Vanja stava nella zona alta del complesso ospedaliero, presso l’edificio in muratura su in cima, lì dove finiva il prato e iniziava il bosco. Era vestito troppo leggero: portava soltanto una giacca a vento, un jeans sdrucito e scarpe da ginnastica sporche. L’uomo magro gli si fece incontro. Aveva sempre lo stesso soprabito, ma indossava delle scarpe al posto degli stivali.
*
John Johnsen guardò Vanja, non disse nulla, ma notò che l’uomo dell’Europa dell’Est aveva gambe corte e robuste. Attraversarono il ponte sopra il ruscello, dove un paio di raggi di sole danzavano sulle pietre. I raggi erano immersi nell’ombra scura. Imboccarono l’ampio sentiero e proseguirono in su per il bosco. Tra i tronchi degli alberi si intravvedeva la macchia chiara di una delle casette per i tisici. «La casa per i malati di tubercolosi», disse l’anziano, facendo un cenno col capo. Vanja annuì. Di certo non aveva capito che era quella, la parola d’ordine. Non ancora. Era sabato, e la gente andava a passeggio. All’improvviso sentirono un leggero fischio: c’erano un uomo e il suo cane da caccia. Il setter rosso si fermò per un attimo ad annusare l’aria prima di attraversare il sentiero a zig-zag e proseguire nella sua corsa. Il proprietario, che aveva un berretto di lana fatto a maglia calato sulla fronte, lo seguì col guinzaglio che gli penzolava dalla mano, e sparì. John Johnsen guardò in alto per vedere se ci fossero telecamere di sorveglianza sugli alberi, ma non ne vide nessuna. Le conifere erano fitte fitte, ma più salivano in alto, più numerosi erano gli alberi a foglia larga. Strisce sottili di luce invernale coprivano il sottobosco. I tronchi neri esalavano un aroma intenso. Le foglie erano cadute e giacevano a terra gialle, rosse e brune, ma alcuni degli alberi avevano ancora chiome verdi e rade.
Passarono accanto ad alcune belle ville in fondo ad ampi giardini. John Johnsen pensò al cane della figlia. Era nella casetta negli orti. Gli aveva lasciato del pane raffermo su di un piatto. La donna col naso aquilino era passata a casa sua, qualche ora prima. Lui aveva avuto paura di incontrarla faccia a faccia, ma sapeva che era inevitabile. Lei si era fermata appena varcata la soglia, senza entrare propriamente dentro casa. Per un attimo, Johnsen aveva percepito una specie di comunanza con quella donna: anche lei era sola, in quella casetta in mezzo agli orti. Il suo spesso maglione tradizionale odorava di freddo, come se l’aria invernale si fosse ghiacciata, rimanendo imprigionata nella trama. Gli disse che la polizia era andata a cercarla, e che lei ci aveva messo una buona parola. Dopo lo aveva invitato a cena, come se quella fosse la sua ricompensa, ma lui aveva detto di no.
Dopo dieci minuti arrivarono al giardino con gli edifici bianchi. «Ecco, è qui», disse, e per un attimo, il lituano fu costretto a incrociare il suo sguardo.
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Vanja si ficcò le mani fredde in tasca. Il giardino era bello, con un grande prato, alberi e siepi decorative che rimanevano verdi anche d’inverno, e alcuni cespugli di rosa canina con le bacche nere e marcite. C’erano anche un laghetto e una specie di fontana, o forse un abbeveratoio per gli uccelli. Sarebbe stato necessario togliere l’acqua prima che gelasse. Era grigia, e piena di foglie incollate le une alle altre.
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Due signore che facevano jogging li superarono. Johnsen era sul chi vive. Si rendeva conto che dovevano proprio sembrare una strana coppia: un anziano con un lungo soprabito, e un quarantacinquenne dell’Est Europa rosso di capelli, che si era pompato i muscoli in diverse palestre sia nel suo Paese d’origine, sia nei quartieri est di Oslo20. In ogni caso se n’era vantato, forse per convincerlo che aveva la forza fisica e psichica necessaria a uccidere. Il piano per il momento aveva delle lacune: Vanja non aveva un’arma, ma John Johnsen aveva in mente che l’omicidio sarebbe stato compiuto due o tre giorni dopo. Quella mattina era sceso giù in cantina a Vøyensvingen e aveva preso il resto del denaro. Ora la vecchia scatola di metallo con le rose impresse sopra era vuota. «Devi procurarti un’arma al più presto. Al momento dell’omicidio io dovrò trovarmi a casa, così ho un alibi. I soldi li avrai quando avrai portato a termine il tuo compito. Penserò a come farteli avere. Tra qualche giorno», disse John Johnsen. “Tu sei un rifiuto umano”, pensò. “E devi eliminare un altro rifiuto umano. Non è una cosa a cui dare troppo peso”. All’improvviso gli sembrò di essere finito dentro una voliera con alcune sbarre mancanti.
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Dopo la riunione, si ritrovarono in corridoio. Cato Isaksen guardò Marian e disse: «Prima, quando ti presentavi alle riunioni con il cane, mi obbligavi a reagire. Ma adesso non attacca più, quindi lascia proprio perdere. E ora vedete di andarvene a Vøyensvingen».
«Ok», disse lei, sorprendentemente. «Vuoi dire che Birka può starsene qui?»
«Preferirei di no».
«Le faccio fare una passeggiata e la metto giù in macchina».
«Puoi sistemarti nell’ufficio di Randi», le gridò dietro. «Del resto in passato l’avete condiviso».
Marian si tirò dietro Birka in ascensore. Pensava soltanto al faldone 1028/65, dove c’era scritto che Werner Hagg era stato nello stesso reparto di John Johnsen. La figlia era caduta da una scala nell’archivio sotterraneo dell’ospedale di Gaustad nel 1988. Il nome di Aud Johnsen compariva in una lista di nomi per le cosiddette “giornate di visita per i bambini dei pazienti”.
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Roger entrò nel suo ufficio con due stampe di fotogrammi presi dalla telecamera di sorveglianza: una della maschera da diavolo, e l’altra della Volvo. Cato Isaksen le attaccò alla parete dietro la scrivania.
«Però in fondo era Halloween», sottolineò, «quindi non dobbiamo dare troppa importanza a quella maschera».
«La regina delle nevi è tornata», disse Roger masticando energicamente una gomma. «Sempre da maneggiare con le pinze».
Cato Isaksen tirò un respiro. «Ma stai zitto, Roger», si sorprese a dire. Era la prima volta che non gli era piaciuto sentir parlar male di Marian. C’era qualcosa nel suo atteggiamento che era cambiato. Era diventata più umile.
«Ho delle novità, Cato, delle informazioni utili sul telefono», continuò Roger sventolando un foglio. Poi lesse a voce alta: «Secondo la compagnia telefonica, il cellulare di Aud Johnsen ha cessato di funzionare alle 21:06 del 31 ottobre. La cella è quella che copre l’area di Sandaker, quindi è verosimile che l’assassino abbia eliminato il cellulare. L’ultima persona chiamata da Aud è stato il padre, John Johnsen, alle ore 20:02. Prima, Aud aveva chiamato una certa Berit Adamsen alle 19:52. Ha fatto quel numero per tre volte. Le sono arrivati alcuni sms, anche ieri nel corso della giornata, ma non possiamo stabilire chi li abbia inviati. Qualche giorno prima aveva anche chiamato un certo Ole Porat, ma senza ricevere risposta. Sono entrato nei registri dell’anagrafe. Berit Adamsen percepisce il sussidio di invalidità civile dal 1989, ma di professione è infermiera. È single e non ha bambini. Abita a Majorstua, in Kirkeveien 71. Se torniamo indietro di qualche giorno, vediamo che la vittima aveva chiamato anche una certa Norma Winther. È un sacerdote della parrocchia di Fagerborg».
Il campanile della chiesa di Fagerborg svettava in cielo come una grossa lancia color verderame. Erano quasi le undici e mezza quando Cato Isaksen fermò la macchina sul piazzale del parcheggio vuoto. Quello era il cuore della città, ma alle spalle dell’edificio si trovava lo Stensparken. Cato aprì la porta della chiesa ed entrò. Lo stupì il fatto che fosse aperta. Non c’era nessuno. Percorse la navata centrale e arrivò all’altare, davanti al quale bruciava una candela solitaria. Sulle pareti di fondo c’erano degli affreschi con i discepoli. Le vetrate avevano colori sgargianti. Il Redentore indossava una tunica rossa. Sui paramenti dell’altare c’era ricamato, in una scrittura a volute: iFece quietare la tempesta, e le onde intorno a loro tacquero. E loro ne gioirono, e Lui li condusse sicuri in porto.
Nel fonte battesimale c’era dell’acqua. Cato si guardò intorno; gli sembrava di commettere un illecito per il semplice fatto di trovarsi in quel luogo. Un suono lo fece girare. Alle sue spalle c’era una donna senza trucco, intorno ai venticinque anni. Aveva i capelli chiari e corti, e indossava dei jeans che ne mettevano in evidenza le cosce robuste. Sorrise. «Sono Lilly Hausmann. La nuova catecheta. Se vuoi startene da solo, non c’è alcun problema».
Lui si mise le mani in tasca con fare rilassato. «Sono della polizia, ci sono un paio di cose che vorrei sapere. Devo parlare con Norma Winther. È qui, oggi?»
«Sì, sta preparando il sermone della domenica. Vai pure nel suo ufficio, lì a destra: è la porta dietro la sagrestia».
*
La donna alzò la testa e la inclinò leggermente da un lato. Il poliziotto entrò nell’ufficio. Un raggio giallo, l’ultimo prima che il sole sparisse dietro una grande quercia, si insinuava in un angolo proiettando un riquadro luminoso sulla parete. Norma Winther vide il badge che lui aveva al collo e si alzò. Il poliziotto aveva una stretta di mano energica.
«Cato Isaksen», disse.
*
Cato Isaksen la guardò. Forse la stretta di mano di lei era stata intenzionalmente passiva. Il pastore indossava una tunica fin troppo stretta con una fantasia vistosa, che metteva in evidenza le braccia grasse e flaccide. Aveva un viso tondo come una luna piena, i capelli grigi tagliati dritti e le mani grandi, con dita tozze e unghie corte.
«Ci serve il tuo aiuto». Cato si sedette sulla sedia che lei gli indicava. Sulla scrivania c’era una confusione di carte e una grande Bibbia aperta, con pagine sottilissime.
«Vado subito al sodo. Avevi mica un appuntamento con Aud Johnsen, il primo novembre?».
Il viso di lei si rabbuiò. Attraverso la finestra, Cato intravvide la testa della catecheta, che girava l’angolo della chiesa.
«Sì», disse. «A mezzogiorno. Ma non è venuta».
«La donna che è stata uccisa, come sicuramente avrai sentito, è Aud Johnsen».
Il respiro della donna si fece corto e affannoso. Fissò lo sguardo sulla parete al di sopra della testa di lui.
Cato Isaksen la guardò alzarsi dal suo posto dietro la grande scrivania, e avvicinarsi a una cassettiera di metallo. Notò che si muoveva molto agilmente, per essere così corpulenta.
«Qui ho una foto dei tempi di Gaustad. Ho lavorato lassù per parecchi anni».
*
Per un istante se li rivide tutti davanti: Aud, Emmy e Maike. Jan e Piet. «Conoscevo Aud Johnsen fin da bambina. Ma era da quando aveva dodici anni che non ricevevo più sue notizie. Poi però mi ha spedito un sms. Non riesco a trovare quella foto».
Cato Isaksen fissava il cellulare sulla scrivania. «Quindi tu lavoravi lassù come pastore. Secondo te, per quale motivo voleva parlarti, adesso?»
«Non lo so».
«Tra un’ora renderemo noto il nome della vittima nel corso di una conferenza stampa. Vorrei guardare il tuo cellulare. Ti ha inviato vari messaggi, ma non possiamo vedere cosa c’è scritto perché il suo cellulare risulta spento ed è sparito».
Norma Winther prese in mano il telefono. «I messaggi li puoi vedere qui». Premette qualche tasto e glielo porse.
Lui lesse:
Ciao Norma. Quanti anni sono passati. Ho bisogno di parlare con te di alcune cose importanti riguardo al periodo di Gaustad. Ti ricordi di me? Aud Johnsen.
Certo che mi ricordo, Aud. Non dimenticherò mai voi ragazze. Spero che tu stia bene. Vuoi venire nel mio ufficio? Norma
Sì, molto volentieri. È una cosa un po’ urgente.
Vieni domani. A mezzogiorno, va bene? Chiesa di Fagerborg. Vicino allo Stensparken, in Pilestredet 72.
Grazie.
Cato poggiò il cellulare sul tavolo davanti a sé. «Porca miseria, cose impor… scusami, non siamo nel posto giusto per usare queste parole. “Cose importanti”, dice nel suo messaggio. Puoi raccontarmi qualcosa di Gaustad? Qualcosa della morta e di suo padre. Ti ricordi John Johnsen?».
Lei chinò lo sguardo e guardò la tazza di caffè ormai vuota. La teneva stretta tra le mani. Avrebbe dovuto offrirne anche a lui. «Certo. Johnsen pensava che Gesù, resuscitato, ora lavorasse alla biblioteca Deichmanske. Era molto preso dai libri. Aveva adocchiato un uomo lì, e cercava di acchiapparlo. Voleva dimostrare che si trattava realmente del Redentore. Johnsen se ne va ancora a zonzo per Oslo, mi è sembrato di capire».
Cato Isaksen annuì, e raccontò della sindrome dissociativa che Aud Johnsen aveva cercato su internet. «Non abbiamo ancora tutti i risultati delle perizie tecniche, e non sappiamo chi stiamo cercando. Ti viene mica in mente chi possa aver fatto una cosa del genere?».
Norma Winther fece un movimento nervoso. Poi scosse la testa.
«Non era facile per i bambini dei malati psichici. Non lo è neanche oggigiorno. Aud voleva bene a suo padre. Più che una chiesa, quella lassù è una specie di cappella. Non mi chiamavano Norma, ma Normale. Per scherzo. E parlavamo spesso di quel luogo come di un ostello. Era importante avere un po’ di humour nero. La responsabile dei bambini però era Berit Adamsen, non io».
«Nella redazione in cui lavorava Aud, abbiamo trovato un foglio di carta con sopra un nome. Maike. Ti dice qualcosa?».
Il sacerdote chiuse gli occhi. Poi li riaprì e annuì lentamente. «Sono stata io a celebrare il funerale di Maike Hagg».
*
Mentre aspettava che Irmelin Quist tornasse, Marian fece fare un giretto al cane sul prato davanti alla questura, prima di riportarlo in macchina nel garage sotterraneo. Al quarto piano si sfilò la sciarpa e rimase ad aspettare accanto all’ascensore. Ellen Grue le stava facendo pressione affinché la raggiungesse a Vøyensvingen. Vengo tra poco, rispose lei via sms. Accidenti a Irmelin, ci stava mettendo un sacco di tempo.
*
Irmelin Quist entrò dall’ingresso principale, attraversò l’atrio, fece scorrere il badge nel lettore e si avvicinò all’ascensore. Al quarto piano c’era Marian che l’aspettava al varco. Irmelin le fece vedere la cartella originale con il numero 1028/65 stampato sulla busta di cartoncino grigio.
«Grazie, Irmelin». Marian gliela tolse dalle mani e si avviò verso l’ufficio di Randi.
*
Cato Isaksen provò una stretta allo stomaco. Berit Adamsen e Norma Winther avevano lavorato entrambe a Gaustad. Allora questa doveva essere davvero la pista giusta! Guardò il sacerdote. «Parlami di Berit Adamsen. Ci risulta che Aud Johnsen cercò di chiamarla varie volte, nei giorni prima di essere assassinata».
«Era la segretaria del reparto in cui si trovava John Johnsen».
«Sei ancora in contatto con lei, in qualche modo?»
«No».
*
I bambini arrivarono poco dopo l’uscita da scuola e varcarono il portone principale, con gli zaini infilati solo da un lato. Erano stanchi e affamati. Si fermarono un po’ su di una panca verde che proiettava lunghe ombre pomeridiane sull’erba. Norma li vide dalla finestra.
La luce era quella tipica della prima estate: calda e gialla sulle pareti delle case, con un riflesso verdastro che proveniva dalle foglie appena spuntate sugli alberi. Gli edifici in muratura trattenevano il calore al proprio interno. Le finestre erano spalancate, ovunque. Dall’interno dell’edificio, qualche paziente solitario guardava quella giornata estiva che per lui era irraggiungibile. Lei e Berit avevano preparato bevande gassose e brioches, come sempre. I bambini avrebbero prima mangiato, poi giocato un po’ tra di loro e infine avrebbero incontrato i padri. Il refettorio non era esattamente ciò che si dice accogliente. L’aggettivo “freddo” gli si addiceva di più. I tavoli di fòrmica erano sistemati uno a fianco all’altro come banchi di scuola. L’aria era opprimente. L’albero che si trovava proprio lì fuori filtrava la luce lasciando entrare raggi che sembravano lame affilate. Quella luce rendeva dorati i capelli chiarissimi di Emmy. Lei sedeva a capotavola, come se fosse una persona speciale. E in effetti lo era, visto che era la figlia del primario. Aud sedeva in fondo al tavolo, accanto a lei. Indossava un grazioso vestitino estivo e dondolava i piedi con le scarpette rosse dai lacci neri. Maike, con indosso dei jeans sdruciti e una maglia verde, sedeva più in là, tra i suoi due fratelli. Jan dava sempre l’impressione di essere a disagio. Era alto e ben piazzato per la sua età: bello, ricordava un po’ James Dean, ed era sempre ben vestito. Suo fratello Piet, al contrario, era un po’ troppo basso, un po’ troppo grasso, decisamente troppo curvo e sembrava già stanco, sebbene avesse soltanto quattordici anni.
Norma quel giorno sentiva un calore che le bruciava dentro, come se il tempo che aveva di fronte fosse infinito e stesse per riempirsi di cose belle; di certo non poteva immaginare ciò che sarebbe successo di lì a poco. Cantò un salmo per i bambini mentre mangiavano. Beri, che si era tirata su i capelli ed era ben truccata, scacciò una mosca colpendola con la mano. Quel vestito a quadretti celesti le donava. I bambini ridacchiarono un po’ prima di mettersi ad ascoltare la canzone. Norma sapeva di avere una voce pura e cristallina, che aveva avuto occasione di esercitare durante le messe. Sapeva anche che i bambini scherzavano sul suo aspetto, perché aveva trovato, in un cestino della carta straccia, un disegno fatto da Emmy che la ritraeva. Era una specie di caricatura, e lei sembrava più grassa e più trascurata di quanto non fosse in realtà; però il disegno era fatto bene. Emmy era brava.
Fu Aud che si accorse della bambola. Maike aveva con sé nello zainetto un bambolotto di plastica con un buco in testa. Aud ed Emmy lo tirarono fuori e si misero a ridere. A dodici anni non si giocava con le bambole! Jan si alzò e glielo strappò di mano, mentre Maike e Piet rimanevano seduti ai loro posti. Non successe niente di più, almeno in quel frangente. La bambola fu riposta nello zaino, e i bambini uscirono all’aperto. Attraverso la finestra, Norma vide Emmy e Aud parlare con Ole presso il locale caldaie. Lui stava a torso nudo, appoggiato alla parete. Un gatto si avvicinò. Norma corse giù per le scale. «A torso nudo no, anche se la giornata lavorativa è finita», disse severa. Ole Porat sorrise con i suoi denti bianchi, entrò dentro e prese una T-shirt che si infilò lentamente da sopra la testa con i lunghi capelli biondi che gli arrivavano alle spalle.
Emmy e Aud uscirono dalla porta spalancata del locale caldaie. Emmy aveva una bottiglia in mano, forse di sciroppo. Le sue dita assomigliavano a graziosi artigli in miniatura. Quelle piccole, svelte figure corsero giù verso il sottopassaggio presso l’edificio principale. Maike le seguiva un po’ a distanza. Jan e Piet calciavano un pallone nero contro un muro. Quel rumore monotono rimbalzava tra gli edifici.
Norma salì di nuovo da Berit, e insieme rassettarono la mensa. Poi Berit uscì per controllare i bambini. Norma ebbe un terribile presagio, e si avvicinò alla finestra aperta. Sul piazzale lì di fronte non volava una mosca. I bambini non c’erano. Berit scese di corsa per il vicolo stretto. Dopo poco la seguì anche Norma. Delle rondini scesero in picchiata dal cielo, stridendo, come un cattivo auspicio. Ora la porta del locale caldaie era chiusa. Norma si accorse che la porta di legno verde chiara da cui si accedeva giù in cantina dall’edificio principale era aperta. Non si vedevano né i bambini, né Berit. Le chiome degli alberi ondeggiavano leggermente alla brezza, e il cielo pomeridiano era azzurro come il mare.
Piet, Emmy e Aud erano in cantina, da dove partivano i cunicoli. Norma scese giù. I raggi proiettavano strisce gialle sulla ruvida superficie del pavimento. Granelli di polvere danzavano alla luce. Aud stava girata di spalle. Le sue scapole sottili si stagliavano sul dietro del suo vestitino. I bambini stavano in silenzio, immobili, Emmy con la bottiglia stretta al petto.
«Maike si è allontanata correndo», disse Piet con quella voce che si stava trasformando. «Berit la sta cercando là dentro. Anche Jan. Emmy l’ha costretta a bere l’acquaragia. Ma Maike non ha i vermi!». Quando ebbe finito di parlare, Aud cominciò a singhiozzare, poi uscì correndo. Sparì come una silhouette di cartone in controluce. Emmy se ne stava lì con le guance bagnate di lacrime e stringeva le dita intorno alla bottiglia. Norma si accovacciò e cominciò ad addentrarsi nello stretto tunnel. Sentì un suono. Maike che piangeva e Berit e Jan che la chiamavano a gran voce. Il suono si fece più forte e divenne un frastuono, che lei da allora non riuscì mai più a dimenticare.
L’auto-civetta attraversò l’incrocio con il semaforo arancione. Il sangue pulsava forte nel collo. Norma Winther aveva raccontato che il salmo Nessuno è più al sicuro dei fanciulli del Signore lo avevano cantato al funerale di Maike Hagg, e che i suoi fratelli erano seduti al primo banco insieme al padre. Cato non riusciva più a togliersi dalla testa quella melodia. Nessuno è più al sicuro dei fanciulli del Signore. Mancava soltanto una mezz’ora alla conferenza stampa. Dei media si sarebbe occupato l’addetto stampa, questa volta, ma a lui toccava comunque essere presente.
*
Marian estrasse un documento dalla cartella. Era quello in cui si parlava della morte di Maike Hagg. Attraversò il corridoio, e poggiò il tutto sulla scrivania di Cato. Nello stesso istante, lo vide arrivare di corsa, e gli andò incontro. «Ho trovato quel nome: Maike, Cato. È nei documenti sulla tua scrivania. È morta a soli dodici anni», disse Marian.
Lui la guardò con un’espressione stressata. «Ma non sei a Vøyensvingen? Maike Hagg era la figlia di un paziente, ed è morta a Gaustad nell’88. Il padre era ricoverato nello stesso reparto di John Johnsen. Ha ucciso la moglie con un’ascia, e poi ha dato fuoco alla casa».
