Marian uscì dal parcheggio sotterraneo. Le seguiva un’auto-civetta di scorta.
«Dovresti essere armata», disse Emmy Hammer.
Marian non aveva voglia di dirle che in effetti lo era. «Mi piacerebbe avere un’arma», disse. «In effetti già da piccola ne volevo una, per Natale. Altre bambine vogliono le bambole. Io volevo una pistola giocattolo». Falle il terzo grado. «Ho avuto un’infanzia un po’ particolare», disse Marian. «Dovevo andare dallo psicologo. Quello mi disse: immagina di avere un armadio pieno di armi: pistole, lanciafiamme, bombe, granate, coltelli e spade. Mi chiese con quale di esse avrei scelto di difendermi. E sai io cosa gli risposi?». Marian frenò perché il semaforo era rosso, e guardò nello specchietto retrovisore. Vide che la macchina di scorta era piuttosto distante.
Emmy Hammer aveva gli occhi lucidi. Una poliziotta non doveva parlare in quel modo!
«Sai quale arma ho scelto?», ripeté Marian.
Emmy Hammer teneva lo sguardo fisso in avanti, oltre il parabrezza.
«Non il lanciafiamme, non la pistola, non il coltello, non quello che pensi tu».
«Io non penso nulla», disse Emmy Hammer.
«Nessun’arma può proteggere quelli come te e me. L’unica arma che ci può aiutare è l’autostima. Abbiamo saputo che Piet aveva sempre con sé il coltello, quando era piccolo».
Non appena ebbe detto quella frase, Emmy Hammer scoppiò in lacrime. «Ho paura», sussurrò. «Non ricordo che Piet avesse un coltello. Solo che aveva una pistola di plastica, ma del resto tutti i maschi ce le hanno. Io ho un figlio. Devo vivere. Non ce la faccio più. Dovete proteggere Philip».
*
Jan Hagg abitava in Oscarsgate. Cato Isaksen e Roger Høibakk ci stavano andando in macchina. Roger prese l’iPad e impostò una ricerca su Google con i nomi di Hagg e Porat. Jan Hagg non aveva precedenti penali. La casa di accoglienza per minori presso la quale Jan, Piet e Maike Hagg avevano abitato da bambini era stata chiusa. Mentre parcheggiavano lungo il marciapiedi di fronte al numero civico che cercavano, sentirono un messaggio dalla radio di servizio. Era Randi. «Asle e io ci troviamo a casa di Ole Porat in Melkeveien, a Riis. Ole Porat in questo momento è a Valdres24, a caccia di cervi. Almeno così dicono là dove lavora, ovvero al reparto di chirurgia dell’ospedale di Ullevål. Asle ha fatto una verifica: la caccia al cervo dura fino al 23 dicembre. Deve tornare al lavoro mercoledì 6 novembre, dunque dopodomani, ci hanno detto quelli di Ullevål. Passo».
«Melkeveien non si trova un po’ più su di Trosterudveien? Passo».
«Sì. Melkeveien è una traversa di Trosterudveien, circa quattrocento metri più in su rispetto a dove abitano gli Hammer. In casa ci sono una donna e due bambini. La donna è sua moglie. Qui è tutto calmo. Passo».
«Allora rimanete di guardia in Melkeveien fino a nuove istruzioni. Continuiamo ad analizzare la situazione minuto per minuto. Noi ora siamo all’indirizzo di Jan Hagg. Passo».
Roger Høibakk lese a voce alta sull’iPad. «Ole Porat è neurochirurgo all’ospedale di Ullevål da molti anni. Un figo, giovanile, vedo, intorno alla cinquantina. Ricopre un sacco di incarichi, tra le altre cose presso l’Associazione medici norvegesi. E in psichiatria, nell’ambito del servizio sanitario nazionale».
Cato Isaksen aprì la portiera. «Ma ora pensiamo a Jan Hagg. Muoviti!».
*
La radio di servizio gracidava. Marian la spense e cercò di portare avanti la conversazione con Emmy Hammer. «Sei un’artista, vero?»
«Diciamo che non ho un’istruzione superiore, ho fatto solo qualche corso. Non sono abbastanza brava. Posso parlare con i miei genitori e con Philip?»
«No, non stasera. Cambiati soltanto, e prendi pettine e spazzolino». Falle il terzo grado. «Parlami di tuo figlio».
«Studia in Polonia, per diventare psichiatra. Ma prima deve diventare medico».
«Quanti anni ha?»
«Ventuno. Domani riparte».
«Allora deve rimandare. Non può partire adesso».
Imboccarono Trosterudveien.
«Raccontami delle giornate per i bambini. Quelle che organizzavano Berit Adamsen e Norma Winther».
«Dopo che è morta Maike, hanno smesso di farle».
«Sei ancora in contatto con Berit Adamsen?»
«Non la vedo da quando avevo dodici anni. Non aveva nulla di particolare».
Per un attimo, Emmy si irrigidì. Marian se ne accorse.
«Che cosa successe, in quel periodo?». Marian mise la freccia a destra, verso le case. C’era una macchina della polizia al bordo della strada. Dentro c’era la luce accesa.
Emmy Hammer fissava dritto davanti a sé. All’improvviso le parole le sgorgarono di bocca. «Era come se la morte di Maike avesse avuto un impatto su noi tutti. I pazienti, con le loro depressioni, psicosi e schizotimia, furono colti da attacchi di panico. Noi bambini ci perdemmo di vista. A parte Jan, che incontrai un paio di volte. Ricordo che entrai in un periodo di buio profondo. Me ne rimasi a letto nella mia stanza per molto, molto tempo».
Marian si fermò fuori dalla dépendance. Emmy Hammer fissò i poliziotti affaccendati in giardino e gli agenti in uniforme che facevano la guardia di fronte alla casa dei suoi genitori. La luce dei lampeggianti illuminava a sprazzi il prato verde-bruno.
*
Anche i poliziotti in borghese indossavano una specie di uniforme: scarpe da jogging, T-shirt, giacche di pelle e il badge al collo. Quando Ingrid Hagg sentì l’energica stretta di mano di Cato Isaksen, per un attimo le sembrò di svenire. Aveva la polizia alla porta. Rimasero fermi sull’ingresso, mentre lei rispondeva alle domande che le ponevano. Dov’era Jan?
«In palestra», disse lei. «In Solli plass».
«A quest’ora?». Il poliziotto la osservò. «Da quanto tempo è andato via?»
«Tengono aperto fino alle undici di sera. È andato via un paio d’ore fa».
«Quindi è stato qui fino alle diciannove, è questo che stai dicendo?»
«È andato via all’incirca quando è iniziato il telegiornale delle sette».
I poliziotti le fecero molte domande. Le girava la testa. Volevano sapere se c’erano delle galosce del marito, oppure altre scarpe. Si guardarono intorno. «Tuo marito ha un soprabito?»
«No», fece lei. Jan era andato ad allenarsi anche di giovedì. Era rimasto fino a tardi. Lei si era addormentata prima che tornasse. Lo ricordava molto bene perché era Halloween, e le ragazzine volevano che le accompagnasse a fare il rituale giro del “dolcetto o scherzetto”. Ma Jan pensava che fosse un’usanza sciocca.
«Dunque voi gestite un’impresa di pompe funebri, e Werner Hagg collabora?»
«Mio suocero fabbrica bare», disse lei. «Cosa significa tutto questo?»
«E il fratello di tuo marito? Sai mica dove si trovi?»
«No». L’aveva cercato a più riprese su Google, ma era come se fosse stato risucchiato dalla terra. Perché i due fratelli non erano in contatto? Dov’era Piet? Fu scossa da un brivido freddo.
«E tu cosa fai nell’ambito delle pompe funebri?»
«Trucco i cadaveri», disse a brutto muso. «I morti vanno truccati in maniera tale che i familiari li possano vedere nella bara aperta. Inoltre faccio lavori d’ufficio: mi occupo di ordinare le bare, cose del genere».
*
Dopo che i poliziotti se ne furono andati, Ingrid entrò nella camera delle bambine e si accucciò per terra. Accarezzò le manine di Tilde e Thea. Le piccole avevano ciascuna una propria lampada da parete blu a stelline sopra il lettino rosa. Entrambe erano accese.
Norma Winther si spogliò nel suo piccolo bagno verde chiaro. Sulla mensolina di vetro c’erano il profumo e i rossetti. Cose così le poteva usare soltanto a casa, o durante i viaggi. Il lavandino ovale era ombrato di sporcizia sui bordi. Le irregolarità della parete apparivano sotto la pittura che si stava scrostando qua e là. Sarebbe stato necessario risistemarla, ma lo stato non aveva soldi. Entrò nella fredda camera da letto. Il vestito rosa lavorato a maglia che portava anni prima era ancora appeso all’attaccapanni. L’ultima volta che lo aveva indossato pesava quindici chili di meno. A quell’epoca si trovava all’estero. La gente aveva visto una donna truccata pesantemente salire a bordo di una nave. Era sola. Il mondo era pieno di faccende da sbrigare.
Ma questa era casa sua; era qui che viveva, nella canonica, anche se la casa era grande, per una donna sola. Prima, quando prestava servizio di pastore presso Gaustad, la sua esistenza era diversa, molto più modesta: abitava in un appartamentino a Stovner. La canonica non era stata risistemata da quando lei ci si era trasferita, ma le piaceva anche così. E ce l’aveva tutta per sé: ci aveva già abitato per quasi venticinque anni. Era di proprietà dello stato, ma per quanto la riguardava era sua. Da qualche parte doveva pur poter essere se stessa.
Si infilò la camicia da notte dalla testa e la fece scivolare giù sul petto, tirò le tendine e si lasciò cadere pesantemente sul letto. Il materasso a molle cigolava. C’erano delle notti in cui non riusciva a dormire. Allora si alzava di nuovo e infornava qualcosa; si metteva al piano di lavoro e faceva l’impasto per del pane integrale, bianco o per delle brioches. Ascoltava la musica classica ad alto volume. Se esistevano gli angeli, forse si nascondevano nella musica. A volte era preoccupata per se stessa, per come tutto quanto sarebbe andato a finire.
*
Dopo che i poliziotti se ne furono andati, Ingrid Hagg chiamò il marito, ma lui non rispose. Erano venute delle persone a ispezionare l’appartamento e la macchina, e stavano fuori per strada. Erano già all’opera. Tornò da Tilde e Thea che dormivano alla luce degli abat-jours. Le bambine non si dovevano spaventare. Le guardò. Forse era a causa del lavoro che svolgeva, ma vedeva attraverso di loro: quei teneri scriccioli con denti, pelle e capelli. Gli esseri viventi non erano realmente belli. La morte stava in agguato dietro a tutto ciò che era in vita. Al lavoro avevano delle celle frigorifere. A volte le sembrava di passare tutto quanto ai raggi X, nella sua mente. Che diavolo aveva combinato adesso, Werner? Povero Jan. Ingrid provò un senso di vergogna, a quel pensiero. Ecco cos’è che lo tormentava! Negli ultimi giorni era cambiato. Il padre, Werner, gli aveva ucciso la madre. A volte il marito era assente, estremamente distante. Ma che ne era stato di Piet? Quando Ingrid aveva conosciuto Jan, lui era curioso dell’agenzia funebre che le sarebbe toccata in eredità dai genitori. Era curioso di tutto: dalla cella frigorifera ai forni crematori che utilizzavano. Ingrid era abituata al fatto che la gente la trovasse una cosa affascinante e ripugnante allo stesso tempo, ma l’interessamento di Jan era genuino. Lei aveva venticinque anni all’epoca, lui ventiquattro. E diceva spesso di conoscerla, la morte. Il suo punto debole era quella madre a cui era stato molto legato, e che era stata colpita a morte. E poi quella sorella, che era caduta dalla scala pieghevole e aveva sbattuto la testa sul pavimento della cantina. Un destino così crudele che a volte Ingrid si era chiesta se non si fosse innamorata di lui proprio perché le faceva pena e desiderava aiutarlo a dimenticare.
*
Randi comunicò che fuori dalla casa di Ole Porat in Melkeveien era tutto tranquillo. Trovarono subito Jan Hagg. Era dentro, presso i macchinari per l’allenamento. C’era odore di sudore nella palestra, e la musica era forte. L’uomo di fronte a loro era molto alto. Jan Hagg doveva essere oltre il metro e novanta, e aveva gli stessi tratti del padre. Ma i capelli, corvini e di media lunghezza, erano tirati indietro e legati con un elastico. La fronte era alta; era sicuramente intelligente, pensò Cato Isaksen, ma non sembrava simpatico. Però si trattava di una prima impressione, e poteva anche essere sbagliata.
Cato Isaksen gli chiese di cambiarsi e di seguirli in questura. Notò che Hagg non sembrava meravigliato: annuì brevemente e sparì negli spogliatoi. Una donna con indosso una tutina aderente lo seguì con lo sguardo.
Cato Isaksen si avvicinò alla reception e chiese all’impiegata da quanto tempo Jan Hagg si trovasse lì. «Dai un’occhiata all’elenco delle presenze», disse lei con un cenno verso un registro aperto su cui era poggiata una penna. C’era scritto che era arrivato poco dopo le diciannove. Cato Isaksen guardò l’orologio. Ora erano le 21:10. La sparatoria in Trosterudveien si era svolta verso le 18:30. Cato richiese l’intervento di altri poliziotti che venissero a perquisire la palestra alla ricerca di un’arma. Roger Høibakk parlò con la donna bionda, che consegnò loro il registro delle presenze dopo aver fatto una telefonata. Quell’elenco poteva contenere elementi utili per quanto riguardava la serata di Halloween. Jan Hagg uscì dallo spogliatoio con una grossa borsa da ginnastica che si gettò sulla spalla.
Una volta in macchina, per un po’ rimasero in silenzio. Jan Hagg sedeva sul sedile posteriore. Cato Isaksen lo fissava attraverso lo specchietto retrovisore. Arrivò un sms. Non erano riusciti a scovare Piet Hagg. Non avevano trovato tracce di lui da nessuna pare. All’improvviso Cato Isaksen si accorse di quanto fosse stanco. Lunedì 4 novembre era diventato un giorno lunghissimo, sembrava non dovesse finire mai.
*
Emmy Hammer ci aveva messo dieci minuti a cambiarsi e a radunare un po’ di roba da toeletta. Uscì dalla camera da letto con i pantaloni lunghi e una maglia grigia. Marian era in salotto ad aspettarla. Guardò il quadro bianco sul cavalletto: una grande superficie con sfumature grigio chiaro, bianco e beige.
Emmy Hammer infilò un nécessaire, un po’ di biancheria e un paio di bottiglie di vino in un borsone grigio. Poi guardò fuori dalla porta-finestra di vetro, verso la casa dei genitori. Sul viso le scese un velo di preoccupazione. Marian le fece un cenno d’incoraggiamento con la testa, e lei si rimise il giubbotto antiproiettile e si gettò addosso un piumino prima che si dirigessero alla macchina e tornassero su per il vialetto d’accesso. L’auto di scorta le aspettava in alto, sulla strada principale. Un po’ più giù, lungo la strada ma dal lato opposto, c’era un uomo su di uno scooter. Teneva entrambi i piedi per terra e indossava il casco. La visiera era abbassata.
*
Piet Hagg riconobbe Emmy Hammer nel momento in cui le due macchine passarono accanto alla cabina elettrica. Quando imboccarono la via principale lui si raddrizzò, diede gas e le seguì.
Era passato per casa sua a Majorstua e aveva guardato le notizie in tv. Le stanze erano impregnate dell’odore nauseabondo della carne marcita. Era sul punto di andare a buttarla giù nei cassonetti quando sentì: Una sparatoria ha avuto luogo in Trosterudveien, si è trattato di un agguato contro la figlia del noto psichiatra Carl Hammer. Pensò all’episodio della pistola giocattolo di tanti anni prima. Il modo in cui Emmy gliel’aveva strappata di mano all’interno del locale caldaie. Gli piaceva, Emmy. Imparava così in fretta. Non era paurosa come Maike. Era faticoso dover proteggere qualcuno, dover stare sempre in guardia. Tutto quanto gli riapparve davanti, come un film che scorreva all’incontrario. Era all’inizio di novembre. Aveva capito che qualcosa non andava. Le grandi ombre autunnali coprivano le mura degli edifici di fronte. Si muovevano lente. Uno strato sottile di brina copriva i prati che qui e lì erano macchie di fango secco. Corrispondevano ai punti in cui, giocando a pallone, si erano girati bruscamente danneggiando il manto erboso.
*
Jan Hagg sedeva nell’angusta saletta degli interrogatori e aspettava. Indossava un maglione bianco. Tutto in quella stanza lo metteva a disagio: la luce violenta, il buio alla finestra, l’odore del detersivo per pavimenti. L’irrequietezza di essere stato piazzato in un posto dove non poteva avere controllo sulle aspettative nei suoi confronti era più forte di quanto si fosse aspettato. Poi entrò il poliziotto più vecchio. «Lo sai di cosa si tratta, vero?».
Lui lo guardò senza rispondere.
«C’è stato un omicidio. E un tentato omicidio», disse il poliziotto di nome Cato Isaksen. L’uomo guardò il badge che portava al collo. «Vorremmo farti delle domande già adesso. Vuoi che sia presente un avvocato?»
«Che cosa implica per me?»
«Se non hai nulla a che fare con l’omicidio, ci fai un favore: abbiamo molta fretta. Non sappiamo se ci sono altre persone in pericolo».
La luce bruciava i suoi occhi stanchi. «Certo che rispondo», disse. «E non mi serve alcun avvocato». Poi disse che era stato in palestra a partire dalle sette di sera circa, e che prima di allora si trovava a casa.
«Puoi dirci come facciamo a rintracciare tuo fratello Piet?»
«Non so nulla di Piet. Non ho idea di dove si trovi». Jan Hagg poggiò i grandi pugni sulla superficie del tavolo, davanti a sé.
*
Il grosso cerotto sulla fronte di Emmy Hammer era come una macchia luminosa. Marian continuava a parlare. «Mi hanno definita la regina delle tenebre». Avevano imboccato il Ring 2 e stavano dirigendosi in direzione est, verso piazza Carl Berner. Marian guardò la macchina di scorta nello specchietto retrovisore. «So perfettamente cosa vuol dire avere dei problemi».
Emmy Hammer annuì, poi chiese: «Ci vai ancora, dallo psicologo?»
«Dopo un po’ sono passata allo psichiatra, comunque no, l’ho fatta finita con tutto quanto. Essere in terapia vuol dire macerarsi nelle proprie miserie, starsene immersi in un autocompiacimento all’incontrario».
«Perché sei entrata in polizia?»
«Perché so tutto su cosa significhi aver fallito. Mia madre adottiva mi minacciò col coltello quando avevo sedici anni. Mi odiava dal profondo del cuore. Allora io ho chiamato la polizia. Loro sono venuti e mi hanno salvata. È stato allora che ho deciso: sarei diventata un poliziotto. Avrei salvato gli altri. È arrivata da poco una relazione che dice che le poliziotte vengono tenute in secondo piano. La mia collega, Randi, è stata criticata perché qualche volta viene al lavoro in gonna e con i tacchi. Del resto è raro che andiamo in giro in uniforme».
«A me sembra che tutta l’esistenza sia costruita da uomini per altri uomini». Emmy Hammer deglutì. «Che succederà a Jan, adesso?»
«A questo non devi pensare».
«Stavamo bene a quel tempo, Jan, Piet e noi tre bambine. Ci inventavamo delle cose eccitanti, un po’ come i Goonies». Emmy Hammer fece un sospiro. «Quando potrò tornare a casa?»
«Tra un po’». Marian guardò lo specchietto retrovisore. Erano d’accordo che la macchina le avrebbe seguite per qualche decina di chilometri lungo la E6 e poi avrebbe fatto dietrofront in corrispondenza dell’uscita per Kongsvinger, a meno che non ci fosse qualcosa di sospetto. «Al nostro arrivo troveremo del cibo», disse. «È tutto pianificato».
«E io ho del vino. Ora ne ho proprio bisogno». Marian non poteva bere, ma certamente il vino era proprio ciò di cui aveva bisogno, in quel momento.
*
Jan Hagg sapeva molte cose sulla morte; del resto aveva perso sia la madre che la sorella da bambino. Il poliziotto insisteva sulla faccenda degli orari, ma Jan sosteneva di essere rimasto a casa fino a quando era iniziato il telegiornale delle sette. Di certo anche il fatto che lavorasse in un’agenzia funebre doveva stimolarli, e infatti iniziarono a fargli domande sul suo rapporto con la morte. Lui forniva le risposte che pensava loro si aspettassero: che quel lavoro era una cosa del tutto casuale, che c’erano tante strade che conducevano alla meta, e che per lui la meta era una vita felice. E quella l’aveva trovata nel momento in cui aveva incontrato Ingrid. Ora era capitato che i genitori di lei gestissero un’agenzia funebre. Lui non aveva mai desiderato lavorare con la morte; ma loro guadagnavano, e anche bene. Ingrid voleva avere una casa delle vacanze nel Sørlandet, e un giorno se la sarebbero comprata.
«Racconta di Berit Adamsen», gli disse il poliziotto.
«Berit Adamsen aveva un cuore grande come una casa», disse Jan Hagg. «Una volta “Aftenposten” pubblicò perfino un articolo sulle giornate per i bambini. Ci vennero a trovare un fotografo e un giornalista. Ricordo che ci fecero una foto in cui stavamo seduti sulle scale. Una volta al mese ci incontravamo per prendere confidenza con l’ospedale e compagnia bella. Vi prendeva parte anche il pastore, Norma Winther. Leggeva dei passi della Bibbia, e ci insegnava dei salmi. La cosa ci piaceva. A Piet, Maike e a me. Mi sentivo in qualche modo responsabile di loro. Io ero il maggiore. Poi tutto quanto è andato in malora».
*
Cato Isaksen lo osservava. Attraverso la porta vide Asle Tengs che gli faceva un cenno. Lui si alzò, e uscì in corridoio. «Jan Hagg non figura nel registro delle presenze, il 31 ottobre. Quindi forse è lui, il nostro uomo».
Il padre, Werner Hagg, aveva ammesso di essersi recato a Oslo in macchina quella sera, prima a Sandakerveien e poi a Trosterudveien. Continuava a sostenere che desiderava soltanto parlare, e che quella notte non aveva avuto alcun contatto né con Aud Johnsen, né con Emmy Hammer. I poliziotti dovevano trovare qualcosa di più concreto. Forse padre e figlio erano complici?
