oltrepassò. Il vecchio corridoio aveva le pareti ingiallite. Si arrotolò il guinzaglio intorno al polso e si avviò verso l’ascensore. Sapeva come dovevano apparire, da dietro: un investigatore a testa bassa con un completo di pelle, e un cane con il guinzaglio che strisciava per terra, la testa bassa e le zampe storte. Tenevano lo stesso passo: era un ritmo pieno di dolore. Ma pur sempre armonico.
Werner Hagg si chinò sulla radio poggiata sulla credenza. Bruff, il cane color avana, gli stava accanto. Tilde e Thea dormivano testa-piedi nel suo letto nella stanzetta fredda. Piet, Jan e Ingrid se ne stavano seduti a parlare. L’uomo guardò la tappezzeria alle pareti che stava per cadere a pezzi. Piet e Jan sedevano uno accanto all’altro sul sofà liso. Avevano le teste inclinate l’uno verso l’altro. Werner alzò un po’ il volume. Ripetiamo che il noto psichiatra Carl Hammer è stato trovato morto nella sua casa di Trosterudveien a Oslo. L’uomo è stato ucciso da un colpo di pistola sparato attraverso la porta-finestra della veranda, ed è morto nel proprio salotto. Il colpevole è riuscito a fuggire.
Werner spense, si raddrizzò e guardò fuori, verso il fienile. I fiocchi di neve stavano per attecchire sulle assi rosse. Johnsen aveva mantenuto la parola data. L’uomo si chinò, poggiò la mano sporca da lavoratore sul collo del cane, sentì il calore della pelle dell’animale sotto il pelo morbido, guardò il collare, lo stesso di quando la sua padrona era ancora in vita. Bruff, il cane di Aud. Il fabbricante di bare sentì un soffio di qualcosa che ricordava la felicità. Il buon Johnsen. Risentì la sua voce: La vendetta è decisamente sottovalutata. Se qualcuno ama un fiore di cui non esiste che un solo esemplare tra milioni e milioni di stelle, per essere felice basta che le guardi e si dica: “Il mio fiore è lì, da qualche parte”.
*
Cato Isaksen attraversò il tunnel di Lysaker e uscì sulla E18. Passò accanto a Sandvika e Holmen. Ora voleva andarsene a casa, ad Asker. Da Bente. I tergicristalli si muovevano ritmicamente disegnando grandi archi tra i fiocchi di neve sempre più grandi che si scioglievano sul parabrezza. La radio era spenta. Il cellulare era silenziato e giaceva muto sul sedile del passeggero. Cato guardò il cane nello specchietto retrovisore. Birka stava seduta; non voleva stendersi. Quando lasciò l’autostrada presso Asker, accese l’autoradio. Il suono riempì l’abitacolo. Ripetiamo che il noto psichiatra Carl Hammer è stato trovato morto nella sua casa di Trosterudveien a Oslo. L’uomo è stato ucciso da un colpo di pistola sparato attraverso la porta-finestra della veranda, ed è morto nel proprio salotto. Il colpevole è riuscito a fuggire.
Spense. Sentiva come una puntura dentro l’orecchio; il dolore gli scorreva lungo la mascella sporca di fuliggine, come una corrente. Un parallelogramma bianco conficcato per lungo, come una freccia di ghiaccio. Johnsen era sotto chiave. Hagg se ne stava nella sua piccola fattoria. Il cellulare sul sedile accanto cominciò a illuminarsi di bianco, a sprazzi, come se fosse una sirena d’emergenza. Era un numero sconosciuto. Cato rallentò, fece una curva stretta e fermò fuori dal McDonald’s di un’area di servizio. Afferrò il telefono. Chiamavano dall’ospedale. La voce del medico aveva un suono metallico, come quello di una segreteria telefonica. Ce la faremo. La tua collega Marian Dahle sopravvivrà.