Lei provò un senso di fastidio che le corse per la spina dorsale. «È fantastico che tu abbia scoperto questa cosa, Cato», sorrise.
«È stata Norma Winther, il pastore, a raccontarmelo. Lei e quella Berit Adamsen lavoravano entrambe a Gaustad. Dov’è Roger?»
«Sta andando a prendere John Johnsen».
Cato Isaksen si sfilò la giacca. «Concentriamoci al massimo per scoprire altre cose riguardo a Hagg, e se c’è un legame con John Johnsen. Ora, conferenza stampa. E poi dritti da Berit Adamsen». Guardò veloce il foglio in cima alla pila: La morte di Maike Hagg non è considerata sospetta. Non ci sono tracce di abusi sessuali. Come da prassi, sono stati eseguiti accertamenti in tal senso.
*
Norma Winther passò accanto al camper sul retro della chiesa. Sapeva che Lilly Hausmann se ne stava seduta lì dentro e la seguiva con lo sguardo. Si incamminò per l’erba gialla e bagnata, e attraversò l’area con le aiuole che come ogni inverno erano senza fiori. Aveva smesso di avere grandi aspettative, nella sua quotidianità. Si era sforzata di sviluppare un alto livello di autocontrollo. “Quando la tua personalità cambia, nessuno può neanche lontanamente immaginare che tipo di persona fossi, prima”, pensò girando la chiave nella serratura della canonica. Prima Lilly aveva cominciato a lavorare come catecheta, e poi era comparso quel poliziotto. Entrò nel primo salotto e si lasciò cadere sul divano di cretonne che aveva una fantasia esageratamente vistosa. Non aveva nulla a che vedere col resto di quell’abitazione austera. Prese una piccola manciata di zucchero candito da una coppetta sul tavolo, e lo fece scrocchiare sotto i denti. Durante il funerale di Maike, erano tutti quanti seduti nella piccola cappella: Carl Hammer e la moglie Solveig, con Emmy nel mezzo. La famigliola felice. Per Hammer era stato terribile. Norma non lo aveva mai visto piangere, prima di allora. Werner Hagg sedeva in prima fila con accanto i due figli. Teneva la schiena dritta, ma gli si leggeva il dolore in viso. John Johnsen e Aud sedevano dietro di loro. Aud era stata a occhi bassi per tutto il tempo. Berit e alcuni infermieri uomini sedevano sui banchi posteriori a fare la guardia, perché sia Hagg che Johnsen erano sottoposti a trattamento obbligatorio per ordine di un tribunale. Era incredibile come le giornate di sole potessero susseguirsi una dopo l’altra come pecorelle bianche, per poi trasformarsi in belve predatrici.
*
Già prima di premere l’interruttore nel corridoio della cantina del condominio a Vøyensvingen, Marian percepì quanto fosse stretto e angusto. Ellen Grue era con lei. C’era una fila di piccolissimi ripostigli delimitati da una rete metallica. Il vicino di casa di John Johnsen, Magnus Moholt, un uomo grasso e pallido sulla settantina, aprì loro la porta e mostrò a Marian e al tecnico quale fosse il ripostiglio di Johnsen. Dopodiché rimase in piedi ad attendere, e dunque Marian dovette chiedergli di esser così gentile da andarsene. Dopo che si fu dileguato, Marian aprì una pesante porta di ferro che portava a quello che era un rifugio antiaereo. Era sporco, vuoto e polveroso, eccezion fatta per alcune biciclette ammucchiate lungo le pareti.
Dopo un quarto d’ora, Marian riuscì a forzare il lucchetto del ripostiglio di Johnsen. C’erano casse con vecchi vestiti e attrezzi, uno slittino a spinta abbandonato e vasetti di marmellata vuoti sistemati su alcuni scaffali. Accanto a una vecchia lampada c’era una scatola di metallo con delle rose. Ellen Grue si mise i guanti e tirò fuori le casse con gli attrezzi. Poi aprì la scatola con le rose. Era vuota.
Emmy Hammer prese l’iPad e cercò le ultime notizie del quotidiano «vg». Si sedette sul divano. In cima alla paginata c’era una foto: era Aud. Poi gli occhi scorsero la pagina. aud johnsen uccisa con bestiale ferocia. Allo stato attuale la polizia non desidera fornire ulteriori dettagli, ma in base a ciò di cui «vg» è venuto a conoscenza, pare che la morte di una bambina nella cantina dell’ospedale di Gaustad nel 1988 possa essere riconducibile a questo caso. Contattateci se avete informazioni in proposito.
«Philip!», gridò la donna, poi si alzò e corse a spalancare la porta, ma era troppo tardi. Fece a tempo a vedere le luci posteriori della Golf che svoltava a sinistra immettendosi in Trosterudveien. I suoi occhi seguirono la fila di siepi di rose avvizzite che costeggiavano il vialetto d’accesso.
Cercò altre fonti di notizie su Google. C’era appena stata una conferenza stampa. Dicevano che la vittima dell’omicidio di Halloween era Aud. Quel viso buono con gli occhi marroni e i capelli scuri corti la fissava. Le venne da vomitare. Soltanto così, a leggere i titoli e i catenacci. Per un attimo le si annebbiò la vista. Alla domanda da parte di un giornalista se la polizia ritenesse che c’erano altre donne in pericolo, la risposta era stata negativa. Emmy fece un respiro profondo. Si passò le dita sulla ferita che aveva in fronte, e tra sé e sé risentì la voce di Maike. E anche la propria, e la risata di Aud. Il cuore le batteva forte. Che cosa stava pensando ora, Jan Hagg? E Piet e Werner, cosa pensavano? E Ole Porat? Da bambina, gli psicopatici la terrorizzavano. Forse perché il padre lavorava con gente così, e le aveva spiegato cosa significasse. Persone che volevano avere il potere sugli altri, le aveva detto. Risentiva dentro di sé la voce tranquilla di lui: Sono calcolatori, bugiardi e manipolatori. Sono bravi a scoprire i punti deboli negli altri. E ingigantiscono i loro errori e carenze.
*
Cato Isaksen ricevette un sms da Roger. John Johnsen è qui. Ha ai piedi le scarpe leggere. Per l’interrogatorio formale e le impronte digitali. Sta seduto nel tuo ufficio e ti aspetta. Con me non vuole parlare. Gli ho già preso le impronte. Ah, possiamo anche aprire un canile, qui. Ha portato con sé il cane.
Cato Isaksen stava tremando dalla fame quando uscì dall’ascensore. Dunque il quotidiano «vg» era riuscito a scoprire che Maike Hagg era morta nell’archivio sotterraneo nell’88. Come diavolo avevano fatto a scovare quell’informazione?
Irmelin Quist gli si fece incontro. Cato non volle il caffè. «Vammi a prendere qualcosa da mangiare, veloce, Irmelin. Per favore», aggiunse. «Mi sa che mi sta venendo un’ulcera. E dell’acqua», disse dando un’occhiata all’interno, verso quell’uomo rinsecchito che sedeva sulla sedia al di là della parete di vetro, dritto come un palo e con indosso il soprabito.
Cato entrò.
«Hai fatto bene a venire. Prego, qui ci sono i tuoi stivali». Gli porse la busta che si trovava per terra.
I giornalisti erano riusciti ugualmente a scoprire molte cose. Quelli che lavoravano per i giornali erano dei parassiti; dei piccoli insetti bruni che invadevano tutto e si moltiplicavano. Avevano parlato con i vicini della defunta, si erano barricati nei locali che ospitavano «Osloavisen» e appostati all’ingresso del palazzo di Vøyensvingen. Ma era evidente che per il momento non erano in possesso di altre informazioni su John Johnsen.
«Entriamo in una stanza per gli interrogatori, così posso registrare il tutto». Il cane stava stravaccato per terra. John Johnsen si alzò. Il cane pure.
Cato sentì il bip di un altro messaggio. Era di Ellen Grue, questa volta. Per tua informazione, per il momento non abbiamo trovato nulla di interessante, né nel suo appartamento né nel ripostiglio in cantina. Ma ci portiamo via alcuni reperti. Marian sta rientrando.
Cinque minuti dopo, tutto era pronto per l’interrogatorio. Cato Isaksen appese la giacca alla spalliera della sedia e guardò quell’uomo miserabile e astuto. Irmelin gli aveva portato dell’acqua e dei vafler21 su un piatto. Ma Johnsen non ne voleva. Insisteva per tenersi addosso il soprabito. Il cane stava col muso appoggiato al bordo del tavolo. «Gli hai dato da mangiare?», chiese Cato Isaksen addentando voracemente uno dei vafler.
«La vicina dello chalet negli orti comunali gli ha comprato qualcosa. Una busta grande».
«E tu come stai, considerate le circostanze?»
«Me la cavo».
«Bene, allora vado subito al dunque». Poi scandì l’orario, il luogo e il nome al registratore. «Vogliamo sapere dove ti trovavi la sera del 31 ottobre, e la notte tra il 31 e il primo novembre».
«A mia figlia non piaceva che stessi lì di sera e durante i weekend, quindi me ne sono tornato a casa. Non sono stato io a uccidere mia figlia».
«No. Ma noi abbiamo comunque un lavoro da svolgere. Per tua informazione, abbiamo perquisito il tuo appartamento e il ripostiglio in cantina».
Johnsen non reagì.
«Che cosa sai di Werner Hagg?»
«Di lui non so nulla. Eravamo amici, un tempo, ma non ci vediamo più».
«Sua figlia, Maike, morì nel 1988».
«In cantina», aggiunse lui. «È passato tanto tempo. Nessuno ci pensa più».
«Che cosa accadde?»
«Non lo so».
«Tua figlia la sera del delitto ti ha telefonato alle otto e due minuti. Di che cosa voleva parlarti?»
«Mi disse che c’era una torta di Natale nel portapane. Poi io sono tornato a casa mia. E lì ho incontrato Moholt».
«Che mi dici di Berit Adamsen e Norma Winther?»
«Perché? Lavoravano a Gaustad».
«Aud aveva un appuntamento col pastore, ieri».
«Non ho proprio idea».
«E che cosa mi dici dello psichiatra che ti aveva in cura, Carl Hammer?»
«Perché mi chiedi di lui?»
«Immagino che tu voglia che troviamo l’assassino, no?».
John Johnsen si spinse su gli occhiali con un movimento lento. «Dovete cercare».
Cato Isaksen lo guardò. John Johnsen sedeva sempre con la schiena dritta. «L’unico contributo che posso dare è far capire a voi tutti che il diavolo è travestito da angelo», proseguì.
«Che è, un indovinello? Questa cosa non mi sta bene per niente». Cato Isaksen si sentiva ribollire. «Allora prendi il cane e vattene. Non aiutarci a trovare l’assassino di tua figlia». Spense il registratore, afferrò con forza la giacca e uscì dalla stanza.
*
John Johnsen rimase seduto con le mani sulle ginocchia. Fissava dritto davanti a sé. In mente aveva delle immagini che voleva dimenticare. E ricordare. Sollevò un po’ il viso, e guardò fuori dalla finestra. Ormai era buio.
*
Cato Isaksen fece dondolare le chiavi della macchina. «Ora dobbiamo muoverci e andare da Berit Adamsen, Roger. Abita in Kirkeveien. Dobbiamo fare un appello affinché il conducente della Volvo che compare nel filmato di sorveglianza si faccia vivo. Naturalmente dobbiamo muoverci in tutte le direzioni, e non fissarci su una cosa sola. Poi sarà anche il turno di Werner Hagg e di Carl Hammer. Non voglio che li avvertiamo, prima di andare da loro», disse Cato Isaksen. «Guidi tu».
*
Marian e Randi sedevano di fronte ai computer, ciascuna dal proprio lato della scrivania, e cercavano tutte le informazioni possibili sull’omicidio commesso da Werner Hagg nel 1984. «Emerge chiaramente che Hagg riuscì a non scontare la pena in prigione», disse Marian. «Sai di che cosa mi è venuta voglia, ora? Di champagne. E anche di tortilla chips con la salsa!».
Randi rise. «Secondo me, con questa indagine dobbiamo rassegnarci ad andare a ritroso nel tempo. Dunque, questa Berit Adamsen era la segretaria dello psichiatra Carl Hammer. La condanna di Werner Hagg è molto chiara». Lesse a voce alta: «Werner Hagg è condannato a un trattamento psichiatrico obbligatorio. Secondo il suo medico, Carl Hammer, che lavora nel reparto di alta sicurezza “G” dell’ospedale psichiatrico di Gaustad, ha già mostrato dei buoni progressi, e pertanto con la presente sentenza viene confermato il trattamento obbligatorio presso la stessa struttura».
Marian la guardò. «Quindi Hagg è stato rinchiuso per quasi vent’anni. Poi è stato lasciato andare, e hanno giudicato che fosse pronto per un reinserimento nella società civile. Cerco di approfondire la faccenda della bambina».
«In realtà le circostanze sono assai poco chiare», disse Randi. «La conclusione fu che non era stato rilevato nulla di punibile. Ma Aud Johnsen voleva fare un reportage su questo caso, quindi è possibile che le cose non stessero proprio così. Il funerale della ragazzina fu celebrato nella cappella di Gaustad perché il padre era un paziente psichiatrico, e la madre era morta».
Marian annuì. «Forse Aud Johnsen voleva semplicemente scrivere un articolo su un triste destino: una bambina morta mentre faceva visita al padre condannato per omicidio».
*
Cato Isaksen risalì a piedi la rampa del parcheggio sotterraneo per vedere se per caso ci fossero giornalisti nella strada posteriore. Non li voleva alle calcagna. Avrebbero potuto mettere in fuga qualcuno. Ma lì non c’era nessuno. La strada era vuota. Roger Høibakk uscì con l’auto, e Cato saltò a bordo. In quel momento lo chiamò un giornalista di «vg». Chiese se secondo loro c’era un nesso tra il fatto che la vittima fosse una giornalista, e il caso della bambina morta. Era vero che stava per scrivere un articolo su una bambina? Cato Isaksen cambiò discorso, disse che avevano prelevato del materiale con tracce di dna dal luogo del delitto, e che avevano trovato elementi interessanti. Disse poi che esistevano i filmati delle telecamere di sorveglianza, e che la polizia stava facendo il massimo degli sforzi per catturare l’assassino. L’episodio della bambina morta non aveva niente a che vedere con questo caso. Quando il giornalista gli chiese se c’erano altre donne in pericolo, rispose di no.
Emmy Hammer prese dallo scaffale l’album con le foto di Philip da piccolo. Se lo strinse al petto per un attimo, e guardò in direzione della casa dei genitori.
Le pareti la opprimevano come in un abbraccio soffocante. Il silenzio era pieno di lievi rumori. Dove stava andando, Philip? Spariva, e non si sapeva più dove fosse. Forse aveva una ragazza di cui lei non era al corrente?
Quando lo aveva dato alla luce, ventun anni prima, si era stretta al viso la maschera con il gas esilarante, ma alla fine era stata presa dal panico. Se n’era stata lì stesa a contorcersi e a gridare. La levatrice le aveva detto che doveva dominarsi. Altrimenti il bambino non uscirà mai. Era venuto il medico e le avevano fatto un’epidurale. Perché sei molto giovane. Il personale del turno di notte se n’era andato, di mattina presto erano giunti quelli del turno successivo, e Philip era nato verso le nove. Malgrado fosse preda di stati d’animo conflittuali, l’istinto materno le era scattato fin da subito. E quando i genitori erano venuti a farle visita di pomeriggio, si era sentita orgogliosa a vederli chini su quel lettino di plastica. Il sorriso di sua madre, come se si fosse risvegliata da un lungo congelamento. E la mano del padre poggiata sulla testa del bimbo. Si sarebbe risolto. Si sarebbe risolto tutto quanto. Emmy disse che non sarebbe mai più andata a una festa. La madre gli aveva già dato un nome: Philip. Era il nome che avevano scelto per Emmy se fosse nata maschio.
Emmy Hammer rimise l’album sullo scaffale senza aprirlo. E se fosse andata a farsi un giro in giardino? Diventò un pensiero ossessivo. Doveva farlo. Prendere un po’ d’aria. Subito, prima che si facesse più buio. Passò di nuovo di fronte allo specchio e lo fissò fino a quando le parve di tramutarsi in acqua e dissolversi nel nulla. Attraverso l’acqua vide il proprio viso pallido. Ma girandosi un po’, tutto quanto confluì in un punto preciso: un triangolino sulla sua guancia. Lei riconobbe il dolore che proveniva da dentro, e causava altro dolore. Se stava immobile, sentiva battere il proprio cuore e si rendeva conto di quanto fosse terrorizzata. Le si formarono delle gocce di sudore sotto le ascelle. Qualche ora prima aveva visto un uomo dai capelli rossi al limitare del bosco. Era stato immobile a guardare verso casa. A lungo. Poi era sparito. Scarso autocontrollo. Dà sempre la colpa agli altri. Non mostra rimorso. Quando entrò in camera da letto e poi ne uscì dopo aver preso un maglione, d’un tratto le parve che lì fuori ci fosse qualcuno. Un’ombra nel crepuscolo del pomeriggio. Qualcosa che si muoveva, una schiena appena visibile oltre il bordo inferiore della finestra.
*
Cato Isaksen si strinse la fronte con le dita: gli stava tornando il mal di testa. «Dopo sarà troppo tardi per andare anche da Werner Hagg», disse Roger e rallentò perché aveva una macchina davanti. «Abita in un posto lontano, nella campagna di Ski. Inoltre abbiamo bisogno di più frecce al nostro arco. Prima dobbiamo parlare ancora con Johnsen, avere più informazioni su cosa accadde realmente quando Werner Hagg uccise la moglie nell’84».
«Parlare con Johnsen è assolutamente inutile. Se le sue impronte digitali non corrispondono a nessuna di quelle rilevate sul luogo del delitto, possiamo proprio dimenticarcelo. O almeno io la vedo così. Maike Hagg è morta nell’archivio sotterraneo durante un evento organizzato per i bambini dei pazienti. Il papà di Maike, Werner Hagg, è di origini olandesi, ma ha vissuto in Norvegia fin da giovane. A Gaustad, dov’è morta sua figlia, Werner Hagg era ricoverato nello stesso reparto di John Johnsen. La morte della bambina non è stata ritenuta sospetta. Non c’è traccia di abusi sessuali, c’era scritto nelle carte».
«Ma insomma, questa Berit Adamsen, cui Aud Johnsen ha cercato di telefonare subito prima di essere uccisa, faceva la segretaria lassù. Ha smesso di lavorare a Gaustad proprio dopo che è morta la bambina. Non è una cosa un po’ strana?».
*
Werner Hagg alzò il volume della radio e pensò all’albero lì fuori, che in primavera era pieno di storni. Avrebbe fatto una casetta per gli uccelli. Ma prima doveva finire quella bara. In quel momento, lo speaker ripeté il nome della donna assassinata. Aud Johnsen, trentasette anni. Un brivido freddo gli scese per la schiena. Era la seconda volta che sentiva il suo nome: Aud Johnsen. E stavano cercando una Volvo. Due giorni prima, lui era stato lì a Sandakerveien di sera tardi, e aveva suonato alla porta. Avrebbero potuto trovare le sue impronte digitali sul citofono accanto alla porta del muro di cinta che dava sul vicolo. Werner Hagg spense la radio. La figlia di John Johnsen era morta. La paura lo assalì come una coltre grigia. Jan. Che cosa aveva fatto davvero, Jan?
*
Quando gli investigatori parcheggiarono a Hammerstadsgata, che era una traversa di Kirkeveien, erano già le 18:30. Molte delle luci nel palazzo erano accese. Cato Isaksen chiuse la portiera e precedette Roger dirigendosi verso la porta d’ingresso. I riquadri di vetro opaco alle finestre gli ricordarono quanto fosse vecchio quell’edificio. C’era nell’aria un freddo tagliente. Sullo sfondo si sentiva il brusio del traffico su Kirkeveien. Folate gelide spazzavano la stradina immersa nella quiete serale. Si diressero verso la porta marrone con gli inserti di vetro. Sui gradini di pietra giacevano alla rinfusa alcuni giornali. Cato Isaksen premette un campanello del citofono su cui c’era scritto Adamsen. Nessuno rispose.
«O sta dormendo, oppure non è a casa», disse Roger Høibakk. Poi attraversò la strada, e osservò la facciata dal marciapiede di fronte. Si mise le mani in tasca. «Abita al terzo piano, e lì è tutto spento».
«O magari non vuole aprire e sta nascosta al buio», disse Isaksen avviandosi verso la macchina. Ebbe un sussulto quando finalmente la porta si aprì da dentro. Un uomo ne uscì rapidamente, e Cato Isaksen si girò di botto e tornò di corsa indietro. Riuscirono a sgattaiolare dentro l’androne. C’era il nome di lei su una cassetta delle lettere. Attraverso la fessura, videro che era piena di posta.
«Non è a casa», disse Roger Høibakk.
Al secondo piano si fermarono davanti alla porta. Cato Isaksen premette il campanello. Nessuno venne ad aprire. Poi suonarono ai vicini, ma nessuno sapeva dove si trovasse Berit Adamsen.
Cato Isaksen ebbe un’intuizione. Pensò a Marian. Era brava a mettere insieme elementi tecnici e tattici, come fossero tessere di un puzzle. Gli aveva confessato che la distanza tra lei e gli assassini che aveva smascherato nel corso degli anni non era poi così grande. E gli aveva anche detto che questo fatto la terrorizzava. Lui le aveva risposto che doveva piantarla di parlare del suo intuito, perché era una cosa banale. Compose il numero del telefono fisso di Berit Adamsen con gli occhi fissi sulla balaustra delle scale. Attraverso la porta si sentì squillare il telefono. Cato sospirò e compose il numero di cellulare della donna.
Roger lo guardò.
«Non risponde neanche a questo», disse Cato Isaksen sollevando l’apparecchio. Il telefono è spento oppure si trova in un luogo non raggiungibile, disse la voce metallica.
La torcia frontale illuminava il sottobosco formando dei cerchi bianchi. Foglie e rami erano coperti di brina, ma in alcuni punti, sulle conifere, c’erano delle gocce gelate che brillavano in quell’oscurità verdognola.