Cato Isaksen rientrò nella saletta. «E la sera del 31 ottobre, Jan Hagg, cos’hai fatto?».
Il figlio del fabbricante di bare lo guardò. «Ero alla loggia massonica», rispose.
*
Dopo quarantacinque minuti, Marian svoltò appena superata l’uscita per Gardermoen25. Proseguirono per altri venti minuti circa, poi imboccarono una stradina laterale, fiancheggiata da alberi spogli che formavano come una palizzata ai lati della strada. Alla fine di essa scorsero un’aria industriale. Era già mezzanotte.
«Sembra deserto, ma non lo è», disse Marian, che aveva ricevuto un sms dagli agenti nell’auto di scorta che diceva che tutto era ok, e che tornavano a Oslo.
«Il gruppo speciale per cui lavoro io ha qui i suoi uffici, quindi c’è sempre qualcuno. Non li incontreremo, ma ci sono».
Emmy Hammer annuì, ma ebbe come un presentimento. «Come si chiama questo posto?»
«Non ha alcun nome», disse Marian laconica, mentre parcheggiava. «È un magazzino».
*
Cato Isaksen contattò l’avvocato di polizia26. «Lo so che è tardi, ma dovresti prolungare l’ordinanza di custodia cautelare per Hagg, in modo tale che possiamo trattenerlo più a lungo. Lo stiamo già interrogando stasera, considerata la gravità di questo caso. La moglie gli fornisce un alibi, ma non è solido. Finché non vediamo cosa succede domani, deve rimanersene ai piani bassi qui da noi».
Jan Hagg fu portato in cella. Ellen Grue telefonò a Cato. «Abbiamo trovato tre cartucce vuote su in Trosterudveien, Cato. Ora sto tornando negli uffici della Scientifica con il materiale. I colpi sono stati sparati dal limitare del bosco. Lì abbiamo anche trovato parziali impronte di scarpe. Dico parziali perché ci sono molte foglie e detriti, per terra. E molti usano quella zona a fini ricreativi o per andarci a correre, quindi dobbiamo distinguere cosa ci interessa e cosa no. Stiamo sfruttando tutte le ore di luce per lavorare. Il buio complica le cose. Tra un po’ delimitiamo l’area con i cordoni, e riprendiamo domattina presto».
Dentro il magazzino faceva freddo. Una corrente fastidiosa li colpì mentre camminavano tra gli scaffali, pieni di scatole e cartoni di diverse misure. In fondo al locale c’era una porta d’acciaio. Marian infilò la chiave nella toppa e aprì. Entrarono in un piccolo corridoio con un ascensore. Il cane fu il primo a infilarsi dentro. «Dobbiamo salire», disse Marian.
Su c’erano tre porte, di cui una con il vetro smerigliato. Marian la aprì, ed entrarono in un nuovo corridoio, pitturato di verde scuro, con altre tre porte: una portava al piccolo bagno anch’esso verde; un’altra si apriva su un cucinino con il lavello d’acciaio, e la terza conduceva a una specie di salottino con un vecchio divanetto color senape su cui c’era un coniglietto rosa dimenticato da qualcuno. Per terra c’era il linoleum, e dal soffitto pendeva una lampadina. Inoltre sulla cornice in alto erano montate alcune telecamere a circuito chiuso. C’era un tepore gradevole. Un impianto di areazione emetteva un soffio leggero.
«Quindi è qui che abiteremo?». Emmy Hammer si tolse la giacca. Sembrava più tranquilla. «Posso togliermi il giubbotto?»
«Certo, spogliati pure», disse Marian, e ordinò al cane di stare a cuccia. «Tra poco qualcuno ci porterà da mangiare. Abbiamo una stanza ciascuna». Marian avrebbe poi fornito una relazione scritta sulla loro permanenza in quel posto. Emmy la guardò. «Perché non risolvete questo caso e basta? Io voglio soltanto tornarmene a casa e riprendere una vita normale». Respirava affannosamente. «Sono preoccupata per i miei genitori. E per Philip. Ho una sensazione terribile. E ho anche visto un uomo nel bosco».
«Quando? Perché non ce l’hai detto? Descrivilo», disse Marian.
«Sono un po’ frastornata. Non saprei descriverlo, ma non era Jan Hagg. E su quel sentiero c’è sempre gente». Emmy Hammer afferrò una bottiglia dal borsone grigio, svitò il tappo e prese un sorso. «Questo purtroppo aiuta. Ne vuoi un po’?»
«Io vado a cambiarmi», disse Marian, ed entrò in una delle piccole camere da letto. Si tolse la giacca di pelle, aprì un cassetto e trovò una felpa col cappuccio, che si infilò. Quando uscì, Emmy Hammer era in corridoio.
«Dove stai andando?», disse Marian, e la seguì, tirandosi giù la felpa.
«Do soltanto un’occhiata in giro», rispose lei.
Dieci minuti dopo arrivò un uomo con del cibo caldo in alcune vaschette di alluminio. Aveva anche una busta di plastica con pane, succo di frutta, burro, formaggi e salumi, che poggiò sul tavolo da cucina.
*
Avevano bevuto tre bicchieri di vino ciascuna. Emmy Hammer si avvicinò alla finestra e guardò giù nello spiazzo illuminato. Marian era di sotto con la sua giacca di pelle, e si scaldava stringendosi le braccia al petto. I suoi capelli svolazzavano al vento. Il boxer stava fiutando il bordo di un container. Accanto c’erano parcheggiate due macchine, una era l’auto grigia noleggiata. Cadeva una pioggerellina, ma da dietro la coltre di nuvole spuntava un frammento di luna. Le foglioline di un albero sembravano uno sciame di mosche quando, cadendo, attraversarono l’area illuminata da un lampione e si posarono sul piazzale asfaltato. All’improvviso a Emmy tornò in mente quella sensazione: tutto era rovinato. Le stanze nere in cantina, gli scaffali pieni di faldoni dell’archivio, anneriti agli angoli; ciò che rimaneva di un dente di leone impolverato sul pavimento. Maike e Aud provavano un dolore simile per via della malattia dei rispettivi padri. Erano intrecciate l’una all’altra come i ramoscelli di un arbusto. Lei invece era come un albero solitario: era la figlia dello psichiatra. E a Piet proprio non andava a genio; questo se lo ricordava.
Marian e il cane tornarono dentro. Emmy si girò verso la poliziotta. «Pensa a Laika, che hanno lanciato nello spazio. Io mi sono sempre sentita come una terza persona».
«Che cosa vuoi dire con questo, Emmy? Xiao San. Significa “Terza persona” in cinese»27. Marian gettò la sua giacca sul divano, e riconobbe l’effetto rilassante del vino.
«Io sono decisamente ipersensibile». Emmy Hammer si tirò giù il maglione per coprirsi i fianchi. «È come starsene in una boccia di vetro, una coppa profonda dentro la quale poter riposare. Come un pesciolino».
«Conosco quella sensazione. I pesci possono essere molto sensibili. Anche i moscerini della frutta». Marian sganciò il guinzaglio di Birka. «È segno che le strategie di sopravvivenza degli individui sensibili sono di tipo ereditario. A volte penso che i criminali sono come i domatori di belve feroci: entrano dritti nell’arena, affrontando la tigre. Si espongono alle luci della ribalta e splendono».
A Emmy Hammer non piaceva che la poliziotta facesse quei discorsi. Le sembrava che non fosse del tutto in sé. Si sedette sul divano. Marian proseguì: «Anche se l’ipersensibilità come aspetto caratteriale porta a comportamenti di tipo diverso, è comunque evidente che gli individui sensibili sopravvivono. Andrà tutto bene, Emmy. Ora dobbiamo dormire».
Emmy Hammer la fissò e si passò le dita sul grosso cerotto in fronte. «Hai figli?».
Marian scosse la testa.
«Io avevo sedici anni quando nacque mio figlio, e quindici quando rimasi incinta».
«Cosa!?»
«Non sapevo fare le cose più semplici: prendere un autobus, lavare i vestiti, fare la spesa. A quell’epoca, Norma mi sostenne. Aveva lasciato Gaustad, ma io la andai a cercare alla chiesa di Fagerborg. Era come una roccia, per me. Ricordo i primi movimenti del feto; era come se qualcuno mi stesse pitturando da dentro con un pennello. Il fatto che non volli abortire e che delusi mio padre non portando a termine un corso di studi vero e proprio, per molti anni ha danneggiato il nostro rapporto. Lui voleva che andassi all’università, che diventassi un’accademica: dottore, avvocato, qualcosa del genere. Quando nacque il bambino, all’inizio disse che mia madre avrebbe potuto prendersene cura mentre io studiavo; ma io non avevo il minimo spirito d’iniziativa, e mia madre era come una zombie. In realtà avrei voluto seppellirmi sotto terra. Ma Philip è stato la mia luce».
Marian la fissò. Sentì che un mal di testa strisciante si avvicinava. «E il padre di Philip?»
«Era solo uno che avevo incontrato a una festa. Non l’avevo mai visto prima e non l’ho mai rivisto dopo».
«Ma naturalmente sai chi era, come si chiamava?»
«Certamente, ma me lo tengo per me».
«E tuo figlio non ti ha mai chiesto di suo padre?»
«Qualche volta me lo ha chiesto, ma adesso ha smesso perché non ottiene mai una risposta».
«Sei stata in contatto con Jan dopo che è morta Maike?»
«Dopo la sua morte l’ho visto una o due volte. Per un po’ di tempo ha abitato in una casa di accoglienza per minori. Poi è scappato. Ricordo che chiesero a mio padre se sapeva dove fosse».
Quando Emmy Hammer si fu addormentata nello stretto lettino di legno in una delle due stanze, Marian rimase per un attimo a guardarla sulla soglia, prima di attraversare nervosamente il salottino, entrare in cucina e prendersi una pasticca di ibuprofene e un bicchiere d’acqua. Entrò in un piccolo ripostiglio in cui c’erano dei vestiti appesi a un attaccapanni, aprì una scatola con il coperchio e vi frugò dentro finché non ne estrasse una parrucca biondo platino di media lunghezza. Nello spogliatoio c’erano parrucche di tutti i colori e con tutte le acconciature.
In quel momento arrivò un messaggio di Cato: Jan Hagg è in custodia cautelare. La perquisizione di casa sua e della palestra non ha portato ad alcun risultato. Zero. Piet Hagg non è stato ancora localizzato. Probabilmente Ole Porat si trova in una zona di montagna dove non c’è copertura.
Marian rispose: Emmy Hammer è rimasta incinta a quindici anni e ha avuto il bambino a sedici. Mi è venuta un’idea. È possibile che Jan Hagg sia il padre di suo figlio?
*
Cato Isaksen guidava per le strade silenziose di Oslo. Pioveva di nuovo. Non c’era alcuna avvisaglia di neve. Attivò i tergicristalli e si sforzò di tenere gli occhi aperti. In testa era tutto un ronzare e vorticare di pensieri. Marian si era comportata bene, gli ultimi giorni, ma ci doveva essere sotto qualcosa. L’avvocato di polizia voleva che Jan Hagg fosse indagato ufficialmente, tuttavia non era sicuro che avrebbero potuto ottenere un rinnovo della custodia cautelare sulla base degli elementi a loro disposizione. E l’indomani sarebbe venuto Karsten Tønnesen ad aiutarli a fare delle deduzioni, e a fornir loro ulteriori informazioni sull’argomento. Era stato psichiatra di polizia e specializzato in assassini seriali, e a suo tempo aveva avuto dei legami con Gaustad. Ora era in pensione già da un pezzo. E qui non si trattava di una serie di omicidi, ma soltanto dell’uccisione di una giornalista e del tentato omicidio della figlia di uno psichiatra. E il caso di una bambina morta venticinque anni prima. Quando entrò nel suo monolocale, all’improvviso gli sembrò meno estraneo. Pensò a quando aveva poggiato la mano sulla schiena di Marian nella soffitta di Gaustad. Soltanto per un istante, come se avesse sfiorato qualcosa di invisibile subito dopo che Deidrée aveva raccontato quell’aneddoto sulla cesta della sposa.
*
Con quella parrucca chiara sembrava proprio un’altra persona. Era identica a Emmy Hammer, constatò specchiandosi nella finestra di quell’edificio industriale. Emmy dormiva, e Birka stava acciambellata per terra. I travestimenti facevano parte degli approvvigionamenti di quel luogo. I poliziotti dovevano poter assumere le sembianze delle persone da proteggere. Marian camminava nervosamente avanti e indietro, ma si teneva lontana dalla zona monitorata dalle telecamere a circuito chiuso, anche se di certo il guardiano di notte stava dormendo. Mentre se ne andava in giro per le stanze fu colta da una strana sensazione di libertà. Quant’è stupida, era solita dire sua madre. Nel lavabo della cucina c’erano dei bicchieri sporchi. Lei diede un’occhiata fuori, al piazzale. Tutto taceva, ma oltre il leggero brusìo dell’impianto di areazione le giunse un suono diverso e più tenue: una motocicletta. Lei non la vide perché era tutto buio, e presto il suono svanì di nuovo. Da uno dei container fuoriusciva un pezzo di cartone che ondeggiava al vento.
Era un martedì mattina, il 5 novembre. Cato Isaksen quella notte aveva dormito pesantemente, o meglio, era crollato per la stanchezza. Il sonno aveva fatto miracoli. Marian gli aveva riferito di una nottata tranquilla; ora si stavano allenando nella palestra del domicilio segreto. Cato la conosceva, Marian: Emmy Hammer avrebbe messo su muscoli.
Non c’erano stati suggerimenti esterni che avessero portato a qualche progresso nelle indagini. Cato Isaksen e Asle Tengs erano nell’ufficio di Cato a discutere del termine per la prescrizione, che sarebbe scattata inesorabilmente il 20 novembre. L’investigatore stava per andare a trovare Hammer. Se esisteva, l’assassino di Maike Hagg sarebbe stato libero per sempre. Poteva essere la stessa persona che il giorno prima aveva cercato di uccidere Emmy Hammer? Asle Tengs fu incaricato di organizzare ulteriori indagini non appena fosse finito l’incontro con l’avvocato. Asle alzò il braccio e indicò l’orologio. Erano le nove. Bisognava fare in fretta. L’avvocato stava aspettando nel suo ufficio. Mancavano due ore all’udienza per la custodia cautelare di Jan Hagg, e il difensore avrebbe esaminato i documenti relativi alle indagini. L’alibi di Ole Porat era stato verificato, e sia la moglie che i colleghi avevano affermato che il 31 ottobre era impegnato in una caccia all’alce. La sera in cui era stata uccisa Aud Johnsen, lui si trovava in uno chalet a Valdres insieme ai suoi amici cacciatori. Quelle affermazioni ora richiedevano ulteriori approfondimenti, come da prassi, da parte del distretto di polizia competente in quella zona. Il periodo legale per la caccia all’alce terminava proprio il 31 ottobre.
Irmelin Quist percorse il corridoio con alcuni fogli stampati in mano e bussò sullo stipite della porta. «Effettivamente Jan Hagg è un cavaliere templare. Quando si arriva all’ottavo grado, lo si diventa automaticamente. Per diventare membro della massoneria, bisogna essere raccomandati da due persone. L’interessato deve essere cristiano, aver compiuto ventiquattro anni e condurre una vita regolata. In tal caso si può entrare a far parte dei Poveri Cavalieri Templari di Cristo, e si riceve un mantello bianco lungo fino ai piedi con una croce maltese sul petto. Ho stampato la pagina, è nel mio ufficio».
Cato Isaksen fece un gesto con la mano. «Devo andare da Carl Hammer. Che cosa dicono delle calzature? C’è scritto qualcosa a riguardo?»
«Su questo non ho letto nulla», disse Irmelin Quist, «ma posso fare delle ricerche».
*
Vanja odiava se stesso. Aveva mancato il colpo. Era fermo sul limitare del bosco insieme a cinque-sei altri curiosi. Naturalmente indossava altre scarpe, e altri vestiti. Una macchina della polizia era parcheggiata di fronte all’ingresso della casa padronale. Avevano sbarrato tutto con i nastri segnaletici rossi e bianchi, e gli investigatori stavano accovacciati per terra nelle loro tute bianche, chini a cercar tracce sul terreno. Un uomo su di uno scooter bianco arrivò su per il sentiero boschivo. Il motore rompeva il silenzio come il brontolio di un gatto che fa le fusa. Lo scooter si diresse balzelloni verso il capannello di gente. Il conducente poggiò i piedi a terra per mantenere l’equilibrio. Una macchina della polizia arrivò giù per la discesa: lui sapeva bene che aspetto avessero le auto-civetta.
*
Cato Isaksen si fermò davanti alla casa bianca di Carl Hammer; di fronte alla porta un agente in uniforme stava di guardia. Gli alberi che svettavano al limitare del bosco, alle spalle dell’edificio, erano molto fitti. I tecnici stavano ancora lavorando in giardino nel tratto tra le due case. Una tenda per le analisi era stata montata fuori da quella che doveva essere la terrazza di Emmy Hammer. Il nastro segnaletico era teso di traverso tra un albero e l’altro. Un gruppo di persone si era fermato al limitare del bosco, presso il largo sentiero che si inoltrava nel fitto della vegetazione. Cato Isaksen aprì la portiera e scese dalla macchina.
Ellen Grue, con indosso la sua tuta bianca in propilene, gli si fece incontro di corsa, attraversando il prato. «Abbiamo trovato delle impronte evidenti fuori dalla casa di Emmy Hammer». Si girò a indicare. «Corrispondono alle impronte fuori dall’appartamento di Aud Johnsen. All’incirca un numero quarantacinque. Le scanalature della suola sono lisce, consumate. Possiamo soltanto concludere che si tratta della stessa persona, Cato».
Carl Hammer sedeva in una poltrona a orecchioni di velluto blu scuro. Il bordo superiore era scolorito dal sole che lo colpiva attraverso la finestra. Indossava dei pantaloni grigi, tirati fin sopra la pancia. Il viso lo riconobbe dalla fotografia di Gaustad. Di fronte alla fila di finestrelle con l’inglesina che davano sul bosco c’era un divano beige con davanti un tavolino di vetro. Solveig Hammer aveva una bella pettinatura con la permanente, e un vestito che le arrivava a metà polpaccio. Lo salutò un po’ titubante, e poi gli porse una sedia e gli servì del tè.
«Dovete prendervi cura di Emmy al posto nostro, che cosa terribile!». Quando la moglie gli porse una tazza, la mano dello psichiatra tremava.
«È una faccenda seria», cominciò Cato Isaksen, ma decise che non avrebbe informato gli anziani del fatto che colui che aveva sparato era probabilmente lo stesso che aveva giustiziato Aud Johnsen.
«È uno shock fortissimo, ma io sono abituato agli stress». Hammer parlava lentamente e teneva il busto un po’ proteso in avanti perché era sovrappeso. «Ieri sono caduto, ma non mi sono rotto nulla. Anche mia moglie se l’è cavata senza danni». Lei annuì e andò in cucina con la teiera in mano. «E anche Philip. È nella sua stanza. Emmy non ha molto spazio in casa, dunque sta qui da noi. Quando lavoravo a Gaustad, ci mettevo soltanto dieci minuti attraverso il bosco», continuò. «Quella donna che è stata uccisa…».
«La donna, come la chiami tu, era la figlia di uno dei tuoi pazienti, John Johnsen».
«Sì, nel frattempo l’ho capito. A Johnsen era stata diagnosticata una paranoia di natura religiosa e una sorta di querulomania».
Cato Isaksen spiegò che poteva esserci un collegamento, gli disse della cena tra sua figlia e Aud Johnsen e delle informazioni che Emmy aveva avuto dalla vecchia amica, ovvero che era stato Jan Hagg a uccidere la propria madre e la propria sorella. Raccontò anche dell’uomo che aveva suonato alla porta di Emmy la stessa sera in cui era stata uccisa Aud. «Ti viene in mente anche soltanto un motivo per cui qualcuno potrebbe voler uccidere Emmy?».
Hammer sembrava allibito. «Sono sciocchezze pure. È stato proprio il paziente numero 414, Werner Hagg, a uccidere la moglie. Qualsiasi altra cosa è falsa. Perché Emmy non ci ha raccontato che doveva incontrare questa Aud?». La voce di Hammer era accusatoria. «Non mi è mai piaciuto che Emmy frequentasse i bambini dei pazienti».
Cato Isaksen si spostò in avanti sul bordo della sedia. «Puoi fare un’analisi della situazione così come la vedi tu?».
Carl Hammer inforcò un paio di occhiali bifocali. «Non capisco i nessi. I problemi comportamentali spesso sono collegati sia alla crescita, sia al patrimonio genetico, ma la persona che state cercando sembra gravemente colpita relativamente a entrambi questi aspetti. Nel mio reparto abbiamo avuto uomini che avevano ucciso ad accettate, piromani, e uno che avvelenava le sue vittime e sosteneva che fossero gesti di pietà. L’uccisione di quella donna qualche giorno fa sembra particolarmente brutale e spietata».
«Abbiamo pensato all’odio», disse Cato Isaksen. «Ci dev’essere una motivazione più profonda, qualcosa che l’ha scatenato. Ma perché?».
Hammer si sporse ulteriormente in avanti. «Negli usa stimano che in ogni momento ci siano quaranta serial killer a piede libero».
«Ma noi non stiamo cercando un serial killer. Ci sono stati un omicidio, un tentato omicidio e una bambina che è morta nel 1988, ovvero la figlia di Werner Hagg. Aveva soltanto dodici anni».
«Maike Hagg». Hammer si tirò indietro, appoggiandosi allo schienale della poltrona. «È stata una sciagura terribile, ma non ha nulla a che vedere con quello che sta succedendo ora».
«Come fai a saperlo?».
Hammer alzò lo sguardo. «Capisco che la polizia cerchi di incastrare i pezzi di un puzzle, ma dovete volgervi nella giusta direzione. I politici possono pensare quello che vogliono, ma io sono convinto che tagliare drasticamente le degenze psichiatriche sia stato negativo. Negli ultimi anni, circa il ventidue per cento di tutti gli omicidi è stato commesso da persone mentalmente instabili. Sicuramente riuscirete a risolvere il caso, e io non mi meraviglierei se dietro all’assassinio della figlia ci fosse John Johnsen».
«Che cosa te lo fa pensare?»
