Qui mi occuperò principalmente dell’amore, ma prima vorrei dire qualcosa anche sull’amicizia.

Per distinguere questi due scenari, quello dell’amicizia e quello dell’amore, dobbiamo partire da un concetto fondamentale, ossia dalla comprensione di noi stessi: dobbiamo prendere in considerazione il fatto che siamo sì animali ragionevoli, cioè ci basiamo sull’impianto razionale, ma ciascuno di noi è anche folle. L’amicizia si colloca, tutto sommato, sul piano razionale e perciò è una disposizione della mente, mentre l’amore, proprio perché è connesso con la dimensione folle di ciascuno di noi – in cui non abbiamo nessun potere – esercita potere su di noi. Quando dico “folle”, occorre che spieghi cosa intendo. Il senso è che noi non siamo granché consapevoli della nostra follia, anche se sarebbe sufficiente che prendessimo in considerazione le nostre notti – quando sogniamo – quando cioè si apre il teatro della follia: la coscienza si spegne, la nostra vigilanza si attenua fino a spegnersi e incomincia lo scenario onirico. Prima di aprire i nostri sogni agli psicoanalisti, dovremmo ricordare, anche a loro, che i nostri sogni sono il teatro della pazzia. Perché nel sogno io sono attore del sogno ma sono anche spettatore, talvolta sono un personaggio maschile e talvolta sono un personaggio femminile, talvolta sono adulto e insieme sono bambino. Nel sogno saltano le figure dello spazio e del tempo: un sogno può cominciare a New York e finire nell’Impero romano. Ciò vuol dire essere abitati dalla follia, da questa dimensione irrazionale che Freud ha codificato nella figura dell’inconscio. Ma già prima di Freud si sapeva benissimo che ciascuno di noi ha anche una parte folle, che emerge immediatamente non appena si abbatte il livello di razionalità e di coscienzialità. È sufficiente che beviamo un po’ e incominciamo a parlare in una modalità che non avremmo mai usato se non avessimo bevuto, tanto che l’indomani la gente ci dice: “non eri più tu”: se ne era andata, cioè, persino la nostra identità, non eravamo più neppure noi stessi. Per non parlare poi delle condizioni eventuali dovute alle droghe, in cui viene fuori un universo incontrollato.

Quindi la follia ci abita e della follia dobbiamo prendere atto. Dobbiamo esserne consapevoli, perché la nostra follia ci attrae e non c’è altro modo di accedervi se non attraverso un contesto d’amore. Queste cose le dice Platone, il quale ha scritto un dialogo, il Simposio, che, a mio parere, è il più grande libro mai scritto sull’amore.

Per quanto riguarda l’amicizia, invece, essa è una disposizione, un modo di essere uomini, un atteggiamento. La filosofia, per esempio, si chiama filosofia perché è un discutere tra amici. Cosa vuol dire discutere tra amici? Vuol dire creare un clima di philia [φιλία] – cioè di amicizia, come dicono appunto i Greci – in cui l’intento della discussione non è quello di avere ragione sull’altro. Platone ci mette in guardia dall’atteggiamento, che egli chiama “eristico”, nel quale si discute solo per sopraffare l’opinione dell’altro. È quello che si vede abitualmente in televisione nei talk show: vi prevalgono atteggiamenti eristici, il cui scopo è quello di vincere la partita dialettica contro l’altro; beninteso, quando si tratta di dialettica, perché alle volte si tratta semplicemente di sopravvento e non ricerca della verità, né tanto meno del bene comune. Quindi la philia è un atteggiamento per il quale lo scopo della discussione non è uscire vittoriosi sull’altro, quanto, invece, cercare la verità in un contesto di amicizia. E allora l’amicizia è la precondizione per la ricerca del sapere e della verità. Infatti per i Greci l’amicizia si avvicina di più dell’amore alla verità. Nell’amore non si cerca la verità, ma l’affogamento nella propria pazzia. Amicizia e verità sono alleate, anche se l’amore ha una stretta correlazione con la struttura della verità. In che senso? Se io assumo come verità, per esempio, che Dio esiste, questa è una verità fino a quando i presenti non mi faranno un’obiezione che scardina la mia proposizione che dice che Dio esiste. Supponiamo invece che nessuno riesca a scardinare la mia proposizione. Allora la struttura della verità è la struttura della guerra. E la stessa struttura possiamo trovarla nell’amore. Se tu incontri un altro che ti ama più di me, e se io non ce la faccio a superare tutti i possibili amanti della donna (o dell’uomo) che considero essere mia compagna di vita, ho perso la partita! Il traditore non è interessante: interessante è il tradito, che deve persuadersi che ha perso la “guerra”. In questo senso amore e verità hanno un’analogia. Dunque possiamo riassumere che la philia, la philosophia, è la ricerca del sapere attraverso l’amore, in un contesto di amicizia. In questo senso l’amicizia è una disposizione. Tuttavia l’amicizia – ce lo ricorda Cicerone – si concretizza su basi di interesse, su basi di meccanismi di guadagno, in cui si ha a che fare con ciò che ci interessa di più.