Lui indossava dei guanti; il calcio del fucile era freddo. Fu colpito da un sentore di muschio nell’aria fredda. In un angolo, tra il muschio, spuntava un fungo raggrinzito. Il cielo oltre le cime degli abeti era nero, e la luna era un grande occhio che osservava tutto dall’alto, molto distante dagli uomini. La maggior parte dell’universo consisteva di una sostanza invisibile, oscura. Uccidere non gli piaceva davvero, ma se era una cosa veloce e non comportava una sofferenza prolungata, aveva un che di solenne. Si asciugò la bocca. Berit lo chiamava Piet, malgrado avesse cambiato nome. Per lei era comunque Piet, diceva. Lui era quel tipo di persona a cui, malgrado tutto, era andata bene. Adesso era al sicuro, ma si sentiva sempre minacciato. Questo posto è sereno come il sole. Era ciò che gli aveva detto Berit quando si era trasferito da lei, direttamente dalla casa d’accoglienza. A quell’epoca aveva quindici anni. Pensò agli anni trascorsi con lei. A quando aveva capito che lì poteva rimanere. Era sfacciato e si mangiava mezza pagnotta per volta, beveva avidamente il tè, che gli scorreva tiepido giù per il mento. Ed era davvero serena come il sole, la casa di Berit. Se non fosse stato per lei, lui non ce l’avrebbe mai fatta. Quando la donna era arrivata allo chalet due giorni prima di sera tardi, lui era rimasto sorpreso, perché normalmente usavano mettersi d’accordo su un orario preciso. Ma nel momento in cui era arrivata, Piet non c’era. Non le era necessario sapere tutto ciò che faceva il ragazzo. A lui quella faccenda delle telefonate non era piaciuta. Aud era un vago ricordo del passato. Quando rincasò, Berit già dormiva, ma la mattina dopo aveva preso la Vespa e se n’era andato passando per Sørsetra e Sollihøgda, e poi giù verso la città.
Appoggiò l’arma al tronco di un albero, si tolse i guanti e si guardò le dita gialle di nicotina. Poi si sputò nel palmo della mano. Sembrava schiuma su una foglia di lampone. Forse invece avrebbe dovuto piazzare un paio di tagliole. Gli animali di piccola taglia andavano bene lo stesso. Le loro grida echeggiavano nel bosco, quando li andava a prendere. Per lui non erano delle bestiacce maledette, come Jan soleva definire gli animali quando erano bambini. Da piccolo, Piet teneva degli insetti stecco in un barattolo della marmellata. Gli dava un po’ d’erba; il barattolo lo teneva nascosto sotto il suo letto presso la casa d’accoglienza. Quando Jan aveva chiuso completamente il coperchio, erano morti. Ricordava ancora la sensazione che aveva provato quella volta.
Tra gli alberi intravvide la casetta marrone. Il vapore appannava completamente la finestra della cucina. Lui l’aveva aiutata a sminuzzare il cavolo. Lei aveva acceso il fornello con legna di betulla, e ora la carne di montone era in pentola, con sopra il coperchio, e si insaporiva: il grasso si stava mescolando alla salsa. Il cavolo era rimasto a bollire per diverse ore. Lei aveva detto le otto e mezza. Mangiavano tardi. Lassù non si misurava il tempo; il mondo era quella fitta foresta con i suoi grossi rami neri e verdi. Piet si guardò i piedi enormi; affondava nel terreno, e quando camminava si sentiva una specie di sciacquettìo a ogni passo. Pensò alle scimmiette scolpite dentro la casetta di Berit: tre teste una a fianco all’altra, con le mani davanti alla bocca, agli occhi e alle orecchie. La televisione non ce l’avevano. Neanche la radio. Percorse l’ultimo tratto di strada nel bosco, che non era niente più che un sentiero largo e fangoso. L’acqua dei laghetti era ghiacciata, bianca. Quando calpestava le pozzanghere gelate, scricchiolavano. Quel rumore rompeva il silenzio nella foresta.
Era domenica 3 novembre. Marian sparpagliò i vecchi articoli di giornale e i documenti degli interrogatori su tutto il tavolo nella stanza con la lavagna bianca, e guardò Cato Isaksen. Quel giorno, «vg» aveva scritto, sul proprio sito web, che Aud Johnsen era stata in contatto con alcuni estremisti islamici. Avevano pubblicato una foto della donna con la frangia tenuta su dal gel, la caporedattrice di «Osloavisen». La donna dichiarava brevemente che un investigatore speciale della polizia le aveva fatto alcune domande a proposito, ma che non c’era alcun motivo di mettere in relazione quel fatto con l’uccisione della collega.
«Lasciali brancolare nel buio», disse Cato Isaksen. «La segnalazione dev’essere arrivata dal gruppo B-52. Sarà contento, adesso, Erik Haade», concluse facendo un sorrisino ironico.
Marian sentì che stava arrossendo, ma lui non se ne accorse. Poi disse: «Questi ritagli risalgono tutti all’84. Mi sono collegata al casellario giudiziario, ieri sera, e ci sono rimasta fino a tarda notte. Qui ci sono alcuni degli articoli dell’epoca».
Asle Tengs entrò con in mano un laptop. «Guardate qui il video di sorveglianza», disse. Videro chiaramente che Aud Johnsen era tornata a casa alle 19:55 in punto del 31 ottobre. L’orario e la data erano impressi a caratteri rossi in un angolo. La donna, con indosso un cappotto e degli stivaletti, usciva dall’inquadratura, dirigendosi verso la ex fabbrica in cui abitava. Era impossibile vedere il numero del taxi: l’immagine era troppo poco nitida, ma si erano rivolti alla centrale dei radiotaxi, e aspettavano ragguagli.
Asle Tengs uscì nuovamente, e Cato Isaksen prese in mano un mucchio di vecchi ritagli di giornale per guardarli. uccide la moglie con l’accetta, poi dà fuoco alla casa. la donna lascia tre bambini. il carcere è escluso per via delle turbe psichiche dell’uomo.
C’erano intere colonne sul quel caso, e immagini sgranate in bianco e nero di Hagg, che era pelato. Ricordava un prigioniero di guerra della seconda guerra mondiale.
«Qui Werner Hagg aveva all’incirca trentacinque anni», disse Marian. «Non abbiamo documenti circa la sua diagnosi. Quel tipo di roba potrebbe trovarsi all’ospedale di Gaustad. Dobbiamo andarci, Cato».
Si fissarono per un secondo, poi Marian prese a leggere ad alta voce: «L’uomo è alto quasi due metri, e il suo avvocato dice che si è trattato di un semplice litigio finito tragicamente. I tre bambini, due maschi di dodici e dieci anni e una femmina di otto, sono stati prelevati dagli assistenti sociali e sistemati in una casa d’accoglienza in Lillehageveien a Bærum».
Poi continuò: «Werner Hagg aveva anche picchiato una donna in Olanda, e fuggì in Norvegia quando aveva vent’anni. Trovò lavoro presso lo scalo merci del porto di Oslo e poi incontrò Elsa, che lavorava dal giornalaio vicino al monolocale in cui abitava. Lui la mise incinta, e si sposarono nel 1972. Ebbero tre bambini: Jan, nato nello stesso anno, Piet, nel 1974 e Maike, nel 1976. Abitavano in una piccola casa fuori Oslo. Elsa si era stancata di quella vita. Voleva lasciarlo, prendere i figli e andarsene. Hagg allora andò a prendere un’ascia nel ripostiglio e la colpì a morte. Poi diede fuoco al divano su cui giaceva la donna, ma quello non prese veramente fuoco: si sviluppò solo un gran fumo. Hagg andò a prendere i figli all’uscita di scuola, e li portò fino al traghetto in macchina. Voleva tornare in Olanda; il tragitto non era lungo, ma vennero fermati già a Copenaghen. La polizia li stava aspettando. Alcune vicine si erano insospettite dal momento che Elsa non si era presentata alla riunione del circolo di cucito. In casa era buio pesto, e la macchina non c’era più. Il fumo aveva annerito i vetri di fuliggine. Quando la polizia aprì la porta, il fuoco avvampò e furono investiti da un’ondata di calore. Werner Hagg provò a sostenere che Elsa doveva essersi suicidata. Ma l’autopsia rivelò che era stata colpita a morte. Poi trovarono l’ascia che l’uomo aveva nascosto nel portabagagli della macchina. Lo condannarono alla custodia cautelare in carcere, e i bambini finirono in una casa d’accoglienza. Alcuni testimoni lo hanno descritto come un soggetto incapace di controllarsi. Fu poi condannato a un trattamento psichiatrico obbligatorio, e rinchiuso nel reparto di sicurezza dell’ospedale di Gaustad. Lì rimase fino al 2003, quando tutti furono dimessi obbligatoriamente. Il reparto doveva chiudere».
«Va bene, basta così», disse Cato Isaksen. «Adesso che starà facendo secondo te Werner Hagg?».
«In ogni caso abbiamo già le sue impronte digitali. I tecnici le stanno confrontando con quelle prese sul luogo del delitto di Aud Johnsen. Presto ci daranno una risposta».
*
Vanja fece scorrere da un lato la porta del magazzino del negozio. In basso lungo le pareti avevano fissato delle lastre di alluminio per proteggerle dal carrello elevatore a forca. Sul piazzale alle spalle del centro commerciale non si vedeva un’anima. Dalla stazione di Kolbotn, più in basso, l’uomo sentì una voce maschile che gracchiava da un altoparlante. Si richiuse la porta alle spalle ed entrò nel locale buio. Quando iniziò cautamente a salire su per la scala d’acciaio, questa cominciò a cigolare a ogni gradino. Nel magazzino situato nel sottotetto c’erano cumuli di scatoloni di polistirolo, che gli ostacolavano molto la vista. Quel fatto non gli andava a genio. In tasca aveva i soldi. All’improvviso comparve un uomo magro e biondo con indosso una felpa col cappuccio. Le sue gambe erano sottili come fiammiferi. Ciancicava una gomma da masticare, e in una mano teneva un’arma. Prendendola in mano, Vanja vide che era una Glock. Sentì il freddo gelido del metallo a contatto col palmo della mano. L’uomo con la felpa prese i soldi e gli consegnò una busta di munizioni. Non si scambiarono neanche una parola. Vanja si girò e corse di nuovo giù per la scala d’acciaio. Fuori nel piazzale ficcò l’arma nella busta, passò rapidamente accanto a un carrello elevatore e poi svoltò l’angolo, superò l’edificio arancione e uscì da un cancello di rete metallica.
*
Cato Isaksen e Roger Høibakk erano a bordo dell’auto-civetta, diretti a Ski. Cato Isaksen guidava. «Non c’è neve per niente. Ed è già novembre».
«Cavolo», disse Roger. «Come fa un uomo del genere a vivere in una piccola fattoria in mezzo a persone normali?».
Cato Isaksen si fermò alla stazione di servizio e presero un wurstel e qualcosa da bere, prima di reimmettersi sull’autostrada e proseguire rapidi attraverso le campagne.
«Dobbiamo cercare meglio se può aver conosciuto qualcuno su internet, Roger». Qualche pezzetto di cipolla fritta gli cadde sulle ginocchia.
«Oltre alle email e al cellulare, stiamo controllando anche tutto il traffico di messaggi sui social media».
«A proposito, è mai successo qualcosa tra te e Marian?»
«Perché diavolo mi fai questa domanda?». Cato Isaksen aggrottò la fronte.
Roger si ficcò in bocca il resto del wurstel, fece spallucce e disse con aria misteriosa: «Hai un atteggiamento molto amichevole nei suoi confronti. Il motivo per cui le donne hanno paura degli uomini è lo stesso per cui noi abbiamo paura di loro. E Bente, l’hai risentita?»
«Accidenti che pensiero profondo, Roger. Comunque non ti avrei dovuto parlare di Bente. Non mi fare più domande in proposito».
Roger tirò fuori dalla tasca una gomma da masticare e se la mise in bocca. «Ne vuoi una?».
Cato Isaksen scosse la testa.
«Al giorno d’oggi, le donne non danno più la caccia agli uomini per avere un certo status. Anzi, è quasi il contrario. Guarda Marian ed Erik Haade».
«Che accidenti vuoi dire?»
«Le voci girano. Siamo arrivati. È quaggiù».
Cato Isaksen imboccò la strada fangosa piena di buche colme di acqua marrone e procedette lentamente verso l’edificio principale che era basso, bianco e fatiscente, e verso il fienile rosso. Alle spalle dell’aia si stendevano terreni scuri, squassati dall’aratro che aveva sollevato grosse zolle argillose. Accanto all’edificio c’era una recinzione metallica per cani, anche se non se ne vedevano. E poi c’era un lungo filo per i panni teso tra un albero e l’altro, vuoto. A Cato bruciava lo stomaco, ora che aveva appreso da Roger quella cosa su Marian e il capo della sezione per la criminalità organizzata. Considerata la stagione, c’era davvero molto sole. I solchi dell’aratro proiettavano ombre come strisce orizzontali sui campi. Quando i poliziotti furono più vicini, videro la Volvo parcheggiata per metà dietro il fienile.
Werner Hagg trattenne il respiro. L’odore di legname fresco gli faceva prudere il naso. Le batterie della radio erano quasi scariche, il suono andava e veniva. La spense. Stava arrivando una macchina? Poggiò l’attrezzo, spense la lampada da lavoro, scavalcò un piccolo mucchio di assi, si avvicinò alla stretta finestra e scostò leggermente la carta da pacchi. Sì, c’era proprio una macchina che avanzava per il viottolo stretto e dissestato. La sera prima la luna si era specchiata nelle pozzanghere, moltiplicandosi. La macchina poteva sembrare un’auto qualsiasi, ma aveva un lampeggiante sul tetto. Era un veicolo della polizia. Sul tavolo dentro casa c’era un mazzo di carte, ma ora non avrebbe potuto usarlo. Era uno sfizio che si concedeva dopo una giornata di lavoro. Spaccava un po’ di legna da ardere e la portava dentro; si scaldava la cena sul fornello, mangiava, si stendeva un po’ sul divano e ascoltava il silenzio di quelle pareti di legno, prima di fare un solitario. Era una routine. Ma ora l’avevano trovato.
*
Il cellulare di Cato Isaksen squillò non appena ebbe parcheggiato a fianco della Volvo. Roger saltò giù. Era Marian. La sua voce era limpida. «Volevo soltanto avvertirti che lo psichiatra Carl Hammer può incontrarci domani. Ora da lui c’è in visita il nipote, e diceva che è molto importante che andiamo all’ospedale di Gaustad e che lui ci faccia fare un giro per spiegarci le cose fondamentali».
«In questo momento stiamo parcheggiando», disse brevemente Cato Isaksen e se la vide davanti tra le braccia tatuate del capo della sezione per la criminalità organizzata. «Hagg ha una Volvo. La targa è VD 61781. Entra nel registro della motorizzazione civile e controlla i pedaggi autostradali. Forse l’abbiamo in pugno».
Cato scese dalla macchina. Fu investito da vari odori: quello della terra ghiacciata, quello del fango, e il fumo acre di un camino di una casa ad alcune centinaia di metri di distanza.
*
Alla fine lo trovarono nel fienile. Cato Isaksen squadrò Werner Hagg, il tipo che aveva ucciso la moglie con l’accetta e aveva appiccato un incendio subito dopo. Era veramente enorme. Indossava un grembiule da lavoro grigio e consunto, e ai piedi degli stivali di cuoio. Le sue mani da lavoratore erano piene di ferite e cicatrici. Appoggiata su tre cavalletti c’era una bara quasi finita.
*
Werner Hagg riuscì a tenere sotto controllo il tremito continuo delle mani. All’interno del fienile gli chiesero se quella fuori fosse la sua macchina, e se conoscesse John Johnsen. Lui era andato a trovarlo una sola volta, nelle case popolari di Vøyensvingen, proprio vicino a Ilaparken. Erano passati almeno cinque anni, e comunque non avevano avuto niente di cui parlare; dopo poco la conversazione si era bloccata e nel misero salottino con la vista sul campanile color senape della chiesa di Ila, che si trovava proprio lì fuori, era calato il silenzio.
I poliziotti gli fecero i complimenti per la bara. Lui si strofinò le dita con uno straccio per togliere le tracce di vernice. Poi l’uomo più maturo disse: «Sappiamo che eravate ricoverati presso lo stesso reparto dell’ospedale di Gaustad. Sei ancora in contatto con Johnsen? Siete amici?».
Werner Hagg scosse la testa. Non erano persone qualsiasi, lui e Johnsen. Era l’unica cosa che avevano in comune, il fatto di non essere persone qualsiasi. Ma ormai non era più così, adesso che non erano più ricoverati. Una volta Jan, suo figlio, gli aveva detto che la vita non era da prendere troppo sul serio, e che doveva andare avanti. Bastava non dar fastidio agli altri. Gli risuonava ancora in testa l’eco della sua voce. Però nessuno poteva impedirgli di dar fastidio a se stesso.
L’uomo con i capelli scuri domandò: «Dove ti trovavi la sera del 31 ottobre, tra le diciotto e mezzanotte?»
«Ero qui».
«Fumi?»
«No».
«Riesci a immaginare perché siamo venuti?».
Cato Isaksen lo fissò, ma non disse nulla della Volvo e del video di sorveglianza. Qualcosa era cambiato, una leggerissima contrazione sotto l’occhio sinistro dell’uomo. Naturalmente Werner Hagg era scosso da sensazioni violente, ma la sua voce monotona rimaneva invariata. «No», rispose.
«Aud Johnsen è morta», disse Cato Isaksen.
L’uomo annuì.
«Vorremmo che venissi con noi in questura, e abbiamo bisogno di portarci via la tua macchina per un controllo».
L’uomo annuì nuovamente.
*
Una volta tornati in questura, portarono Werner Hagg in una cella d’isolamento. Roger si sarebbe occupato delle formalità una volta terminato l’interrogatorio, dopodiché avrebbero valutato l’opportunità della custodia cautelare. Cato Isaksen diede un’occhiata rapida al cellulare di Hagg, poi lo ripose in una busta per i reperti e chiese a Irmelin di portarlo a quelli della Scientifica. Hagg aveva ricevuto una telefonata alle 20:36 la sera in cui Aud Johnsen era stata uccisa. Cercò il numero nell’elenco abbonati, e vide che era stato Jan Hagg, il figlio, a chiamarlo.
*
Quando Cato Isaksen e il tecnico dei rilevamenti Ellen Grue, dopo un’ultima occhiata al cadavere, si furono di nuovo seduti in macchina fuori dal Rikshospitalet, telefonò Marian. «Abbiamo fatto una piccola riunione qui, Roger, Randi e io. Avete fatto bene a mettere dentro Werner Hagg, Cato. Hai finito al Rikshospitalet? C’è qualcosa di nuovo?»
«Non più di quanto già sapevamo». Lanciò un’occhiata a Ellen Grue, che stava sfogliando rapidamente alcune carte. «La conclusione è che l’arma del delitto è un vecchio attrezzo da lavoro. Tra poco verrà dato il nulla osta per la salma. A proposito, Jan Hagg aveva telefonato al padre la sera in cui ha avuto luogo l’omicidio».
«Sì, Roger me l’ha detto. E mi ha detto anche che vuoi che io aspetti, prima di parlare col figlio, perché vuoi esserci anche tu. Maniaco del controllo!», aggiunse.
Lui sorrise, ma d’un tratto gli venne in mente la faccenda di Erik Haade. Uscì dal complesso ospedaliero con la macchina. «Non ti allontanare da lì, Cato. Non abbiamo tempo da perdere. Il Rikshospitalet e Gaustad sono a un tiro di schioppo l’uno dall’altro. Adesso io prendo l’auto e vengo su a Gaustad. Aspettami lì. Un membro del personale, una donna, ha detto che era disponibile a venire lì per farci fare un giro e parlare di tutta la faccenda, anche se è domenica. Si trova già sul posto».
Cato Isaksen non fece a tempo a interloquire prima che lei proseguisse. «Forse hanno anche un archivio, lassù. Dobbiamo riuscire a ottenere delle informazioni più dettagliate sui pazienti Johnsen e Hagg. E poi possiamo dare un’occhiata all’archivio sotterraneo in cui morì la bambina. Non entrare prima che arrivi anch’io!».
«Maniaca del controllo», disse Cato Isaksen, con lo sguardo fisso oltre il parabrezza. La sentì ridere, prima di riattaccare. Si girò verso Ellen Grue.
«Ho sentito cosa ti ha detto, Cato».
«Io mi vedo lì con Marian. Tu vai giù alla Scientifica con la mia macchina. Poi la vado a riprendere io».
*
Svoltò a sinistra, su per la breve strada senza uscita che portava a Gaustad. Gli alberi svettavano da entrambi i lati. All’improvviso comparvero i vecchi edifici in muratura. Cato scese nel parcheggio davanti all’alta recinzione a sbarre. «Keep up the good work22, Ellen». Sbatté la portiera, diede un colpetto sul tetto della macchina, e la seguì con lo sguardo mentre spariva giù per la stradina. Il grande portone di ferro battuto era aperto, e lui lo varcò, camminando sul brecciolino rosso. Non si vedeva anima viva. Si fermò un attimo presso la vasca rotonda che era stata svuotata dell’acqua e che ora era piena di foglie autunnali di colore arancione, e alzò lo sguardo verso la torre dell’orologio in cima all’edificio principale. Gli ricordava un po’ il vecchio edificio scolastico che aveva frequentato da bambino. Il cielo era di un blu artificiale. Per un attimo gli sembrò che tutto l’insieme somigliasse a un brutto dipinto. La vite del Canadà con le sue foglie rosse si arrampicava su per le solenni facciate. “Costruito nel 1855”, c’era scritto sull’arco dell’ingresso principale. La solida porta di quercia con inserti di vetro piombato aveva delle sottili arcate da ciascun lato. Lui si avviò lentamente giù a sinistra, superò l’edificio principale e percorse un sottopasso lastricato che, passando in mezzo agli edifici, conduceva dal lato opposto. Lì sotto c’era una porta di legno scrostata di color verde chiaro che sembrava fuoriposto. All’estremità opposta, la strada lastricata proseguiva in mezzo a edifici più recenti. C’erano prati e vecchie querce, e più in alto, palazzi più grandi. Nel parco c’era gente che faceva la passeggiata domenicale. Alcuni portavano a passeggio il proprio cane. Altri spingevano una carrozzina. Cato sentiva un formicolio in testa. Voleva parlare con Werner Hagg quella sera stessa. Restava però da vedere se si sarebbe presentato un avvocato, dal momento che era domenica pomeriggio. Marian aveva ragione, bisognava ammazzarsi di lavoro anche se lo stress stringeva come una morsa intorno alla testa. Quella notte era rimasto di nuovo sveglio a pensare alla situazione con Bente e i ragazzi. Le aveva inviato un messaggio della buonanotte. E lei gli aveva risposto allo stesso modo. La cosa peggiore era che forse non c’era nulla che non andasse, soltanto quella sua terribile stanchezza.
A destra, un cartello indicava che la cappella si trovava alle spalle della costruzione principale. Entrò nel vicolo stretto, ed ecco lì la chiesetta addossata alle spalle dell’edificio con la torre. Non si trattava di un edificio a sé, ma piuttosto di una piccola propaggine, come aveva detto Norma Winther. Una scala coperta di muschio portava su all’ingresso. Sotto la scala si era ammassato un grosso mucchio di foglie autunnali scivolose. Cato salì le scale e sbirciò dentro attraverso il vetro della porta. All’interno, oltre il vestibolo, intravvide una piccola sala con un pulpito e alcuni banchi angusti dipinti di blu. Era qui che Norma Winther aveva celebrato la funzione per il funerale di Maike Hagg. Tremò al vento freddo che soffiava violento tra gli edifici, scese nuovamente la scala, tornò indietro e rimase ad aspettare presso l’ingresso principale.
*
Dopo qualche minuto, Marian parcheggiò il furgoncino bianco sul piazzale e lasciò uscire il cane. Cato Isaksen le andò incontro, ignorando l’animale che gli saltellava tra le gambe.