«Io ci ho lavorato, con quell’uomo. Quelli come lui non guariscono mai. Se vogliamo ampliare il discorso, possiamo naturalmente dire che non esiste una sola persona che non soffra di qualche disturbo. In quegli anni c’erano molte scuole di pensiero, nel campo della psichiatria».
«Quella volta trovarono del rossetto sulla bocca di Maike Hagg».
«Cosa? Questa mi è nuova. Mi sono pentito molte volte di aver autorizzato quelle giornate per i bambini».
«Il figlio di Werner, Jan Hagg, è un massone», proseguì Cato Isaksen.
«Anch’io sono massone, ma non facciamo parte della stessa loggia. Non ho alcun rapporto con lui. Non ho alcuna voglia di tenere i contatti con miei ex pazienti o con i loro figli. Lo vedi come possono andare, queste cose. Di che cos’è che dovremmo avere paura, esattamente? Io non riesco a fare un collegamento immediato!». All’improvviso sembrò disperato, come se non riuscisse più a nascondersi dietro la sua maschera.
Cato Isaksen si impietosì. «È quello che stiamo cercando di scoprire. Puoi raccontarmi qualcosa su Ole Porat?»
«Ole Porat? Lo ricordo soltanto vagamente. Uno studente di medicina. Non ho nulla da aggiungere».
Cato Isaksen lo guardò. «Abbiamo parlato con la tua segretaria di allora, Berit Adamsen».
«Lasciatela in pace, Berit Adamsen».
«Perché mai? Che ruolo svolgeva?»
«Era Berit che distribuiva gli psicofarmaci. Era lei a occuparsi un po’ di tutto. Sebbene lavorasse come segretaria, aveva studiato per fare l’infermiera. Ma non avrebbe mai dovuto fare quel tipo di lavoro».
«Perché no? Jan Hagg dice che aveva un cuore grande come una casa. Poi smise di botto di lavorare, dopo la morte di Maike».
«Sì». Hammer incrociò le mani e se le poggiò sulle ginocchia. «Mi sono pentito di averle lasciato organizzare quella follia delle giornate per i bambini. Era una cosa che trasgrediva ai regolamenti ministeriali. Ma lei è riuscita ugualmente a imporsi. Lei e Norma».
«Che cosa intendi, esattamente?»
«Non ho nulla da aggiungere».
Cato Isaksen si avvicinò alla finestra e sollevò leggermente la tenda. Il capannello di curiosi si era sciolto ed era scomparso.
*
Philip Hammer se ne stava rinchiuso nella stanza degli ospiti. Fumava nervosamente, di nascosto, alla finestra aperta. Un tecnico con la tuta bianca era venuto a prelevargli un campione di dna. Gli aveva messo in bocca un tampone di cotone, e l’aveva infilato in una busta di plastica. Attraverso la porta chiusa, sentiva il poliziotto che parlava col nonno. Sarebbe dovuto tornare in Polonia proprio quel giorno, ma gli toccava rimandare. Bussarono alla porta. Ecco il poliziotto, che risultò simpatico. Gli disse che capiva che tutta quella faccenda doveva averlo messo a dura prova. Ma a Philip non piacque il fatto che gli chiedesse ripetutamente quando di preciso fosse arrivato dalla Polonia.
*
Mentre Cato Isaksen, a bordo dell’auto, passava accanto all’ex portineria e su per Trosterudveien, pensò a ciò che aveva detto Marian, ovvero che forse Jan Hagg era il padre di Philip. Ma Philip Hammer aveva i capelli biondissimi e non era particolarmente alto. Tra un paio di giorni avrebbero potuto lasciarlo tornare in Polonia; bastava che arrivasse il risultato del test del dna. Uno dei tecnici della Scientifica gli mandò un messaggio proprio mentre svoltava su Trosterudveien: Siamo stati al reparto di chirurgia dell’ospedale di Ullevål, e abbiamo prelevato del materiale da analizzare: camici da sala operatoria e calzature che si indossano durante le operazioni. I suoi colleghi erano scioccati, e domani Porat ritorna da Valdres. Quando Cato Isaksen ebbe raggiunto Tåsen, ricevette una telefonata di Marian.
Marian era a bordo del montacarichi. Lì dentro la copertura era pessima. La voce di Cato andava e veniva. Quando scese e si trovò nel grande magazzino del grigio edificio industriale, lo sentì meglio. Le scaffalature arrivavano fino al soffitto. Marian si fermò tra due di esse. «Emmy Hammer vuole tornare a casa, Cato. Per quanto tempo deve starsene nascosta nella nostra fabbrica della felicità?». Marian fissò il pavimento. Era ricoperto da un materiale lucido e morbido. «Vuole tornare dai genitori e dal figlio».
«Per adesso deve rimanere lì, Marian. I tecnici hanno scoperto che è stata la stessa persona ad agire in entrambi i luoghi. Sia Jan Hagg che suo padre sono tra i possibili sospetti. Ma io penso che adesso ci dedicheremo alle ricerche di Piet Hagg. È ovvio che per il momento Emmy Hammer deve rimanere nel nascondiglio segreto».
Marian vedeva Emmy sul monitor sotto il soffitto. La donna se ne stava apaticamente seduta a guardare una soap in televisione.
«Ci siamo allenate per un’ora in palestra. Sollevamento pesi. Pensavo potesse essere utile. Ma non sono riuscita a estorcerle nient’altro oltre a quella faccenda del figlio. Vorrei esserci anch’io alla riunione con Tønnesen. Non potresti mandar qui qualcun altro?».
Cato Isaksen guardò il tachimetro. Stava guidando troppo veloce. La macchina di fronte a lui frenò, e lui reagì istantaneamente. «Ok, Marian. Mando su qualcun altro. L’incontro con Tønnesen inizia alle sedici. Preleva un campione di dna a Emmy: l’attrezzatura la trovi lì da voi. Dobbiamo chiarire quella faccenda del figlio. Io devo andare alla loggia massonica. Voglio che tu vada dritta alla chiesa di Fagerborg a parlare con Norma Winther. Chiedile di quella faccenda del rossetto. Mi interessa sapere che impressione ti fa. Poi vieni qui da noi. Ovviamente riconsegni l’arma, e la riprendi domani prima di tornare da Emmy Hammer».
«Ma come, devo tornare di nuovo qui? Pensavo avessi bisogno di un investigatore in più. È per questo che mi hai fatto unire al tuo team?»
«È stato un ordine della responsabile del reparto». Cato Isaksen si guardò nello specchietto retrovisore. Sentì un desiderio oscuro che si impossessava di lui.
Dietro alla chiesa, attaccato alla parete, c’era il camper di Lilly Hausmann. Stando di fronte all’edificio non lo si vedeva, e inoltre era parcheggiato nel punto sbagliato, ma era comunque poco visibile per via di alcune macchine a noleggio parcheggiate una dietro l’altra lungo il parco. Il camper si trovava in quella posizione fin dall’inizio di agosto. Le ultime notti erano state più fredde. Lilly si stava infilando un paio di stivali australiani. Aveva soltanto un sacco a pelo, ma Norma le aveva dato un piumino d’oca. Lilly lavorava con i bambini e con gli adolescenti, coordinava dei gruppi di studio per i ragazzi ed era autorizzata a tenere delle messe per i giovani. Norma le aveva confessato che i bambini non le piacevano, e Lilly le aveva risposto che le avrebbe insegnato ad amarli. A quel punto Norma le aveva spiegato il perché, anche se doveva rispettare il segreto confessionale. Era come se in lei fosse scattato qualcosa. Doveva essere veramente pesante assistere a tutto quello cui Norma ancora assisteva. Gli esseri umani si potevano dividere in buoni e cattivi. A Gaustad c’era molto odio, e circolavano pettegolezzi e strane storie. Dal canto suo, anche Lilly era una bugiarda. Mentiva quasi su tutto, era fatta così, l’aiutava a tirare avanti. Lilly aveva iniziato a studiare infermieristica, ma si era sempre sentita molto attratta dalla Chiesa. Avrebbe preso un master in studi sul Cristianesimo. L’ufficio parrocchiale si trovava in fondo alla chiesa; quindi, tenendo il veicolo parcheggiato in quel modo, attaccato al muro, aveva accesso a internet anche da dentro il camper. Le sembrava che gli studi per diventare pastore non fossero eccessivamente difficili. Sapeva che Dio era dalla sua parte, ma quell’altro aspetto della sua personalità non era facile da gestire. Aveva così tanta energia in corpo, così tanta forza di volontà e rabbia. Si allenava in tecnica di lotta israeliana, il Krav Maga. Norma era così gentile da prestarle la macchina quando doveva andare ad allenarsi, perché il club si trovava giù a Grønland dentro alcuni vecchi locali. Molti pensavano che si imparasse a fare a botte, in club come quello, ma era l’esatto contrario. Si imparava a difendersi, a sottrarsi alle situazioni pericolose e a evitare di venire alle mani. La filosofia di base era quella di fare del mondo un luogo più pacifico, ma Lilly non si fidava di se stessa e dell’uso che avrebbe potuto farne.
Norma la invitava sempre più spesso all’interno della canonica. Le faceva un sacco di complimenti, diceva che era brava con i fiori, che la chiesa non era mai stata adornata con tanta cura, e che ci si poteva fidare di lei. Lilly amava le grandi stanze della canonica: le tende, le cassettiere alte con i ninnoli d’argento e i vasi in cima, e la cucina spaziosa, nella quale Norma faceva sfoggio delle sue doti di brava massaia. Ma quando arrivò quella confidenza, quella sul fatto che la malvagità si celasse sotto una mano di bianco, come la chiamava Norma, Lilly sentì che tutta quella faccenda aveva un che di inquietante. E che preferiva non sapere.
*
Asle Tengs fece capolino dall’ufficio mentre Cato Isaksen si dirigeva rapido verso il proprio. «Ho trovato un agente che andrà subito a dare il cambio a Marian per fare da guardia nel nascondiglio segreto».
«Bene. Allora potrà partecipare alla riunione con Tønnesen». Asle lo guardò come se volesse passarlo ai raggi X con gli occhi. Ma giravano dei pettegolezzi? Che diavolo stava succedendo?
A Cato Isaksen quella notizia fece l’effetto di un pugno in pancia. Per un attimo si vide davanti la testa china di lei. Il suo collo era bianco e morbido come la seta. Asle Tengs proseguì: «Ultimo aggiornamento. A casa di Jan Hagg hanno trovato delle galosce di una misura che corrisponderebbe. Ora Ellen le sta esaminando per vedere se possiamo ricollegarle a entrambi gli omicidi. La moglie dice che Jan ne ha un altro paio identico al primo, che lui tiene presso l’agenzia funebre. Sembrava come se si fosse pentita subito dopo avercelo detto. Corrispondono alle impronte nel giardino di Aud Johnsen, e a quelle che sono state trovate fuori dalla casa di Emmy Hammer. Ma come diceva Ellen, ci sono una marea di sostanze chimiche all’agenzia di pompe funebri con le quali far sparire ogni tipo di traccia. In questo momento, i tecnici della Scientifica stanno setacciando i locali dell’agenzia. Ah, un’altra cosa». Fece una piccola pausa. Cato Isaksen aggrottò la fronte. «Che cosa?»
«Piet Hagg ha cambiato nome il giorno in cui ha compiuto diciotto anni. Ho qui una copia del certificato relativo: adesso si chiama Per Hansen».
*
Roger Høibakk li raggiunse. «Sono pronto per la loggia massonica. Mi sono fatto fare un mandato di perquisizione».
«Ci sono centinaia di persone che si chiamano Per Hansen», proseguì Asle Tengs, «ma ora abbiamo il suo numero di codice fiscale. Non riesco a trovare il suo indirizzo di residenza. Non risulta nulla neanche al nav28, quindi Dio solo sa di cosa vive».
«Dev’essere un criminale. Altrimenti come farebbe a cavarsela?», disse Roger.
Cato Isaksen diede un’occhiata all’orologio. «Adesso c’è troppa carne al fuoco. Una cosa per volta. Prima quattro chiacchiere con Jan Hagg, poi la loggia massonica, e dopo l’agenzia di pompe funebri: voglio vederla con i miei occhi. E poi l’incontro con Tønnesen alle sedici. Marian verrà giù. Asle, chiedi a Irmelin di cercare una fotografia di Piet Hagg, alias Per Hansen? Così diramiamo un mandato di ricerca nei suoi confronti».
In quel momento il difensore che Jan Hagg si era fatto assegnare venne loro incontro per il corridoio. Un uomo giovane, pallido, con un completo troppo abbondante. Aveva le guance rosse per l’emozione; tese la mano per salutare. «Ho parlato adesso con il mio cliente, che dice di non aver nulla a che fare con l’omicidio. Il fatto che Jan Hagg abbia mentito a sua moglie dicendo che era in palestra non è particolarmente rilevante, dal momento che molte persone rispettabili gli forniscono un alibi. Il mio cliente si trovava alla loggia, quando quella donna è stata uccisa».
«Tanto si tengono sempre bordone a vicenda. Che razza di fiducia possiamo avere in quel tipo di gente?». Cato Isaksen era sarcastico. «Sono emersi degli elementi nuovi in questa indagine. Al tuo cliente sono state confiscate delle scarpe, e su entrambe le scene del delitto abbiamo trovato impronte lasciate dallo stesso tipo di calzatura».
L’avvocato lo guardò.
«Vogliamo parlarne subito con Jan Hagg e l’avvocato di polizia. Se vuoi, puoi venire giù con noi».
L’avvocato guardò l’orologio. «Ho un appuntamento», disse, si girò e si allontanò per il corridoio.
Mentre erano in ascensore e stavano scendendo nel sotterraneo, Roger disse: «Ho delle informazioni da parte della compagnia telefonica. Emmy Hammer ha telefonato a Jan Hagg alle venti e trentuno, come lei stessa ha riferito. A quel punto, le due donne avevano già finito di cenare. Il telefono di Emmy Hammer è rimasto collegato alla stessa cella telefonica anche nelle ore successive; quindi ciò che ha dichiarato era vero. Ha detto anche che verso le undici di sera era di nuovo a casa. Werner Hagg è passato per il casello su Mosseveien alle 21:26, e poi è ripassato di lì poco dopo le 23. Le sue impronte digitali sono state rilevate sul campanello di Aud Johnsen. Io ho verificato quell’incontro notturno della loggia massonica. È vero che Jan Hagg vi ha preso parte, ce lo hanno confermato un paio di fratelli di loggia con cui abbiamo parlato. Però non è detto che quest’alibi non sia fasullo. Potrebbero aver agito insieme, lui e il padre. Ma c’è anche un’altra cosa: Berit Adamsen dice che lei il 31 ottobre si trovava su a Krokskogen. La verità è che lei quel giovedì è passata per il casello di Lysaker alle 21:45».
*
Jan Hagg sedeva sulla panca di legno sotto la fredda luce al neon. Cato Isaksen e Roger Høibakk lo sovrastavano. «Abbiamo parlato con il tuo avvocato», disse Cato Isaksen. «Naturalmente dopo parteciperà alla riunione per il tuo fermo, e non sappiamo ancora bene se verrà emessa l’ordinanza di custodia cautelare in carcere. Vado subito al sodo: i registri del casello autostradale dimostrano che tuo padre si trovava a Oslo all’ora del delitto. E le sue impronte sono state rilevate sul campanello di Aud Johnsen».
Jan Hagg scosse la testa. All’improvviso sentì il tepore delle lacrime agli occhi. «Io aspetto la riunione per il mio fermo. Il mio avvocato mi ha consigliato di non dire nient’altro».
Cato Isaksen proseguì: «Tuo fratello se ne andava sempre in giro con il coltello. E ha cambiato nome».
Jan Hagg alzò lo sguardo verso di loro. «Sospettate di Piet? Come si chiama adesso?»
«Per Hansen», disse Roger Høibakk.
«Per Hansen?». Jan scosse la testa. «Il coltello lo usava soltanto per intagliare il legno. Si tratta di un nome comunissimo. È come se volesse nascondersi, sparire».
Jan Hagg alzò la mano destra e se la portò al petto. «È da quando sono scappato da quel collegio che non vedo Piet. Il Dalai Lama una volta ha detto: se uno ha un problema e non ci può fare nulla, perché preoccuparsi?».
Cato Isaksen lo osservò a lungo. «E quindi non ti preoccupi?»
«Certo che mi preoccupo. Era una metafora. Ogni tanto ci ho pensato, a lui».
«Ci hai pensato? Al passato?»
«Ho avuto un’infanzia e adolescenza da incubo. Piet ne faceva parte. È meglio per me non averci a che fare. Lo so che è la risposta sbagliata, ma è la verità».
Cato Isaksen e Roger Høibakk si scambiarono uno sguardo prima che Cato proseguisse. «Sei un Fratello favorito di Salomone?»
«Sì».
«Ma non sei troppo giovane per avere un titolo del genere?»
«In effetti… Posso vedere Emmy Hammer?».
Cato Isaksen lo scrutò. «Per quale motivo?»
«Da qualche parte c’è un uomo pericoloso che si aggira a piede libero, mentre io me ne sto chiuso qui dentro».
Cato Isaksen proseguì: «Nella loggia massonica ci sono avvocati, dottori, dirigenti, liberi professionisti, banchieri e anche psichiatri», aggiunse. «Eri in cantina il giorno che morì tua sorella?»
«No, non c’ero».
Jan Hagg si raddrizzò e fece un sospiro profondo.
«Il tuo mantello, dove lo tieni?»
«Si trova nel mio armadio presso la loggia. Capisco che uno possa dare importanza a questa faccenda del mantello se non la si osserva nel giusto contesto».
«Quale contesto?»
«Noi abbiamo delle cerimonie, ci sosteniamo a vicenda per rafforzare la fiducia in noi stessi. La segretezza ha soltanto un valore pedagogico: nessuno deve conoscere il contenuto dei rituali prima di averne fatto esperienza diretta. Noi ci appoggiamo gli uni con gli altri; si tratta di amicizie personali con altri uomini. Io ne avevo bisogno, con i miei trascorsi».
«La morte è un elemento importante, per voi», disse Cato Isaksen. «Teschi e bare. Sarà più facile per te se ci dici la verità. Quand’è che hai usato il mantello per l’ultima volta?».
Jan chinò la testa. «Il 31 ottobre. La sera di Ognissanti».
*
L’auto-civetta svoltò intorno al Parlamento, rallentò e seguì i binari del tram lungo l’edificio che era stato di proprietà della massoneria. Cato Isaksen non riusciva a togliersi dalla testa quell’elemento nuovo su Berit Adamsen, ma ora doveva concentrarsi. Roger Høibakk se ne stava seduto a leggere sul suo iPad. Cato Isaksen stringeva il volante con gli occhi rivolti alla facciata giallo-arancione. «È un edificio imponente, questo qui. Stavo pensando alla faccenda di Berit Adamsen e del casello. Forse è andata alla casetta nel bosco perché ha avuto paura? Aud Johnsen ha cercato di raggiungerla per telefono, e lei ha ammesso che la cosa le ha dato fastidio. A proposito, qui è assolutamente impossibile parcheggiare».
«Allora salgo sul marciapiedi. Hai visto su internet?»
«Che cosa?»
«Uno dei luminari della psichiatria ha appena dichiarato che i criminali violenti dovrebbero andare in prigione. Fin troppi se la cavano con un trattamento sanitario obbligatorio. Sono faccende pericolose. Non è cambiato nulla. I criminali e gli assassini finiscono nel limbo, a metà tra la psichiatria e i tribunali».
«È pazzesco che la giustizia possa non mandare in galera assassini, violentatori e criminali pericolosi a causa della loro incapacità di intendere e di volere. Che stupida, questa Norvegia. Affidare tutto alla buona volontà delle persone non può mai essere la soluzione. E la gente dovrebbe saperlo».
«La gente lo sa eccome». Roger si girò e guardò all’indietro. «Sta arrivando il tram, Cato».
Parcheggiarono la macchina sul marciapiedi con il lampeggiante acceso. Roger tirò fuori l’attrezzatura per i rilievi tecnici e una scatola di cartone. Salirono la scala di granito, e Cato Isaksen tirò a sé la massiccia porta di quercia e la tenne aperta per il collega. Entrarono in un piccolo ingresso, dal quale si proseguiva attraverso due porte vetrate. Nell’atrio sedeva un usciere, un uomo oltre la cinquantina con il gel nei capelli. Cato Isaksen gli mostrò il suo badge. «Siamo della polizia. Dobbiamo prelevare qualcosa da un armadio».
«Non posso così, senza…». L’usciere li guardò come se fosse il guardiano di un tesoro segreto. La sua voce echeggiò.
«Abbiamo qui un mandato di perquisizione». Roger gli porse il foglio.
«Ma io non ho le chiavi degli armadi privati».
«Ci pensiamo noi. Abbiamo capito che la sera di Ognissanti qui ha avuto luogo un incontro».
«Sì, ce ne sono sempre».
«Si tratta di un omicidio. È una cosa urgente. Dove si trovano gli armadi privati? Dobbiamo esaminare quello di Jan Hagg».
Cato Isaksen iniziò a salire su per la scalinata di marmo.
«No, no, si trova giù, al piano del guardaroba. Lassù c’è la sala principale».
*
Lo scantinato era pieno di corridoi fiancheggiati da piccole stanze. C’era qualche tavolino con le sedie ricoperte di velluto marrone. Lungo le pareti dei corridoi c’erano file di armadi. Le porte di legno erano in massello di quercia e le serrature d’ottone. L’armadio numero 988 era quello di Jan Hagg. Lo forzarono. Dentro c’era un mantello bianco e lucido, insieme ad alcuni oggetti: un teschio e una catena. Roger Høibakk sghignazzò. «Davvero patetici». Si mise i guanti e tirò fuori una grossa busta per reperti dentro la quale infilò il mantello con la grande croce maltese. Poi mise tutto quanto dentro uno scatolone di cartone.