Per la verità, io dell’amicizia non ho una grande considerazione, sia perché sono un po’ orso e quando incontro il prossimo cambio marciapiede, sia perché non vedo mai sincerità nei contesti di amicizia. Non mi venite a dire che nelle amicizie “vere” o particolari, c’è sincerità, perché anche lì c’è l’interesse di ricevere un conforto, un’approvazione, e cose di questo genere. Sotto questo profilo, l’amicizia è per noi “latini”, cioè occidentali – a differenza dei Greci – la zona intermedia tra l’indifferenza e la passione d’amore. Quando non si ama abbastanza una persona però non la si vuol perdere, si dice che è un nostro amico: cosa vuol dire? Semplicemente che c’è un limite nella relazione affettiva. Questo perché noi latini partiamo dalla nostra individualità, siamo molto individualisti. La parola “persona”, che vuol dire “maschera”, significa innanzitutto “per se unum”. Noi latini partiamo dalla nostra individualità, partiamo dagli interessi della nostra individualità, ci organizziamo secondo gli interessi dell’individuo: “per se unum”, e dopo, a partire da questo unum, che sono io, instauro relazioni. Invece in greco la parola “persona” si dice prosopon [πρόσωπον]: “pros” vuol dire davanti e “opsis” vuol dire vista; dunque la persona che vedo davanti a me, quella è la “persona”. In questa accezione la persona la catturo non a partire da me (per se unum), ma a partire da chi mi compare davanti (prosopsis). Il che lascia intendere che la mia individualità non è ciò da cui devo partire, ma la mia individualità è il frutto del riconoscimento di quell’altro che mi sta davanti. Infatti la nostra identità, la nostra individualità, non è qualcosa che ci costruiamo da noi stessi, ma il frutto del riconoscimento che abbiamo ricevuto dagli altri. Va ricordato che i Greci non a caso, oltre al singolare e al plurale, avevano il duale. Sono gli altri che ci donano l’identità. Questo è vero soprattutto per i bambini, i quali nascono senza identità e, a seconda dei riferimenti positivi o negativi che ricevono, costruiscono un’identità a partire dal riconoscimento che, se è positivo, solidifica la loro identità, se è negativo, fa sì che costruiscano un’identità negativa. Comunque è la “relazione” che genera l’identità: è chi mi sta davanti che mi conferisce un’idea di me stesso, non sono io che me la devo inventare, non parto da me per instaurare le relazioni, ma è la relazione che mi istituisce in identità. Platone nell’Alcibiade dice: “se tu, con la parte migliore del tuo occhio guardi la parte migliore dell’occhio dell’altro, vedi te stesso”.1 Il mio me stesso è il frutto del riflesso dello sguardo dell’altro: è l’altro che genera la mia identità, non sono io che ho un’identità. Pensateci bene! Queste cose sono molto importanti, anche perché i Greci avevano raggiunto l’apice del pensiero: sono il popolo più grande mai apparso in Occidente, hanno inventato in 150 anni la filosofia, la matematica, la fisica, l’architettura. Noi occidentali siamo loro figli; il nostro stesso modo di pensare e di parlare deriva da Platone, che ci ha insegnato a parlare attraverso il principio di non contraddizione. Infatti, la prima cosa che facciamo quando ascoltiamo la proposizione secondaria del discorso di qualcuno è vedere se si contraddice o non si contraddice. Prima di Platone non si parlava così, si parlava per analogie. Omero, per dire che Aiace ha una grande forza, dice: “come il leone così Aiace…”, cioè fa un paragone. Così parla anche il discorso biblico, che lavora con analogie: non era ancora nata la ragione con la sua potente struttura logica, come invece Platone l’ha elaborata per noi occidentali.