«Basta, Birka!», ordinò lei.
«Cagnaccio di merda», sorrise lui.
«Non mi fido degli esseri umani a cui non piacciono i cani. A proposito, mi chiedo come se la stia cavando Johnsen. Se sia in grado di capire che deve dar da mangiare al cane della figlia».
Marian gli diede un foglio, una stampa fatta da internet. «Agenzia funebre Vita. È Jan Hagg a gestirla, insieme con la moglie». Marian chiuse a chiave la portiera.
Cato gli diede un’occhiata. Si avviarono verso l’edificio, salirono i tre stretti gradini di pietra ed entrarono attraverso la pesante porta di quercia. Cato piegò il foglio e se lo infilò nella tasca della giacca di pelle. La soglia era consunta e il legno scheggiato dai tanti piedi che l’avevano calpestato entrando e uscendo. “E rientriamo un’altra volta”, pensò, lasciando passare avanti il cane. «Werner Hagg non aveva mica detto niente del fatto che lavora per il figlio, e che quest’ultimo gestisce un’agenzia di pompe funebri».
La paura che l’aveva ghermita mollò gradualmente la presa. Jan doveva essere a casa nell’appartamento di Oscarsgate con le bambine, a meno che non le avesse lasciate a giocare con i bimbi dei vicini, come faceva spesso. Era domenica, ma lei stava lavorando. Prima di andare via aveva lasciato una torta di frutta sul tavolo della cucina. Ingrid Hagg spalmò il viso del defunto con della crema untuosa, e lavorò con le pinzette. Poi le sciacquò sotto il debole getto d’acqua che scorreva nel lavello d’acciaio. Era diventata brava nella preparazione delle salme, ma “far belli i defunti” suonava meglio. L’odore di morte era dolciastro e ricordava il gas esilarante. Nascita e morte: circostanze simili, in fondo. Ingresso e uscita. Pensò a Tilde e a Thea. Jan era così assente, negli ultimi giorni. Dopo quella sera in palestra, quando lei si era addormentata prima che tornasse a casa, il suo comportamento era stato inusuale e stressato. Sembrava distratto e poco paziente con le bambine. Il passato di Jan, la perdita della madre e della sorella, aveva sempre posto una certa distanza tra loro. E il fratello si era allontanato da lui. Un vero e proprio abbandono. Di certo Jan era segnato, ma lei lo amava. Lavoravano insieme tutto il giorno, e di solito la sera se ne stavano tranquilli. Ma qualcosa si era insinuato tra loro. E lei non riusciva a trovare la forza di affrontarlo. Anche l’aspetto fisico del matrimonio era insoddisfacente. Lui non riusciva a vincere la propria paura di lasciarsi andare. Le bambine lo percepivano. La più grande, Tilde, aveva fatto un disegno di una casa con ragni e lumache sul tetto. “Papà viveva così, da piccolo”, aveva detto.
*
Nella sfarzosa sala d’ingresso c’erano arcate e mobili di velluto, e il soffitto, che in cima aveva un lucernario, era molto alto.
Marian si immaginò come doveva essere stato, vivere lì. Grandi stanze e mura spesse, cibo e medicine in abbondanza. Un’ampia scalinata portava a un parapetto, ma la reception era in una stanzetta a destra, e loro vi entrarono. Birka passò per prima, un po’ rigida, ma scodinzolando.
Dietro al bancone della reception sedeva una donna cordiale dalle sopracciglia scure che guardò in su, verso di loro, da dietro gli occhiali. «Polizia, giusto?».
Loro annuirono, e lei si presentò come Deidrée. «Mi sembra di capire che in primo luogo siate interessati agli archivi». I suoi occhiali rossi si intonavano alla blusa, dello stesso colore. I suoi capelli erano neri e lucidi. «L’ospedale non funziona più come prima», disse, «fatta eccezione per un reparto per giovani schizofrenici, oltre ad alcuni tossicodipendenti e a qualche altro paziente, ma abbiamo ancora una reception e organizziamo dei corsi».
«Vorremmo dare un’occhiata in giro», disse Marian.
«Si tratta di un paio di ex pazienti», disse Cato Isaksen. «John Johnsen e Werner Hagg». L’ispettore le tacque il fatto che l’ultimo si trovava in custodia cautelare.
«Gli archivi sono stati trasferiti all’Archivio di Stato nel 2003. Si trovavano in parte nell’edificio con la torre, e in parte nei sotterranei. Le cartelle dei pazienti con precedenti penali ora sono all’Archivio di Stato. Le cartelle cliniche rimasero per qualche anno qui all’ospedale, ma poi per la maggior parte furono spostate anche quelle. Nel frattempo io sto facendo controllare se ci siano delle vecchie cartelle lasciate qui per sbaglio, dato che ce lo hai chiesto». Fece un cenno con il capo in direzione di Marian. «Magari qualcosa c’è, ma non so esattamente dove. Di certo riguardano fatti di natura più privata, diciamo così. Cose che non sono di pubblica utilità».
Marian la guardò. «Aud Johnsen, la donna uccisa, era la figlia di un vostro vecchio paziente, John Johnsen. Non possiamo nasconderti che è per questo che ci troviamo qui».
«Certo, l’avevo capito. Era già venuto un giornalista di «vg». Ma io non l’ho lasciato scendere in cantina».
Cato Isaksen poggiò un foglio sul bancone. Sopra c’era scritto “Maike Hagg”. «È morta nell’88. Il padre era ricoverato qui negli stessi anni in cui c’era il padre di Johnsen».
«Sì, è successo nell’archivio sotterraneo. Qui se ne parla ancora, di quella morte».
«Potete scoprire qualcosa di più su quel fatto e su suo padre? E non parlate più con la stampa!», disse Cato Isaksen in tono serio. «Può compromettere le indagini».
«Li manderò via», fece lei, guardandolo. «Vedrò cosa riesco a trovare. Voi intanto datevi pure un’occhiata intorno». La donna afferrò alcune chiavi appese a un gancio al muro, e uscì velocemente da dietro il bancone.
Loro la seguirono attraversando la sala dal pavimento tirato a lucido fino a un’ampia scalinata bianca dove si trovava una vetrinetta con dentro un nido d’uccello. «Il pastore che lavorava qui all’epoca, Norma Winther, ci ha raccontato che a quell’epoca qui c’erano le cosiddette giornate dei bambini», disse Cato Isaksen. «Sia Maike Hagg che Aud Johnsen facevano parte di uno di quei gruppi. Vorremmo anche avere delle informazioni sulla segretaria che si occupava di ciò, una certa Berit Adamsen».
«Mi documenterò».
Marian mise il guinzaglio a Birka, e lo accorciò. «Hai modo di scoprire qualcosa su quando esattamente furono ricoverati e per quanto tempo rimasero qui? Le date, informazioni del genere».
«Informazioni di quel genere sui pazienti ne abbiamo di sicuro. Volete vedere la stanzetta nella torre?».
Gli investigatori annuirono.
Salirono la scalinata e camminarono lungo una specie di balaustrata con un bel parapetto bianco, e con degli archi che dividevano il soffitto in verticale. Birka tirava il guinzaglio e voleva entrare in una stanza con il pavimento di vetro.
«Entrare là dentro non sarebbe una buona idea. Questo è il lucernario che dà luce alla sala d’ingresso. Se si dovesse spaccare, si cadrebbe giù a strapiombo per venti metri». La donna aprì una porta a due ante alla fine della balaustrata. «Qui c’è l’auditorio».
Sbirciarono dentro, in quella che sembrava una piccola sala da ballo. Lunghi tavoli e pile di sedie erano addossate alle pareti.
«Bello», disse Marian, entrando. «I quadri ai muri… chi sono tutti quegli uomini?»
«Sono i direttori, per ogni anno. E i primari. Era Hammer quello che vi interessava maggiormente, giusto?».
Gli investigatori annuirono. Attraverso le finestre si poteva guardare giù verso lo spiazzo con la fontana.
«Questo è un suo ritratto». Deidrée indicò un quadro con una grossa cornice dorata. L’uomo, su uno sfondo nero, aveva i capelli grigi e un viso tondo, dolce.
«È stato qui dall’inizio degli anni Settanta fino al 2003, quando, a gennaio, fu chiuso il reparto. Tutto questo succedeva prima che io iniziassi a lavorare qui. Ma lui si è sempre dato molto da fare per migliorare le condizioni in questo ospedale. Quando alla fine decisero di chiudere il reparto di sicurezza, i giornali pubblicarono dei titoloni sulle pessime condizioni del settore psichiatrico. A lui toccò difendere le posizioni perché sedeva nel comitato dirigenziale».
Tornarono indietro lungo la balaustrata, entrarono attraverso una nuova porta e salirono per una scala stretta e polverosa sui cui gradini c’erano frammenti di paglia.
«Non è un segreto che alcuni dei dottori di quassù aiutarono i nazisti nei loro esperimenti, durante la guerra», disse Deidrée. «Ciò avveniva molto prima dei tempi di Hammer. Nel cimitero di Riis c’è una tomba comune. È piena di gente di cui nessuno conosce l’identità: probabilmente erano nomadi».
Marian tirò a sé il cane. «I loro nomi non furono registrati?».
Deidrée alzò le spalle. «C’è stata una storia di omertà, quassù. Ovviamente non c’è da vantarsene».
Attraversarono una grande soffitta. Era sporca e gli angoli erano pieni di cose vecchie: addossato a una parete c’era un mucchio di plafoniere mezze rotte. «Si dice che qui ci siano dei fantasmi: due vecchie pazienti che si aggirano quassù tutte vestite di nero». Accennò un sorriso. «Una di loro pare cucisse vestitini per bambini. Aveva perso un figlio. Sono fatti che risalgono a un centinaio di anni fa. Spesso mi commuovo molto a pensare ai destini che si sono avvicendati qui dentro. È per questo che amo lavorarci. Perché c’è anche una specie di luce che brilla su tutto l’insieme. Molto amore. Molti pazienti sono tornati qui nel corso del tempo, se non altro per suicidarsi. Quando decisero di chiudere l’ospedale, pare che abbiano trovato vecchi pazienti sia in cantina che in soffitta. Erano quelli che volevano tornare a casa, per così dire».
Il cellulare di Cato Isaksen squillò. Vide che era Bente, e le rispose brevemente che era nel bel mezzo di qualcosa. Lei gli disse che voleva parlare, e lui le promise di richiamarla dopo.
«Ci sono state anche delle storie d’amore, quassù», continuò Deidrée. Cato Isaksen e Marian Dahle si guardarono. Per una frazione di secondo, a Cato Marian parve bella. I suoi capelli erano lucidi come uno specchio, e vide che gli occhi a mandorla erano umidi.
Deidrée aprì la porta che conduceva alle scale. «Adesso andiamo a vedere il campanile», disse, facendo loro strada. Birka si intrufolò, sgusciando per prima. Cato Isaksen sollevò la mano senza pensarci, e la poggiò sulla schiena di Marian. Stavano di nuovo lavorando insieme. La sospinse dolcemente in avanti, su per le scale. Ma il tutto terminò in un batter d’occhio.
Marian sentì che i suoi sensi si erano acuiti, come se quel contatto fisico l’avesse resa più viva. Ora doveva concentrarsi. Sugli scalini sbrecciati c’erano frammenti di muratura e polvere. Il lucernario correva sopra di loro e metteva in evidenza i dettagli delle ruvide pareti di mattoni. Le scale si fecero più strette e ripide, e in cima divennero di legno. La stanza era sporca e c’erano degli scaffali vuoti.
«Alcuni documenti furono nascosti quassù».
Sotto il colmo del tetto c’erano dei nidi fatti di fango, secchi e bitorzoluti. «Balestrucci», disse Deidrée. «Di qui potete vedere anche il cortile di sotto». Guardarono giù attraverso la stretta finestrella della torre. «Negli anni Ottanta laggiù c’era un piccolo spaccio, e reparti da entrambi i lati», disse Deidrée. «Più ti trovavi in basso, vicino al cancello d’ingresso, meno malato eri, mettiamola così. Il reparto di massima sicurezza, con i pazienti più pericolosi, si trovava nel punto più alto del comprensorio, verso il bosco. Le cartelle cliniche venivano tenute in cantina. Adesso ci andiamo».
*
Un uomo gli aveva portato una porzione di lapskaus23 e una tazza di plastica con dentro dello sciroppo rosso diluito con l’acqua. Werner Hagg mangiò fissando la parete color verde erba della cella. Gli sembrava che quel colore si diffondesse sul suo corpo, rendendolo invisibile. Se ne stava seduto sulla panca coperta da un materassino di plastica. C’era un odore di cantina chiusa, come se si trovasse dentro una cassa che non veniva aperta da molti anni. Pensò a Berit Adamsen, al suo modo di fare. Diffondeva sempre un senso di calma nella sala comune. C’era uno dei pazienti che qualche volta suonava il piano, ma ce n’era un altro che non lo sopportava, e che cominciava a pestare sui tasti con tutte le forze. Hagg iniziò a canticchiare meccanicamente a voce bassa Nessuno è più al sicuro dei fanciulli del Signore. Poi tacque. Lui non era più matto, e Berit lì non c’era. Non aveva alcun problema di salute. Non c’era motivo di avere paura. Sarebbe uscito di lì, e tornato al fienile.
*
Erano tornati giù, nell’area della reception. «Ci sono due modi per scendere nello scantinato», disse Deidrée, «o con le scale da qui, oppure dalla porta di legno del sottopassaggio, di fuori». Quando aprì la porta, i cardini cigolarono. La scala curvava leggermente. Dopo dodici gradini si ritrovarono giù, sul pavimento di pietra. Marian conosceva quell’odore: le cantine, soprattutto nei palazzi antichi, avevano un sentore speciale.
Deidrée premette l’interruttore e indicò a sinistra con la testa. «Quella porta verde chiaro in fondo al corridoio laggiù conduce direttamente al passaggio tra l’edificio principale e quello laterale».
Il tubo al neon sul soffitto sfrigolava. Il sotterraneo era enorme. Si avviarono per il corridoio che aveva pareti spesse e ruvide da entrambi i lati. Il vecchio intonaco si stava sgretolando. C’era un inizio di muffa che formava strisce sottili in basso, lungo il pavimento, e la luce bianca rendeva tutto più nitido.
La cantina consisteva in varie stanze con un al centro un ampio corridoio polveroso. La receptionist teneva in mano il mazzo di chiavi. «Devo ammettere che quaggiù non scendo mai da sola. Ho sentito dei rumori, in passato». Accennò un sorriso. «Come in soffitta, penso che magari anche qui sotto ci sia qualche presenza. Lo so che si tratta di sciocchezze… ecco il vecchio archivio in cui morì la bambina». Spinse la porta per aprirla. Una spoglia lampadina pendeva dal soffitto della stanza rettangolare.
Cato Isaksen entrò per primo. Quello era il luogo del delitto. C’erano spesse pareti bianco-grigiastre. Un tubo scendeva giù dal soffitto e finiva nel pavimento, e ai lati erano addossate delle scaffalature. Birka si mise ad annusare l’angolo più recondito. Alla rinfusa, sugli scaffali, giacevano raccoglitori blu ad anelli. Erano vuoti. Attraverso la feritoia dello scantinato il vento aveva spinto dentro delle foglie avvizzite, che giacevano in un angolo sotto un vecchio tavolo. Il tubo che si infilava nel pavimento trasudava acqua. A una parete c’era appoggiata una scala pieghevole, chiusa. Cato guardò Marian. «Maike Hagg è morta il 20 novembre 1988. Oggi è il 3 novembre. Sono passati la bellezza di venticinque anni, da quando è successo».
Marian lo fissò. «Il termine per la prescrizione nei casi di omicidio è di venticinque anni», disse, e sentì il muso del cane contro l’incavo del ginocchio.
Deidrée era in corridoio ad aspettarli.
«Dannazione, Marian», disse Cato.
«Accidenti, Cato», fece lei fissando delle macchie sul pavimento. «Sono tracce di sangue? Qui sembra più scuro».
Deidrée li raggiunse. «Non so cosa sia. Io sono qui soltanto da dieci anni».
Cato Isaksen si accucciò e passò la mano sul pavimento. C’era una larga striscia che correva da uno degli scaffali fino alla porta in cui l’impiantito era più scuro. Birka si mise ad annusare con insistenza. Lui spinse via il cane prima di rialzarsi e guardare Deidrée. «Puoi chiudere a chiave questa stanza e proibire a chiunque di entrare qua dentro? Io torno il prima possibile con un tecnico della Scientifica». Marian afferrò il collare di Birka. «Non abbiamo con noi il nastro per mettere i sigilli», disse.
Uscirono.
«Non c’è problema. Chiudo io la porta». Deidrée si tirò dietro l’uscio. Marian lasciò il collare di Birka. Il cane corse per il corridoio sotterraneo, annusando intorno. C’era una lunga fila di porte una dietro l’altra, con grosse serrature e maniglie arrugginite. All’improvviso il cane si fermò, alzò la testa e cominciò a ringhiare. «Buona, Birka», disse Marian. «Ci sono topi, qui sotto?»
«Ogni tanto veniamo a piazzare le trappole», rispose Deidrée.
L’acqua colava silenziosa giù per i muri. Al centro del pavimento c’era una pozzanghera. Delle orme umide e poco nitide si allontanavano per il corridoio. Le impronte dovevano essere state lasciate da scarpe da montagna o stivali di gomma, e non tornavano indietro. «Hai detto che la cantina ha soltanto due uscite, giusto?», disse Marian e guardò indietro verso la porta verde.
«Sì, soltanto la scala, e la porta di legno che dà sul cortile. E poi ci sono i cunicoli. Uno può uscire di qui anche passando per i cunicoli sotterranei».
*
All’improvviso Werner Hagg provò la stessa sensazione di quando era ricoverato nel suo reparto: non c’era via di scampo. Così come stavano le cose adesso, non c’era nessuno con cui lagnarsi. Era da solo e in disgrazia, in custodia cautelare presso un dipartimento in cui era considerato folle. Un moccioso di poliziotto era venuto a parlare con lui, lo stesso che era venuto a casa sua. Quello più giovane, bruno, con l’espressione un po’ arrogante. «Sii sincero. Dì come stanno le cose. Tu la conoscevi, Aud Johnsen, giusto?», aveva insistito.
Werner Hagg aveva taciuto. Gli venne in mente la faccenda dei caselli autostradali. Le fotografie erano come impronte digitali: potevano essere utilizzate come prove. Era in caduta libera. Non sarebbe dovuto andare a cercare Aud ed Emmy! Una tempo aveva una figlia: Maike. Poi era successa una catastrofe. E ora ne era successa un’altra. Chinò la testa e poggiò le grosse mani sulle ginocchia. Sapeva di aver diritto a un avvocato. Lui non era cattivo. Ciò che era successo quella volta con Elsa era stato un incidente: lei era nervosa, faceva un sacco di storie, e avere a che fare con lei era sempre più difficile. Non ci sapeva fare con i bambini. Il fatto che l’avesse colpita era stata una specie di disgrazia: la rabbia lo aveva accecato e lo aveva travolto come un impeto d’odio. E così aveva preso l’ascia. A causa di quell’episodio lui era finito a Gaustad, e i bambini in una casa d’accoglienza da qualche parte a Bærum. Fissò la parete. Era passato così tanto tempo. Lassù si era dedicato a intrecciare delle ceste a mano. Berit Adamsen aveva detto che sentiva l’esigenza di aiutare i pazienti attraverso la creatività, ma alcuni si innervosivano e non volevano collaborare. Non lui: a lui piaceva lavorare. Ora stava lavorando per Jan. Era un vero fabbricante di bare. Werner Hagg si vide davanti tutti e tre i suoi figli. A quel tempo Jan aveva sedici anni, e in realtà era già troppo grande per quelle giornate dedicate ai bambini. Ma forse c’entravano le ragazzine, per questo voleva partecipare. Povero Piet, lui era il più vulnerabile. Gli capitava spesso di fare degli incubi: sognava che degli oggetti uscivano dagli armadi e lo aggredivano. Maike in effetti era la più forte di loro. Hagg sorrise dolcemente, se la rivide davanti nel suo lettino di bambina, circondata da così tanti animali di peluche che se solo uno si avvicinava prendeva la scossa.
*
Le impronte bagnate sul pavimento della cantina potevano essere lì da un pezzo. “Le cose si asciugano lentamente, quaggiù”, pensò Marian cercando di scrollarsi di dosso quella sensazione sgradevole. L’edificio risaliva alla metà dell’Ottocento. In un angolo, lì dove il corridoio svoltava a destra, c’erano delle casse con delle sculture incompiute dentro scatoloni di cartone. Le sculture in parte erano rotte: alcune frantumate, altre quasi intere. «I pazienti avevano l’opportunità di esprimersi attraverso l’arte», disse Deidrée. «Queste dovrebbero risalire agli anni Cinquanta o giù di lì. Avremmo dovuto mettere in ordine, qui». Birka voleva entrare in una stanza. Annusava lungo lo stipite della porta e abbaiava piano. Marian la tirò per il collare. «Adesso basta», insisté, ma Birka continuava ad abbaiare. «Sicuramente questa situazione è eccitante, per lei», sorrise, e allo stesso tempo provò un brivido freddo lungo la spina dorsale.
«Là dentro credo si sia rotta la lampadina». Deidrée aprì lentamente la porta.
Marian guardò all’interno, nel buio, e strinse con forza il collare per trattenere il cane. Rimase ferma sulla soglia. Lì dentro il silenzio fu rimpiazzato da un rumore quasi impercettibile. Marian resisté alla tentazione di guardare dietro alla porta alla ricerca di un fantasma, come quando era bambina. Ma percepì un qualche sentore, l’odore di una sostanza, qualcosa di forte che non riusciva a definire. Ebbe una sensazione violenta, connessa a quelle tracce olfattive. «Andiamo avanti». La voce di Cato era impaziente.
Marian richiuse la porta. Cato aveva detto che quella faccenda dell’intuito era una stronzata. E la canzoncina per bambini che le venne in mente all’improvviso non aveva nulla a che vedere con questa situazione. L’orso dorme, l’orso dorme nella calda tana.
«C’erano anche dei giorni dedicati ai film». Deidrée aprì un’altra porta. «Il proiettore veniva spostato di reparto in reparto, e i film venivano proiettati sulle pareti. È ancora qui». All’interno, lungo una delle pareti della stanza, c’era una fila di piccole cabine fatte di legno, come gli spogliatoi di una piscina. Deidrée proseguì. «In realtà non so cosa ci facessero, qui; forse era una stanza adibita alla rimozione dei pidocchi».
«E questa?». Cato Isaksen era andato avanti. «Questa assomiglia a una camera delle torture, con tavole e cinghie. Che cos’è? La stanza dell’elettroshock?»
«Sì», disse Deidrée. «La direzione l’ha mantenuta così com’era. Ovviamente negli ultimi anni gli elettroshock non si facevano qui, ma all’interno degli ospedali».
Nella spessa parete vicino alla porta di legno verde chiaro che portava fuori dalla cantina c’era un’apertura. «Qui iniziano i cunicoli», disse Deidrée. «Accendo la luce, così potete guardare un po’ in profondità». Il buco era come un pozzo senza fondo, in cui regnava un buio pesto.