Marian Dahle, a bordo dell’auto noleggiata, entrò nel centro di Oslo color grigio sporco. Sul sedile del passeggero giaceva l’arma coperta da un giornale, e accanto c’era anche il tubetto di plastica con dentro il tampone con la saliva di Emmy Hammer. Birka dormiva sul sedile posteriore. Presto il traffico pomeridiano si sarebbe intensificato. Le code cominciavano a formarsi sempre prima. L’abitacolo era invaso dall’odore dei gas di scarico. Poco prima, Randi le aveva dato gli ultimi aggiornamenti: Piet Hagg aveva cambiato nome, Werner Hagg era stato registrato al casello la sera dell’omicidio, e Berit Adamsen aveva lasciato la città diretta verso Krokskogen all’incirca alla stessa ora. Tutta quella storia era un groviglio di fili e frecce che puntavano in tutte le direzioni. Ma presto sarebbero arrivati a una svolta. Doveva esserci qualcosa che non riuscivano a vedere. L’omicidio di Maike Hagg stava per cadere in prescrizione. La sua morte in cantina doveva essere un elemento cruciale. Marian aveva la sensazione che ci fosse di mezzo un tradimento, e dell’odio. E della paura. Quando le cose sono così semplici che la polizia non le vede, c’è della genialità. Gli assassini spesso sono freddi e calcolatori. Si trattava di agire come il domatore di leoni, uno che entra nell’arena completamente allo scoperto e senza paura.
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Avevano spiegato brevemente a Ingrid Hagg perché Jan Hagg fosse stato trattenuto, come si esprimevano loro. Forse Werner stava proteggendo suo figlio? Era possibile che Jan fosse una persona diversa dal marito che lei conosceva? Era un pensiero intollerabile. Entrò nella saletta dove si trovava il morto, si sedette sulla sedia da lavoro e cominciò a spazzolare via i peletti che erano rimasti dopo aver fatto la barba all’uomo, che aveva le guance incavate. Intanto canticchiava di gola a bocca chiusa, in maniera quasi ossessiva. Qualche volta, mentre lavorava con i morti, si immaginava di essere lei stessa, a giacere nella bara. Allora doveva scacciare quell’immagine e concentrarsi su ciò che stava facendo.
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Cato Isaksen parcheggiò nel cortile posteriore di Welhavensgate 16. Gli investigatori entrarono in un androne pitturato di recente, con delle mattonelle bianche e nere sul pavimento. L’agenzia di pompe funebri “Vita” si trovava al primo piano. Presero l’ascensore per salire, varcarono la porta bianca e si trovarono in una specie di anticamera. Il locale era luminoso, quasi spoglio, con le pareti beige. C’erano alte finestre all’antica con delle tende decorate a foglie grigie, e un divano di pelle. Inoltre c’erano un tavolo con un vaso di fiori bianchi (l’odore dolciastro di certo non proveniva di lì), e due sedie. Un quadro che ricordava un poster era appeso tra due porte semiaperte nel corridoio. Ingrid Hagg uscì da una delle stanze con indosso un grembiule di plastica e una cuffietta verde in testa. Era ben truccata e sembrava tranquilla. «È appena venuta la polizia. Scusate, ma sono nel bel mezzo di un lavoro», disse. Loro capirono a cosa si riferisse.
«Quelli erano tecnici della Scientifica. Noi siamo del reparto tattico». Sorrise per rincuorarla.
«Tu ti occupi di preparare i cadaveri», constatò Cato Isaksen. «Di queste cose ce ne intendiamo».
«Le ferite dei morti non si rimarginano», disse. «Si possono soltanto coprire con camicie dal collo alto, con la capigliatura o con un trucco pesante».
«Dobbiamo chiederti una cosa: come sta tuo marito dal punto di vista psichico?».
Ingrid Hagg lo guardò. «Molti lo trovano scostante e freddo perché non mostra sentimenti. Ma non è così».
«Ah no?»
«Che sia triste o arrabbiato, si comporta esattamente allo stesso modo. Non ha alcuna importanza che gli facciano delle critiche o delle lusinghe. È silenzioso, molto riservato. Non si arrabbia mai».
«Davvero?»
«Non perché sia indifferente. È soltanto un modo per proteggersi».
«In che senso, proteggersi?»
«Naturalmente sto facendo della psicologia da quattro soldi. Ma siccome ha avuto un’infanzia difficile, non usa il suo tempo per rimuginare: vuole soltanto vivere una vita tranquilla e serena».
«Ciò che non capisco del tutto…», disse Cato Isaksen sbirciando dentro un ufficio ordinato, con una bacheca piena di foglietti e un ritaglio di giornale appeso alla parete alle spalle della scrivania, «…insomma, la cosa strana è che un evento del tutto inoffensivo come una chiacchierata al Theatercaféen possa aver scatenato un omicidio e un tentato omicidio. Sembra una cosa senza senso. La giornalista che è stata uccisa riteneva che tuo marito…».
«Sì, me l’hanno riferito. Non può essere vero! Ora devo andare a casa dalle mie bambine». Si tolse il grembiule verde e la cuffia dalla testa.
«Aud Johnsen voleva scavare nel passato, e scriverci un articolo».
«Mio suocero colpì sua moglie, che cadde e morì. Lui dice che fu un incidente». La donna si chinò a sistemare i fiori sul tavolo. «L’ha colpita a morte con un’accetta e poi ha dato fuoco alla casa», proseguì. «Ma posso dire in tutta onestà di non aver mai avuto paura di lui».
«Tuo suocero si trovava a Oslo quando è stata uccisa Aud Johnsen», disse Cato tranquillamente.
Ingrid Hagg si raddrizzò. Meccanicamente, come una bambola. «Allora potete lasciare andare Jan, se è Werner il colpevole, no?».
La musica d’organo riempiva la chiesa con note dolci, un po’ tristi. Il metallo dell’arma che portava infilata sotto la cintura era freddo a contatto con la pelle. All’improvviso Marian Dahle ebbe la sensazione che da qualche parte, alle spalle del pulpito, si nascondesse qualcosa di molto pericoloso. Oltre la grande vetrata con il Salvatore tra le braccia della Vergine Maria, c’era un buio assoluto. Marian era armata, all’interno di un luogo sacro. All’improvviso le venne voglia di sparare al Bambino Gesù in grembo a Maria. Quella sì che sarebbe stata una bomba! Un sorrisetto obliquo le attraversò le labbra. Il presbiterio sembrava un recinto. Guardò il cuscino di velluto ovale posto lungo la balaustra con i suoi archetti: era una recinzione intorno al sacrario. Era lì che la gente si sposava, inginocchiandosi e promettendosi cose che non poteva mantenere. Lei non lo avrebbe mai fatto. Ma che razza di donna era? Imprigionata in una mediocrità piccolo-borghese, nelle convenzioni che governavano tutto quanto, e che stabilivano cosa fosse lecito fare.
La musica era cessata. Lei si girò istintivamente. Per il corridoio della navata centrale stava arrivando una donna di poco più di vent’anni, un po’ robusta e dai capelli chiari. Si presentò come Lilly Hausmann. «Io sono la catecheta. Veramente stavo lucidando la balaustra». Con il capo indicò il legno lucido della recinzione, e prese da terra una scatola che conteneva della cera. Quando, dopo aver svitato il coperchio, estrasse uno straccetto dalla tasca e cominciò a strofinare, si diffuse un forte odore di cera lucidante.
«Qui sono venuti diversi poliziotti. Lo sapete adesso chi è l’assassino?».
Marian scosse la testa. Cercò di ricordarsi qualcosa, ma il ricordo le sfuggì. «C’è stata una svolta negativa, in questo caso». Il silenzio della chiesa attutiva il suono delle loro voci, come se un silenziatore ne mantenesse basso il volume. «Devo fare due chiacchiere con Norma Winther», disse. «Me ne stavo semplicemente a riflettere su tutti quelli che si sono sposati in questo posto».
Lilly Hausmann accennò un sorriso. «Tu sei sposata?»
«Ho soltanto trentasei anni. Nessuno è costretto a sposarsi oggi, a differenza di vent’anni fa…».
«Nessuno era costretto a sposarsi neanche vent’anni fa».
Marian pensò a Emmy Hammer.
«Che cos’è che spinge una ragazza come te a lavorare in chiesa?»
«È un lavoro affascinante. Per molti anni ho abitato in campagna. Ora vivo in città. La gente pensa che sia un’occupazione noiosa; io però sono una ragazza molto nella norma che fa anche delle cose inusuali».
«Che tipo di cose inusuali?». Marian osservò Lilly Hausmann. Sembrava una contadinella.
«Non mi va di spiegartelo. Non lo capiresti».
«Dai, prova», disse Marian.
«Mi alleno in lotta israeliana. Si chiama Krav Maga».
Marian inghiottì. «Allora sai cos’è lo strangolamento da dietro?», le scappò di bocca.
«Certamente. Al momento ci stiamo esercitando proprio in quello. Alcuni trovano strano che io, che lavoro in chiesa, mi alleni in una disciplina di autodifesa. Ora ti porto da Norma», disse.
*
Vorrei sapere che impressione ti fa il pastore, aveva detto Cato. Ma non l’aveva preparata a quanto trascurata e mascolina fosse quella donna. Norma Winther indossava una maglia di lana mélange. Sembrava stanca. La pregò di accomodarsi.
Marian gettò uno sguardo fuori dalla finestra. Quella chiesa non aveva un cimitero. Nel momento in cui si sedette, sentì l’arma che le premeva contro la pelle del ventre. «Oggi scatta la custodia cautelare per Jan Hagg», iniziò. «E arresteremo di nuovo suo padre, Werner».
Norma Winther impallidì. Spostò da un lato un vassoio con un piatto vuoto sporco di ketchup. «Non so cosa dire».
«Ti ricordi Emmy Hammer?».
Norma Winther sollevò le mani robuste, e le poggiò sul tavolo. Si sporse leggermente in avanti. «Certo. Ho sentito che ci sono stati degli spari a Trosterudveien».
«Non è morta. Non ancora», aggiunse Marian, e guardò le tozze mani del pastore che stringevano la tazza.
Norma Winther le tirò a sé. «La prima volta che ho visto Jan, se ne stava a fumare fuori dall’edificio con gli spazi comuni. Era estate, i prati erano verdi e gli alberi pieni di foglie. C’era in lui qualcosa di pericoloso, qualcosa di vulnerabile. Era bello. Sono queste le cose che fanno innamorare le ragazzine». Sorrise. «Poi morì Maike».
«Se si trattò di omicidio, la prescrizione scatta tra qualche giorno». Marian unì le punte delle dita. «La ragazzina aveva la bocca impiastricciata di rossetto, quando fu trovata. Questo fatto non ce l’avevi raccontato».
Norma Winther arrossì. «Di questo devi parlare con Berit Adamsen».
«Perché mai?», incalzò Marian.
«Perché fu Berit Adamsen a trovarla. O per lo meno, io ho capito così. C’era lei lì, quando arrivò il personale dell’ambulanza».
«E tu?»
«Io arrivai dopo, quando i bambini e alcuni dipendenti si erano già radunati presso la porta della cantina, e l’ambulanza stava ripartendo».
«Emmy Hammer dice che quando aveva quindici anni l’hai aiutata, per un periodo».
«Certo, era rimasta incinta».
«E non vuole dire di chi. Tu lo sai, per caso?»
«No». Norma Winther si irrigidì. «Ma anche se lo sapessi, c’è il segreto professionale. E comunque con Emmy Hammer non ho più nulla a che fare».
«L’altro figlio di Werner Hagg, Piet, ha cambiato nome. Adesso si chiama Per Hansen».
«Questo non lo capisco proprio. Non dovete chiedermi ancora di aiutarvi. Io non so nulla. A Gaustad sono successe cose terribili fino agli anni Novanta inoltrati», le sfuggì di bocca.
«Che tipo di cose?».
Era chiaro che la donna si era già pentita delle proprie parole. «La psichiatria è sopravvalutata: pensare che la mente umana si possa alterare… In realtà ci sono esempi di follia molto diffusi», proseguì. «Prendi l’autolesionismo, ad esempio. Non si tratta di un tentativo di suicidio, al contrario: è un modo per essere padroni della propria vita. Provocarsi un dolore per poi soffocarlo».
«Intendi dire che qualcuno tra le persone coinvolte praticava l’autolesionismo?».
Norma Winther si alzò di scatto. «Attraverso gli anni ho avuto tante di quelle conversazioni con la gente, che spesso mi sono sentita inadeguata. Alcune mattine quasi non ce la faccio ad andare al lavoro. Penso che se me ne rimango ferma ferma, magari svanisco nel nulla. Entriamo gli uni nella sfera degli altri. Tutti quanti. E ciò crea turbamento. Ora però devo lavorare».
Marian la osservò con i suoi occhi sottili. «Ho soltanto un’ultima domanda; poi vado a prendere il mio cane in macchina e gli faccio fare un giretto qui intorno. Ole Porat, te lo ricordi?».
Norma Winther incrociò il suo sguardo. «Certo. Era l’apprendista di Carl Hammer. Un tipo belloccio e superficiale, che non mi andava particolarmente a genio. Permettevano che vivesse nel locale caldaie. Penso che non pagasse neanche l’affitto».
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John Johnsen sentiva crescergli dentro un senso di impotenza e di rabbia, ma Vanja era lì, seduto al solito caffè di Oslo S, e guardava dritto di fronte a sé come se niente fosse. E infatti non era successo un bel niente, pensò John Johnsen. Estrasse una sedia da sotto il tavolo e gli si sedette di fronte. Per un po’ rimase così, immobile. Poi Vanja disse: «Next time. Soon. Please go29».
John Johnsen si infilò una mano in tasca e ne estrasse un foglietto con il numero di cellulare della donna dal naso aquilino. «Chiama questo numero, quando avrai fatto». Lo fece scivolare verso Vanja, che lo prese. La sua vicina degli orti comunali aveva detto che si sarebbe prestata a fare da souffleuse, quando ce ne fosse stato bisogno. Naturalmente ignorava di cosa si trattasse, ma si era già annotata quella parola su un tovagliolino di carta a fiori. «Ti verrà data una parola d’ordine», disse al lituano. «Così capirai dove si trovano i soldi». L’anziano si alzò e si allontanò. Erano solo due giorni che aveva smesso di prendere le medicine e stranamente già sentiva un cambiamento. Uomini della sua risma, altri fuori di testa in fuga, gli passavano accanto. Li vedeva ovunque. Pensava di non aver più neanche un briciolo di sentimento. Ma continuò per la sua strada, chino da un lato. Era come se una grande mano lo stesse spingendo in avanti. Non sapeva bene se qualcuno stesse tenendo d’occhio la sua casetta negli orti. Aveva sparpagliato dei semi di girasole sul pavimento e li aveva schiacciati, affinché somigliassero a ragni morti.
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Mentre si dirigeva su verso Bryn con la scatola che conteneva il mantello, il teschio e la catena, a Roger Høibakk venne in mente una cosa. Emmy Hammer aveva detto che la sera in cui era di ritorno dal Theatercaféen aveva visto un uomo con un cane da caccia. C’era una macchina parcheggiata in strada, e un uomo le era passato accanto correndo col suo cane. Ole Porat andava a caccia! Di certo doveva avere un cane di quel tipo. Mandò un sms a Cato, che si trovava in tribunale.
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Jan Hagg fece la sua comparizione davanti al magistrato alle 14:00. Nello stesso istante, suo padre era a bordo di una volante che lo stava portando a Oslo. Durante la seduta per la sua carcerazione preventiva, Jan Hagg dichiarò di essere assolutamente esterrefatto che lo avessero indagato: cosa che del resto diceva la maggior parte degli assassini, pensò Cato Isaksen. Continuava a dire che era assolutamente assurdo immaginare che avesse collaborato col padre. Non gli credettero, e dunque fu emesso un mandato di custodia cautelare in carcere nei suoi confronti. Per il momento il provvedimento aveva la durata di una settimana e prevedeva l’isolamento assoluto, soprattutto per impedirgli di consultarsi col padre. Pochi minuti dopo, i giornali online riportavano la notizia che padre e figlio erano complici nell’omicidio e nel tentato omicidio. Cato non ne era sicuro. Arrivò il messaggio di Roger su Ole Porat e il cane da caccia, segnalato da un bip del suo cellulare. Una sensazione sgradevole gli si annidò nella nuca indolenzita e tesa.
Malgrado la stagione, il sole era così intenso che Cato Isaksen dovette tirare le tendine. La sala riunioni assunse un’atmosfera buia e cupa, tipica dei pomeriggi autunnali. La luce da fuori metteva in evidenza il disegno a righe delle tende. Cominciarono lentamente a entrare gli investigatori. Cato Isaksen aveva anticipato la riunione di un’ora. Su internet ormai circolava il mandato di ricerca per Per Hansen, alias Piet Hagg, accompagnato da una foto pubblicata da «Aftenposten» a suo tempo, che lo ritraeva seduto su dei gradini insieme al fratello, al padre e a vari membri del personale. Non erano riusciti a procurarsi alcuna foto di lui da adulto. Né Jan, né Werner Hagg avevano una sua immagine, o almeno così dicevano. L’incendio aveva distrutto le foto dei bambini, e nessuno l’aveva più visto da quando aveva quindici anni. Ormai erano arrivati quasi tutti e diciotto. Marian sedeva in fondo al tavolo allungato. Aveva ancora l’arma infilata nella cintola. Cato guardò il team riunito, puntò con il dito sulla rubrica del telefono e toccò la lettera “T”. Trovò Karsten Tønnesen, premette il pulsante, si portò il cellulare all’orecchio e voltò loro le spalle. Il telefono squillò a vuoto. Cato Isaksen si passò la mano sulla fronte. Alla fine rispose una voce profonda. «Pronto, sono Tønnesen». Si sentiva come se gli stesse accanto. «Karsten», disse Cato. «Puoi venire giù un po’ prima del previsto?»
«Posso venire adesso. Prendo un taxi al volo».
«Perfetto. Allora io nel frattempo riassumo la situazione allo staff». Si schiarì la voce e iniziò: «Si sta avvicinando a grandi passi il venticinquesimo anniversario della morte di Maike Hagg. Tra quindici giorni, il caso cadrà in prescrizione. Ho parlato con il capo del reparto, e ho chiesto di aprire una nuova indagine. Ci mettiamo al lavoro ora. Diciamo pure che il caso verrà riaperto. Dobbiamo fare in modo che lo scrivano i giornali, così da spaventare l’assassino e far sì che non dia la caccia a Emmy Hammer». Tracciò dei grandi cerchi col pennarello rosso sulla lavagna bianca. «Il dna non corrisponde a nessuno tra quelli presenti nella banca dati della polizia. Questo significa che non abbiamo a che fare con un criminale già noto. Siamo riusciti a ottenere una custodia cautelare della durata di una settimana per Jan Hagg, ma nel frattempo continuiamo a lavorare. È possibile che padre e figlio abbiano agito insieme? Werner Hagg ha ammesso di essersi recato sul luogo del delitto la sera che fu uccisa Aud Johnsen. Per parlare, dice lui. E da Emmy Hammer. Anche in quel caso, per parlare. È credibile?». Guardò il gruppo riunito. «La spedizione notturna in città di Werner Hagg, le impronte digitali sul campanello di Aud Johnsen e la visita a Emmy Hammer sono state tutte verificate. Abbiamo localizzato impronte dello stesso paio di calzature in entrambi i luoghi. Werner Hagg però porta il numero quarantasette, e dunque non può aver indossato scarpe corrispondenti alle impronte rilevate. Invece il figlio porta una misura compatibile con le orme. E anche Ole Porat. Siamo andati a prendere le sue calzature all’ospedale».
Cato Isaksen guardò i colleghi. «Dobbiamo concentrarci su Jan e su Porat». Si grattò la nuca. «Sono state trovate e rilevate svariate altre impronte lungo il sentiero dietro alla casa di Hammer, ma sono impronte parziali per via del fogliame e di diversi detriti nel sottobosco, quindi la Scientifica sta lavorando per confrontarle con le altre che abbiamo. Un esame delle scarpe di John Johnsen ha mostrato che non coincidono con le impronte di cui siamo in possesso, e neanche con i campioni di terriccio delle due scene del crimine», proseguì. «In realtà neanche sugli stivali di Jan Hagg c’era terra proveniente da quei due luoghi. Ma, come sottolinea Ellen, presso l’ufficio di pompe funebri ci sono svariate sostanze che possono averle rimosse. Inoltre è possibile che abbia indossato dei copriscarpe di plastica. Del resto, anche Ole Porat ha a disposizione tutti i copriscarpe di plastica che vuole. Inoltre il chirurgo avrebbe avuto la possibilità di nascondere alcune cose su a Valdres. La Scientifica è stata coadiuvata dalla polizia locale, che ha aiutato a perquisire il suo chalet e gli altri luoghi che lui frequenta, da quelle parti. Ma per ora senza esito. Non siamo ancora riusciti a trovare delle falle nel suo alibi. Appena torna giù domani, lo andiamo a trovare. Ma torniamo alle tracce: il cane ne ha seguite alcune che si dirigevano verso il comprensorio dell’ospedale di Gaustad. Il colpevole dev’essere scappato in quella direzione. Pensiamo che poi abbia preso un tram di lì verso il centro. Abbiamo sentito il conducente, ma non ne è uscito nulla. E non so se dovremmo dare molto peso al fatto che Berit Adamsen quella sera è passata per il casello».
Marian prese la parola: «Io sono appena stata da Norma Winther. Lei insiste che è stata Berit Adamsen a trovare Maike Hagg morta».
Cato Isaksen la guardò. Un raggio di sole riuscì a intrufolarsi attraverso la fessura tra le tendine, e si riflesse in uno specchio allungato accanto alla porta della sala. Sulla parete si diffusero rombi e prismi di tutti i colori dell’arcobaleno.
«Se Berit Adamsen non si sbriga a venire giù, dobbiamo mandare degli uomini a prenderla. Voglio sapere se è stata davvero lei a trovare Maike». Poi tracciò dei cerchi rossi sulla lavagna. «Dobbiamo continuare a lavorare sulle tracce di rossetto trovate sulla ragazzina. Adesso raggruppo le persone in modo tale da evidenziare i collegamenti». Cato Isaksen tracciò un nuovo cerchio e vi scrisse Maike Hagg. Nel successivo scrisse Aud Johnsen e Emmy Hammer. Poi fece un altro tondo intorno ai nomi di Werner Hagg, Jan Hagg e Piet alias Per Hansen. In quello successivo scrisse Berit Adamsen, poi ne tracciò ancora uno con dentro Ole Porat, poi John Johnsen per conto proprio, e Norma Winther nell’ultimo. Dopodiché disegnò delle frecce per collegarli. Infine scrisse Carl Hammer, e lo sottolineò. «Quest’uomo è il trait d’union tra tutti gli altri».
«E Philip Hammer?». Asle Tengs si grattò il mento.