E perché Platone ha fatto questo lavoro? Per salvarci dalla follia.

 

Prima di parlare di amore devo ritornare su questo tema della follia. I bambini quando nascono sono folli, e infatti arrivano gradatamente alla ragione. Quando hanno raggiunto la ragione, presumibilmente intorno ai sei anni, vanno a scuola per organizzarla un po’ meglio. I bambini non hanno nessuna paura, al massimo hanno angoscia, ma non paura. Chi ha paura adotta meccanismi difensivi di fronte al pericolo: o scappa, o l’affronta. Invece i bambini non hanno paura di niente e per questo motivo sono sempre a rischio e vanno accuditi. I bambini non conoscono i principi di identità e di non contraddizione; non dicono, come vorrebbe la logica della ragione, il bicchiere è il bicchiere e non è altro. Quando un bambino prende in mano un bicchiere non si sa se lo tratterà come un bicchiere o come qualcos’altro, e infatti la madre gli va incontro e glielo toglie dalle mani. Ciò vuol dire che per il bambino quello è sì il bicchiere, ma è anche un’arma impropria, che potrebbe tirare addosso al fratellino. Ecco, qui siamo già nello scenario della follia, perché la follia è la contaminazione dei significati: la follia non rispetta il principio di non contraddizione e di identità. Folli sono i bambini, ma folli sono anche i poeti. Karl Jaspers, il più grande psicopatologo del Novecento, per esempio dice che ogni volta che ammirate una cosa d’arte vi comportate come quando ammirate la perla, dimenticando che la perla è la malattia della conchiglia. Per essere creativi, per essere poeti, bisogna attingere a quella dimensione folle che è in ciascuno di noi. Ma quella dimensione folle comporta anche il sacrificio dell’artista. Si prenda Leopardi, quando nel Canto notturno di un pastore errante dell’Asia chiede: “Che fai tu, luna, in ciel?”. Dal punto di vista razionale questa è una frase assolutamente priva di senso, perché cosa fa la luna in cielo lo sappiamo tutti: gira intorno alla terra, e forse non è il caso di interrogarla, visto che non capisce e non risponde. Già il porre la domanda è un segnale di sbandamento, un fuoriuscire dall’ordine razionale. Ma perché questo diventa poetico? Diventa poetico perché Leopardi fa un’operazione di oscillazione del significato: la luna è la luna (fino a qui siamo nell’ambito della ragione), ma è anche qualcos’altro, ad esempio un’interlocutrice femminile; e allora in uno scenario di questo genere è possibile la domanda, ma è possibile solo fuoriuscendo dallo statuto della ragione. Anche i poeti sono folli, e Heidegger avverte giustamente che sono quelli più arrischianti, si muovono sul confine tra la ragione e la follia. I bambini, i poeti e soprattutto gli dèi. Perché gli dèi non tengono conto del principio di non contraddizione: Giove è uno degli dèi, ma è anche tuono, fulmine, toro. Anche il dio cristiano è onnipotente, può fare tutto e il contrario di tutto. Il mondo degli dèi è qualificato da Platone come il mondo della follia, da cui l’umanità si è emancipata gradatamente, prima attraverso pratiche rituali, fissando cos’è lecito e cosa non è lecito, cosa è puro e cosa non è puro, stabilendo che cosa è totem e che cosa è tabù. Poi a un livello superiore, in Platone, l’umanità ha stabilito con il principio di non contraddizione che una cosa è se stessa e non è un’altra: il toro non è il fulmine, il fulmine non è il lampo, il lampo non è il capo degli dèi.