«Ma queste sono delle catacombe», disse Marian rimettendo Birka al guinzaglio. Il cane si sedette.
«Perché ci sono dei cunicoli sotterranei, qui?». Cato Isaksen provò una sensazione sgradevole quando la luce fredda dei sottili tubi al neon tremolò prima di stabilizzarsi. Da entrambi i lati del cunicolo correvano delle grosse tubature, e il soffitto era coperto da un sottile strato di muffa. Nell’aria opprimente che regnava lì dentro c’erano anche tracce di un altro odore.
«Ai vecchi tempi, pazienti e infermieri potevano fare avanti e indietro tra gli edifici senza bagnarsi, mentre fuori pioveva o nevicava», disse Deidrée. «Il complesso è molto grande. In effetti questo è un pericoloso labirinto. Un paio di volte nel corso della storia dell’ospedale qualche paziente ha cercato di scappare oppure si è perso nei sotterranei, e dopo è stato ritrovato morto. Al giorno d’oggi il cunicolo principale è illuminato, ma quelli laterali no».
«E le tubature?». Marian continuò a guardare lì dentro.
«Quando qui portarono l’acqua corrente, all’inizio del Novecento, installarono queste tubature lungo le pareti dei cunicoli. Da questo punto di vista qui erano piuttosto all’avanguardia, se vogliamo. I pazienti potevano farsi un bagno caldo, li calmava».
Uscirono dalla porta di legno e percorsero lo stretto passaggio tra gli edifici. Deidrée era senza soprabito, ed era evidente che sentiva freddo. «Qui nell’androne a destra c’è la cappella. L’ingresso è in cima a quella scala». Proprio allora cominciarono a suonare le campane della chiesa di Riis. Tutti e tre sorrisero di quella coincidenza. «E un po’ più su c’è il locale caldaie». Deidrée si strinse le braccia al petto per scaldarsi. «È stato chiuso per molti anni».
Il piccolo locale caldaie si trovava a destra rispetto al sentiero, vicinissimo, ed era ricoperto dalla vite del Canadà. Erano rimaste soltanto un paio di foglie di color rosso acceso sugli steli marroni abbarbicati alla parete. Proprio accanto all’ingresso c’era, su di una colonnina, una figura rannicchiata in marmo bianco che ricordava una mummia. Cato Isaksen alzò lo sguardo verso la canna fumaria.
«È alta quarantaquattro metri», disse Deidrée.
«Questo edificio in muratura mi ricorda un piccolo pub inglese. Mi è venuta voglia di una birra», scherzò Marian. «Ma perché ci sono le sbarre alle finestre?»
«Non è una cosa inusuale, quassù», disse Deidrée. Poi proseguì: «C’è un aneddoto sul locale caldaie risalente agli inizi del Novecento. Un paziente uccise una donna. Sapete che qui i pazienti hanno sempre intrecciato ceste di tutti i tipi. Ce n’è rimasta ancora una, all’interno di questo locale. La donna viveva nell’edificio che ospitava il reparto femminile, e quel paziente poteva vederla soltanto attraverso le maglie della recinzione. Una volta lei gli disse che l’unica cosa che desiderava era morire. Lui era convinto che tra di loro ci fosse un legame sentimentale, e voleva aiutarla. In seguito dichiarò di averla amata profondamente. Riuscì a scappare e a entrare nell’edificio adibito a reparto femminile, soffocò la donna, la mise in una cesta e la bruciò nella grande fornace qui dentro. Da quel momento, le ceste di vimini furono chiamate le ceste della sposa. Ma è possibile che sia soltanto una leggenda». Deidrée si strofinava gli avambracci per riscaldarsi. «Alcuni pensano che la fornace sia stata utilizzata per le cremazioni fino agli anni Cinquanta. Del resto un tempo qui i pazienti morivano come mosche. Chissà cosa succedeva, a quei tempi. In realtà questa era la casa del guardiano. Negli ultimi anni prima della chiusura ci abitava uno studente di medicina. C’è un appartamentino, su in soffitta. Io non ne ho le chiavi e non ci sono mai stata, ma pare ci siano tutti gli utensili possibili e immaginabili utilizzati a quei tempi dall’idraulico e dal guardiano stesso».
Fuori intravvedo tre persone e un cane. Attraverso la finestra piombata non ho potuto scorgere i loro volti, ma devono essere le stesse persone che prima si trovavano nello scantinato.
Mentre frugavo in una scatola in uno dei ripostigli della cantina li ho sentiti, e ho avuto paura. Avevo appena trovato un libriccino, quando all’improvviso mi sono giunte delle voci dal corridoio. Ho spento la torcia. Attraverso il buco della serratura ho scorto i contorni di alcune persone. E un cane ha cominciato ad abbaiare. Ho cercato rifugio nell’angolo dietro la porta; loro l’hanno aperta ma non hanno visto nulla. Il cane però si è fermato sulla soglia ad abbaiare. Poi la porta si è richiusa. Ancora una volta mi è sembrato di precipitare. Giù, in mezzo alle mie calamità. Nella zona d’ombra della mia anima: lì dove non voglio avventurarmi. Dopo che se ne sono andati, ho indugiato fino a quando non ho sentito la porta verde che sbatteva in lontananza. Allora ho lasciato quel nascondiglio, ho percorso parte del corridoio e ho imboccato il mio pertugio, il cunicolo sotterraneo. Sono come una talpa, con la pelliccia maleodorante e a mani nude. La mia saliva è velenosa. Ho spento la luce che avevano acceso e dimenticato di spegnere; poi ho continuato a inoltrarmi. Non ho bisogno di luce, lo so quanto dista la sala delle caldaie. Ho fatto presto a issarmi su attraverso la botola di legno. Ora, mentre ascolto le loro voci provenienti dall’esterno, sto tappando il buco della serratura con della carta. Poi farò delle flessioni sul pavimento gelato e accenderò la stufa. Le braci sono ardenti. Il calore durerà ancora per qualche giorno. I muri di pietra diventeranno tiepidi, come il fianco spoglio di una montagna al sole. Apro il libriccino. Tratta di igiene mentale, ma qualcuno ha scritto una poesiola sul frontespizio. «I fiori in fondo al sentiero non sono ancora stati colti. E tu puoi ancora sentire quel rumore sull’albero. Puoi sentire il vento che legge le foglie. Perché tutto esiste, ancora».
In cantina trovo, riposti dentro gli scatoloni, piccoli oggetti che posso utilizzare. Quelle spedizioni le faccio per calmarmi. Sento il dolore dentro di me. Lo faccio affiorare per sbarazzarmene. Lo chiamano “mutamento”. È come se uno amputasse le proprie ali nere. A volte mi vengono in mente immagini di bambini che stanno fuori dall’edificio G e guardano in su verso le finestre, in direzione dei pazienti che si trovano all’interno.
La fornace nel locale caldaie è come una bestia enorme. Ora sta ruggendo. Ho acceso anche il fuoco con la legna, non mi sono limitato a utilizzare l’impianto elettrico. Perché il freddo in alcuni punti ha fatto ghiacciare il pavimento di pietra intorno alla botola. Ma purtroppo il ragno sul soffitto comincia a muoversi. Guardo la maschera da diavolo appesa al chiodo, e la falce ripulita lì accanto. Mi sforzo di rivivere i dettagli dell’omicidio. È un segno di buona salute. Ma è come saltare a bordo di una giostra nera.
Deidrée chiese se volessero vedere la lavanderia e ciò che rimaneva dell’edificio per le lobotomie. «Adesso penso che basti», disse Marian. «Dobbiamo fare altre cose». Birka tirava il guinzaglio. «Devo tornare al lavoro e leggere alcuni documenti», mentì. Non era vero; doveva andare a casa di Erik Haade. Le aveva mandato diversi messaggi chiedendole di venire. Le sembrava quasi di tradirlo, malgrado non avesse mai fatto sesso con Cato.
Mentre si giravano per tornare alla macchina, un uomo robusto dai capelli rossi scese per il sentiero e passò loro accanto. Indossava una giacca verde militare, e aveva uno zaino sulle spalle. I suoi jeans erano tutti consumati sul retro, e sembravano un reticolato di fili grezzi di cotone. L’uomo si affrettò per la sua strada tenendo gli occhi fissi sul terreno.
Cato Isaksen si guardò alle spalle. Avrebbe giurato che, dalla ciminiera della fornace, stesse uscendo una sottile striscia di fumo, sottile come un filo contro il cielo.
*
Non appena varcata la soglia di casa, Jan Hagg chiamò di nuovo suo padre. Si sedette al vecchio tavolo oblungo. Una grossa pianta era poggiata sulla tovaglietta variopinta. Jan ne fissò il disegno a tralci verdi intrecciati e acini d’uva viola. Poi chiuse gli occhi, e dietro alle palpebre gli apparvero delle immagini. Perché il padre non rispondeva al telefono? Di tanto in tanto attraversava delle giornate cupe, come lui stesso le definiva. In quei momenti voleva soltanto essere lasciato in pace. Ingrid era appena tornata dall’agenzia funebre. A Jan non piaceva quel leggero odore di formaldeide. Ora lei era nella doccia. Gli era sembrata diversa, come se avesse percepito che c’era qualcosa che non andava. Lui non le aveva raccontato della telefonata di Emmy Hammer. Non gli andava proprio di parlare di quei tempi. Non avrebbe dovuto chiamarlo, suo padre, dopo quella conversazione: la sua psiche era in un equilibrio molto precario. Il minimo elemento di disturbo avrebbe potuto fargli perdere le staffe. Le bambine se ne stavano nella propria stanza a giocare. La cucina era grande e allungata, e tra le due alte finestre, più o meno al centro, c’era un focolare. Si poteva scorgere la cima della grande quercia illuminata nel cortile posteriore. Su di essa spiccavano le poche foglie rimaste, rosse come il sangue.
Ingrid arrivò con uno scalpiccìo di piedi nudi, e lui aprì gli occhi.
«È ora di preparare qualcosa per cena», disse lei.
Jan notò una briciola di torta sulla superficie del tavolo, e la spazzolò via con la sua grossa mano.
*
Ingrid Hagg fece un’insalata e mise la scodella sul tavolo. Per fortuna alle bambine piacevano le verdure. In quello avevano preso dal padre. I suoi racconti di come, durante l’infanzia, si fosse nutrito di solo pane e miele, e di come i suoi denti fossero cariati già prima ancora di compiere cinque anni, le faceva inorridire.
La moglie lo guardò. «Jan, mi dici cos’hai? È qualcosa che riguarda tuo padre?»
«No, nulla. È solo che non ho appetito. Vado ad allenarmi in palestra».
Jan uscì in corridoio, prese il borsone sportivo e gettò un’occhiata dentro alla stanzetta delle bambine che giocavano sul pavimento con degli animali di plastica. Non capitava spesso che andassero a trovare il nonno alla fattoria, ma quando ci andavano, chiedevano sempre perché nel fienile non ci fossero degli animali.
Lunedì 4 novembre Cato Isaksen alle sei di mattina era già in questura. E non era l’unico. Marian era fresca come una rosa. C’erano un sacco di cose da fare, e andavano fatte nel giusto ordine. Alle sette Cato Isaksen era di nuovo a Kirkeveien per controllare se Berit Adamsen fosse tornata a casa. Si rendeva conto che era vergognosamente presto, ma i tempi stringevano. La donna non aprì neanche questa volta, e la cassetta delle lettere era ancora piena. Cato Isaksen si lasciò cadere pesantemente sul sedile di guida. Se Berit Adamsen aveva davvero tagliato la corda, allora voleva dire che sapeva qualcosa. Il suo cellulare era sempre spento. Ma di certo Cato non credeva che l’omicidio di Sandakerveien fosse stato commesso da una signora sessantottenne.
Cato Isaksen guardò nello specchietto retrovisore e imboccò la strada. Il pubblico ministero doveva valutare se emettere o meno un’ordinanza di custodia cautelare per Hagg; l’avvocato di quest’ultimo sarebbe arrivato alle nove. La sera prima, quando era tornato a casa, Bente era lì ad aspettarlo fuori dal suo monolocale. Cato era talmente stanco che le aveva detto che non ce la faceva a parlare, e lei era tornata di corsa alla propria macchina, in lacrime. Quella notte era riuscito a dormire sì e no due ore. Era assillato dai rimorsi di coscienza.
Percorse Kirkeveien pensando a ciò che Deidrée gli aveva detto a proposito dei pazienti che volevano tornare. Molti pazienti sono tornati qui nel corso del tempo, se non altro per suicidarsi.
Forse l’omicidio di Aud Johnsen era stato scatenato da un evento di molto tempo prima.
Gaustad era stato sede di terapie e ricerca, ma anche un luogo per i familiari dei pazienti. Un tempo infatti era possibile far rinchiudere persone giudicate pazze o difficili nei manicomi. Si trattava soprattutto di donne, come aveva letto da qualche parte. Mogli problematiche e figlie. Gli tornò in mente il sogno che aveva fatto quella notte. Marian era stesa nel suo letto, dal lato del muro, con i capelli neri sul cuscino. Era sdraiata su un fianco, e il suo corpo misterioso formava un incavo all’altezza del fianco.
*
La squadra si raccolse nella sala riunioni A5. Per un’ora elaborarono varie strategie che dovevano essere seguite in contemporanea. Nel frattempo continuavano senza sosta a interrogare vicini e altre persone in qualche modo legate alla vittima. Le segnalazioni del pubblico venivano filtrate e analizzate. Discussero della scadenza dei termini per la prescrizione. Mancavano esattamente due settimane. Bisognava dare la priorità all’acquisizione di informazioni sulle circostanze della morte di Maike Hagg. «Voglio che la casetta negli orti comunali dei Johnsen sia perquisita come si deve», disse Cato Isaksen. «Asle, tu prendi un tecnico e vai immediatamente lì. Io oggi pomeriggio mi incontrerò con Ellen a Gaustad per fare dei rilevamenti tecnici nell’archivio sotterraneo. È strano che le impronte digitali di John Johnsen non siano state trovate nell’appartamento di Aud Johnsen in Sandakerveien. Lui dice che non c’è mai stato. Vi pare normale?»
«Johnsen non ha mostrato uno straccio di reazione di fronte al fatto che la figlia è stata uccisa». Roger Høibakk scosse la testa. «La sua malattia trasuda da tutti i pori».
«Ma certo che reagisce», disse Marian e si sporse in avanti. «E quel tipo di malattia non trasuda affatto. Piuttosto sei tu che sei pieno di disprezzo. Forse Johnsen si vergogna. Sa con che occhi lo guardiamo, noi della polizia».
Roger Høibakk si passò la mano tra i capelli. «Abbiamo a che fare con dei pazienti psichiatrici. Un gigante che costruisce bare e assomiglia a un personaggio dei fumetti, e un uomo con il soprabito che parla di angeli diabolici».
«I pazienti psichiatrici non si distinguono in alcun modo dalla gente qualsiasi, Roger», proseguì Marian.
«Ma che dici?», rise Roger. «Pensa a Johnsen e Hagg».
«Ci sono sintomi fondamentali e sintomi marginali», proseguì Marian. «Ai sintomi fondamentali appartengono i disturbi dissociativi e i disturbi del pensiero».
Cato Isaksen la fissò. Marian parlava come uno psichiatra.
«Non abbiamo in mano nulla contro Johnsen», disse l’ispettore. «Adesso per prima cosa vediamo come vanno le cose con Werner Hagg». Per un attimo pensò al sogno con Marian. «Probabilmente il pubblico ministero deciderà che l’ordinanza di custodia cautelare non è opportuna, per il momento. Ellen ci ha comunicato che gli stivali di pelle di Hagg sono troppo grandi per corrispondere alle impronte dei piedi sotto alla finestra di Aud Johnsen. Mi chiedo se non dovremmo contattare Karsten Tønnesen. Ai suoi tempi ha lavorato a Gaustad».
Asle Tengs fece spallucce. «Era il perito psichiatrico della polizia. Ora è in pensione».
Marian guardò Cato. «Uno psichiatra. A cosa ci dovrebbe servire?»
«A cosa non ci dovrebbe servire, piuttosto», disse Cato Isaksen, e allo stesso istante ricevette un messaggio che diceva che secondo il pubblico ministero, gli elementi a carico di Hagg non erano sufficienti. L’uomo aveva negato che quella nel filmato di sorveglianza fosse la sua automobile, e la targa comunque non si vedeva. Dovevano aspettare una risposta dal casello autostradale. Nel frattempo l’avrebbero rimesso in libertà.
Gli investigatori si guardarono scoraggiati.
«Norma Winther non ci ha detto che il padre di Maike era un assassino che aveva ucciso la madre della ragazza», disse Cato Isaksen per rompere quel silenzio penoso. «Perché il pastore non ne ha fatto parola? Devo tornare da lei, e poi andare nella cantina di Gaustad con Ellen. Le giornate sono troppo corte».
«Devi delegare, Cato».
«Io delego, Marian. Ma devo essere al corrente dei dettagli per formarmi un quadro completo».
«Che storia d’amore che ci ha raccontato Deidrée a proposito di quella cesta della sposa, Cato!».
«Direi piuttosto una storia d’odio, se vuoi sapere cosa ne penso, Marian».
Gli altri li guardarono perplessi.
Dopo la riunione, Marian tornò di corsa nell’ufficio che divideva con Randi. Un istante prima, Cato aveva assunto di nuovo quel tono di voce. Quello che aveva un che di gelido. Ora doveva scrollarsi di dosso tutto quanto e concentrarsi su Jan Hagg, il figlio di Werner Hagg.
Marian ne aveva piene le scatole degli psichiatri. Gaustad era la loro mecca, e Tønnesen era un signore anziano che ricordava lo psichiatra da cui era andata lei stessa. Ora le stava tornando tutto alla memoria. Lui aveva concluso che Marian da bambina era dotata di un’intelligenza cognitiva superiore alla media. Questo fatto le aveva rovinato l’infanzia, e l’aveva allontanata dai suoi genitori adottivi. Marian aveva un’estrema voglia di apprendere, ed era piena di energia. Sapeva già leggere e scrivere molto prima di cominciare la scuola. Aveva buona memoria, poco bisogno di dormire, era una bambina curiosa che faceva molte domande e con un senso della giustizia fin troppo spiccato. Perciò litigava quasi con tutti. Marian capiva le battute già a cinque anni, si poneva domande esistenziali, era creativa, perfezionista, profonda e cocciuta. E ora era tornata da Cato. Per lui avrebbe lavorato meglio di quanto lui stesso potesse mai immaginare. Perché era così importante, per lei? “Perché?”, pensò, e si sedette alla sua scrivania. Si fece piccola piccola. Avrebbe potuto giurare che soltanto un attimo prima aveva l’età di Maike Hagg.
*
Cato Isaksen sentì l’odore acre del proprio sudore. Non si era fatto la doccia, quella mattina. Doveva riuscire a fare un salto al suo monolocale per cambiarsi prima di tornare a Majorstua da Berit Adamsen, poi da Norma Winther nella chiesa di Fagerborg, e infine andare dallo psichiatra Carl Hammer in Trosterudveien.
Mezz’ora dopo era sotto la doccia, e pensava a ciò che Roger aveva detto sulle donne. Il motivo per cui le donne hanno paura degli uomini è lo stesso per cui noi abbiamo paura di loro. Ma erano gli uomini a picchiare, a uccidere, a comandare. Il pensiero di Bente gli riempì il corpo con un’ondata di tristezza. Poco prima le aveva mandato un messaggio dicendole che gli dispiaceva.
Mentre si stava asciugando, suonò il cellulare. Era la voce limpida di Deidrée da Gaustad. «L’unica cosa che sono riuscita a trovare sono delle carte dove c’è scritto che le attività per i bambini che si svolgevano negli anni Ottanta erano organizzate tra gli altri da un giovane pastore donna che a quell’epoca lavorava qui. L’hai già nominata: era Norma Winther. Non so se stia ancora lavorando come pastore».
«Sì, presso la chiesa di Fagerborg», disse Cato Isaksen.
«Norma Winther si è licenziata subito dopo che se n’è andata Berit Adamsen».
«Ah, sì?», fece lui. «Grazie. Ora ci vado».
*
Cato suonò di nuovo alla porta di Berit Adamsen, aspettò a lungo e parlò con l’inquilino del pianterreno, che non vedeva la Adamsen da qualche giorno; poi andò alla chiesa di Fagerborg e lasciò la macchina nello spiazzo adibito a parcheggio, che era vuoto.
Cos’è aveva detto, Johnsen? L’unico contributo che posso dare è far capire a voi tutti che il diavolo è travestito da angelo. Maledizione, forse alludeva a Norma Winther!
Questa volta fece un giro intorno alla chiesa. Sul retro c’era un camper, accostato alla parete. E la ditta di autonoleggio “Bislet Bilutleie” aveva quattro furgoni pubblicitari in sosta in un parcheggio a pagamento all’estremità del parco. Salì una scala d’accesso laterale. Erano già le undici passate quando si sedette sulla stessa sedia della volta precedente e iniziò l’interrogatorio. Il pastore indossava un vestito inappropriato, con una fantasia vistosa. Lilly Hausmann non si vedeva. «Perché hai smesso di lavorare a Gaustad subito dopo che si è licenziata Berit Adamsen?».
Notò che Norma Winther era arrossita. Era soltanto un accenno, un leggero alone sulle guance, come se avesse paura. La donna fece un gesto rabbioso con un braccio. «Non sono tenuta a rispondere a questa domanda».
«Tu hai l’obbligo di testimoniare, e verrai comunque convocata in questura per un interrogatorio formale. Abbiamo bisogno di aiuto. C’era un motivo per cui te ne sei andata?». La guardò. Norma Winther guardò lui. «Mi hanno offerto un lavoro migliore», disse. «Mentre stavo a Gaustad avevo solo un piccolo monolocale giù in città. Qui invece mi hanno offerto un’intera canonica».
«Perché non hai menzionato il fatto che il padre di Maike era un assassino, quando sono venuto qui l’ultima volta?»
«Non era di certo una cosa inusuale, nel reparto G. Molti nel reparto di sicurezza erano assassini, mentre altri erano soltanto attaccabrighe, diciamo, come nel caso di John Johnsen: una bomba a orologeria che poteva scatenare una catastrofe».
«Lo pensi davvero? Sei in contatto con John Johnsen?».
Lei scosse la testa. «L’ho visto in qualche rara occasione sull’ultimo banco durante la messa della domenica».
«Ho dato un’occhiata alla cappella di Gaustad».
«Ci ho pensato molto, a quel funerale. I fratelli maggiori di Maike sedevano accanto al padre, da soli al primo banco. Una storia terribile. Una morte moltiplicata per due, in un certo senso. Ma a me che ci lavoro, la morte non fa paura».
«Jan e Piet?», chiese Cato Isaksen.
Lei annuì. «Bei ragazzi, bruni tutti e due. Penso che le ragazzine fossero un po’ cotte di Jan. Sai com’è, a dodici anni».
«Tu mi parli di Jan. Ma questo Piet?»