«Philip Hammer?». Cato Isaksen lo guardò. «È il figlio di Emmy Hammer. Gli abbiamo prelevato un campione di dna. Le cicche di sigaretta trovate sul luogo del delitto non sono sue. Faremo comunque un’analisi per stabilire se sia figlio di Jan Hagg». Poi guardò Marian. «Hai consegnato il campione di dna di Emmy Hammer al laboratorio?»
«Sì, l’ho mandato su all’Istituto superiore di sanità». Marian fece scivolare leggermente indietro la sedia, e poggiò le mani sulle cosce.
Cato Isaksen proseguì. «L’arma utilizzata a Trosterudveien è una calibro nove. Sono stati trovati anche due proiettili. Uno era conficcato nel muro, un secondo ha colpito la macchina di Emmy Hammer, e due bossoli sono stati ritrovati al limitare del bosco. Dobbiamo sforzarci di trovare Piet Hagg alias Per Hansen. Non sono arrivate segnalazioni credibili. Ma è anche vero che non abbiamo una sola foto decente di lui».
*
Karsten Tønnesen arrivò alle 15:35. Il perito psichiatrico della polizia era un uomo alto sulla settantina. Era abbronzato, di ritorno da alcune settimane in Thailandia, e indossava una camicia di flanella blu a quadri e pantaloni di velluto a coste un po’ fuori moda. Aveva una capigliatura folta, argentea. Dall’angolo della bocca gli partiva una larga cicatrice che scendeva giù per il collo.
Cato Isaksen lo presentò agli altri, lo ringraziò per essere venuto e fece brevemente il punto della situazione. L’aria nella stanza era opprimente. La lavagna parlava da sola. C’erano frecce in tutte le direzioni. Cato rimase in piedi, si strofinò una mano sotto il mento e guardò pensieroso l’uomo più anziano. «Ci dev’essere un collegamento con Gaustad. Ci devi aiutare, Karsten».
Tønnesen se ne stava con le braccia incrociate sul petto. Aveva una voce profonda e gradevole.
«Una bambina morta, una donna uccisa e un tentativo di omicidio ai danni della figlia di Hammer gettano una luce inquietante su tutta questa faccenda. I punti di contatto che state analizzando sono peculiari e interessanti. Del circolo per i bambini cui hai accennato non so nulla. E neanche di quella segretaria, Berit Adamsen».
«So che tu e Carl Hammer siete stati colleghi», disse Cato Isaksen tirando indietro una sedia e tornando a sedersi col resto della squadra. «Carl Hammer è un uomo severo, mi è sembrato di capire».
Karsten Tønnesen prese la parola. «Non è proprio esatto», iniziò. «Diciamo che c’erano parecchie forze al lavoro, lassù. Hammer era un uomo molto capace e rispettato. E lo è ancora. Aveva il coraggio di pensare in modo innovativo. All’epoca il pensiero dominante era univoco e automatico: si pensava che la psiche dell’individuo fosse un insieme di equilibri chimici isolati dal contesto sociale. Hammer si è laureato in medicina a Bonn nel 1965. Si è specializzato in psichiatria nel 1972, e ha cominciato lo stesso anno a lavorare a Gaustad. È una cosa estremamente grave che un medico, anzi, addirittura un primario, trovi una ragazzina morta in cantina».
«Nel faldone non si fa menzione del fatto che fu Hammer a trovarla». Cato Isaksen e gli altri diciassette poliziotti fissarono Karsten Tønnesen. «A noi è stato detto che fu la sua segretaria a trovare le bambina».
«A me pare di ricordare che fu Hammer».
«È formulato in maniera molto poco chiara», disse Roger Høibakk versandosi un bicchiere d’acqua.
«Io torno dritto da Hammer, dopo questa riunione», disse Cato Isaksen.
«La psichiatria è vittima della maledizione delle interpretazioni diagnostiche», proseguì Tønnesen. «C’è molta arroganza, tra gli psichiatri. C’è stato un peggioramento nel modo di considerare l’essere umano. Tratti caratteriali, personalità e condizioni ambientali vengono subito ricollegati alle diagnosi che crediamo di conoscere. È raro che un terreno corrisponda alla carta topografica».
«Ma chi stiamo cercando?». Cato Isaksen giocherellava con una tazza. Cambiò posizione.
«Qualcuno che ha qualcosa da nascondere. Ma non vi fissate su di una cosa sola. Per quanto riguarda John Johnsen, fu sottoposto a ricovero obbligatorio e gli fu diagnosticata una paranoia di tipo 297,0. La sottodiagnosi era di paranoia querulans e di natura religiosa. Werner Hagg, al contrario, era soltanto un assassino che in prigione non era al suo posto. Amazon trabocca di libri che collocano la violenza, l’aggressione e la cattiveria nel cervello. Leggetevi Anatomia della violenza, come lo psicologo britannico Adam Raine ha chiamato il suo manifesto della neurocriminologia. Io ho visto Hammer nel ruolo di perito psichiatrico, e l’ho sentito parlare alla radio».
Era come se in Tønnesen qualcosa fosse cambiato, ma non in maniera evidente: ci fu soltanto un impercettibile movimento del viso, come se non gli piacesse ciò che stava dicendo. Si passò la mano sulla cicatrice. «Ufficialmente, l’ultimo intervento di lobotomia è stato eseguito nel ’74, ma io ho fatto alcuni accertamenti interni. Hammer è stato accusato di aver continuato a lobotomizzare pazienti per molti anni dopo che questa pratica era stata bandita. Ma questo non è mai uscito fuori, sebbene tutti gli addetti ai lavori lo sapessero. Di certo aveva fede nella sua scuola di pensiero. Soltanto pochi pazienti ritenevano che la lobotomia li avesse aiutati, ma non ce n’erano molti che fossero in grado di descrivere la propria vita in seguito all’operazione. Questa li indeboliva molto e li rendeva insensibili da un punto di vista emotivo: sviluppavano problemi di concentrazione e di apprendimento oltre a quelli relativi alla gestione dei rapporti sociali. Ad aiutare Hammer c’era uno studente che gli faceva anche da assistente».
Gli investigatori si guardarono l’uno con l’altro. «Ole Porat», disse Cato Isaksen, raddrizzandosi.
«Porat era il galoppino di Hammer», proseguì Karsten Tønnesen. «Un giovanotto che doveva prendere la specializzazione in neurologia. Lobotomia, come sapete, significa tagliare la sostanza bianca nei lobi frontali. In questo modo si interrompe il collegamento tra corteccia cerebrale, ipotalamo e talamo. Negli ultimi anni della sua attività lavorativa, le relazioni che inviava al registro dei pazienti norvegesi erano incomplete. Hammer fu ammonito per questo motivo».
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Cato Isaksen era in macchina con Tønnesen sul sedile accanto, e prese a destra su per Grønlandsleiret. I nuovi indizi gli assillavano la mente. Era già sceso il buio: le giornate erano troppo corte. Lo psichiatra in pensione abitava a Nordberg.
«Dato che siamo di strada, facciamo un salto a Gaustad», disse Tønnesen. «Ti faccio vedere i resti dell’edificio per le lobotomie. Maike Hagg è morta a soli dodici anni. Ho una brutta sensazione: di quale segreto era a conoscenza quella bambina? Cosa sapeva Aud Johnsen? E cosa sa realmente Emmy Hammer?».
Cato Isaksen diede gas.
«Dovete cercare in tutte le direzioni, ma alle volte è inutile voler vedere le cose per più di ciò che sono», disse Karsten Tønnesen in un tono grave. «Forse ci sono cose che non riuscite a vedere perché vi concentrate troppo sui dettagli, Cato».
«Che tipo di persone venivano lobotomizzate, Karsten?»
«Spesso erano individui molto difficili, che si lagnavano di tutto, violenti. Dopo l’intervento diventavano miti. Non è vero che furono lobotomizzate soltanto alcune centinaia di persone, così come si è cercato di far credere all’opinione pubblica: qui stiamo parlando di diverse migliaia di casi. Questo fatto emerse quando uno psicologo sollevò un dibattito sulla lobotomia all’inizio degli anni Novanta. Andò a sficcanasare negli archivi di Gaustad e smascherò una serie di faccende».
«E tu lo giustifichi, l’uso della lobotomia?». Passarono accanto allo stadio di Ullevål. Le rosse luci di posizione posteriori della macchine che avevano davanti sembravano dei segnali di pericolo nel crepuscolo pomeridiano.
«Assolutamente no. Certamente dopo regnava una maggiore calma nei reparti, e in qualche misura aumentava anche il numero dei pazienti dimessi. Negli anni Ottanta, il gruppo di pazienti che chiamavamo maniaco-depressivi fu diviso in due: quelli che avevano un disturbo bipolare, e quelli che soffrivano di depressione. A fondamento di questo non c’era una ricerca scientifica, e non esistevano delle solide basi. E ad esempio gli schizofrenici sono una vasta schiera di individui che non si adattano alla società, ma la loro diagnosi non si basa su criteri specifici».
*
Marian tornò a casa a Valdresgata nel suo furgoncino e lasciò che Birka scorrazzasse un po’ nell’androne prima di trascinare dentro le buste e andare a cambiarsi in bagno. Si sfilò il maglione di lana e indossò una blusa blu. Poi si lavò il viso e si pettinò. Di truccarsi non se ne parlava nemmeno. Erik avrebbe riso di lei, se l’avesse vista truccata. Aprì una bottiglia di vino con il tappo di sughero e bevve un paio di sorsi dalla bottiglia stessa. Nella stanzetta continuavano a esserci solo un letto e una scrivania. Vestiti e carte erano disseminati dappertutto. Lungo le pareti c’erano pile di scatoloni di cartone. Marian apparecchiò il tavolino da campeggio e tirò fuori dei bicchieri. Poi si sedette sul letto col laptop sulle ginocchia, e fece il log-in per entrare nell’intranet della polizia. Voleva rileggersi ciò che Tønnesen aveva spiegato loro a proposito della lobotomia. Ma c’era un’altra cosa di cui avrebbe parlato con Cato alla prima occasione; una cosa che riguardava Norma Winther, un pensiero che non riusciva a togliersi dalla mente. Poggiò la testa all’indietro e chiuse gli occhi. Si immaginò le ragazze da piccole, a dodici anni, che correvano in giro per il comprensorio dell’ospedale. E che dire di quelle donne che fanno del male ai bambini? Berit Adamsen e Norma Winther. Non erano casi facili da scoprire, perché si trattava spesso di donne che avevano una buona conoscenza dei termini medici e delle routine ospedaliere. Non si sapeva molto su cosa si trovasse alla base di quella patologia. Quando una madre fa del male al proprio bambino, si parla di sindrome di Münchausen per procura30. Di solito, le persone che ne soffrono hanno anche un forte disturbo della personalità. Ma le altre donne? Ci doveva essere senz’altro un termine più generico. Donne che odiavano i figli degli altri, e che avevano un forte desiderio di procurare dei danni e causare dolore.
Norma Winther stava apparecchiando la tavola nella grande sala da pranzo con un servizio dai bordi dorati. Apparecchiava per due. Quando poggiava i piatti e i bicchieri, il suono ricordava dei colpi di tamburo. Dentro di sé, le sembrava di riascoltarsi mentre blaterava di solidarietà con i deboli, vantandosi di avere sempre la dispensa piena di farina, zucchero, riso e buste di pietanze liofilizzate. Doveva sempre essere in grado di mettere un pasto in tavola qualora fosse arrivato qualcuno che aveva bisogno di parlare e di mettere qualcosa sotto i denti. Per fortuna in quel momento non aveva confermandi; gli adolescenti le ricordavano i tempi di Gaustad. Ma ora poteva rivolgersi alla vita di fronte a lei, e non più al passato. Quella notte aveva fatto un brutto sogno, in cui cercava di acchiappare uno dei bambini. Le sue braccia tese cercavano di afferrare qualcosa nell’aria vuota e scura.
*
Emmy aveva preso la pistola giocattolo di Piet. Norma lo vide dalla finestra. Emmy era uscita di corsa dalla porta dell’edificio delle caldaie, e gliel’aveva strappata di mano. Poi si era inoltrata nel parco con ai piedi solo i calzini. Era uno dei primi giorni di novembre. In alcuni punti, distanti tra loro, l’erba era coperta di neve. Ma quel giorno c’era il sole. Gli altri iniziarono a rincorrerla. Jan davanti e Piet dietro. All’improvviso vide che Piet aveva un coltello alla cintola. D’un tratto lo estrasse dalla guaina e lo brandì. Era pericolosissimo correre con in mano un coltello! Aud ridacchiava con le mani davanti alla faccia. Di Maike non c’era l’ombra.
Norma si sentì sollevata quando Ole Porat uscì dalla porta con una canna da pesca, come se niente fosse. Spesso se ne stava sul “ponte dei tedeschi” sul ruscello di Gaustad e giocava a gettare la lenza, che guizzava bruscamente verso l’acqua. Berit arrivò giù al locale caldaie prima di lei; veniva direttamente dal reparto, e tra le sopracciglia aveva una ruga per la preoccupazione. Quell’espressione… come se fosse colpa di Norma se i ragazzini stavano litigando. Ma di chi è la colpa, quando succedono cose del genere? Norma non aveva nulla da dire. Sentì l’odore di Berit attraverso la spessa giacca fatta a maglia che portava sopra il camice bianco: un profumo dolciastro mescolato al sudore. Norma capiva che la freccia stava per staccarsi dall’arco, che il baccano dei ragazzini dal parco si stava trasformando in una dolorosa cacofonia di natura diversa. E che lei stessa avrebbe avuto difficoltà a dormire, quella notte. Perché l’inquietudine di Berit era incrollabile come una roccia tagliente. E perché Maike era altrove, e si era già incamminata verso il proprio autunno.
*
Cato Isaksen parcheggiò nuovamente di fronte alla cancellata di ferro battuto mentre Karsten Tønnesen si allacciava la chiusura lampo del piumino. Arrivò un sms. Ole Porat va a correre con il suo cane da caccia, di sera: Asle ha interrogato i suoi vicini. Roger.
Superarono veloci l’edificio principale, scesero per il sottopassaggio e risalendo passarono accanto al caffè, alla chiesa e al locale caldaie, sempre al buio. Arrivò un altro messaggio sul cellulare di Cato Isaksen, accompagnato da un bip. Questa volta era di Randi: Werner Hagg ha ammesso che la macchina filmata dalla telecamera di sorveglianza della palestra di Myrens Verksted era la sua. Il vento formava mulinelli di foglie che vorticavano senza sosta nello stretto passaggio lastricato tra gli edifici. C’erano due biciclette infilate in una rastrelliera. Accanto c’erano uno scooter bianco e un furgoncino dell’autonoleggio “Bislet”. Karsten Tønnesen si fermò. «Qui sotto ci sono delle catacombe. Dei cunicoli sotterranei».
«Grazie, ci hanno già portati a fare una visita guidata».
Andarono avanti. Cato Isaksen sentiva lo stress che gli formicolava in testa. Non aveva proprio tempo per quello che stavano facendo. «È un vantaggio per uno psichiatra identificarsi con alcune caratteristiche dei propri pazienti?». Pensava a Marian, al modo in cui spiegava la sua capacità di riconoscere nei criminali alcuni tratti che le erano propri.
«È possibile. La cosa più interessante che sta succedendo in questo momento sono le nuove diagnosi secondo il dsm 531: un nuovo manuale, un nuovo modo di pensare. L’edificio delle lobotomie è quassù. Verso destra. Le casette per i tisici che si trovano lassù sono protette e non si possono demolire», disse Tønnesen. «Ecco l’edificio. Un’ala è stata demolita. L’ala delle lobotomie, appunto».
Cato Isaksen fissò lo squarcio sul muro, una superficie grigia con delle sfumature bianche là dove un tempo si trovavano i muri che poi erano stati demoliti. Lungo la parete, radente al suolo, c’erano delle piccole feritoie allungate protette da sbarre.
«Era laggiù che Hammer e il suo studente eseguivano gli interventi. Fagli delle domande anche riguardo agli elettroshock. Rivolgiti in un’altra direzione».
«Pensi che dobbiamo rivolgerci altrove, Karsten?».
«Una persona che uccide a sangue freddo ha spesso le seguenti caratteristiche: è malato di mente, malvagio, intelligente, e ha delle doti da attore».
«Instabile», disse Cato Isaksen.
«No, non necessariamente».
«Vuoi dirmi che dobbiamo cercare un paziente lobotomizzato?»
«No, al contrario. Quelle persone hanno subito dei danni; alcuni di loro sembrano zombie».
«Johnsen è uno zombie. È possibile che sia stato lobotomizzato?»
«In tal caso dovrebbe avere delle cicatrici visibili sulle tempie».
«No, non ce le ha. Perché quest’ala è stata demolita?»
«Perché era una vergogna. Mettiamola così: ritengo senz’altro che quassù nel corso degli anni siano morte più persone di quanto si sia voluto far credere».
*
Dopo che Cato Isaksen ebbe riportato a casa Karsten Tønnesen, si accorse di essere troppo stanco per parlare con Carl Hammer. Forse conveniva fare prima quattro chiacchiere con Ole Porat per sentire la sua versione di quella faccenda. Mentre era sulla via del ritorno, si fermò da un benzinaio e comprò un hamburger che mangiò in macchina. Nel suo reparto continuarono a lavorare senza sosta ancora per un paio d’ore. Quando scese giù per tornarsene nel suo monolocale, verso le nove di sera, c’era anche Roger che stava per uscire dal garage. L’investigatore abbassò il finestrino. «È appena arrivato un messaggio della Scientifica che dice che Porat era agganciato a una cella telefonica nella zona Vinderen-Riis nell’orario in cui è stato commesso l’omicidio, il 31 ottobre. Ho fatto delle verifiche più approfondite con i suoi compagni di caccia. Sì, in effetti quel giorno è andato a caccia, ma è ripartito da Valdres alle cinque di pomeriggio».
«Bene», disse Cato Isaksen in tono poco entusiasta.
«Ah, un’altra cosa, Cato. Devi trovare Marian prima che si venga a sapere che non ha restituito l’arma come da regolamento. Ho parlato casualmente con un responsabile del magazzino delle armi. Abita a Valdresgata 3. Pianterreno, e non c’è alcun nome sulla porta».
Marian aprì la porta, e la testa di Birka spuntò fuori come un pupazzo a molla. Lo guardò sorpresa.
«Ciao Marian», disse Cato lentamente reggendosi allo stipite della porta. Non si sentiva bene. «Posso entrare?».
*
Marian lo fece entrare. Poi si sbatté la porta alle spalle. Al soffitto era montata una plafoniera fuori moda che diffondeva una luce fredda e sterile nella stanza. Alla tv, una donna stava rimuovendo una macchia difficile da un abito con un super-smacchiante. La stanza era tutta in disordine. L’arma era poggiata sul tavolino da camping apparecchiato vicino al letto. Lì c’era anche una bottiglia piena a metà di vino bianco.
Cato fissò l’arma e spostò il peso del corpo sull’altra gamba. «Maledizione, Marian, sai che puoi perdere il lavoro, per una cosa del genere? Le armi devono essere sottochiave, come da regolamento». Spinse via il cane con il piede.
«Sì, lo so, lo so». Marian si portò le mani alla testa. «Ma devo tornare a quel dannato nascondiglio domani mattina a un’ora antelucana. Vorrebbe dire riconsegnarla e poi riprenderla subito dopo». Marian andò a prendere la pistola, aprì un cassetto della cucina, ce la mise dentro e lo richiuse rumorosamente. «Tanto non lo sa nessuno». Radunò un mucchio di carte, poi raccolse alcuni indumenti e li gettò sopra una scatola di cartone.
«E invece lo sanno Roger e diverse altre persone. Devi piantarla di forzare le regole, Marian. Te l’ho già detto cento volte. Il motivo per cui devi tornare da Emmy Hammer, domani, è che devi riuscire a estorcerle altre informazioni. Stai aspettando degli ospiti?». Cato guardò i due bicchieri a calice sul tavolino da campeggio.
«No». Marian gettò un rapido sguardo all’orologio e si passò la mano sulla testa. «Hai una brutta cera, Cato».
Cato si ficcò le mani in tasca, e la guardò. «Non mi sento bene».
«Non ti è venuto in mente che potrebbe trattarsi di una depressione?»
«Sì, Marian, amore mio, ci ho pensato. Ma non me lo posso proprio permettere, di certo non ora». Aveva voglia di spingerla sul letto e stendersi sopra di lei.
Marian fece un passo indietro. «Naturalmente mi procurerò una cucina elettrica e un frigorifero. È solo che non ho avuto tempo».
«Viviamo in condizioni peggiori di quelle che si vedono nei film, tu e io, Marian». Cato le sorrise stancamente.
«Siediti sul letto per cinque minuti. Io ho appena fatto una ricerca sulla lobotomia utilizzando l’intranet della polizia. A suo tempo istituirono una commissione d’indagine indipendente sulle lobotomie, e successivamente furono assegnati degli indennizzi ai lobotomizzati che erano ancora in vita. Ufficialmente, l’ultimo intervento di quel tipo in Norvegia ebbe luogo nel ’74, c’è scritto. Un trattamento obbligatorio al giorno d’oggi può essere soltanto a base di medicinali. Porat non è soltanto un neurochirurgo, Cato. È anche uno dei pochi che ancora eseguono trattamenti di elettroshock sui pazienti. Ed è specializzato in psicosi. Sai come ci si sente ad avere una psicosi?». Non aspettò la sua risposta. «Tutto appare più nitido, come se un riflettore proiettasse il proprio fascio di luce attraverso un prisma di ghiaccio o di vetro. Un criminale riuscito è uno che conosce i propri limiti. Emmy Hammer ha detto che si sentiva come una terza persona: Xiao San. Forse dovremmo farla ipnotizzare, così da far riaffiorare in lei i ricordi».
«Xiao San?»
«Significa “Piccola Terza persona”». Rimase in piedi a guardarlo dall’alto.
«Emmy Hammer ci può aiutare a ricostruire eventi che risalgono a venticinque anni fa. Chi è che desidera rimanersene rintanato nella propria zona d’ombra? Si tratta forse di un pazzo che pianifica tutto metodicamente? In qualche modo, Emmy Hammer dev’essere stata una specie di testimone. Lei stessa non lo vuole ammettere. Del resto Aud Johnsen stava leggendo qualcosa sull’amnesia dissociativa, quando è stata uccisa. Si tratta di una perdita di memoria in seguito a grandi sforzi e stress da bambini, quindi è ovvio che c’è qualcosa. E certamente Piet Hagg da qualche parte dovrà pur stare. Nell’atmosfera, o magari sotto forma di invertebrato acquatico, una massa viscida che scivola via».