Così abbiamo inaugurato la ragione, ma non dimentichiamo che la ragione non è la verità. Essa è un sistema di regole che ci consente di prevedere i comportamenti: se a tavola qualcuno prende un bicchiere i commensali non si spaventano, poiché subito ipotizzano che chi ha preso il bicchiere lo userà per bere e basta, anche se il bicchiere potrebbe essere usato come arma impropria. I bambini invece quando prendono in mano un pennarello, un po’ disegnano, un po’ lo succhiano, trattandolo come biberon, e qualche volta lo cacciano nell’occhio del fratello: cioè i bambini si muovono in questa oscillazione costante del significato. Questa è la follia che ci abita. Eraclito diceva che il dio è giorno e notte, sazietà e fame, guerra e pace, e si mescola a tutte le cose assumendo ogni volta il loro “aroma”. L’uomo ritiene giusta una cosa e ingiusta l’altra; per il dio invece tutto è bello, tutto è buono, tutto è giusto. Gli uomini adottano la ragione, che è un sistema di regole che ci consente di intenderci e di prevedere i comportamenti, e quindi di ridurre l’angoscia. Perché abbiamo paura dei pazzi conclamati? Perché non sappiamo mai che uso fanno delle cose, e ci mette angoscia il loro parlare sostanzialmente incomprensibile. Allora è l’uso della ragione come sistema di regole che ci consente di ridurre l’angoscia e l’imprevedibilità dei comportamenti, di stabilire l’univocità dei significati, cioè che ci consente di intenderci. La ragione è quindi una macchina a cui dobbiamo essere molto grati. Però è una macchina debole rispetto alla follia, perché la potenza della follia è incredibile.

L’amicizia, disponendosi sul versante della ragione, si trova in un contesto di razionalità, e infatti l’amicizia si serve di parole comprensibili, è molto fabulatoria, narrativa, confortevole qualche volta (se abbiamo un dolore, cerchiamo un amico).

Oggi, siccome nessuno parla più con nessuno, bisogna andare da uno psicoanalista e pagarlo. Mentre l’amore non ti consente questo. Quando due passano la vita insieme, non sanno cosa vogliono l’uno dall’altra. Non è certo per i piaceri carnali che essi amano trascorrere tanto tempo tra loro: è evidente che hanno cose da dire che non riescono a dire e perciò parlano in modo enigmatico e buio. In realtà nella condizione di amore ci si trova di fronte all’insufficienza del linguaggio. Il discorso tra due innamorati non finisce nel dire “ti amo”: non finisce lì, perché c’è un’insufficienza della logica nel dire quello che la relazione amorosa produce. L’amore è quella condizione in cui ti trovi nel collasso del linguaggio e della ragione. Per questo, dice Platone, amore appartiene alla follia, che in greco si dice mania [μανία].

Platone ne descrive quattro tipi: il primo è la follia profetica, perché non possiamo prevedere il futuro in termini razionali. C’è poi la follia iniziatica, perché quando si cambia età, per esempio nell’adolescenza (quando compare la dimensione erotica), la visione del mondo che il ragazzo o la ragazza aveva prima deve essere completamente cambiata; non si tratta di qualcosa che si va ad aggiungere a ciò che si era precedentemente, ma di qualcosa che sconvolge totalmente quello che si era. L’impianto stesso con cui si visualizza il mondo è mutato. Un tramonto, che il bambino non aveva mai osservato nella condizione di amore, produce un incanto, e questo comporta una erotizzazione del mondo e quindi un cambiamento nella visione del mondo. Questo passaggio può essere accompagnato, per quel tanto che si riesce; ma ogni passaggio iniziatico è un passaggio folle, caratterizzato dalla “crisi”. Krisis [κρίσις] è una parola greca che deriva da krino [κρίνω], che vuol dire “giudico”: c’è un collasso del giudizio che formulavo sul mondo, e ne devo istituire uno nuovo con gli strumenti approssimativi di cui dispongo in questa dimensione di trasformazione. E non sempre ci riesco. Freud, in una lettera del 1910, scrive che la scuola deve fare qualcosa di più e non limitarsi soltanto a non indurre i suoi allievi al suicidio!2 Si vede che già allora le cose andavano in questa maniera, e oggi non vanno certo diversamente, se è vero il dato Istat secondo il quale in Italia abbiamo un suicidio e mezzo al giorno, quindi qualcosa come cinquecento suicidi giovanili ogni anno. Quando Freud scriveva quelle pagine pensava alla fatica emotiva che – anche all’insaputa degli stessi giovani – comporta la trasformazione della propria visione del mondo. I problemi che i giovani devono risolvere a livello affettivo, a livello sessuale, a livello sentimentale, e che prima non conoscevano, comportano una fatica psichica tale per cui la scuola non deve essere una “prova di vita”, ma “un gioco della vita”.