«Piet era un ragazzino insulso. Però girava sempre col coltello». Guardò Cato con un’espressione un po’ stupita, come se si rendesse conto di avergli appena rivelato un segreto.
«Capisco. Cosa intendi per insulso?»
«È soltanto la prima parola che mi è venuta in mente. Gli piacevano molto gli attrezzi da lavoro, ricordo. Amava starsene nel locale caldaie con il guardiano».
«E Maike?»
«Sarò sincera. Faceva un po’ pena. Aveva un sederino grosso e i capelli grassi, castano chiaro. Tagliati così, dritti. Fece un gesto con la mano. «Ma a modo suo poteva anche essere radiosa, sebbene non fosse mai ben vestita. Il giorno in cui morì indossava una tunica fatta a maglia e dei pantaloni verde scuro».
«Quindi te lo ricordi?»
«Sono quel tipo di cose che si ricordano. Ricordo anche che era stesa su una barella. E l’ambulanza che si allontanava».
«Non riusciamo a trovare Piet Hagg. Hai idea di dove si trovi?».
Norma Winther scosse la testa. «Maike era legata a Berit», proseguì. «Volevano bene a Berit tutti e tre».
«Non siamo riusciti neanche a rintracciare Berit Adamsen».
Norma Winther poggiò i palmi sulla scrivania e fece scivolare leggermente indietro la sedia. «L’unica cosa che mi viene in mente è che aveva un vecchio chalet a Krokskogen. Una volta sono andata a trovarla lì».
Cato Isaksen tornò di corsa alla macchina. Uscì dal parcheggio e telefonò a Roger non appena fu per strada. «Norma Winther dice che Berit Adamsen ha uno chalet a Krokskogen. Mi ha disegnato una specie di piantina basata sui suoi ricordi. È sopra Sundvollen, inoltrandosi nel bosco da Krokkleiva. Non ci vogliono più di quaranta minuti ad arrivarci».
«Dobbiamo andarci?». Roger aveva un tono rassegnato.
«Sì. Non faccio in tempo ad andare da Carl Hammer, adesso. Chiedi ad Asle di portarsi Randi e di andarci lui. Più tardi devo vedermi con Ellen a Gaustad. Dobbiamo ispezionare l’archivio sotterraneo. Ma ora vengo subito a prenderti, quindi tieniti pronto dietro alle vecchie pompe di benzina. Porta degli stivali per entrambi».
*
Quando Emmy Hammer si svegliò lunedì mattina, era come se in lei si fosse annidato un presagio. Sta per succedere qualcosa. Più tardi, mentre sedeva di fronte al padre al tavolo bianco nella grande sala da pranzo della casa padronale, provò un senso di malessere. Lui le aveva detto che la polizia sarebbe venuta a parlargli. Come se fosse un evento quotidiano. Il padre non aveva detto una sola parola su Aud. Possibile che non capisse che era proprio di lei che parlavano i notiziari, della figlia di John Johnsen? Emmy stessa stava cercando di scacciare quel pensiero dalla mente.
Sentì la paura come una stretta allo stomaco, e poggiò un po’ troppo rumorosamente la tazza del caffè sul piattino. I genitori l’avevano invitata a una colazione d’addio per Philip, che sarebbe tornato in Polonia l’indomani mattina. Non potevano fare una cena, perché dovevano andare a un concerto al Konserthuset, quella sera, tutti e quattro, per sentire l’Orchestra filarmonica di Oslo suonare la sinfonia numero sei di Mahler. Philip ed Emmy si erano fatti l’occhiolino a vicenda: insieme sarebbero sopravvissuti. Emmy amava il salotto dei genitori. C’era un odore intenso che proveniva dai fiori sui davanzali. Il pavimento era coperto da tappeti persiani. Le pareti erano tappezzate di quadri, e i mobili erano antichi e imponenti. Sul pianoforte a coda c’era una serie di foto di famiglia: i suoi nonni alle due estremità, lei stessa da bambina e quattro foto di Philip. Lui con il ciuffo biondo e le fossette il primo giorno di scuola, oltre a due foto da neonato e una della sua confermazione. Ora le stava seduto accanto. La madre, bassa e rotondetta con i ricci della permanente un po’ fuori moda che le coprivano la fronte, gli stava servendo panini con gli hamburger e gamberetti. Servì Philip per primo, e lui cominciò a mangiare non appena lei poggiò il panino sul piatto di porcellana col motivo a fiori. Il nonno sorrise. Emmy lo guardò. Aveva un viso tondo. I capelli grigi erano pettinati all’indietro per mascherare quanto fossero radi. I pantaloni coprivano la pancia ed erano tenuti su da un paio di larghe bretelle. Emmy era così felice quando Philip era a casa. Tutti quanti lo erano.
Il padre sedeva curvo in avanti. All’improvviso vide un cane da caccia in giardino. «Di nuovo», disse. «Maledetti cani randagi».
«Sarà sicuramente quello che di recente mi era sembrato la schiena di qualcuno che stesse passando sotto il davanzale della finestra del salotto. Mi sono spaventata». Emmy rise un po’ di se stessa, ma all’improvviso le vennero le lacrime agli occhi. Era diventata così terribilmente sensibile dopo tutto quello che era successo.
«Ti spaventi per qualsiasi cosa, ultimamente», disse Philip.
Fuori pioveva di nuovo, ma era una pioggia così sottile da risultare quasi invisibile. All’improvviso, Emmy sentì di volere che quell’autunno passasse in fretta per arrivare di nuovo all’estate. Era quella la stagione in cui si spalancavano porte e finestre, e un dolce profumo si diffondeva per tutte le stanze.
*
Roger Høibakk gettò un paio di stivali in macchina, e saltò dentro dal lato del passeggero. Aveva l’iPad sotto braccio.
«Asle ha già parlato con Carl Hammer per telefono. Lui non sta molto bene, e ha detto che è impossibile che Berit Adamsen possa dare alcun contributo alle indagini», disse Asle.
«Questo è un ottimo motivo per trovare la Adamsen. Domani parlerò con Carl Hammer».
«Dobbiamo parlarci insieme, noi due, con Hammer, Cato. Presto troveremo l’anello mancante. Psichiatria e agenzie funebri: che allegria!».
*
Norma Winther entrò in chiesa e accese due candele. In quel tempio vuoto, la solitudine e il silenzio avevano un effetto calmante. L’odore della cera le faceva bene. Molti pastori si facevano prendere da profonde depressioni per via di tutti quei destini con i quali dovevano confrontarsi. Lei invece teneva. Ma poi era arrivata Lilly con il suo camper. E adesso c’era anche questa faccenda di Aud.
Negli ultimi giorni si era passato un po’ il segno. Pensò a Berit, cosa che le capitava, ogni tanto. Talvolta sentiva la mancanza del periodo trascorso con i malati di mente. Era venuta a conoscenza dei pensieri segreti e deliranti di molte persone, e aveva fatto del suo meglio per gestirli. Le cose buone non duravano per sempre, e neanche quelle cattive. Per non parlare di quelle malvage. Malvagio e cattivo non avevano lo stesso significato. Il segreto stava nell’equilibrio. Trovarlo, riuscire a bilanciare felicità e dolore, entrambi gli elementi; capire che la vita era fatta di buio e di luce. Il suo messaggio era davvero semplice. Era convinta che l’empatia e la freddezza dovessero procedere mano nella mano, e intorno a sé aveva una specie di corazza per riuscire a gestire tutto ciò di cui si doveva occupare.
*
Il punto più basso del tetto era giù in fondo, vicino alla parete, lì dove giacevano le plafoniere mezze rotte. La soffitta era buia, illuminata soltanto dalla debole luce ottobrina che filtrava attraverso un unico lucernario, incassato nello spesso tetto in muratura. Emmy stava cercando di nascondere ciò che aveva trovato. Norma le disse di farsi avanti. «Che cosa hai trovato, quassù?». Era un vecchio vestitino da bambina. «Non te lo puoi portare via», le aveva detto. «E invece sì», aveva detto Emmy, «perché a Gaustad è mio padre che decide». Un movimento le fece girare la testa. Con la coda dell’occhio vide una figura e provò una fitta di paura. Jan uscì dal buio. «Che ci fai tu qui?». Nelle mani aveva dei sassolini tondi. I suoi occhi avevano un’espressione infantile, come se avesse trovato qualcosa di nuovo ed eccitante. «Stavano laggiù», disse, passando attraverso un raggio di luce polverosa. Per un attimo la sua sagoma fu proiettata, come in un teatro delle ombre, contro le assi di legno consunte. «Penso che qui si sia svolto un sacrificio. Appesa ai tramezzi della trave del tetto c’è una coperta sporca di sangue». «Che sciocchezza», disse Norma, ed ebbe la forte sensazione di essersi persa qualcosa, o forse di aver dimenticato qualcosa, e che ormai fosse troppo tardi. «Adesso andatevene dagli altri tre», ordinò proprio mentre Berit stava salendo su per la scala. Aveva il viso arrabbiato. Lo teneva rivolto verso l’alto, come se si stesse preparando a ciò che stava per succedere. «Qui non potete stare», gridò, e guardò spaventata il vestitino che teneva Emmy, come se fosse un fantasma. Il suo tono di voce era troppo acuto. Quella notte, Norma aveva fatto un sogno. Cercava il proprio figlio nelle tasche di un grande grembiule. E la mattina dopo le era parso di essere tornata bambina.
*
Cato Isaksen era al volante. Pensò alla descrizione che Norma Winther aveva fatto di Maike: un sederino grosso. Mentre passavano in cima alla collina di Sollihøgda, videro il Tyrifjord e il paesaggio disteso più in basso, di fronte a loro. «Il tempo sta per cambiare», disse Roger Høibakk indicando i banchi di nebbia che dal fianco delle colline stavano scendendo giù verso il fiordo.
«Voglio che demoliamo tutto ciò che abbiamo già fatto e che ricominciamo a costruire, mattone per mattone, dalle fondamenta», disse Cato Isaksen.
«Voglio che facciamo alla vecchia maniera. Che ci procuriamo un tavolo enorme, e ci sparpagliamo sopra tutto quanto. Non sto scherzando. Tutte le relazioni una accanto all’altra. Le cose che abbiamo stampato da internet. Gli appunti. Le foto. Tutto quanto. Tutto su Johnsen, su Hagg e i suoi figli». Poi lampeggiò e superò una macchina.
Roger Høibakk lo guardò. «Berit Adamsen deve avere una ragione per nascondersi, se è ciò che sta facendo».
Cato Isaksen strinse le mani intorno al volante, e rallentò perché davanti c’era un’altra macchina.
*
Presso Sundvollen imboccarono l’uscita e passarono di fronte al vecchio hotel, quel bell’edificio in legno in cui avevano radunato gli adolescenti salvati dall’acqua dopo la strage presso l’isola di Utøya nel luglio del 2011. Il cellulare di Roger Høibakk squillò. «Ellen», disse premendosi il telefono all’orecchio.
La voce di lei all’altro capo suonava come un brusìo continuo. «Ok, riferisco a Cato». Chiuse la telefonata e si girò verso Cato Isaksen. «Il cellulare di Werner Hagg non contiene nulla di sospetto. Fondamentalmente ha parlato solo con il figlio e la nuora. Per il resto, nulla di rilevante».
Presso la curva, subito prima che la strada iniziasse a salire, c’erano ancora i resti dell’edificio dal quale, ai suoi tempi, partiva la funivia. A quell’epoca i turisti facevano la fila per salire, con quel mezzo dondolante, su per la collina disseminata di grandi massi. Cato Isaksen aveva fatto quel viaggio a balzelloni per la stretta gola diverse volte, da bambino, per raggiungere il rifugio di Kleivstua. «Hai mai preso quella funivia?».
Roger Høibakk scosse la testa mentre con gli occhi seguiva il suo sguardo. «Troppo giovane», disse sorridendo.
La macchina proseguì la sua corsa su per Dronningveien, superando l’area con i nuovi villini unifamiliari. Più in alto, alberi dai tronchi sottili arrivavano fin sul bordo della strada. Poi il bosco si fece più fitto.
Attraverso la finestra dello chalet, Berit Adamsen vide una fitta cortina di pioggia che cadeva tra gli abeti. Gli alberi si piegavano al vento. Era uno di quei giorni in cui non si faceva mai chiaro. Un insetto di quelli che sopravvivevano anche d’inverno ronzava contro il vetro. La donna estrasse due sedie da sotto il tavolo allungato color blu-grigio, e si sedette su una di esse. Sull’altra poggiò le gambe. Attraverso le calze si intravvedevano le sue vene varicose. Si pentì di aver detto a Piet delle telefonate di Aud. Il ragazzo sedeva sulla panca e intagliava un rametto. Aveva sopracciglia che si toccavano, sopra gli occhi infossati. Piet era tornato quello di un tempo. Era così vulnerabile. E anche se lei faceva rumore con le pentole e cercava di parlare di qualcos’altro, ad esempio di ciò che avrebbero potuto fare la prossima volta che fossero scesi a Majorstua, lui se ne stava seduto lì e basta. Il cibo per Berit era sempre stato una medicina. Era assillata dal pensiero della carne andata a male che aveva dimenticato di gettar via.
Si alzò di nuovo e si avvicinò all’angolo cottura. Immerse le dita nell’acqua grigiastra dei piatti che riempiva la bacinella poggiata sul piano da lavoro. «Tiriamo fuori un vasetto di marmellata di lamponi, così quando abbiamo finito di pranzare mi metto a fare dei vafler». Iniziò a friggere la carne, quasi istericamente, come se ciò potesse trattenere il ragazzo tra quelle quattro mura. Lui aveva trentanove anni, ma ricordava Peter Pan: svolazzante e senza età. Eppure il suo era un viso già vecchio. Quando aveva quindici anni, gli era venuto un inizio di ulcera e gli tremavano le mani. Diceva spesso: Perché sono così stupido e cattivo? Non voleva avere amici e non doveva averne. Lei lo rafforzava nella sua convinzione.
Quando era arrivata, il giovedì, lui non c’era. Era come se fosse stato inghiottito dal buio umido della foresta. La sua Vespa era sparita. Lei era andata a controllare; di solito era parcheggiata, coperta da un’incerata, presso la catasta di legna tra le betulle dietro la piccola rimessa. Un po’ più in là c’era un altro sentiero che si inoltrava nella foresta; era quello che portava a Lommedalen oppure a Sørsetra. Sono andato a fare una caccia notturna, aveva detto la mattina dopo. Lei non sapeva quando fosse ritornato. Andava e veniva in continuazione. Si infilava il giaccone e spariva, per poi tornare a casa alle ore più strane. Fuori, nella rimessa, aveva un minuscolo laboratorio, nel quale impagliava piccoli animali che vendeva a un negozietto. A lei non piaceva l’odore della sostanza che usava per pulire la pelle di quelle bestie.
Spense il fornello. Lassù non c’era copertura per i cellulari, ma quando, qualche ora prima, era andata a Sundvollen per fare la spesa, era arrivato un sms. Un tizio della polizia le aveva lasciato un messaggio vocale in cui le chiedeva di telefonargli. Lei non aveva risposto. I suoi pensieri si incupirono. Che diavolo stava succedendo? La polizia non l’avrebbe mai trovata, lì in mezzo al bosco.
*
L’odore di abete e di funghi umidi giunse alle narici degli investigatori. «Pazzesco che a qualcuno interessi una casetta delle vacanze quassù», disse Cato Isaksen.
Il vento era freddo, e portò con sé un breve acquazzone. Le gocce gelate pungevano il viso come fossero aghi. Prima di toccare il suolo si trasformavano in leggeri fiocchi di neve che volavano orizzontalmente tra gli abeti neri.
«Non abbiamo i vestiti adatti per stare qui», gridò Roger Høibakk, irritato.
«Be’, in ogni caso abbiamo gli stivali. Questa palude è puzzolente», disse Cato Isaksen guardando il terreno fradicio e parzialmente ghiacciato alla sua sinistra.
In quel momento, Roger mise il piede in fallo e affondò nell’acquitrino.
*
Proprio mentre stava per aprire la porta di quella che era stata la casa del portiere, Emmy Hammer colse un movimento con la coda dell’occhio: qualcuno che scendeva giù per il vialetto carrabile. Allora pensò: Adesso succede qualcosa. Poi sentì la voce, si girò di scatto e capì chi fosse ancora prima di vederlo.
Fu stretta in un forte abbraccio, sentì il mento di lui che premeva leggermente contro la sua testa. Non vedeva Jan Hagg dai tempi dell’adolescenza, ma aveva subito riconosciuto la sua voce. Il cuore le batteva forte. Sapeva perché era venuto. «Aud», disse tristemente Emmy dopo che lui l’ebbe lasciata andare. Poi fissò lo sguardo su una siepe di rose avvizzite.
«È il delirio, Emmy. La polizia mi ha contattato. Una certa Marian Dahle mi ha lasciato un messaggio sul cellulare. Non mi andava di risponderle. Mi diceva che hanno messo papà in custodia cautelare. Non ci capisco nulla. Devono avergli tolto il cellulare, quindi non riesco a parlarci».
Emmy Hammer alzò gli occhi verso di lui. Poi chiuse la bocca. Le sembrava che la stesse mettendo in guardia. «Io non ho parlato con la polizia», disse.
*
L’acqua entrò veloce nella galoscia di Roger, e quel gelo lo lasciò quasi senza fiato. «Maledetto sia questo postaccio di merda».
Cato Isaksen ridacchiò, e guardò il foglio con la mappa disegnata a mano, che svolazzava al vento. «Dev’essere quella». Fece un cenno con la testa.
Roger Høibakk guardò in alto. C’era una casetta nascosta tra gli alti abeti. Era marrone e malridotta, ma aveva le finestre illuminate. E dal comignolo usciva il fumo.
*
Entrarono nella dépendance. Jan si sedette sul divano. Lì sopra sembrava un gigante: era come se riempisse tutta la stanza. Osservò il quadro bianco sul cavalletto. Emmy andò a prendere del succo di frutta e due calici. Il silenzio tra loro due le dava un senso di tranquillità.
Alla fine lui disse, cupo: «Questa storia che non sarebbe stato papà a uccidere la mamma è completamente assurda, Emmy. Che diavolo sta succedendo?».
Lei lo guardò. «La polizia lo sa? Che secondo Aud tu hai ucciso tua madre e Maike?»
«Mio Dio. Non lo so. Più tardi ci parlo». La guardò con aria grave.
Lei si sedette sul bordo di una sedia. Forse l’infanzia era una malattia che non passava mai. «Tuo padre ha ucciso tua madre», disse in tono deciso. «E Maike è caduta da una scala pieghevole», proseguì. «Ma io quel giorno non lo ricordo molto bene, Jan. È come se il mio cervello lo avesse rimosso. È passato tanto tempo dalla morte di Maike. Più di vent’anni».
«Sono passati venticinque anni». Jan Hagg bevve l’ultimo sorso di succo di mela. «Anch’io non ricordo quasi nulla di quel giorno. L’unica cosa che so è che io non c’entro nulla. Ricordo che tu eri insieme a me e Piet, e che stavamo giocando a palla in cortile. C’era anche Ole Porat. Ci fece entrare dentro la casetta con le caldaie per mostrarci gli attrezzi da lavoro del guardiano. Te lo ricordi, vero? Ricordo che Piet ne era affascinato. Poi è arrivata l’ambulanza e si è fermata davanti alla porta verde chiaro».
«Come sta Piet?»
«Veramente non so dove sia. È come se la terra lo avesse inghiottito». Poi proseguì: «Forse Aud voleva soltanto suscitare uno scandalo. Fare uno scoop».
«Io non capisco, Jan. Aud non era così. Quello di Maike fu un incidente», ripeté Emmy con una vocina sottile.
«A proposito, quel quadro è molto bello», disse Jan, guardando il quadro bianco. «Una volta ho ritagliato un articolo su di te, Emmy. Poco prima che facessi una mostra, qualche anno fa. È ancora appeso alla bacheca dell’agenzia funebre. Sai, io faccio l’agente funerario. Ho detto a Ingrid, mia moglie, che ti conoscevo: mi sentivo un po’ orgoglioso. Ci servirebbe proprio un quadro così all’agenzia funebre, all’ingresso. Non è facile trovare quadri sul bianco. Posso comprarlo io?».
Emmy provò un’ondata di felicità. «Certamente», disse. «Ma prima lo devo finire».
*
«Sta arrivando qualcuno, Berit», gridò Piet, chinandosi per nascondere i trucioli di legno sotto il tappeto.
Berit Adamsen si avvicinò alla finestra e vide due uomini che uscivano dal fitto del bosco.
Piet gettò il coltello e il pezzo di legno in un armadio, raccolse il casco integrale dal pavimento, si infilò in fretta la giacca di lana e la giacca a vento, si mise le galosce e uscì di corsa.
I due uomini erano a soli venti metri di distanza. Erano poliziotti: lo vedeva chiaramente anche se non indossavano l’uniforme. Berit Adamsen afferrò le giacche e le scarpe di Piet, entrò in camera da letto e gettò tutto quando in un cumulo sul pavimento. Forse ormai era davvero troppo tardi: le cotolette, la marmellata e i vafler non sarebbero serviti più a nulla.
Doveva esserci un legame con le telefonate di Aud. Tolse lo spazzolino da denti nel bicchiere di lui dal ripiano della cucina e lo gettò in un cassetto. Improvvisamente si sentì raggelare. Le apparve un’immagine: la vista dall’ufficio d’angolo del reparto di sicurezza, che dava sul locale caldaie. Lì dove la ciminiera si innalzava verso il cielo come un dito indice, e la torre dell’edificio principale, sullo sfondo, sembrava il campanile di una chiesa. Si ricordò della corrente d’aria che tirava quando stava alla scrivania, d’inverno, e dell’albero di mele, lì fuori, con la neve ghiacciata attaccata al tronco e i frutti appesi, raggrinziti e coperti di brina, come decorazioni natalizie dimenticate tra i rami.
Piet Hagg pensò a ciò che la sorella Maike gli aveva detto sull’accetta, quella volta, quando per consolarlo aveva sostenuto che era soltanto una bacchetta magica. Si precipitò alle spalle della rimessa e si accucciò rapidamente dietro a due fitti arbusti di pino. La paura grigia e violenta gli si annidò nella fronte. Qualche semino di lampone gli si era incastrato tra i denti: in bocca sentiva il sapore del sangue. Piet teneva stretti al petto la giacca appallottolata e il casco. Sentì il rumore leggero dei passi sul terreno boschivo: erano i due uomini che stavano arrivando. Per fortuna la neve diventava nevischio ancor prima di toccar terra, e quindi non si era lasciato alle spalle alcuna impronta. Il cuore gli batteva più forte. Gli tornò alla mente il rumore dei colpi sul corpo della madre, sulla schiena e sulla testa. Le grosse mani del padre che impugnavano il manico dell’ascia.
*
La porta di legno consumata aveva degli intagli triangolari al centro. Cato Isaksen vi picchiò sopra col pugno, e strinse gli occhi mentre il nevischio gli gelava la faccia. Roger gli stava subito dietro. Dopo qualche secondo, venne ad aprire una bella donna sulla sessantina. Portava un grembiule bordato di merletto sul petto sodo. Aveva un’aria gentile e dei begli occhi, e tuttavia c’era qualcosa in lei che dava una sensazione di ostilità.