Marian lo guardò.
«Ma dimmi: che impressione ti ha fatto il pastore?».
Marian fece una smorfia. «Dice di non sapere chi sia il padre del figlio di Emmy. E ha anche detto che del rossetto dobbiamo chiedere a Berit Adamsen. E la catecheta, Lilly Hausmann, si allena in un’arte marziale israeliana».
«E con ciò?»
«È soltanto un’informazione su un semplice fatto, però lei sa tutto dello strangolamento da dietro. Questa indagine così intensa ti fa uscire di testa, uno finisce per vedere dei fantasmi in pieno giorno. Ti ricordi la persona ai margini del fotogramma, quella con la maschera da diavolo?». Prese fiato. «Come fisico, potrebbe essere Lilly Hausmann. Lo so che vuoi che tutta quanta la nostra squadra pensi che l’intuito sia una stronzata, però quella ragazza ha qualcosa di strano. E anche Norma Winther. Comunque è lesbica, si vede lontano un miglio».
«Non c’era alcun segno di abusi sessuali, Marian».
«Lesbica non vuol dire mica pedofila, Cato». Marian guardò nervosamente l’orologio. «Ho la sensazione che il pastore stia nascondendo qualcosa». Non appena ebbe finito di dire quelle parole, qualcuno suonò il campanello. Ci fu un suono acuto. Birka si alzò, e corse alla porta.
*
Fuori c’era Erik Haade, con le mani nelle tasche del grosso piumino. Cato Isaksen si alzò prima ancora che entrasse. «Allora me ne vado», disse, sgusciando accanto al capo della sezione per la criminalità organizzata, e attraversò di corsa il cortile interno.
Dopo pensò che avrebbe dovuto dire qualcosa. Ma era accaduto tutto così in fretta…
Quando ebbe raggiunto l’auto, gli squillò il cellulare. Era Marian. «Quanto sei cretino, Cato», gridò. «Non ficcare il naso nella mia vita. Noi facciamo autocross. È per questo che è venuto, Erik. La Kripos ha arrestato trecentoquarantuno persone in quindici Paesi dopo che è stata scoperta un’enorme rete di pedofili».
«Figurati che mi frega di ficcare il naso nella tua vita».
Marian proseguì: «Sono stati salvati quasi quattrocento bambini, e trentasei norvegesi sono stati arrestati. C’era una ditta canadese che vendeva dvd e trasmetteva video di bambini nudi in streaming, segnalandoli come video naturisti», balbettò.
Cato si chinò e aprì la portiera. Poi si girò e si guardò indietro. Lei proseguì: «Perché credi che Erik mi abbia lasciato lavorare per te? Voglio dire, non certo perché l’hai detto tu. Lui non era d’accordo. Io sono una persona autonoma», gridò. «Sono io che volevo lavorare con te!».
Cato si sedette nel sedile di guida e accese il motore. «Ti scopi Erik Haade, Marian?»
«No. È lui che si scopa me».
Fuori, nella piccola rimessa dello chalet, Piet stava combinando qualcosa. Lei vide dalla finestra della cucina che stava usando una lampada che emetteva una luce intensa. Sembrava così irrequieto. Stava intagliando. Era appena tornato su, dopo aver trascorso la notte nell’appartamento di Majorstua. Per fortuna aveva buttato via la carne macinata. La sera prima le era costato molto addormentarsi. Era rimasta stesa ad ascoltare i battiti del proprio cuore. Il suo corpo dalle forme morbide era avvolto dal calore. Aveva ravvivato il fuoco nel caminetto ed era rimasta stesa a pensare, alla luce dell’abat-jour; sapeva che una volta addormentata, le immagini si sarebbero soltanto rafforzate, e nel sogno, tutto le sarebbe tornato alla mente in una veste grottesca. Ripensava a quel giorno di novembre di venticinque anni prima. Qualche settimana prima della sua morte, Maike si era persa nelle catacombe. Appena passata la porta di legno era corsa a sinistra. Era così stretto lì che bisognava avanzare di taglio, con la testa piegata. Maike era rimasta un’ora intera in quei cunicoli sotterranei. Aveva invocato il padre. La sua voce suonava vuota e terrorizzata, là dentro. Ma il gigante era troppo grosso per quei cunicoli, e poi era chiuso a chiave. Berit Adamsen era dovuta entrare lei stessa per andarla a cercare. Se Hammer fosse venuto a saperlo, avrebbe messo fine alle giornate dei bambini. Un mese dopo, Maike era morta: stesa sul pavimento di pietra con gli occhi spalancati e la bocca impiastricciata di rossetto, come un segnale di pericolo su quel piccolo viso.
*
Cato Isaksen guidava a tutta velocità. Dopo un po’ accostò nella piazzola della fermata dell’autobus, poi posò le braccia sul volante e ci appoggiò la fronte. Gli veniva da piangere. Maledizione, quanto lo irritava, quella cosa. Porca puttana: Erik Haade e Marian. I pettegolezzi erano fondati! Ficcare il naso nella sua vita, aveva detto. Marian poteva andare a letto con chi voleva! Si raddrizzò, strinse le labbra e si guardò nello specchietto retrovisore. Sentì che il cuore gli batteva forte. Cercò di pensare alle indagini: Berit Adamsen, Jan Hagg, Werner Hagg, Norma Winther, John Johnsen. E Carl Hammer. Quest’ultimo doveva sapere qualcosa. Le parole di Karsten Tønnesen: qualcuno che ha qualcosa da nascondere. L’arma del delitto doveva pur essere da qualche parte. I diavoli avevano maschere da diavolo, corna e code. Pensò ai vari luoghi: lo chalet di Berit Adamsen a Krokskogen, la casetta negli orti di Johnsen, dove non avevano trovato nulla durante la perquisizione; l’agenzia di pompe funebri, e la piccola fattoria di Werner Hagg. Il reparto di chirurgia a Ullevål. Luoghi che potevano nascondere dei segreti, dei dettagli che gli erano sfuggiti. E poi c’era quella cosa che gli aveva detto Marian su Norma Winther. Maledizione, doveva assolutamente andare a quella dannata canonica. Subito.
*
Lilly e Norma se ne stavano sedute in vestaglia, nascoste dalla tendina di pizzo della cucina. Qualcuno suonò alla porta. Lilly Hausmann corse su per le scale, entrò in bagno e si infilò di corsa i pantaloni e la maglia. Poi scese sempre correndo, e sparì dalla porta posteriore.
Norma Winther aprì lentamente la porta principale e guardò Lilly Hausmann che sgattaiolava via e spariva lungo il sentiero che portava alla chiesa.
Cato Isaksen si girò, ma non vide nessuno. «Perché non apri? Posso entrare?», disse.
«Sì». Norma Winther si strinse la vestaglia sul petto. «Non è che abbia scelta… mi sono dovuta mettere qualcosa addosso. Seguimi in cucina».
Cato Isaksen le andò dietro. Tra sé e sé risentiva la voce di Marian: non ficcare il naso nella mia vita. «Hai avuto visite?», disse Cato. Norma Winther scosse la testa. Sul tavolo c’erano soltanto un piatto e un bicchiere, insieme ai resti di una torta rustica. All’improvviso Cato sentì una gran fame. Su una delle pareti c’era un’enorme mensola per i piatti. Pensò al servizio di Bente, con il motivo blu e il bordo con le scanalature. Pensò agli stufati che faceva, quella buona salsa marrone con dentro le carote belle tenere.
Cato si diresse verso le sale, e curiosò in giro. Dovevano essere state signorili, ma ora erano soprattutto malridotte. Tuttavia nella grande sala da pranzo c’era ancora appeso il candeliere, e le sedie erano foderate di un velluto rosa pallido.
Norma Winther lo seguì. Lui si volse verso di lei. «Dove abita Lilly Hausmann?»
«Per il momento nel suo camper». Il pastore lo scrutò. «Dietro la chiesa», proseguì. Un criminale riuscito è uno che conosce i propri limiti. Era un’altra delle riflessioni di Marian. «Posso usare il bagno?».
Norma Winther gli lanciò un’occhiata. «È in corridoio».
Lui ringraziò e si accorse che lo stava seguendo, ma poi la donna si girò e tornò in salone. Cato salì di soppiatto per l’ampia scala fino al piano superiore, e guardò dentro una stanza la cui porta era aperta. Era la camera da letto. Il letto era sfatto. C’erano alcuni indumenti di taglia grande attaccati a un appendiabiti.
Trovò quella che doveva essere la porta del bagno. La maniglia era scrostata e traballante. Una volta dentro il bagno verde chiaro, rimase fermo in ascolto. Sentiva soltanto il proprio cuore, lo scorrere del sangue che pulsava nel collo. Su di una mensola erano poggiati dei trucchi. Il lavandino di ceramica era sporco. Le irregolarità della parete affioravano da sotto la pittura, che si stava sbriciolando. C’era una vecchia cuffia fuori moda appesa al bordo superiore della cabina doccia. Cato Isaksen tirò istintivamente fuori dalla tasca una busta per i reperti, ci mise dentro la cuffia e se la rimise in tasca. Quando scese giù, Norma Winther era lì che lo aspettava ai piedi della scala. Aveva uno sguardo rabbioso.
La mattina successiva, Cato Isaksen si sentiva ancora peggio. Norma Winther non si era data affatto per vinta. Aveva sottolineato, e anche a ragione, che lui non aveva in mano un mandato di perquisizione. Sentiva di aver fatto delle ricerche goffe e davvero poco professionali, la sera prima. E il suo stato in quel momento gli ricordava i tremori della sbornia. Si chiuse in se stesso, e fu come se si fosse annullato. Erano in macchina, diretti all’ospedale di Ullevål per parlare con Ole Porat. Era Cato a guidare. Percorse Toftes gate, e poi proseguì per il Ring 2. Era di pessimo umore.
«Che ti prende?». Roger lo guardò con aria interrogativa. «Marian l’ha più riconsegnata la pistola, ieri?»
«No, è tornata su al nascondiglio, stamattina. Acqua in bocca su questa cosa, Roger. Sono stanco, maledizione. Ora dobbiamo concentrarci su Porat».
Il pensiero che Marian lo credesse geloso era davvero insopportabile.
Il percorso durò dieci minuti scarsi. Ole Porat era stato scortato fino a Oslo dalla polizia locale di Valdres, ma prima di mettersi a disposizione degli inquirenti doveva portare a termine un intervento chirurgico molto importante. Il paziente in questione era in pericolo di vita. Quando raggiunsero l’edificio rosso che ospitava l’ospedale, Cato Isaksen parcheggiò di fronte all’ingresso principale ed espose il contrassegno della polizia sul parabrezza. Arrivò un messaggio sul cellulare di Roger. «Ellen ci fa sapere che non ci sono tracce di alcun tipo su mantello, oggetti vari e stivali appartenenti a Jan Hagg, ovvero le cose che abbiamo sequestrato presso la loggia. Merda».
Cato Isaksen fece spallucce, indifferente.
«Porat è sposato e ha dei figli adolescenti», proseguì Roger. «I suoi compagni di caccia gli forniscono un alibi per il 31 ottobre. Ma mentono, perché era collegato a una cella quaggiù, nell’orario che ci interessa. Adesso sua moglie ammette che è tornato a casa tardi, quel pomeriggio, e che quella sera è andato a fare jogging. È stato via per un po’ di tempo, dice. Non è che stiano sempre appiccicati, a quanto sostiene».
«Chi è che sta sempre appiccicato, ai giorni nostri, Roger?».
«E fuma, Cato».
«Fuma? Un medico che fuma…».
Una volta entrati si fermarono alla reception, dove si fecero spiegare come raggiungere il reparto A di chirurgia. Un uomo che i poliziotti individuarono subito come un giornalista di «vg» gli si fece incontro con una macchina fotografica al collo.
«Siamo qui per una visita privata», disse Cato Isaksen con fermezza, e gli fece un gesto con la mano per allontanarlo.
Il giornalista non si diede per vinto.
«Per favore, sparisci. Di questo tu non scrivi una parola, altrimenti vedrò di farti licenziare».
Presero l’ascensore per salire al reparto di chirurgia e percorsero rapidamente il corridoio bianco verso la zona con le sale operatorie. Una donna in sedia a rotelle gli sgusciò accanto.
Un salottino verde era piazzato in fondo al corridoio, sotto a dei tubi al neon color bianco ghiaccio. Due agenti di Valdres erano lì ad aspettare. Li salutarono brevemente, e quelli gli dissero che Porat sarebbe uscito dalla sala operatoria di lì a poco. Dopo qualche minuto, il neurochirurgo aprì la porta d’acciaio. Al di sopra della mascherina si scorgevano soltanto i suoi occhi. Cato Isaksen e Roger Høybakk si alzarono insieme.
Ole Porat indossava una cuffia chirurgica e un grembiule verde, su cui c’erano delle macchie di sangue. Era di altezza media. Dunque, l’ex galoppino di Hammer era diventato uno specialista in neurologia. Si tolse la mascherina. «Sì, lo so che devo venire da voi per farmi interrogare. Domani. In questura».
«No, vieni con noi adesso. Lo sai, di che cosa si tratta», disse Cato Isaksen, e poi informò i poliziotti di Valdres che potevano tornarsene a casa. Ormai la sezione omicidi di Oslo aveva preso in consegna il chirurgo.
Ole Porat si tolse la cuffia, la appallottolò e se la ficcò in tasca. I capelli di media lunghezza erano ancora biondi, a parte qualche filo grigio alle tempie.
«Ci serve il tuo cellulare», proseguì Cato Isaksen.
«Ho capito di cosa si tratta. Aud Johnsen è stata uccisa». Porat infilò una mano nella tasca del grembiule e lo tirò fuori. «Naturalmente non ho affatto in programma di tagliare la corda. Questo non è un film poliziesco. Ho un paziente sotto anestesia», disse irritato, porgendo loro il cellulare. «Ho moglie e figli; i miei compagni di caccia mi hanno fornito un alibi. Voi avete rovistato nel mio armadio e vi siete portati via di tutto».
«L’alibi è falso. Inoltre, la sera che fu uccisa Aud Johnsen, Emmy Hammer ti telefonò, ma tu non volesti parlarle. Ti aspettiamo», disse Cato Isaksen. Ma poi cambiò idea non appena Ole Porat se ne fu andato. «Io adesso faccio un salto da Hammer», disse a Roger in tono assente. Dopo avrebbe dovuto telefonare a Bente, chiederle di uscire per parlare. Non ce la faceva più a sopportare quella situazione. Il monolocale era un disastro. E poi c’era quella cretina di Marian Dahle. «Tu aspetta qui, Roger, e chiedi che ti mandino un’auto per portare te e Porat in questura. Ci vediamo lì». Cato fece un rapido controllo sul cellulare del chirurgo. «Vedo che Emmy Hammer ha telefonato a Porat alle venti e cinquanta della sera di Halloween. E qualche giorno prima, guarda caso, c’è una telefonata persa di Aud Johnsen».
Carl Hammer indossava una camicia bianca, e sedeva chino in avanti nella poltrona a orecchioni, come la volta precedente. «Mia moglie sta riposando, e Philip è uscito a fare un giro», disse.
Cato Isaksen dovette sforzarsi di trovare le parole giuste.
Carl Hammer sollevò il viso; somigliava a un vecchio cane. «Quando potrà tornare a casa Emmy? E per quanto tempo dovremo ancora avere quest’auto della polizia a guardia qua fuori?»
«Stiamo cercando Piet Hagg. Emmy è al sicuro».
«Piet Hagg? Avrà quasi quarant’anni, ormai. Quello che Berit all’epoca non voleva capire era che i pazienti erano delle bombe a orologeria, e che anche i loro figli erano compromessi. Werner Hagg aveva ucciso la moglie con un’accetta».
«È di Maike Hagg che voglio parlare», disse Cato Isaksen. «Chi l’ha trovata morta?»
«Come raccontai alla polizia nel novembre dell’88, dovevo andare in cantina a prendere qualcosa dall’archivio. La porta era semiaperta, e sotto vidi un rivoletto di sangue. Ma a quel punto c’era già Berit. Era china sulla bambina, ed era in preda a un attacco isterico. Quindi dovetti chiamarla io, la polizia. E Berit se ne andò il giorno stesso. La pregai di tornare, ma lei non volle».
Carl Hammer lo guardò da sotto le palpebre pesanti.
«E se ne andò anche Norma Winther?»
«Sì, e tutto sommato fu meglio così. Assumemmo delle persone più equilibrate, per così dire».
«Puoi specificare?»
«No». Chiuse la bocca in segno di protesta.
«I trattamenti con l’elettroshock li facevate?». Cato Isaksen guardò lo psichiatra con aria inquisitoria.
«Certamente. Una depressione prolungata può essere pericolosa», disse Carl Hammer. «Agli schizofrenici quel trattamento faceva bene. È un metodo sicuro, leggero e ben collaudato. Nessun altro trattamento agisce altrettanto velocemente, e inoltre si evitano gli effetti collaterali dei farmaci».
«Qual è la differenza tra le medicine di allora e quelle di adesso?».
Carl Hammer accennò un sorriso. «Le medicine non erano specifiche come adesso. Al giorno d’oggi i pazienti possono cavarsela relativamente bene, con l’aiuto dei farmaci».
«E la lobotomia?».
Carl Hammer guardò Cato Isaksen con aria inespressiva. «La lobotomia è stata una parentesi nella storia della psichiatria norvegese. Bisogna vedere tutto quanto in una prospettiva storica. È una pratica che ha riguardato soltanto qualche centinaio di pazienti, e tutto ciò succedeva prima dei miei tempi». Guardò Cato, e si corresse. «Ovvero, qualche raro paziente fu operato anche ai miei tempi. L’opinione pubblica è riuscita a far sembrare che ciò era assolutamente sbagliato. E non è vero, considerate le norme di allora. Le cose cambiano».
«A noi è stato detto che ha riguardato alcune migliaia di persone. E che le tue relazioni al registro dei pazienti norvegesi erano incomplete, negli ultimi anni della tua attività. E che sei stato ammonito proprio per questo fatto. Tu continuavi a praticare la lobotomia quando era già stata dichiarata illegale».
«È Berit Adamsen che ti ha raccontato questa favola?»
«No».
«Per me Berit Adamsen è “persona non grata”».
«Perché?»
«Era emotiva e isterica, molto poco professionale. Il cervello è puramente e semplicemente una parte del macchinario che compone il corpo umano. Si può cercare di ripararlo in vari modi, così come si fa con le malattie somatiche. Questo concetto è fantastico, perché aiuterà a combattere la stigmatizzazione nei confronti dei disturbi psichici».
Cato Isaksen non fu contento della risposta. «Ole Porat», disse.
Carl Hammer si tirò su a fatica dalla poltrona in cui era sprofondato, si diresse verso una grande scrivania antica in legno dorato e ne aprì il primo cassetto, dal quale estrasse alcuni articoli. «Era bravo. Freddo al punto giusto. Era uno dei miei tanti studenti».
Nello stesso istante entrò in salotto Solveig Hammer. Teneva davanti a sé le mani con le dita intrecciate, e fece dietrofront quando vide l’investigatore. Cato Isaksen aspettò finché il suono dei suoi passi fu scomparso del tutto. Poi si alzò per andarsene.
*
Ole Porat si tolse la giacca pesante della “Canada Goose” e si sedette. Gli avevano detto che doveva aspettare un quarto d’ora. Dalla stretta finestra della saletta per gli interrogatori, poteva a stento intravvedere le cime spoglie degli alberi. Pensò all’uccello nella vetrinetta di Gaustad. A quei tempi i ragazzini ne erano così orgogliosi… Era come se in loro fossero racchiuse personalità differenti: da un lato erano bambini spensierati, dall’altro erano gravati da una cupezza opprimente e apatica. Era soprattutto Maike a farne le spese. Che razza di pantaloni ti sei messa? Ormai due di loro erano morte: erano le figlie di Werner Hagg e John Johnsen, Maike e Aud. Che fine avevano fatto Emmy e i ragazzi? Quell’uccello sarebbe rimasto lì per vent’anni, nel suo nido a forma di coppetta. La polizia non poteva leggergli la mente. Non sapevano quale fosse il suo crimine. Avevano fatto un patto, lui e Hammer. In effetti lui non era bravo abbastanza, ma Hammer gli aveva promesso di promuoverlo. Quasi ogni volta che affondava un bisturi in un cervello e il sangue cominciava a colare, lui ripensava a quei tempi: nessuno doveva venire a saperlo. Non voleva che i media facessero il suo nome. La sua carriera poteva essere in pericolo. Doveva stare attento.
*
«Vuoi qualcosa da bere?», chiese Cato Isaksen in tono amichevole, sfilandosi la giacca. Ole Porat era freddo al punto giusto, aveva detto Hammer. Porat ringraziò, ma rifiutò l’acqua.
Roger Høibakk si curò del lato tecnico. L’interrogatorio poteva avere inizio. A Cato Isaksen parve di risentire la voce profonda di Tønnesen: ritengo senz’altro che quassù nel corso degli anni siano morte più persone di quanto si sia voluto far credere. «Vado subito al sodo», disse Cato Isaksen guardandolo. «Dunque tu abitavi nel locale caldaie».
«Sì, al piano di sopra c’era un piccolo appartamento. In realtà era l’abitazione del guardiano».
«Quando il 31 Emmy Hammer ti ha telefonato, tu le hai detto di essere in montagna, giusto?»
«Non avevo proprio voglia di parlare con lei. In quel momento mi trovavo un attimo all’ospedale per visitare un paziente».
«Te ne sei andato da Valdres alle cinque, e sei arrivato a casa alle otto e mezza di sera, più o meno, giusto?».
Porat annuì. Era possibile che dall’ospedale fosse andato direttamente a Sandakerveien. Subito dopo l’interrogatorio gli avrebbero preso le impronte digitali e il dna.
«Sono andato a correre», proseguì, «ma è stato parecchio più tardi. Forse alle dieci e mezza».
«Hai fatto jogging col tuo cane? Hai un cane da caccia, giusto?»
«Sì».
«Emmy Hammer ha visto passare un uomo con un cane da caccia quando è tornata a casa dal centro quella sera. Poi qualcuno le ha suonato alla porta».
«Non sono stato io. Non ho suonato a nessuna porta. Ma è possibile invece che quello che correva fossi proprio io».
«Quando ti ha telefonato le hai detto che non volevi parlare con lei».