Cato Isaksen gettò di nuovo il cellulare sul sedile, e sentì la voce del medico che continuava a parlare. Sta venendo qui un medico di Bergen, un esperto in ustioni…
La violenta luce al neon di quella dannata fabbrica di hamburger si rispecchiava nel parabrezza. Sentì il cane di Marian che si alzava e scodinzolava sul sedile posteriore. Si abbandonò sul poggiatesta, strinse le mani sporche intorno al volante e fissò un punto di fronte alla macchina, nel buio. Un muretto di lastre di ardesia, le une sulle altre a formare strati irregolari coperti da uno strato di neve. Le lacrime che gli scendevano ai lati della bocca avevano un forte sapore di bruciato. Ebbe una sensazione di freddo quando il cane gli premette il naso contro la nuca. Un po’ più in là passava l’autostrada. La fila di lampioni sembrava una ghirlanda di perle luminose nell’aria piena di neve.
Note
1 Noto locale di Oslo in pieno centro.
2 Drammaturgo norvegese vissuto tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento.
3 Gioco a squadre in cui ci si appropria del “territorio” della squadra opposta gettando un coltello.
4 A Oslo esistono degli orti urbani, di proprietà comunale, talvolta con annessi dei piccoli chalet.
5 Strada nel quartiere di Sagene, a Oslo.
6 La circonvallazione più esterna della città di Oslo.
7 Zona boschiva a nord-ovest di Oslo.
8 Piatto tipico norvegese a base di cavolo ripieno di carne di montone.
9 L’equivalente della cresima per i protestanti.
10 I servizi di sicurezza della polizia norvegese.
11 Società che gestisce il registro dei microchip degli animali domestici in Norvegia.
12 È una dicitura che compare su molte tombe, e questa frase viene dunque evitata in altri contesti.
13 In psichiatria, tendenza ad avanzare rivendicazioni continue, per lo più non giustificate.
14 Lo shock insulinico, conosciuto anche come terapia ipoglicemica, consiste nel mandare in coma ipoglicemico mediante insulina il paziente per poi risvegliarlo, prima che muoia, mediante iniezioni glucosate.
15 Pesante insulto indiano e pachistano, simile all’inglese motherfucker.
16 “Se ne hai bisogno”. In inglese nel testo.
17 Poco più di mille euro.
18 Tipo di lichene filamentoso che ricorda appunto una barba.
19 La Kripos è un’agenzia della polizia norvegese che si occupa di prevenire e combattere il crimine organizzato. Coopera con l’Interpol e l’Europol.
20 Si tratta dei quartieri più poveri, con il maggior numero di immigrati.
21 Simili ai waffles belgi, sono un dolce a forma di quadrifoglio molto diffuso in Norvegia.
22 “Brava, continua a lavorare così!”. In inglese nel testo.
23 Stufato con carne e verdure, molto diffuso nella cucina tradizionale norvegese.
24 Località a circa duecento chilometri da Oslo in direzione nord-ovest.
25 L’aeroporto di Oslo.
26 Figura professionale che non ha un corrispettivo in Italia.
27 Espressione molto diffusa nella Cina di oggi, che indica la figura di un’amante che accetta di rimanere nell’ombra.
28 L’agenzia di collocamento statale che eroga anche i sussidi di disoccupazione.
29 “La prossima volta. Presto. Adesso vattene, per favore”. In inglese nel testo.
30 Si tratta di un disturbo mentale che spinge a fare del male ai propri figli, o ad altre persone vulnerabili, per farli sembrare malati e attirare l’attenzione su di sé.
31 Il Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali, noto anche con la sigla dsm derivante dall’acronimo del titolo in inglese, è uno dei più utilizzati internazionalmente. Il manuale dsm 5 è uscito nel 2013 negli Stati Uniti.
32 Elevazione temporanea del tono dell’umore, più lieve della mania, che caratterizza il disturbo bipolare.
33 Il 22 luglio 2011 Anders Behring Breivik uccise complessivamente settantasette persone, di cui otto a Oslo con una bomba e sessantanove sull’isola di Utøya.
34 Letteralmente “formaggio vecchio”. Si tratta di un formaggio tradizionale norvegese stagionato, che molti considerano immangiabile, le cui origini risalgono ai tempi dei vichinghi.
35 “Anello mancante”. In inglese nel testo.
36 Edificio che ospita l’associazione degli studenti norvegesi.