C’è poi la follia delle Muse, che riguarda i poeti e gli artisti in genere. Le Muse ispirano i poeti e li rendono “entusiasti”. “Entusiasmo” è un’altra parola di origine greca, che dice che dentro di te c’è un dio che parla.3 Ma – come abbiamo visto – il dio appartiene allo scenario della follia. Infatti i Greci non avevano bisogno di una religione che funzionasse come “relegamento”, cioè contenimento della pazzia. I Greci hanno inventato la ragione. Mentre per loro la religione era semplicemente il luogo della pazzia (per esempio, Pan dio dello stupro, generatore del panico, dio della tragedia ecc.).

Perché la loro religione è così disinvolta, la loro sessualità è così libera? Appunto, perché i Greci hanno trovato una macchina più potente per relegare la follia, una macchina che si chiama “ragione”, e che non è solo una faccenda filosofica. I Greci hanno inventato la matematica, la giusta misura nell’architettura, ecc.; hanno il concetto di limite, che deriva loro dal fatto che credono nella morte, e infatti non chiamano l’uomo anthropos o aner [ἄνθρωπος; ἀνήρ], ma lo chiamano, al tempo di Omero, brotos [βρότος], cioè colui che è destinato a morire; e al tempo di Platone lo chiamano thnetos [θνητός], il mortale. Gente seria! Il dolore non lo concepiscono come una caparra per la salvezza, ma il dolore appartiene alla vita: quindi evita di metterlo in scena, soffri in silenzio, capiterà a tutti perché dobbiamo morire; non si muore perché ci si ammala, come dice giustamente Foucault, ma ci si ammala perché fondamentalmente dobbiamo morire! Con questo senso del limite, della misura, i Greci hanno dunque trovato un contenitore della follia ben più potente delle religioni. La religione è popolare, fa effetto su chi non ha cultura. E ancora oggi c’è gente che va da Padre Pio o a Medjugorje o a Lourdes. Ma non scherzate con queste cose qui! Seguite i precetti della ragione se non avete l’intelligenza di darveli da soli. Benissimo che ci siano i dieci comandamenti, ma dovete allora sapere che non siete riusciti a darvi una regola interna. L’oracolo di Delfi diceva: “conosci te stesso!”. E quando hai conosciuto te stesso, il tuo demone, e lo realizzi, raggiungi l’eudaimonia, la felicità; ma la raggiungi katà métron, cioè secondo misura. Per esempio, sarai anche un attore, questa è la tua vocazione, ma forse non sarai Alain Delon o Marcello Mastroianni, e non tentare di diventarlo perché altrimenti prepari la tua rovina. Questi sono i Greci!

Infine, la follia più “eccelsa”, dice Platone, è la follia d’amore. Una volta che abbiamo capito che l’amore riguarda la nostra follia e non la nostra razionalità (e per queste cose possiamo anche fare riferimento al linguaggio popolare: per esempio, quando si dice a qualcuno che quella persona non è giusta per lui, la risposta più comune che arriva è: “sì, lo so, ma non posso farci niente”; oppure quando si dice: “mi fai impazzire”, o “per te perdo la testa”), cioè una volta che abbiamo capito che la razionalità non ci è di nessun aiuto nella possessione d’amore, capiamo anche che l’amore non è da trattare con semplicità o superficialità. Infatti la follia è sempre più potente della nostra parte razionale e può sempre trascinarci dietro di sé, e una volta che questo avviene, non è detto che ne possiamo uscire con le nostre sole forze.