«Le ho attaccato il telefono. Tutte quelle cose malate che stava insinuando, che io sapevo qualcosa circa il fatto che erano stati i figli di Werner Hagg a uccidere la propria madre, quella volta… si trattava davvero di un cumulo di sciocchezze. A quanto ne so io, fu Werner Hagg a uccidere la moglie, non i suoi figli. Emmy Hammer sembrava eccitata, mi ha detto che Aud Johnsen voleva fare uno scoop su di me. Quando sono andato a controllare, ho visto che c’era anche una chiamata persa di Aud Johnsen che risaliva a qualche giorno prima. Ma me ne sono accorto soltanto dopo che avevate cercato di contattarmi mentre ero in montagna. Quando sono a caccia, sono a caccia».
«John Johnsen, il padre della vittima: te lo ricordi?»
«Certamente. Eravamo costretti a legarlo con le cinghie».
«Questo non risulta da nessuna delle sue cartelle cliniche».
«Può darsi che ci siano state delle omissioni in ciò che veniva scritto. Le autorità volevano che cercassimo di limitare al massimo l’uso delle cinghie e dell’isolamento. A me a quell’epoca fu detto di non includere tutto, nelle relazioni».
«Chi te lo disse?»
«Carl Hammer».
Cato Isaksen lo scrutò. «Tu facevi una specie di apprendistato presso Carl Hammer, giusto?»
«Chiamiamolo così».
«Che cosa facevi, di preciso?»
«Di tutto: dall’assistere Hammer al portare avanti dei miei esperimenti. La psichiatria è un campo che la grande maggioranza delle persone sente di non comprendere. C’è un che di superiore e di sconosciuto, in tutto l’insieme. Inoltre molte persone hanno problemi psichici, e questo suscita interesse. La gente conosce la medicina somatica, ma questa non gode della stessa considerazione».
«Parlaci dei trattamenti a base di elettroshock che ancora pratichi».
«La terapia elettroconvulsiva ha effetto su circa il settanta per cento dei pazienti maniaci o depressi. Qualcuno ha delle perdite di memoria, ma per la maggior parte delle persone sono di breve durata. È una questione spinosa, e non esistono delle linee-guida a livello nazionale. È il medico a decidere». Ole Porat guardò Cato Isaksen. «Sono le donne a trarne maggior giovamento».
«E la lobotomia?». Cato Isaksen sostenne lo sguardo. «Hammer l’ha praticata fino agli anni Ottanta inoltrati, giusto?»
«No», rispose secco Porat.
«E tu lo assistevi. Facevi pratica».
Ole Porat scosse la testa. Ci fu un silenzio che durò mezzo minuto. Roger Høibakk sospirò.
Poi Porat disse: «La tempistica è sbagliata. L’ultima lobotomia fu eseguita nel ’74. Prima che iniziassi a lavorare». Rifletté un attimo. «Naturalmente io sono vincolato al segreto professionale».
«Possiamo farti ottenere una deroga. Come descriveresti Carl Hammer?»
«È difficile. E forse questa di per sé è già una descrizione». Strinse la bocca.
«Il giorno che morì Maike Hammer, tu dove ti trovavi?»
«Non so se esistono ancora le liste dei turni di quell’epoca: probabilmente no. Comunque io quel giorno non lavoravo».
«Come fai a ricordarti così di preciso?»
«La morte di una ragazzina nell’archivio sotterraneo era un fatto decisamente, diciamo così, inusuale. Ovvio che me lo ricordo! La gente si ricorda dove si trovava quando ci fu l’attentato dell’11 settembre».
«Emmy Hammer ebbe un figlio a sedici anni».
Ole Porat spalancò gli occhi. «E questo che c’entra?».
*
Dopo l’interrogatorio, Roger accompagnò Porat in un’altra stanza per il prelievo delle impronte digitali e del dna. Lo avrebbero confrontato con le cicche di sigaretta e con il dna di Philip Hammer. Il cellulare di Cato suonò non appena fu tornato nel proprio ufficio. Non era Marian, ma Deidrée dall’ospedale di Gaustad. «Ho trovato una cartella che riguarda parte del trattamento cui fu sottoposto John Johnsen. Vuoi che te la legga?»
«Bene, leggi pure». Cato guardò il mucchio di carte sulla propria scrivania.
«Gli fu praticato l’elettroshock a intervalli regolari. E la stessa cosa vale per Werner Hagg. Un tempo gli elettroshock venivano somministrati senza anestesia, e i forti crampi che provocavano potevano portare alla rottura delle ossa e a fratture della colonna vertebrale a causa dei contorcimenti dei pazienti durante la terapia. Continuerò comunque a fare delle ricerche per conto vostro. Ci sei ancora?»
«Sì, sono qui. Grazie». Non appena chiuse, lo chiamò Bente. Lui le rispose. Cato aveva difficoltà a concentrarsi, ma era stanca anche lei. Voleva che il marito tornasse a casa. Mentre parlavano, all’improvviso gli venne in mente che Ole Porat aveva detto che quando Maike Hagg era stata ritrovata morta in cantina, lui non si trovava al lavoro. Però abitava nel locale caldaie, quindi era comunque lì vicino! Disse a Bente che doveva scappare, e conclusero la conversazione. Cato Isaksen si ficcò in tasca il cellulare e percorse il corridoio a passi decisi. Superò le pareti di vetro dietro le quali i suoi colleghi lavoravano a pieno ritmo, entrò in ascensore, scese al pianterreno e attraversò l’atrio, passando accanto ai cittadini che aspettavano in fila di ritirare il passaporto. Marian non aveva ancora fatto rapporto dal nascondiglio. Erano trent’anni che Cato lavorava in polizia. Ora non sapeva bene per quanto ancora ce l’avrebbe fatta a resistere. Sentì il rumore del traffico in strada. Lungo il sentiero, l’erba marcia era intrisa d’acqua. L’ispettore era intirizzito, come tutte le altre persone.
Le indagini procedevano troppo lentamente. Cinque giorni più tardi non avevano ancora fatto alcun passo in avanti. Era già lunedì 11 novembre. Werner Hagg era tornato alla sua piccola fattoria. L’Istituto superiore di sanità tardava con i risultati del dna che stava analizzando. Aveva un sacco di arretrati perché l’istituzione aveva bisogno di più fondi di quanti non gliene fossero stati assegnati. Si cominciò anche a discutere della conduzione finanziaria del dipartimento. La stampa ci sguazzava. La responsabile, Ingeborg Myklebust, chiese a Cato Isaksen di andare da lei in ufficio. Nel frattempo, Marian si trovava ancora al rifugio segreto con Emmy Hammer.
«Mi stai ascoltando, Cato?». Ingeborg Myklebust lo guardò preoccupata.
«Sì». Cato si raddrizzò e cercò di concentrarsi. La rossa capigliatura di lei era pettinata meno bene del solito. La donna aveva le occhiaie.
«Te lo ripeto. Il capo della sezione per la criminalità organizzata, Haade, e io abbiamo parlato. Ora stiamo tenendo sotto controllo Johnsen, Werner Hagg e Ole Porat. Jan Hagg continua a essere sottochiave. È necessario tenere ancora nascosta Emmy Hammer?».
Cato Isaksen la guardò. «No, anche se non siamo riusciti a stanare Piet Hagg. Domani c’è un’altra udienza per la custodia cautelare di Jan Hagg. Forse dovremo lasciarlo andare. Naturalmente non c’è pericolo che possa fare qualcosa a Emmy Hammer. Del resto ha tutti i fari puntati addosso. Ole Porat non fa un solo passo senza che noi lo sappiamo».
«Emmy Hammer non è più una potenziale testimone, dal momento che il caso di Maike Hagg è stato riaperto comunque».
«Sì, Ingeborg», disse lui, stanco. «Ma qua forse si tratta di qualcos’altro. Non stiamo parlando di una persona razionale».
«Marian ha l’autorizzazione a tenere con sé una pistola. Potrebbe anche vegliare su Emmy Hammer presso il domicilio di lei, per una notte. E i suoi genitori non hanno più bisogno di protezione. Questa è la mia valutazione. Tu che ne pensi?»
«Va bene», disse lui.
«Telefona tu a Marian per informarla».
Cato tornò nel proprio ufficio. Quando Marian rispose, disse brevemente: «Domani parti di mattina presto, e riporti indietro Emmy Hammer. È un ordine della responsabile del dipartimento che è già d’accordo con Haade. Rimarrai con Emmy nella dépendance fino a nuovo ordine. L’arma la puoi tenere finché non avrai portato a termine il tuo incarico».
Marian fu svegliata dal rumore della pioggia che tamburellava sulla scala antincendio del nascondiglio segreto. Giaceva in posizione fetale. Le previsioni dicevano che la temperatura sarebbe calata. Nell’arco della giornata, la pioggia si sarebbe trasformata in neve. Emmy dormiva nella stanza accanto. Erano state lì per sei giorni, ormai, e non avevano più nulla di cui parlare. Avevano finito: erano stufe l’una dell’altra. E avevano bevuto troppo. L’agente di guardia aveva portato loro dei cartoni di vino, trasgredendo agli ordini. L’episodio con Cato della settimana prima le aveva fatto male. Quando l’aveva chiamata, quella mattina stessa, aveva la voce un po’ rotta, come se stesse cercando di non piangere. Lei se n’era accorta. Finché non avrai portato a termine il tuo incarico, aveva concluso, prima di riattaccare. E ora Marian doveva riaccompagnare a casa Emmy Hammer e vegliare su di lei, quella notte. L’ultima notte. Finalmente. A Erik aveva detto che dovevano prendersi una pausa. Lui si era arrabbiato. Marian aveva paura che Cato non volesse più avere a che fare con lei. Il suo psichiatra le aveva spiegato che essere rifiutato era una delle cose peggiori che possono capitare a un bambino. Lei ci era cresciuta, con i rifiuti, e per questo voleva proteggersi, per non dover provare di nuovo quella sensazione. La cosa migliore era l’attacco. Cato era una persona ipersensibile, come lei: uno che classificava le cose in base a distinzioni molto sottili, e che faceva molto caso anche alle minime sfumature. Lui non se ne rendeva conto, ma quella era una condizione dolorosa: lo portava a essere sempre sul chi vive. Questa caratteristica non giovava affatto all’attività di investigatore. Forse poteva essere utile in una casa di riposo per anziani, dove la sensibilità poteva aiutare a dire cose senza senso e a condividere ricordi di vite che volgevano alla fine. Oppure in un asilo. No, in un asilo no, i bambini Marian non li sopportava proprio. Magari in una clinica veterinaria. No, quello l’avrebbe distrutta completamente. Gli animali in fin di vita le facevano più effetto degli esseri umani. Era una cosa malata.
Si tirò su appoggiandosi al gomito, e vide Birka in un angolo accanto al muro, immobile. Per una frazione di secondo pensò che le fosse successo qualcosa, ma poi il cane aprì gli occhi e la guardò. «Brutta stronza», sorrise Marian e poggiò i piedi in terra. Preparò la colazione, diede a Birka una fetta di pane col paté di fegato, e si lavò i denti. Non aveva voglia di farsi la doccia; indossò un paio di jeans e la felpa nera col cappuccio e si guardò un attimo nello specchio prima di passare in rassegna il contenuto della propria borsa: l’arma, le fascette al posto delle manette, dello spray urticante, un vecchio pettine e un porta-biglietti da visita. Sarebbe scesa giù nel piazzale per far prendere aria a Birka prima che Emmy si svegliasse. Poi se ne sarebbero tornate in città.
*
Berit Adamsen non era stata l’unica infermiera presso il reparto di sicurezza maschile, nel 1988. Nell’ufficio di Cato c’era una lista di nomi, e Randi aveva iniziato a studiarli. Oltre a Berit Adamsen, erano ancora in vita altre due infermiere. Randi era già andata a parlare con una di loro. La prima era stata disponibile, ma riteneva di non poter contribuire in alcun modo. Aveva raccontato che Carl Hammer pretendeva molto dai dipendenti, ma che faceva così perché gli stavano a cuore i suoi pazienti. L’altra infermiera era cieca, e abitava presso la clinica Capralhaugen di Bærum. Randi ci sarebbe andata non appena ne avesse trovato il tempo. C’erano molte altre cose da fare, ad esempio compilare l’elenco corrispettivo per quanto riguardava i medici, tra le altre cose. Hammer all’epoca aveva altri due medici sottoposti a lui, uno dei quali era psichiatra. Entrambi avevano cantato le lodi del loro ex capo, dicendo che era stato lui a gettare le basi per le loro rispettive carriere. L’uno svolgeva la propria attività presso cliniche private dove si occupava di pazienti anoressici, e l’altro si occupava di chirurgia plastica.
John Johnsen spinse via la cassettiera, si mise in ginocchio, sollevò la trave di legno ed estrasse il diario. Gocce di pioggia correvano giù per il vetro della porta-finestra. Aveva intenzione di portare a termine il suo ultimo piano. Aveva già prenotato un taxi che doveva arrivare due ore dopo. Sarebbe andato alla fattoria di Werner con il cane e il diario. Stava riflettendo su quella faccenda delle pillole, perché in effetti adesso che non le prendeva più, si sentiva meglio. Erano nocive? C’era dentro del litio? Il litio era un metallo alcalino usato nella batterie. John era un ipomaniaco32, ma qualcosa era successo. Era come se una luce bianca fosse penetrata nel suo cervello e l’avesse curato. Da quando la figlia era stata uccisa, si era creato una nuova immagine di sé, nella sua mente. Era cresciuto: non era più l’uomo magro, timido e rabbioso. Ora aveva qualcosa da vendicare. Il lasso di tempo tra quando i poliziotti erano andati a cercarlo nella casetta negli orti comunali e il presente aveva rappresentato l’attesa più lunga della sua vita. La catastrofe si era realizzata: Aud era morta. Tra qualche giorno ci sarebbe stato il funerale. Lei era chiusa nella cella frigorifera ad aspettare. Credenze illusorie e deliri erano stati rimpiazzati dalla realtà. L’anziano si alzò in piedi. Il cane gli fu subito accanto. Lo aveva portato ogni giorno con sé a Oslo S. Era andato a sedersi al tavolo di Vanja. E finalmente il giorno prima era apparso il lituano, un po’ più pallido e magro. Gli aveva detto che era stato malato, che aveva avuto quasi quaranta di febbre, ma ora era di nuovo pronto. Avrebbe portato a termine l’omicidio. Johnsen pensò che Werner lo avrebbe ringraziato per aver preso l’iniziativa. Lo ammirava in tutto e per tutto: era forte, alto e calmo, tutto l’opposto di com’era lui, a quei tempi. Erano stati spalla a spalla davanti alla stretta finestra a guardare le proprie figlie: Aud e Maike, che giocavano a campana sotto il porticato. Erano due padri orgogliosi. Al refettorio ci andavano insieme. Mangiavano allo stesso tavolo. Parlavano poco, tutti e due. A quell’epoca lui era ancora il vecchio Johnsen. Se ne stava seduto sul letto a fissare la parete, finché dentro non gli succedeva qualcosa, e sopraggiungeva la rabbia, che lo riempiva, gli sgorgava nel petto e avvampava come fuoco sul suo viso freddo. Werner lo osservava con la stessa calma ogni volta che lo venivano a prendere. E faceva finta di nulla quando tornava. John Johnsen aveva parlato un po’ con la donna dal naso aquilino. Si chiamava Miriam. Era affabile. Sarebbe potuto andare in città da Berit Adamsen, adesso, per farle leggere il diario di persona. Il suo indirizzo ce l’aveva: abitava a Majorstua. Ma preferiva andarsene in campagna da Werner. Werner era un gigante che aveva fatto fuori la moglie in un attimo di follia: ma i suoi figli li trattava come fossero di porcellana. Aveva uno zoccoletto di ceramica dipinto con un motivo a fiori blu. Lo avrebbe dato a Maike. Glielo aveva promesso una volta che stavano in finestra, mentre il sole brillava attraverso il fogliame dell’albero là fuori.
*
Marian fece una sosta presso il negozio di Slemdal. Dovevano comprare qualcosa da mangiare. Dal banco dei freschi, Emmy scelse alcune fette di una torta rustica ripiena di pomodori e broccoli. Vide la propria immagine riflessa sul bordo metallico del freezer. La ferita sulla fronte si era trasformata in una cicatrice rossastra. Trovò un’insalata di patate con mais e porro, e comprò anche una confezione di pesche sciroppate e un flacone di panna montata. Il vino a casa ce lo aveva già. Si rimisero in macchina. «Quando mi ridate il mio cellulare?»
«Non appena avranno finito i controlli, Emmy. Domani sarai libera», disse Marian, e provò un senso di inquietudine. Sarebbe dovuta tornare al quinto piano da Erik, l’indomani, o sarebbe rimasta al quarto da Cato finché non avessero risolto il caso?
*
Solveig Hammer stava in finestra nella stanza di Philip, ferma dietro la tendina chiara. La camera le sembrava stretta, e il volume della televisione in salotto era troppo alto. Non c’erano più poliziotti, in giardino; nessuna volante della polizia parcheggiata all’entrata. I nastri segnaletici, legati agli alberi e tutt’intorno alla casa, erano appesantiti dalla pioggia. L’acqua colava lungo i tronchi. Arrivò una macchina bianca giù per la discesa, e fermò proprio di fronte a casa di Emmy, dietro alla sua Golf. Dal furgoncino scese quella poliziotta dai tratti asiatici. Saltò giù anche il boxer. Poi ne uscì sua figlia. I capelli biondo platino formavano un’aureola intorno al suo viso. Bella, bella Emmy. Solveig Hammer provò un senso di pace e di calore. Tutto sarebbe andato a posto. C’erano delle cose che non capiva. Non riconosceva più le persone che incontrava per strada o al negozio. Ma faceva finta di sì, e nessuno immaginava quanto stesse male: quel vuoto e quella solitudine travolgente. Ora la nebbia giaceva come un velo di chiffon tra le case. E le mele, sugli alberi, erano raggrinzite.
*
Emmy Hammer guardò verso la casa dei genitori. Le tendine erano tirate per metà. Non si muoveva nulla. Philip se n’era tornato a Cracovia. Entrarono nell’ex portineria. Il suo borsone grigio poteva rimanere sul sedile posteriore fino al giorno dopo. Non aveva voglia di disfarlo proprio ora. Marian mise il cibo in frigo. Emmy voleva finire di dipingere il quadro bianco. «A proposito, Jan ha ordinato questo quadro per l’agenzia di pompe funebri», disse. «Ora lo finisco. L’acrilico si asciuga subito e non emana alcun odore. E poi domani lo portiamo in macchina giù da Vita».
«Non penso sia una buona idea, Emmy. Jan Hagg è ancora in custodia cautelare».
Emmy fissò lo sguardo negli occhi di Marian. «Ma proprio per questo: lui non c’è, quindi non è pericoloso! Lo darò a sua moglie, Ingrid. Io sono una donna adulta, non potete decidere tutto voi».
Marian la guardò con aria stanca. «Tra poco sarai di nuovo sola, Emmy», disse, e provò una certa inquietudine. Forse le avrebbero sparato, o sarebbe finita spappolata sotto un camion, o magari incaprettata e colpita a morte con lo stesso arnese che aveva ucciso Aud Johnsen. Ma non sarebbe stata sua, la colpa. Lei eseguiva gli ordini di Cato.
*
Ellen mandò un messaggio dicendo che gli stivali di Jan Hagg forse non corrispondevano esattamente alle impronte che avevano trovato fuori dalla finestra di Aud e presso la verandina di Emmy. Anche se erano poco chiare, ora erano riusciti a ricostruire il disegno della suola. E con ciò non avevano più prove a sufficienza a carico di Jan Hagg. Si andava dunque verso la sua scarcerazione. E non avevano trovato nulla neanche contro Ole Porat. Il cellulare di Cato Isaksen squillò. Lui rispose, e si avvicinò alla finestra dell’ufficio. Guardò verso la chiesa di Grønland e provò un senso di sconforto che si trasformò in dolore fisico. Il 22 luglio del 2011, quando era esplosa la bomba nel quartiere governativo33, si trovava proprio nello stesso punto. La finestra aveva tremato.
Era l’addetto stampa che voleva dei ragguagli. Cato gli parlò come se avesse innescato il pilota automatico. «Adesso abbiamo ventitré investigatori su questo caso, e ce ne forniranno degli altri se sarà necessario». Si fece forza e proseguì: «Tutti quelli che sono venuti qui a farsi interrogare hanno dato il loro consenso all’analisi del traffico telefonico e del loro dna. Non abbiamo ancora ricevuto tutte le risposte. Sono arrivate all’incirca quattrocento segnalazioni dal pubblico. La prescrizione è superata perché abbiamo aperto una nuova indagine sulla morte di Maike Hagg. Puoi dare queste informazioni in pasto ai media».
John Johnsen pagò il tassista con una mazzetta di banconote e scese in mezzo all’aia. Il cane avana gli saltellò appresso un po’ controvoglia. L’uomo fissò i vasti e scuri terreni agricoli. Gli riusciva difficile chiamare il cane “Bruff”, anche se era lui che aveva suggerito quel nome: Charles Bruff era il nome del primo chimico forense norvegese. Era nato nel 1887, e aveva scritto un’autobiografia che si chiamava I testimoni muti. Quel libro l’aveva cercato da tutti gli antiquari possibili. E alla fine lo aveva trovato.
Werner fu sorpreso della sua visita. Si vergognò dei piatti sporchi che aveva in cucina, ma a Johnsen non importava nulla. Si tenne addosso il soprabito, si sedette su di una sedia e iniziò a parlare dell’odio. «Voglio soltanto che tu sappia cos’è successo realmente». Calcò la parola realmente. «La vendetta è decisamente sottovalutata».
Werner Hagg lo guardò. «Mi hanno tenuto dentro per qualche giorno, ma non hanno alcuna prova contro di me».
«Ti voglio dare questo libro», disse John Johnsen estraendolo da una grossa tasca interna. Era un libro preso in prestito in biblioteca, con una foderina di plastica. Il piccolo principe. Johnsen lo aprì e lesse: «“Se qualcuno ama un fiore di cui non esiste che un solo esemplare tra milioni e milioni di stelle, per essere felice basta che le guardi e si dica: ‘Il mio fiore è lì, da qualche parte’”. Puoi anche prenderti il cane di Aud», disse, porgendogli il guinzaglio. «Si chiama Bruff».