Cato Isaksen presentò se stesso e Roger, disse che erano della polizia e chiese se fosse lei, Berit Adamsen. Lei disse di sì, e li invitò a entrare. Già nel piccolo ingresso furono colpiti da un’ondata di calore proveniente dal caminetto. E c’era odore di cibo: di carne cotta in padella e di caffè.
*
Piet sgattaiolò verso lo scooter che stava dietro la catasta di legna da ardere lungo l’angusto sentiero alle spalle della casetta. Era lui che aveva tagliato la legna, l’aveva portata lì per poi impilarla nello spazio vuoto tra i tronchi di betulla con le loro macchie nere. Si infilò il casco e percorse un tratto spingendo la Vespa. Stringeva il manubrio. Le sue mani erano ghiacciate. Spesso trascorrevano delle belle giornate, lui e Berit, ma bastava poco perché tutto cambiasse. Era come se vivessero perennemente sull’orlo di qualcosa, anche se quest’orlo non esisteva.
Ora stava lasciando tracce nel fango. La neve man mano riempiva le impronte. Il freddo gli gelava i piedi attraverso le galosce. Non aveva fatto in tempo a infilarsi dei calzettoni. Ma all’improvviso provò un senso di calore: c’era una linea sottile, soltanto un soffio, tra la vita e la morte. Nessuno sarebbe riuscito ad acciuffarlo! Di solito seguiva una routine in ciò che faceva, come dei rituali, sebbene la ragione gli dicesse che non ce n’era bisogno. Il peccato originale: un uomo dal cuore nero. Ma come poteva uscirne fuori se perfino Berit aveva paura? Adesso doveva scappare. Nel fossato giaceva un grosso tronco d’albero che stava marcendo.
*
Cato Isaksen e Roger Høibakk si tolsero le galosce sullo zerbino di gomma.
«Sono venuta qui per starmene in pace, e invece spuntate fuori voi, come i soldati di un commando», disse Berit Adamsen. Si asciugò le mani sul grembiule. Sentì la paura che le formicolava lungo la spina dorsale. «Che succede? Non voglio essere messa in mezzo».
Roger Høibakk si sfilò i calzettoni. «È tua la Micra parcheggiata qui fuori?».
La donna annuì.
Nel salottino la legna scoppiettava sul fuoco, e le pareti erano foderate di assi di legno scurite dal sole. Una cassapanca rossa che fungeva da divanetto, con dei cuscini a righe tessuti al telaio, era addossata alla parete lunga. Era del tipo usato in quasi tutti gli chalet norvegesi. Un tavolo da pranzo con delle sedie era sistemato di fronte alle finestre. Su un supporto a forma di ceppi d’albero c’erano due scoiattoli impagliati. E sul davanzale della finestra era poggiata una scimmietta di legno, fatta sì artigianalmente, ma da qualcuno che aveva una certa manualità, pensò Cato, colpito. C’era odore di carne fritta in padella col burro. Un odore nauseante. Cato Isaksen sperava che la donna gli offrisse qualcosa: del caffè, dell’acqua, una cosa qualsiasi. «Quindi sei qui da sola», disse sorridendo alla vista dei piedi nudi di Roger.
«Qualche volta ho bisogno di un po’ di pace», disse, e allo stesso tempo provò un senso di angoscia pensando a cosa mai avesse potuto combinare Piet. Non aveva voluto dirle dove si trovasse il 31 ottobre.
«Hai seguito i telegiornali?», chiese il poliziotto più anziano. Aveva una faccia gentile, ma sembrava stanco. Berit si era già scordata il suo nome.
*
«Finisco il quadro e te lo porto, Jan. Anch’io ho paura di quello che è successo. Ho talmente paura che non sono riuscita a parlarne con nessuno. Soltanto mio figlio sa che quella sera mi ero incontrata con Aud. I miei genitori no». Si portò le mani al viso. «Perché non siamo rimasti in contatto, noi due?».
Jan distolse lo sguardo. «Avevi dodici anni, e io sedici. E poi in fondo ci siamo incontrati qualche volta, in seguito».
«Come sta tuo padre? Me lo ricordo bene», disse Emmy. Jan Hagg guardò l’orologio.
«Niente male». Sorrise, annuendo lentamente. «Che cosa ti è successo?». E fece un gesto in direzione della ferita che lei aveva in fronte.
«Sono andata a sbattere contro un ramo, stavo facendo una scorciatoia. È venuto qui un uomo. Io non gli ho aperto. La stessa sera in cui ho incontrato Aud e dopo ti ho telefonato. Pensavo potesse trattarsi di te, che volessi parlare, magari». Lo guardò speranzosa.
«No», fece lui, pensando subito a suo padre. Era sceso in città, la sera in cui gli aveva telefonato? Aveva davvero fatto una stupidaggine simile?
«Ho chiamato anche Ole Porat, quella sera», disse lei, inghiottendo.
«Ole Porat è diventato chirurgo», fece lui. «E qual è stato il suo commento?»
«Non aveva voglia di parlare con me. Sembrava arrabbiato. E spaventato. Forse avrei davvero dovuto chiamare la polizia».
Jan Hagg annuì. «Io ho detto che ero in palestra, quando hai chiamato, Emmy. Ma non è vero».
«E dov’eri?»
«Sono un membro della massoneria. Ingrid, mia moglie, pensa che sia andato ad allenarmi. Ma quando hai telefonato quella sera, ero alla loggia massonica. Comunque non è che stiamo sempre a maneggiare bare, teschi e spade. Ma una volta all’anno sì. È la notte di Ognissanti. Oppure Halloween, come viene chiamata al giorno d’oggi. I confratelli della loggia hanno contribuito a fare di me quello che sono diventato. Sembra infantile, questa storia dei rituali per soli uomini. Si tratta solo di simboli. Di forza. Ingrid dice che noi con la morte ci lavoriamo ogni giorno, e che non è il caso che nel tempo libero mi metta a giocare con la morte. Lei odia tutta quella roba. Così ho mentito. E ora lei si accorge che c’è qualcosa che non va. Non sa che conoscevo Aud. Io non c’entro niente con quell’omicidio, però maledizione Emmy… che diavolo sta succedendo?»
«Non so cosa stia succedendo, Jan».
«Dopo la morte di Maike sono scappato dal collegio, una vecchissimo edificio di legno a Bærum, e ho lasciato Piet da solo. Ho trovato un lavoro, vari lavori. Abitavo in un monolocale. Nessuno è venuto a cercarmi. Poi ho incontrato Ingrid, e le cose si sono sistemate. Abbiamo ereditato l’agenzia funebre dai suoi genitori, anche se Ingrid avrebbe preferito lavorare come cosmetologa: è quello per cui ha studiato. È un’esperta di maschere di bellezza». Accennò un sorriso. «Abbiamo due bambine. Papà e io ci siamo ritrovati. Le cose mi vanno bene. Poi hai chiamato tu».
All’improvviso si aprì la porta ed entrò Philip, che fissò quell’uomo sul divano.
«Questo è mio figlio», disse Emmy. «Ha ventun anni».
*
Berit Adamsen guardò il poliziotto con gli occhi tondi e vuoti. «Aud Johnsen è morta?». Sì portò la mano alla bocca e scosse la testa più volte.
Cato Isaksen pensò che la sua reazione sembrava genuina, e scambiò un’occhiata con Roger.
Cato si sporse in avanti. «Il motivo per cui vogliamo parlare con te è che Aud Johnsen ti ha chiamata poco prima di essere uccisa, la sera del 31 ottobre, alle 19:52».
«Ero qui. Qui non c’è campo. Spesso mi fermo per vari giorni di seguito».
«Possiamo vedere il tuo cellulare?».
Berit li guardò entrambi, uno dopo l’altro, e poi si alzò. Entrò in una delle due piccole camere da letto. Era sul comodino. Cancellò in fretta e furia l’sms che aveva mandato a Piet quella sera. Aud Johnsen ha provato a contattarmi. Io non le ho risposto.
Lo porse al poliziotto più anziano e si avvicinò all’angolo cottura.
«Il pin?», le chiese lui. Lei glielo disse. Cato controllò rapidamente il telefono. Berit, con aria assente, immerse le dita nell’acqua della bacinella con i piatti che aveva di fronte a sé. Era come se il suo passato galleggiasse su quella grigia acqua saponata. Le era tornato il dolore alla schiena. La sera in cui era arrivata, Piet non c’era. Si era addormentata, e la mattina dopo lui le aveva detto che era stato impegnato in una caccia notturna. Anche solo quell’espressione…
«Conoscevi Aud Johnsen, giusto?». Berit sentì la voce del poliziotto alle proprie spalle.
«Molto tempo fa. Io non sono una persona particolarmente forte». Continuava a girare loro la schiena, mentre in tutta fretta riordinava piatti e tazze. La carne era sempre nella padella. «Vi offro un caffè. È pronto». Prese delle tazze dall’armadietto e le poggiò sul tavolo. «Mettiamola così: Aud ha cercato di chiamarmi due-tre volte. Ma io non volevo parlarle. Ho chiuso coi tempi di Gaustad».
«Per quale motivo?». Cato Isaksen guardò l’orologio. Erano quasi le due. Dopo doveva incontrare Ellen e fare un’ispezione approfondita dell’archivio sotterraneo.
«Quello che è capitato a Maike Hagg», disse lei a bassa voce.
«Tu hai smesso di lavorare lì subito dopo».
«Ho smesso immediatamente. Quale essere umano può sopportare una cosa del genere?». Versò il caffè nelle tazze. «È rimasta in cantina fin quando non è arrivata la polizia».
«Chi l’ha trovata?»
«Non ricordo. Fu un incidente. La vennero a prendere con l’ambulanza».
Guardò i poliziotti. Stava in piedi con in mano la caffettiera. «Come ho già detto, non sono la persona più forte del mondo».
«Raccontaci del tuo capo, Carl Hammer», disse Cato Isaksen.
«Era una cosa impegnativa, lavorare per lui. Anche lui aveva una figlia, Emmy. Era responsabile dei pazienti più gravi. I primari erano importanti. E fare lo psichiatra era più prestigioso che fare il medico somatico. I pazienti vivevano in stanzette minuscole, come scatole da scarpe. Spesso in due in ciascuna stanza. Era per questo che mi ero inventata quella faccenda delle giornate per i bambini, così che i piccoli potessero stare tra di loro anche fuori, e non solo dentro, con i padri, dato che in quei momenti dovevano essere sempre presenti dei sorveglianti».
Cato Isaksen annuì. «Hai una famiglia?»
«No».
«Sei ancora in contatto con qualcuno dei pazienti? Werner Hagg o John Johnsen?»
«No», si affrettò a rispondere lei. «La risposta è no».
«Com’era Johnsen?»
«Non si poteva certo definirlo un maschio alfa».
Cato Isaksen e Roger Høibakk si guardarono a vicenda.
«Ma ricordo che nelle carte c’era scritto che era andato a cercare il proprietario di un allevamento di volpi, una volta, e che l’aveva tramortito con una mazza da baseball».
«Perché?»
«Perché non sopportava la crudeltà verso gli animali».
Cato Isaksen pensò a ciò che Norma Winther aveva detto di Johnsen. Una bomba a orologeria che poteva scatenare una catastrofe. Forse in fin dei conti non era poi innocuo come una tartaruga!
*
Quando finalmente gli investigatori furono di nuovo in macchina, diretti in città, convennero che dovevano fermarsi da qualche parte per mangiare un boccone. Roger si era rimesso le scarpe, ma era senza calze. A Cato Isaksen pareva che Berit Adamsen fosse inoffensiva, per usare un termine ormai fuori moda. Ma gli sembrava proprio così: un po’ all’antica, un po’ assente e un po’ nervosa. E aveva insistito col dire che non poteva in alcun modo essere utile alle indagini.
Proprio mentre passavano per Sollihøgda, telefonò il professor Wangen per dire che entro pochi giorni avrebbero dato il nulla osta per la sepoltura. «Abbiamo svolto quasi tutti gli esami». Cato Isaksen lanciò uno sguardo verso Roger Høibakk. «Allora bisogna che contattiamo John Johnsen a proposito del funerale della figlia. Sicuramente avrà qualche desiderio».
«La cremazione non la potete fare», disse il professor Wangen.
«Grazie per l’informazione. Noi nel frattempo non abbiamo scoperto nulla», disse Cato Isaksen e terminò la chiamata.
«In effetti non sappiamo neanche cosa stiamo cercando», disse Roger, «ma quando lo troveremo, capiremo subito che è quello, Cato».
*
Quando, un’ora e mezza dopo, Deidrée aprì la porta dell’archivio sotterraneo per far entrare Cato Isaksen ed Ellen Grue, fuori era quasi completamente buio. Erano già le cinque di pomeriggio. La lampadina solitaria che pendeva dal soffitto non faceva luce a sufficienza, ma Ellen aveva con sé dei faretti.
Ellen Grue era esausta. Aveva lavorato quasi giorno e notte nel corso degli ultimi giorni. Si era letta attentamente tutti i documenti disponibili riguardo alla morte di Maike Hagg. Una delle cose sorprendenti era un’annotazione che diceva che, al momento del ritrovamento, la ragazzina aveva tutta la bocca impiastricciata di rossetto. Il fatto era citato senza alcun rilievo, ma si poteva vedere molto chiaramente in una delle fotografie. Ellen decise che dopo ne avrebbe parlato a Cato. Ora doveva soltanto portare a termine quel lavoro.
Sul pavimento di pietra c’erano delle macchie sbiadite che partivano da una delle librerie e arrivavano all’incirca al centro della stanza. La cosa rilevante era che tra le due scaffalature era appoggiata una scala pieghevole. Era possibile che fosse quella da cui si diceva fosse caduta Maike?
«Non he ho proprio idea», disse Deidrée e guardò Ellen.
«Ok, ma io me la porto via, per sicurezza. Ora devo stare un po’ tranquilla».
«Lasciamo lavorare in pace Ellen», disse Cato Isaksen guardando la receptionist.
«Vuoi che nel frattempo ti porti nel museo?»
«Sì, volentieri».
Uscirono all’aperto passando per la porta verde della cantina. Deidrée questa volta indossava un cappotto.
«Hai trovato qualcos’altro?», chiese Cato.
«Sì, in effetti ho scoperto un fatto», fece Deidrée. «C’era qualcosa negli archivi dell’edificio con gli spazi comuni. Johnsen era uno di quelli dimessi contro la loro volontà».
«Dimesso contro la sua volontà? È mai possibile una cosa del genere?»
«Sì, è andata proprio così. Lui non se ne voleva andare. Un tempo queste pareti servivano a rinchiudere i matti. Ma poi le cose si sono ribaltate, per così dire. Ora non ti fissare con l’espressione i matti, perché è un termine che ovviamente non si usa più. È soltanto per rendere l’idea. Il clima politico è cambiato. È diventato normale lasciare che i pazienti abbiano voce in capitolo nella scelta del trattamento. Molte limitazioni sono sparite gradualmente».
Percorsero al buio lo stretto sentiero in salita, passando accanto alla cappella, al caffè ormai chiuso e al locale caldaie con le scure finestre piombate. I lampioni facevano poca luce.
«Ciascuno ha una propria opinione sulla socialdemocrazia», proseguì Deidrée. «Non tutto ciò che hanno fatto è stato positivo. La parola d’ordine era: tutti devono partecipare. Il risultato è stato che pazienti psicotici se ne vanno a passeggio per strada. E non è una cosa buona per nessuno: né per i pazienti, né per il mondo esterno».
Un po’ più giù, lungo il sentiero pedonale, Cato Isaksen scorse lo stesso uomo che aveva notato il giorno prima. Quello con i capelli rossi. Come già la volta prima, indossava stivali militari, una giacca a vento e uno zaino sulle spalle.
«Ma Hagg era un assassino!». Cato Isaksen guardò Deidrée.
«Però lui voleva uscire, c’è scritto. Aveva fatto dei progressi grazie alla terapia, e voleva soltanto starsene tranquillo e in santa pace. Nel suo caso le premesse erano buone, c’era scritto».
L’uomo girò verso destra, salì la collinetta e sparì nel bosco, oltre una casetta di legno color albicocca costruita su pali.
Cato Isaksen lo seguì con lo sguardo. «Di che edifici si tratta?»
«Sono le casette per i tisici, costruite a cavallo tra l’Ottocento e il Novecento. Lì i pazienti potevano prendere il sole al riparo dal vento. Qui c’è il museo. È qui dentro». Estrasse una chiave dalla tasca.
«L’ultima volta dicevi che alcuni poi sono tornati qui».
«Sì, per togliersi la vita. Oppure per starsene seduti su una panca nel parco a pensare. Forse non è così strano che qualcuno voglia tornare. La coercizione può anche dare un senso di sicurezza».
Aprì con la chiave e inserì il codice per disattivare l’allarme. Poi premette l’interruttore della luce. La visita a quel locale pieno di vecchi mobili e bottiglie marroni di medicinali non richiese molto tempo.
Sulle pareti di una stanza erano appese vecchie foto di pazienti d’inizio Novecento. In un’altra c’erano vecchi attrezzi agricoli alle pareti. «I pazienti hanno svolto lavori nei campi e coltivato la terra fino agli anni Cinquanta», spiegò Deidrée. «Lì dove adesso sorge il nuovo Rikshospitalet, ai vecchi tempi coltivavano verdure».
Cato Isaksen guardò gli attrezzi rugginosi e usurati: rastrelli, zappe. E tre falci di misure differenti. Era possibile che una di queste potesse essere l’arma del delitto? E in tal caso, perché?
*
Ellen Grue e Cato Isaksen erano di nuovo in macchina nel piazzale del parcheggio, e il motore girava in folle. Nella parte posteriore dell’auto c’era la scala pieghevole. I fari frontali illuminavano la nera recinzione metallica formando due cerchi.
«Werner Hagg e John Johnsen sono stati dimessi a forza», disse Cato.
«Voglio che tu veda questa foto». Il tecnico estrasse una fotografia da una busta marrone. Cato Isaksen la fissò. La faccia della bambina morta era gonfia e bianca come un lenzuolo. Le ferite alla testa erano evidenti. All’improvviso Cato ricordò la sensazione provata cadendo per terra da bambino. Il dolore della testa che sbatteva contro il ghiaccio o contro l’asfalto. Maike Hagg era caduta dalla scala pieghevole e aveva sbattuto la testa, era la conclusione.
«Ha la bocca impiastricciata di rossetto, Cato, vedi?».
Lui accese la luce dell’abitacolo e fissò la foto con più attenzione. La poggiò contro il volante. Gli occhi erano aperti, si scorgevano da sotto le palpebre. Le pupille erano dei semicerchi, spente. I pugni erano socchiusi. Sentì un brivido lungo la schiena. Le labbra sembravano gonfie, morbide e impiastricciate.
Gli ultimi secondi prima degli spari, Emmy Hammer era assorta nei suoi pensieri. Era buio pesto. Soffiava una brezza leggera, e i rami di un cespuglio sempreverde si muovevano al vento come ali. Emmy si avviò verso la macchina con le chiavi in mano. Indossava un cappotto e degli stivaletti, e i capelli formavano una treccia a corona che le incorniciava il viso. Pensò a Jan e al fatto che avrebbe preso lui il quadro bianco. Lo avrebbe terminato l’indomani per poi portarlo giù all’agenzia di pompe funebri. Alzò lo sguardo e vide Philip che arrivava a braccetto con suo padre attraverso il giardino. La mamma gli camminava accanto a piccoli passi. L’ultima cosa che sentì prima di fare il giro intorno alla macchina, e prima che il primo sparo rompesse il silenzio, fu: Sarà bello il concerto, Philip. Mahler, non la solita musica pop. Poi si sentì un botto. Rimbombò nell’oscurità. Il proiettile colpì la macchina con un forte rumore metallico. Quel suono provocò una dolorosa pressione sui timpani di tutti i presenti. Emmy Hammer cadde per terra su di un fianco, ma riuscì ad alzarsi e a quattro zampe passò accanto alla macchina, strisciando verso casa. Cercò di alzarsi in piedi, ma cadde e sbatté la spalla sulle scale di pietra. Risuonò un altro sparo. Il vetro si infranse. Provò un brivido gelido che divenne consapevolezza: questa volta era il suo turno. Era la fine di tutto.
Philip Hammer era rimasto immobile, come paralizzato. La paura divenne un dolore fisico. Qualcuno urlava, ma lui non sapeva da dove giungesse quel grido. L’eco dei colpi non finiva più, una superficie scura che gli penetrava l’orecchio. Il nonno si teneva aggrappato al suo braccio. Quel peso lo fece vacillare. Poi cadde. Il nonno rimase per terra. Philip cercò di prendere aria, si girò di scatto e guardò verso la foresta nera. Fu come se del veleno gli si spargesse in corpo. Intravvide una sagoma che si muoveva alla luce del lampioncino esterno della casa padronale. Una figura vestita di verde militare. Al limitare del bosco. Giù. Via. Poi sentì di nuovo l’urlo. Era sua madre, oltre la macchina. La nonna stava immobile al suo posto con indosso il cappotto celeste, e stringeva i manici della borsetta con entrambe le mani.
*
Emmy singhiozzava. Conosceva quel tremore, la sensazione di essere perduta che oscurava tutto il resto. Si allungò verso la porta, riuscì a infilare nella toppa la chiave che ancora stringeva in mano, la girò nella serratura e rotolò dentro il vestibolo; poi attraversò il salotto a quattro zampe. Il dolore alle ginocchia era bruciante. Superò il cavalletto con il quadro bianco, ed entrò nel piccolo atelier. Si lasciò scivolare su un fianco sopra le tele, sopra a quella sua arte condannata a morte. Rimase stesa lì a respirare affannosamente tra le tele. Qualcuno la voleva uccidere. Ora.
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Vanja correva. In mano sentiva il peso della Glock. Lo zaino gli sballottava sulla schiena. La luce della luna proiettava fredde strisce sul sottobosco. Nel buio erano delle sagome indistinte, con la luce del lampioncino come un’aureola intorno alle loro teste. Aveva sparato tre volte, ma non sapeva con certezza se avesse colpito o meno. Correva. Gli alberi gli venivano incontro. Il suo campo visivo era limitato per via del sangue che gli colava dalla fronte. Si era fatto male mentre correva giù per il sentiero, aveva battuto la testa contro un tronco, scivolando sul terreno viscido. Credeva di aver fatto centro. Il cuore gli batteva tanto forte da far male. Pensava ai soldi. Sarebbero arrivati, aveva detto l’uomo del soprabito. Non appena avesse ucciso. Aveva quell’idea fissa: tornarsene nella casa di assi di legno piena di spifferi in Lituania. E rimetterla a posto. La casa si trovava accanto a una scuola. Il ricordo delle voci dei bambini in cortile si trasformò in urla che echeggiavano nella sua testa. C’erano solo poche centinaia di metri prima di raggiungere gli alberi che circondavano le casette di legno. Ecco, lì dentro, e poi giù per la scarpata. Non doveva attraversare il “ponte dei tedeschi”, gli aveva detto l’uomo del soprabito. Lì passa gente.
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Philip Hammer aveva le chiavi della macchina. Era riuscito a risollevare il nonno da terra; il suo corpo era pesante. I nonni terrorizzati ora sedevano in macchina; aveva ordinato loro di stare chini in avanti, perché pensava che quello fosse il luogo più sicuro. Philip si girava continuamente a guardare. La madre era riuscita a entrare in casa. Entrò di corsa e la trovò nello stanzino. Sanguinava dalla fronte, lo guardava con gli occhi umidi e farneticava di un’altra donna che era stata uccisa. Philip Hammer uscì di nuovo di corsa, si accovacciò al riparo della macchina e chiamò il 112, il numero d’emergenza della polizia. Sentì abbaiare un cane non lontano di lì. Poi nel buio scese un silenzio assoluto. Un silenzio che da quel luogo attraversava in linea retta il giardino, e arrivava al limitare del bosco.
Nello specchietto retrovisore, Cato Isaksen vide Ellen che portava la scala pieghevole attraverso l’ingresso del reparto della Scientifica a Bryn. Rimase un attimo seduto in macchina e mandò un sms a Marian. Per tua informazione: Ellen ha trovato dei documenti in cui si dice, sebbene soltanto in una breve annotazione tra parentesi, che quando Maike Hagg fu ritrovata morta, aveva la bocca tutta impiastricciata di rossetto. Comunque questo si vede molto chiaramente in una delle foto.
Cato uscì dal parcheggio e imboccò la discesa di Brynsallé in direzione della questura. Quando arrivò al primo incrocio, la radio della polizia con il suo suono gracchiante annunciò che in Trosterudveien stava avendo luogo una sparatoria. Sparatoria in atto, sparatoria in atto, ripeté la voce. Tutte le unità si rechino sul posto. Erano le 18:35. In quell’istante gli squillò il cellulare. «Hanno sparato dei colpi in Trosterudveien 14, parecchi colpi», disse la voce tranquilla e metallica dalla centrale. «Abbiamo al telefono un ragazzo, Philip Hammer. Pare che una persona abbia cercato di uccidere sua madre, le ha sparato contro. La madre dice che quel tipo era già stato lì, e che ha ucciso anche un’altra donna. Il criminale probabilmente è scappato via attraverso il bosco che si trova più in basso, rispetto ai palazzi. Varie unità si stanno dirigendo lì. Ho pregato il ragazzo di rimanere in linea, e sono ancora in contatto con lui».
«Io vado in questura e seguo gli sviluppi da lì». Cato Isaksen fissava la strada mentre parlava con la centrale operativa. Accese il lampeggiante, i cui forti bagliori illuminarono il cofano a intervalli regolari. Poi premette l’acceleratore. Il suo primo pensiero era stato che non doveva farsi coinvolgere in nuovi casi, ma allo stesso tempo capiva che non si trattava affatto di un caso diverso. A quell’indirizzo infatti abitava Carl Hammer, lo psichiatra nominato come perito in uno dei processi contro John Johnsen. Hammer era stato anche il superiore di Berit Adamsen in un reparto di Gaustad. E poi c’era quella cosa che aveva detto Philip Hammer: che forse il killer aveva ucciso un’altra. Sicuramente intendeva Aud Johnsen. Adesso le tessere del puzzle cominciavano a incastrarsi.
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Cato Isaksen arrivò in questura qualche minuto dopo. Percorse veloce il corridoio. Marian Dahle e Roger Høibakk si erano recati sul luogo della sparatoria. L’ispettore ordinò che due unità distinte controllassero immediatamente John Johnsen e Werner Hagg, e chiarissero dove si trovavano in quel preciso istante.
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Marian aveva appena letto l’sms di Cato riguardo al rossetto. Saltò giù dall’auto-civetta insieme a Roger. In Trosterudveien regnava il caos. Le volanti della polizia con i lampeggiatori erano ferme in fila lungo il vialetto d’accesso. Dalle auto usciva la voce gracchiante delle radio di servizio. I giornalisti arrivarono subito dopo, insieme all’unità cinofila. I cani abbaiavano e guaivano, e uno puntò immediatamente una traccia.
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Una dodicenne morta nel 1988, pensò Cato Isaksen. Con del rossetto sulla bocca. E ora avevano cercato di uccidere Emmy Hammer, la figlia dello psichiatra Carl Hammer. È stato già qui e ha ucciso anche un’altra, aveva detto il ragazzo. Pensò alle parole di Roger. Non sappiamo esattamente cosa stiamo cercando, ma quando lo troveremo, capiremo subito che è quello. Cato si maledisse per non essere ancora riuscito ad andare a parlare con Hammer. Ora erano stati sparati dei colpi proprio nel suo giardino, probabilmente contro sua figlia, Emmy. L’ispettore si teneva continuamente in contatto con Marian. Diede ordine di portare immediatamente Emmy Hammer alla questura qualora non fosse ferita, e di mobilitare altri che potessero prendersi cura sul luogo degli anziani genitori e del figlio. Ricevette un messaggio in cui lei lo avvertiva che non erano feriti. Cato Isaksen fece un controllo con l’anagrafe. Emmy Hammer percepiva una pensione d’invalidità, e allo stesso tempo svolgeva la propria attività di pittrice. Quando entrò nel suo sito web, i quadri gli parvero scialbi e insulsi. Aveva trentasette anni, e non aveva fratelli. Soltanto il figlio Philip. Emmy Hammer aveva la stessa età di Aud Johnsen. Il team era stato allertato. Gli investigatori si riunirono in fretta e furia nella sala con la lavagna bianca.
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L’agente dell’unità cinofila aveva problemi a tenere a freno il cane, giacché cercava di dirigersi verso il bosco alle spalle della casa. Il cane fece il giro della casa un paio di volte prima di seguire la traccia giù per il sentiero pedonale. Il poliziotto doveva tirare con forza il guinzaglio. Un altro poliziotto armato lo seguiva. Gli uomini indossavano uniformi con ai bordi delle bande catarifrangenti. Scesero fino alla zona dell’ospedale psichiatrico di Gaustad, e presto ripresero la traccia. Dopo che il cane ebbe annusato di qua e di là, risalirono verso alcune casette di legno semiaperte al limitare del bosco, prima di proseguire per il parco lungo gli edifici principali. Il cane puntò anche gli alberi più grandi. La traccia finiva presso la fermata del tram, poco dopo la rotatoria del Rikshospitalet.
A Emmy doleva l’incavo della schiena, lì dove termina la colonna vertebrale. Era come se tutto fosse un brutto sogno. La paura si bloccò in un punto tra il cervello e il sistema nervoso. Emmy Hammer cercava di stare dietro alla poliziotta con i tratti asiatici, che indossava jeans e una giacca di pelle. Attraversarono la reception della questura, ampia come un atrio, con una grossa scultura di acciaio appesa al soffitto. Sul grande orologio a parete vide che erano le 20:36.
Emmy trascinava leggermente una gamba, ma se l’era cavata. Avevano fatto un salto al pronto soccorso perché aveva la fronte sanguinante, ma comunque non era stata colpita. E ora era qui. Si sentiva gelare. Cercò di respirare lentamente. Qualcuno si stava occupando dei suoi genitori e di suo figlio nella casa di famiglia. Aveva raccontato di essere un’amica di Aud Johnsen, e di aver avuto moltissima paura fin dal giovedì precedente, ma non aveva pensato di chiamare la polizia. O meglio, ci aveva pensato, ma non avrebbe saputo bene cosa dire. La poliziotta, di cui aveva dimenticato il nome, fece scorrere un badge nel lettore. Passarono per i controlli all’ingresso ed entrarono in ascensore. La poliziotta premette il tasto del quarto piano. Per alcuni secondi furono sotto quella luce violenta. Emmy distolse lo sguardo dallo specchio; poi le porte lucide si aprirono e si ritrovò in un corridoio con uffici da entrambi i lati. Attraverso le porte aperte vedeva i poliziotti al lavoro.
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Cato Isaksen si fece incontro a quella donna zoppicante, che indossava un cappotto blu di taglio classico e degli stivaletti. I capelli di Emmy Hammer erano biondo platino con i boccoli che ricordavano quelli dei rasta, ciglia e sopracciglia chiare e una bocca un po’ larga. Pensò che era bella, ma che passava inosservata. Sulla fronte aveva una ferita lunga dall’occhio fino all’attaccatura dei capelli. Dall’altro lato aveva un grosso cerotto bianco.
«Stavamo per andare all’Auditorium», disse nervosa e ricambiò la sua stretta di mano. «Poi ci sono stati degli spari. Diversi spari».
Cato Isaksen la condusse dentro una sala per gli interrogatori, e le porse una sedia. Lei si tenne addosso il cappotto. Irmelin Quist arrivò con del caffè, mentre Marian le si sedette accanto.
Cato Isaksen scambiò due parole con Roger fuori dalla stanza. «Sia Werner Hagg che John Johnsen si trovavano presso i loro domicili al momento della sparatoria. O almeno, così dicono. Noi stiamo facendo ulteriori controlli. Per un caso era in visita da Emmy Hammer anche suo figlio Philip, che sta studiando medicina in Polonia. Al momento degli spari, tutta la famiglia stava andando all’Auditorium. Un medico ha esaminato gli altri sul posto. Nessuno è ferito».
Cato Isaksen entrò nuovamente nella sala degli interrogatori. Le generalità furono lette al registratore. Poi guardò Emmy Hammer. «Stai bene?». L’altra ferita sulla sua fronte non sembrava fresca.
«La ferita in fronte me la sono fatta quattro giorni fa», fece lei. «Vi avrei dovuti contattare prima».
Cato Isaksen e Marian Dahle si scambiarono uno sguardo.
Emmy Hansen si coprì il viso con una mano e cominciò a piangere silenziosamente. «Penso a mamma e papà. E a mio figlio. La donna che è stata uccisa, Aud Johnsen… quella sera eravamo state insieme al Theatercaféen».
A Cato Isaksen si seccò la bocca. «La sera che è stata uccisa?».
Lei annuì. «Erano più di vent’anni che non ci vedevamo».
«E il tuo rapporto con lei?»
«A quell’epoca mio padre era primario presso l’ospedale di Gaustad».
«Questo lo sappiamo».
«Il padre di Aud era uno dei suoi pazienti».
«Sappiamo anche questo». Cato Isaksen guardò per un attimo Marian, che cambiò posizione.
Emmy Hammer irrigidì le spalle, e si sforzò di pronunciare quelle parole. «Quando sono tornata a casa, quella notte, c’era una macchina parcheggiata all’imboccatura del vialetto d’accesso. Ho visto un uomo con un cane da caccia. Mi sono spaventata, e ho tagliato di corsa per il giardino del vicino e mi sono ferita con un ramo».
«Ti sei spaventata per l’uomo col cane?»
«No, o meglio, posso dire che… ho visto che c’era lì quella macchina parcheggiata, e c’era qualcosa di strano in tutto l’insieme».
«Che cosa è successo al Theatercaféen? Ti sei sentita spiata o pedinata? Prendi un sorso di caffè e fai un bel respiro».
Emmy fece come le aveva detto. «Aud mi ha telefonato e voleva che ci incontrassimo. Voleva parlare di qualcosa. Qualcosa che era successo a Gaustad», disse. «Suo padre è stato rinchiuso lì per molti anni. Alcuni dei pazienti erano assassini».
«Questo lo sappiamo». Cato Isaksen era impaziente.
«È lì che ho conosciuto Aud. Andavo a trovare mio padre».
Cato Isaksen si sporse in avanti, poggiò i gomiti sul tavolo.
«Per caso conoscevi anche Maike Hagg?»
«Sì, e anche i suoi fratelli».
*
All’improvviso Emmy Hammer provò una gran calma. Attraverso le pareti di vetro vedeva i poliziotti che facevano avanti e indietro fuori dalla stanza. Qui si sarebbero presi cura di lei. Una volta, dal grande albero vicino alla panchina fuori dal reparto era caduto giù un nido. Erano tutti quanti seduti lì, e il nido era scivolato tra i rami ed era finito sul prato. Piet l’aveva preso e dentro c’era un uccellino ferito. Emmy l’aveva strappato dalle sue mani ed era corsa dentro, alla reception. Ma quando entrò, l’uccellino era già morto. Il nido si trovava ancora nella vetrinetta nel vestibolo, presso la scala che portava al primo piano. E lì c’era anche l’uccellino impagliato. Era Piet che l’aveva impagliato. Ormai le pennette delle ali erano coperte da un sottile strato di polvere, ma l’uccellino pareva ancora vivo. E così sarebbe sembrato per sempre.
«Di che cosa voleva parlarti Aud al Theatercaféen?». Il poliziotto la guardò. «Devi darci tutti i dettagli. Anche le cose che non ritieni significative».
«Aud disse che voleva scrivere un articolo su Maike Hagg, che morì quando noi avevamo dodici anni. La polizia disse che era stato un incidente, ma Aud aveva fatto delle ricerche. Aveva contattato Berit Adamsen e Norma Winther, e voleva contattare anche Ole Porat».
«Chi è Ole Porat?»
«Lavorava nel reparto di papà. Aveva ventidue anni ed era uno studente di medicina; noi ne avevamo dodici. Ci sembrava molto bello», aggiunse. «Una volta lo portammo con noi nelle catacombe. Le percorremmo in tutte le direzioni. Ricordo che ci mise un po’ paura. All’improvviso mi abbracciò da dietro. Ma non successe niente di più. Oggi è chirurgo all’ospedale di Ullevål. Aud dice che in realtà fu Jan Hagg, uno dei fratelli di Maike, ad ammazzare la loro madre. Con un’ascia. Già, suo padre… Werner… forse voleva proteggere i figli. Ricordo che era un omone, molto, molto tranquillo. Ma in realtà era pericoloso. Papà lo diceva sempre. I miei pazienti non sono così come sembrano, diceva».
Cato Isaksen la guardò. «Che cos’altro ha detto Aud Johnsen?»
«Che Jan aveva ucciso la madre, e che l’altro fratello, Piet, aveva appiccato il fuoco subito dopo. Maike stava cercando qualcosa negli archivi. Voleva salvare suo padre, perché gli voleva molto bene. Aud aveva visto Jan che entrava in cantina subito prima che Maike morisse… e dunque…».
«E perché Aud Johnsen ha tenuto per sé questo segreto?»
«Penso che avesse difficoltà a ricordare. È una cosa che può succedere. Io dopo ho chiamato Ole Porat. Lui non ha voluto parlare con me. Ho telefonato anche a Jan Hagg».
«La sera stessa, il 31 ottobre?»
«Sì, ho telefonato mentre mi trovavo da Burns. Ero corsa lì dal Theatercaféen. Dovevo calmarmi. Ho bevuto un po’ troppo. Ero sconvolta per ciò che aveva detto Aud».
Marian aprì la bocca. «Chi era al corrente della vostra cena al Theatercaféen?»
«Nessuno tranne le persone a cui ho telefonato io. Avevo pensato di contattare la polizia, ma a papà la cosa non avrebbe fatto piacere. Che io fossi andata a cena con Aud, intendo. Non gli è mai piaciuto che frequentassi i bambini dei pazienti. E apprendere che Werner Hagg era stato rinchiuso per qualcosa che non aveva fatto sarebbe stato troppo, per lui. Pensai che Aud era libera di scrivere quell’articolo. Però avevo paura di guardare le notizie, controllavo continuamente su internet. Ma all’improvviso è comparsa la notizia che era stata uccisa».
*
Marian si alzò e uscì dalla stanza. Ole Porat, Jan e Piet Hagg dovevano essere ritracciati immediatamente. Doveva occuparsene lei. Dove si trovavano al momento degli spari in Trosterudveien?
Emmy Hammer la seguì con lo sguardo.
«Continua pure», disse Cato Isaksen.
«Poi ho preso il tram e sono tornata a casa. Quando mi ero già messa a letto, qualcuno ha suonato alla porta. Io non ho aperto. Attraverso la finestra ho visto un uomo con un soprabito o una cappa. Non ho idea di chi fosse».
Marian rientrò nella stanza dell’interrogatorio e porse un foglio di carta a Cato Isaksen. Lui lo guardò: John Johnsen e Werner Hagg sono stati entrambi localizzati presso i loro domicili.
Marian si sedette. «Sei stata in contatto con Piet e Jan Hagg?»
«Non proprio».
«Che cosa intendi, di preciso?».
Emmy Hammer sollevò il viso. Stava per rovinare tutto. «Jan è venuto a casa mia oggi pomeriggio», capitolò. «Voleva parlare, spiegarsi; mi ha raccontato che era in palestra, la sera in cui Aud fu uccisa. Ovvero, aveva detto a sua moglie che sarebbe andato in palestra, ma in realtà era alla loggia massonica per un evento. Per favore, non dite a Jan che ho fatto la spia», disse Emmy Hammer.
«Cosa ricordi del giorno in cui fu uccisa Maike?»
«Non ricordo nulla di quel giorno. Soltanto che venne l’autoambulanza».
«Maike fu ritrovata con del rossetto sulla bocca», disse Cato Isaksen.
«Non usavamo il rossetto. Avevamo solo dodici anni».
Cato Isaksen si alzò. «Mi devi dare il tuo cellulare».
Emmy Hammer glielo porse. «Io voglio bene a Jan». Le lacrime cominciarono a scenderle giù per le guance.
Cato Isaksen annuì. «Forse ti ha salvato la vita il fatto di non aver aperto la porta, quella sera. Aud invece deve aver aperto all’assassino. Non c’era alcun segno di effrazione, a casa sua». Cato non avrebbe potuto lasciare che Emmy Hammer se ne tornasse subito a casa. Non era escluso che alcuni testimoni chiave fossero a rischio. Cato fece un segno a Marian di seguirlo fuori. Emmy Hammer li seguì con lo sguardo, spaventata.
«Sai cosa devi fare, Marian. Porta la testimone al rifugio. Prendi in prestito dei giubbotti antiproiettile e un’arma tra quelle che sei autorizzata a usare. Prendi una delle auto noleggiate che abbiamo a disposizione qui sotto. Io mi occupo di Piet Hagg, Jan Hagg e Ole Porat».
«Ricevuto». Lo guardò con gli occhi socchiusi.
Lui deglutì. «Non è sicuro che Emmy Hammer ci stia dicendo tutto quanto», continuò. «Falle il terzo grado».
Marian annuì. Era stata spesso al rifugio segreto da quando era entrata a far parte del gruppo B-52. C’era andata con donne immigrate che dovevano essere protette nell’ambito del “codice 6”, ovvero da uomini di cui avevano paura: mariti, padri o zii. Due settimane prima ci era andata con un testimone di una grossa indagine su traffici di droga. Quel posto veniva utilizzato soltanto in casi di emergenza, per soggiorni brevi. Se c’era un pericolo prolungato per la vita dei testimoni, la fase successiva era quella dell’assegnazione di un’identità fasulla, corredata di un nuovo codice fiscale e di una storia inventata sulla vita precedente. Per Emmy Hammer probabilmente si trattava soltanto di impedire che la trovassero per un paio di giorni. Dovevano acchiapparlo, il colpevole. Marian entrò nella saletta, e spiegò a Emmy cosa avrebbero fatto.
*
Tutte le versioni online dei quotidiani così come i notiziari radiofonici e televisivi aprirono con quella notizia. La linea telefonica messa a disposizione del pubblico per eventuali segnalazioni era bollente, ma i suggerimenti puntavano in tutte le direzioni. Ingeborg Myklebust mobilitò tutto il personale disponibile. Cato Isaksen passò superficialmente in rassegna il traffico telefonico del cellulare di Emmy Hammer. Roger Høibakk, Randi Johnsen, Asle Tengs e undici altre persone si radunarono nella sala riunioni con la lavagna bianca. L’addetto stampa era finalmente presente, e questo liberava la sezione omicidi dalla pressione dei media. Cato trovò i numeri di telefono delle persone che Emmy aveva detto di aver chiamato, oltre agli sms. Prese nota di tutto, ripose il cellulare in una busta per i reperti e lo consegnò a un esperto che lo avrebbe esaminato per trovare altre informazioni. Come di routine, sarebbe stata fatta anche una verifica attraverso la compagnia telefonica. Poi arrivò anche uno dei tecnici che erano stati in Trosterudveien. «Dato il tentato omicidio nei confronti di Emmy Hammer, per il momento dobbiamo metterla al sicuro. Marian la porterà in uno dei nostri rifugi segreti. Asle e Randi, andate immediatamente da Ole Porat, che fa il chirurgo presso l’ospedale di Ullevål, e tenetelo d’occhio fino a nuove istruzioni. Altri sono stati incaricati di trovare Piet Hagg». Poi riassunse brevemente ciò che gli aveva raccontato Emmy Hammer. «Roger, tu vieni insieme a me a prelevare Jan Hagg. Emmy Hammer aveva spedito vari sms ad Aud la sera del 31. Perché lei non ha risposto?». E si rispose da solo: «Perché era già morta».
*
Emmy Hammer aspettava nell’ufficio di Irmelin Quist. Marian era giù nei sotterranei per prendere in prestito una pistola e dei giubbotti antiproiettile. Tornata al reparto, le chiese di indossare il giubbotto nero sotto il cappotto. Lei stessa aveva già l’arma infilata nei pantaloni, e il giubbotto sotto la giacca di pelle. «Ora ti porto a casa, così puoi cambiarti e prendere le cose strettamente necessarie; il cappotto e gli stivaletti non sono proprio l’abbigliamento ideale. Dentro e intorno alla tua casa ci sono dei poliziotti che fanno la guardia. E ce ne sono anche dai tuoi genitori. Poi ti porterò in un luogo segreto».
Emmy Hammer preferiva avere a che fare con quell’altro tipo, col poliziotto uomo.
«Quando potrò tornare a casa?». Emmy si figurò una casa in mezzo a un terreno deserto.
«Chiamami pure Marian. Io ti chiamerò Emmy. Aspetta qui un secondo». Andò al sesto piano in ascensore per prendere la chiave. Erik non c’era. Quel giorno non ci aveva ancora parlato. Lui aveva cercato di chiamarla molte volte, probabilmente la voleva vedere per un incontro amoroso. Quando furono in ascensore, Emmy Hammer disse: «Come puoi tu prenderti cura di me?». La sua voce tremava.
«Che cosa intendi?»
«Hai una pistola? Preferirei che fosse un uomo a proteggermi».
L’ascensore si fermò giù nel parcheggio sotterraneo. «Ci sono altre persone che ci tengono d’occhio, mettiamola così. E una macchina di scorta ci accompagnerà fin lì».
Marian premette l’apriporta e sbloccò le portiere. I fari emisero un bagliore arancione. Birka si alzò a sedere sul sedile posteriore.
«Un cane?». Emmy Hammer arretrò di un passo. Fece un sorrisino tirando l’angolo della bocca da un lato.
Marian girò intorno alla propria macchina, aprì la portiera e lasciò scendere il cane. Si diressero verso una Golf grigia noleggiata. Emmy Hammer si sedette sul sedile del passeggero, e Birka girò su se stessa sul sedile posteriore, scodinzolando, e le sbuffò sulla nuca.