Werner Hagg ci aveva pensato a prendere un cane, non solo affinché gli tenesse compagnia, ma anche per spaventare i ragazzini che attraversavano il suo terreno. Un recinto per i cani ce l’aveva, ma in realtà non avrebbe voluto proprio quel cane. Gli dette alcune fette di salame d’alce e un po’ di pane raffermo, mentre Johnsen gli tendeva un quaderno rosa pallido. Werner lo prese e versò a Johnsen un sorso di brandy in un vecchio bicchiere.
*
Si era fatto buio. Emmy Hammer dipingeva ancora. Si era tolta il giubbotto antiproiettile e lo aveva poggiato su di una sedia. Marian stava stesa sul divano, e indossava ancora il suo. La radiotrasmittente che aveva in tasca crepitava. Aveva ancora la pistola nella cintola. Birka se ne stava seduta a guardarla. Emmy poggiò il pennello, andò all’ingresso e si guardò un attimo allo specchio. Entrò in cucina e prese una bottiglia di vino, un apribottiglie e due bicchieri. Mise tutto sul tavolo e si avvicinò alla libreria.
Marian si tirò su a sedere, stappò il vino in modo deciso, come quando si carica un’arma, perché sotto sotto intuiva che Emmy stava per raccontarle qualcosa che riguardava quel caso.
La parte inferiore della libreria era riservata agli album. Emmy si accucciò e ne estrasse uno, lo aprì e guardò le foto di Philip da bambino. “In bici a quattro anni”, c’era scritto sotto a una; “A cinque anni, sotto l’albero di Natale a Gaustad”, diceva un’altra.
«Philip era un bel bambino, ma molto vulnerabile. Guarda qui», disse a Marian, che sbadigliando versava il vino nei bicchieri. «La vulnerabilità può essere pericolosa».
Marian annuì. «Il mio problema è che io la vulnerabilità non la sopporto. La mia sì, ma quella degli altri no. Vado su tutte le furie quando le persone sono vulnerabili».
«Lo capisco quel meccanismo, Marian. Ma io sono cresciuta in un ambiente intellettualmente valido, con un padre che capisce quasi tutto. Del resto era psichiatra. Penso che molto dipenda dall’avere dei genitori felici. Ed è questa la cosa in cui mi sono sforzata di più, in relazione a mio figlio: essere felice. Guarda questa foto di Natale».
Marian sbadigliò di nuovo. Era chiaro chi era il Babbo Natale accanto all’albero: una versione più giovanile di Carl Hammer.
Emmy chiuse l’album. «Non posso restare qui da sola».
«No. Ti assegneranno una guardia del corpo, ma non sarò io. Il caso ha preso un indirizzo diverso. Questa è la mia ultima notte. Devo tornare dal resto della squadra. Ti va di lasciarti ipnotizzare? Forse ricorderesti qualcosa». Marian bevve un sorso di vino.
Emmy Hammer fece spallucce. «Perché no», disse in tono triste.
Marian comprese il suo stato d’animo. «Ho con me la parrucca», disse, andando a prenderla; la indossò ed entrambe videro la comicità di quella situazione. Si assomigliavano moltissimo. Al buio nessuno avrebbe potuto distinguerle. «Gemelle», disse Marian con un sorriso.
«Gemelle». Emmy si fece una gran risata e afferrò il bicchiere. «Salute», disse, e bevve due sorsi.
*
Werner Hagg, seduto nella stanzetta, era intento a leggere il quaderno rosa pallido. Era terribile. Ricordava l’odore dolce e amaro della figlia, e se la rivedeva davanti nel corridoio della cantina. Se ne stette immobile per un po’ prima di sforzarsi di pensare ad altro; l’indomani avrebbe dovuto smontare la grondaia della rimessa e togliere le foglie bagnate, prima che arrivasse il gelo. Si alzò, sollevò il pugno chiuso e lo sbatté contro il muro. Le nocche gli bruciarono dal dolore. Quando era tornato a casa dopo la custodia cautelare, aveva trovato qualcosa nella cassetta delle lettere. Era una letterina di Tilde: caro nonno, e qualche parola carina. Quella lettera della nipotina maggiore gli aveva suscitato uno stato d’ansia, perché lei gli ricordava Maike. Quel caro nonno gli era entrato sempre più dentro, si era piantato nella carne e l’aveva fatto star male. Werner Hagg rifuggiva dai ricordi. Ma ora lì c’era Johnsen, con delle notizie sconvolgenti. Johnsen non era proprio la persona più sana che si potesse immaginare, però erano amici. E gli aveva regalato il cane. E avrebbe messo in atto una vendetta.
Hagg tornò da Johnsen e dal cane. I due uomini si guardarono in silenzio. Hagg restituì il quaderno a Johnsen. Werner tirò fuori del cibo per loro: pane, burro, del gammelost34 che emanava un odore intenso, del pepe e del caffè. Parlarono del funerale di Aud. O meglio: fu Johnsen a parlarne. La donna dal naso aquilino lo avrebbe aiutato a organizzare una bella cerimonia. «Si chiama Miriam», disse orgoglioso. «Miriam dice che devo scegliere dei fiori tenui, lilla, non rossi. E tu devi venire, Werner. Tu sei l’amico che ho da più tempo».
Fu solo dopo che fu sceso il buio che Johnsen telefonò per prenotare un taxi per tornare in città. L’anziano prese il quaderno sottobraccio e uscì fuori nel buio ad aspettare. Attraversò diagonalmente lo spiazzo e rimase in piedi accanto al fienile. Presso il ponticello che portava all’ingresso del fienile stesso, c’era dell’erba scivolosa, schiacciata a terra dalla pioggia. Werner lo guardava dalla finestra. Il riflesso del quaderno, che teneva sottobraccio, era un rettangolo rosa nel buio. Il cane guaì un pochino, e Werner lo guardò senza saper bene cosa fare. Arrivò l’auto. Bruff aveva la coda tra le gambe. Johnsen si sedette sul sedile posteriore e sbatté la portiera. Il taxi attraversò i campi e tornò sulla strada principale. Le sue luci posteriori rosse nel buio ricordavano segnali di pericolo.
*
Marian sbadigliò. «E di amici ne hai, Emmy?»
«Non molti. Non mi servono. Jan è un amico. Sicuramente ti sembrerà strano, ma è così». Fece spallucce. «Non ci ho mai riflettuto prima, ma adesso, mentre te ne parlo, mi rendo conto di non avere molti amici. Ma per me bastano». Si alzò e andò a prendere del cibo in cucina.
«Fondamentalmente è così anche per me», le gridò dietro Marian, chinando mestamente la testa. Il rumore della lavastoviglie creava un’atmosfera di quotidianità. «Io me la cavo benissimo col mio cane». Guardò Birka che stava stesa per terra, e poggiò il bicchiere sul tavolo. Poi si alzò e si avvicinò alla porta-finestra. Con l’occhio colse un movimento ai bordi del giardino. Prese un sorso di vino dal bicchiere. Presso i folti arbusti di pino silvestre, qualcosa sgusciò via. Doveva essere un cane. «Andrà tutto bene, Emmy», disse.
«Rimettiti la parrucca», ridacchiò Emmy. «E stai lontana dalla finestra».
Vanja attraversò il complesso dell’ospedale percorrendo lo stretto passaggio tra gli edifici. Questi ultimi erano immersi nel buio. Una macchina della Securitas uscì dal cancello. L’uomo guardò il cielo. L’Orsa Maggiore non si vedeva. Era la stessa Orsa Maggiore che scorgeva da casa, in Lituania. Passò accanto alla casetta con l’alta ciminiera e poi ai palazzi più grandi in direzione del bosco. Regnava un silenzio assoluto e faceva dannatamente freddo. Pioveva di nuovo: tra poco la pioggia sarebbe diventata neve, come per magia. E la neve conservava le impronte. Sulla schiena aveva lo zaino con dentro un martello e la Glock. Quando, passato il ponte, proseguì in su per il bosco e si fermò di fronte alla grande casa bianca, provò una stretta al petto. Alle finestre erano appese delle tende pesanti, tirate. Attraversò il prato e si diresse verso l’edificio più piccolo. Si passò l’unghia sul dente d’argento. Poi vide due donne bionde che brindavano alla finestra. Una di loro si alzò, e tirò bruscamente le tende. La pioggia stava diventando neve. Quei fili bianchi contro il nero cupo del cielo scendevano obliqui e si scioglievano a contatto con le tegole. All’improvviso sentì un cane che abbaiava dalla strada principale. I cani gli facevano paura.
*
Emmy Hammer dormiva in camera da letto. Marian rimase in piedi a guardare il quadro bianco. Si tolse quella stupida parrucca, e silenziò il televisore. Stava andando in onda l’ultimo telegiornale. Poggiò il telecomando sul tavolo e guardò i piatti vuoti sul tavolo del salotto, che avevano tracce di sugo ormai rappreso lungo i bordi. Lasciò uscire fuori Birka. Il giardino era buio. Il cane corse in giro per il grande appezzamento di terreno. Poi abbaiò rabbiosamente, e tornò indietro ringhiando forte e con il pelo ritto sulla schiena. Marian poggiò una mano sulla pistola e uscì lentamente. Nel giardino roccioso, il muschio cresceva rigoglioso grazie all’umidità. La vista sul bosco era in parte ostruita da alberi e cespugli. Fino a che ora c’era gente che andava a correre lungo il sentiero? Tutte le finestre della casa padronale erano buie. Marian si chinò e afferrò il collare di Birka, la tirò dentro casa e richiuse la porta sbattendola. «Tu sei un cane di città, Birka. Adesso calmati». Mandò un messaggio a Cato dicendo che tutto era tranquillo, ma non ricevette risposta. Al pensiero di lui provava un dolore fisico. Non che ne fosse innamorata, perché così non era. Era più un sentimento di impotenza, la sensazione di aver perso un treno. Spense la tv e la luce, e si stese sul divano con tutti i vestiti addosso. C’era un silenzio assoluto, che durò a lungo. Si addormentò, ma in maniera molto superficiale. D’un tratto sentì un rumore, come uno scricchiolio, e si alzò di nuovo. Fuori in giardino non si muoveva una foglia. Era quasi mezzanotte e mezza. Si avvicinò alla porta della camera da letto di Emmy e la socchiuse. Sotto il piumino bianco si disegnava la sua sagoma. Richiuse la porta, tornò alla finestra del salotto e scostò lentamente una delle tende. Da lontano, all’estrema destra dietro i cespugli coltivati, si vedeva a malapena una striscia sfumata e sottile: era il campanile illuminato della chiesa di Riis.
Nello stesso istante in cui entro nel locale caldaie, vedo il ragno. È nella stanza posteriore. Cammina in equilibrio lungo la parte di legno lucida e arcuata dello schienale del divano di velluto. L’ultima volta l’avevo visto camminare sopra la cesta di vimini addossata alla parete. La cosa che devo prendere è sul bordo inferiore del tripode, dunque non ho bisogno di cercarla. Ho poco tempo a disposizione. Se i ragni non portassero fortuna l’avrei già schiacciata: per me i ragni sono creature femminili, circondate da un campo magnetico scuro e mortale. Tessono una tela che ti si può attaccare addosso come un velo di cattiveria. Cerco di respingere il pensiero di quei fili spessi, che si diramano nel buio come raggi di calore al di sopra di me. Devo liberarmene.
In uno dei cassettini sotto il tavolo da lavoro del guardiano so che c’è una Bibbia. Posso schiacciarla con quella? No, non posso. La sola idea della sostanza molliccia che uscirebbe da quel corpo spiaccicato mi fa venire la nausea. Devo riuscire a metterla dentro una scatola, e portarla fuori. Al piano di sopra, sotto il letto, c’è un vecchio contenitore di latta. Ora salgo su e lo vado a prendere. È vuoto. L’ho già aperto in passato.
Quando scendo di nuovo giù, è ancora ferma allo stesso posto. Tutte le creature vogliono vivere. La lotta per la sopravvivenza individuale determina tutta l’esistenza. Quanto sarà grande il cervello di una creatura come questa? Che tipo di percezione ha il ragno dei movimenti nello spazio, dei segnali visivi della mia presenza? Ogni forma di vita è composta da processi complicati che armonizzano, confrontano, analizzano e mostrano la propria capacità di esercitare una sintesi creativa. Le cellule funzionano in maniera logica, un po’ come se delle lettere si combinassero con delle parole, che sarebbero poi i nervi, che a loro volta costituiscono la sensorialità.
È così: ogni individuo affina la propria tecnica sensoriale, e noi che siamo creature più complesse operiamo chiaramente con l’aiuto di ingegnosi programmi interni. Questo lo so per certo. Per questo ho paura del ragno. E per questo lei ha paura di me. Siamo simili, noi due. Nessuno di noi vuole andarsene da questo posto. Ma forse io dovrò farlo molto presto.
Piet Hagg spingeva avanti lo scooter. Era la mattina di martedì 12 novembre. L’ultimo giorno: ci pensava in quei termini perché ormai aveva preso una decisione. Erano soltanto le otto e dieci. Enormi fiocchi di neve leggera cadevano obliqui dal cielo e giù lungo per le cime nere degli abeti. Sulla schiena aveva lo zaino con vari oggetti, tra cui ciò che aveva fabbricato nella rimessa. Era tornato tardi, quella notte, per parlare con Berit. Ma lei già dormiva, e dunque lui non l’aveva svegliata. Era come se lei volesse tenerlo isolato dal mondo. Il fumo del comignolo della casetta gli era rimasto attaccato come un alone. Gli ricordava l’odore della sua infanzia, quello intenso della fuliggine. Quell’odore nero come il carbone che aveva rovinato tutto quanto: i mobili acquistati a rate, le pareti, il soffitto e il ricamo incorniciato. E la madre. Non ce la faceva proprio a ripensare a tutto ciò che era successo. Tutto era ammantato in un’oscurità vuota. Era un incubo.
Un corvo gracchiò in quella distesa di bianco. Il suono lacerò il paesaggio. Piet accese il motore e diede leggermente gas. In alcuni punti doveva scendere e spingere a mano. Le cose andavano bene, fintantoché la neve non attecchiva. Avanzava a zig-zag evitando le buche. Era stufo di Berit. Ormai era un uomo di trentanove anni e non era né ritardato, né incapace. Le sue potenzialità erano di gran lunga superiori a quelle che gli attribuiva lei. Se Berit avesse potuto leggergli nel pensiero, avrebbe capito che in realtà era un tipo analitico ed energico. Decisioni banali, ad esempio se preferisse mangiare del lapskaus o la pizza, erano diventate difficili da prendere, nel corso dell’ultima settimana. Se sceglieva una cosa, spesso poi si chiedeva se non sarebbe stato meglio scegliere l’altra. Questo continuo dubitare lo aveva portato a un’irrequietezza che lo stava annientando. Le mani di Berit erano in grado di trasformare i lamponi in tè, dessert o marmellata. Ma lui provava un dolore fin dentro al midollo. Berit ora stava radunando le sue cose; voleva tornarsene a casa, verso sera. Lui aveva cercato di dissuaderla. Le aveva detto che voleva starsene un po’ in pace, a Majorstua. Allora le erano spuntate le lacrime agli occhi. Era fragile come fosse di vetro. Questo era certo. «Ti verrà la polmonite, Piet», gli aveva detto prima che lui si allontanasse in scooter. «Non mi chiamo Piet», aveva risposto lui. E aveva provato l’impulso di farle una scenata.
Quel giorno aveva visto i poliziotti al lavoro nel giardino di Hammer. Berit non sapeva che fosse ricercato. Eppure sulla prima pagina di «vg» c’era scritto: Perché Piet Hagg ha cambiato nome? Piet sentiva freddo, sebbene fosse vestito pesante e indossasse i guanti. Raggiunse Sollihøgda e imboccò la E16. Nei fossi ai bordi del manto stradale, l’erba appesantita era piegata fino a terra. I grandi meleti erano ancora avvolti dal riflesso di quella giornata candida. L’indirizzo dell’agenzia funebre lo sapeva a memoria. In un paio di occasioni ci aveva fatto un salto per sbirciare nel cortile posteriore; aveva guardato l’ingresso con le volute sui muri e quelle alte finestre all’antica al primo piano con una scritta in bianco sui vetri: “Vita”.
*
Marian era nella cucina della dépendance e maneggiava la ricetrasmittente fissata al suo taschino. Non pioveva, ma il cielo era color grigio metallico, le nuvole basse incombevano sul giardino, e il tetto nero della casa padronale era bianco di brina. Erano le nove. Era stanca. Aveva dormito di un sonno leggero. Sul tavolo da cucina, poggiato sulla borsa, c’era il suo badge, attaccato a un cordoncino. Lo prese e se lo mise al collo. Era stata all’erta tutta la notte, ma ogni tanto si era appisolata. Una voce della centrale operativa delle ambulanze le gracidò addosso. «Nottata tranquilla, qui», disse Marian, «passo e chiudo». «Ricevuto», rispose la voce del collega della centrale operativa di polizia.
Emmy uscì dal bagno. Sembrava un po’ imbronciata. Marian aveva fatto la guardia ad altre donne in pericolo, in passato. Di solito erano riconoscenti, ma era evidente che Emmy era stufa. Durante le ore successive, lavorò ancora al quadro per completarlo. L’odore di trementina invase tutto il salotto. La tela si ricoprì gradualmente di sfumature di colori chiari, e alla fine somigliava a una nuvola.
«Capisco che possa star bene in un’agenzia funebre», disse Marian sganciando il guinzaglio a Birka, che aveva corso un po’ in giardino.
«Adesso possiamo andare in macchina da Ingrid, a portarle il quadro? Tanto Jan è ancora in custodia cautelare…».
«No!», disse Marian. «Dobbiamo rimanere qui».
«No. Adesso basta. Non è colpa mia se Aud Johnsen è morta. Adesso pensate voi a trovare l’assassino. L’agenzia si trova in Welhavensgate».
Marian incrociò le braccia e la guardò. «Piet Hagg non è stato ancora trovato, Emmy», disse, afferrando la parrucca che stava su una sedia.
«Piet non è pericoloso. È il meno pericoloso di tutti. Non c’è mica bisogno che Isaksen lo venga a sapere, se è di lui che hai paura».
Marian la fissò. Era mattina. C’era molta luce. Gente dappertutto. «Va bene», disse. «Facciamo un salto giù e torniamo subito su. Rimettiti il giubbotto antiproiettile».
Emmy tornò con indosso dei pantaloni lunghi e un maglione verde che faceva sembrare ancora più pallido il suo viso. Sopra infilò il giubbotto, e poi indossò il piumino blu. «In basso il quadro non è ancora del tutto asciutto, quindi dobbiamo stare attente che non macchi nulla».
Portarono fuori il quadro e lo misero in macchina. Riuscirono a stento a farcelo entrare in piedi sul lato corto. «Comincia a fare più freddo», disse Emmy sedendosi sul sedile del passeggero. Solveig Hammer arrivò attraversando il giardino a piccoli passi. Emmy scese di nuovo dalla macchina; le spiegò che un’agenzia funebre aveva acquistato il suo quadro; dovevano soltanto consegnarlo e poi sarebbe tornata. La madre era pallida. «Papà dorme ancora», disse piano. «Hai mangiato qualcosa?»
«Sì, abbiamo mangiato, mamma. Vai dentro da papà, poi verrò a trovarvi».
Marian spinse il cane sul sedile posteriore e gettò distrattamente dentro la parrucca, che finì sul borsone grigio di Emmy. Il furgoncino bianco si avviò su per la strada verso Trosterudveien, e poi svoltò a sinistra.
«Prendiamoci un caffè alla casa di Hønse-Lovisa», disse Emmy mentre superavano il centro commerciale di Tåsen. «È proprio qua vicino. Sono stufa dell’isolamento. Fanno i vafler più buoni del mondo».
«Ci sono stata, qualche volta». Marian fece la rotatoria presso la chiesa di Sagene, e poi proseguì. Guardò nello specchietto retrovisore, non vide nulla di sospetto e trovò un parcheggio di fronte al parco lungo il fiume. Fece una manovra invidiabile, infilandosi tra due macchine. Sorrise fiera, spense il motore e scesero dall’auto. «Provo a portarmi dentro anche Birka. Qui non ci fanno tanto caso».
Attraversarono la strada. Il mormorio dell’Akerselva giungeva loro attraverso il rumore del traffico. Si avviarono verso la casetta di legno rosso. C’era una grande chiave antica, nella serratura.
Marian accorciò il guinzaglio di Birka. «Pensi che quella volta Maike avesse le chiavi della cantina?»
«È possibile». Emmy si sfilò la giacca. «Le chiavi erano appese nel locale caldaie. Qualche volta, il guardiano Ole si dimenticava di chiudere la porta».
*
Cato Isaksen sedeva con la testa tra le mani, e fissava lo schermo del computer. Gli avevano promesso che i risultati delle analisi del dna sarebbero arrivati quel giorno. Era stato pubblicato un altro studio che riguardava la polizia. I media ci sguazzavano: Polizia norvegese inefficiente e costosa. Il ministro della giustizia aveva ordinato di interrompere il servizio che permetteva di inviare richieste di aiuto via sms alla centrale operativa e ai numeri di emergenza. I distretti non riuscivano a risolvere neanche i casi più elementari. Cato si alzò. L’intuito lo spinse ad andare alla finestra. Sotto c’era una donna. Assomigliava a Bente. Possibile che fosse lei? La donna si girò, e si avviò veloce per il sentiero tra le aiole erbose. Sembrava proprio lei! Cato uscì di corsa dall’ufficio e percorse il corridoio arrotolandosi nervosamente il cordoncino del suo badge intorno al dito. Quando arrivò di sotto, lei non c’era più. Non appena fu tornato in ufficio, ricevette un messaggio.
*
Avevano mangiato un vafler ciascuna e finito di bere il caffè, e si erano incamminate verso la macchina. Sottili fili di pioggia si trasformavano in nevischio prima di toccare l’asfalto. Il cellulare di Marian segnalò l’arrivo di un messaggio. Era di Cato: Jan Hagg verrà rilasciato. I presupposti per la custodia cautelare sono venuti a mancare. Se ne andrà non appena avremo completato le formalità. Ti telefono dopo.
Qui tutto tranquillo, rispose Marian. Era contenta di sentirlo, ma non disse nulla a Emmy riguardo alla decisione del giudice, e a Cato Isaksen non scrisse che stavano all’agenzia funebre. Ci avrebbero messo un attimo. Poi sarebbero tornate nella dépendance.