La follia, la più eccelsa, la più divina, è la prima parola che Socrate enuncia quando inizia a parlare di amore: amore è follia (mania). Ho citato Socrate, perché in quel libro stupendo che è il Simposio, si dice una cosa fulminante intorno all’amore. Noi siamo vittime di quella sorta di descrizione letteraria dell’amore, che è l’amore romantico, che è una dichiarazione poetica, stupenda se volete, ma che in realtà non esiste da nessuna parte; soprattutto, dovremmo liberare la testa dall’idea che l’amore platonico consista nel guardarsi negli occhi: no, l’amore platonico è carico di sensualità e di sessualità, perché proprio in quanto c’è un’insufficienza del linguaggio abbiamo bisogno dei corpi. La comunicazione corporea avviene come tentativo di oltrepassare il collasso linguistico che nelle cose d’amore noi rischiamo. La storia del Simposio è questa: Agatone ha organizzato una cena, invitando i suoi amici tra cui anche Socrate, Alcibiade, Pausania, Erissimaco, Aristofane. Ci si avvia verso la casa di Agatone ma a un certo punto Socrate si ferma sotto un portico, colpito da un attacco di “atopia”. Alcibiade, che conosce bene Socrate (Alcibiade era stato capo dell’esercito di Atene e Socrate soldato semplice), dice agli altri di non preoccuparsi perché anche a Salamina Socrate era stato in questo stato atopico suscitando l’ilarità di tutti i soldati. Intanto vanno tutti verso casa di Agatone, mentre Socrate li raggiungerà quando si sarà ripreso. Ma per quale ragione c’è all’inizio del dialogo questa notazione? Che vuol dire qui atopia? Non vi dico come gli psichiatri si siano buttati su questa parola, incorniciandola nella figura dell’epilessia. I Greci però conoscevano l’epilessia già dai tempi di Ippocrate, che affermava che questa malattia, allora chiamata “male sacro”, non ha nulla di sacro: siamo noi uomini che quando non conosciamo le cause di qualcosa attribuiamo l’evento agli dèi; ma quando conosceremo le cause di una malattia avremo anche il modo di curarla. Quindi l’atopia non è l’epilessia. In greco la parola topos vuol dire “luogo” e atopia vuol quindi dire “fuori luogo”. Potremmo tradurla con la parola “dislocazione”: ossia, se vuoi entrare a parlare delle cose d’amore devi dislocarti dalla tua dimensione razionale. In termini psicologici possiamo dire: se tu stai nel tuo io non entri in una relazione d’amore. “Atopia” vuol dire, appunto, che devi dislocarti: non entri nelle “cose d’amore” (“tà erotikà”, talvolta “tà afrodisia”) dice Platone, se non esci dal tuo io. Dopo un po’ Socrate si riprende, arriva, e si mette a tavola. Tutti mangiano, bevono, e ascoltano i discorsi di tutti gli altri. Poi Socrate prende a parlare e come prima cosa inscrive l’amore nella follia. Ricorda anche, a mo’ di avvertenza, che lui è il filosofo che non sa niente! Ma la “dotta ignoranza” non è una prerogativa di Socrate, bensì della filosofia, nel senso che la filosofia non è una dottrina che si trasmette – questa semmai è scienza, per i Greci episteme – bensì un atteggiamento, un atteggiamento di amicizia che chiede a un interlocutore “qual è il tuo parere intorno a questa cosa?”, e all’altro interlocutore “qual è invece il tuo parere intorno a quest’altra cosa?” Per esempio, cos’è per voi la bellezza? Parla tu, Fedro! Parla tu, Fedone! Parla tu, Alcibiade! E allora il filosofo sa che cos’è la bellezza? No, non lo sa neppure lui. Egli si limita a vedere quale dei discorsi resta in piedi per il fatto di non avere dentro di sé alcuna contraddizione, e il discorso che sta in piedi senza alcuna contraddizione, non è più il discorso di Tizio o di Caio, ma diventa il discorso di tutti, viene accettato come verità, provvisoria finché nessuno riesce a contraddire quella posizione. Socrate si pone allora – lo dice lui stesso – come un vasaio, che con la nocca delle dita verifica dal suono se il vaso è di vero bronzo, cioè se questa o quest’altra concezione della bellezza è argomentata secondo il principio di non contraddizione, se non è retorica, se non funziona sulla mozione degli affetti. Dobbiamo ricordarci che dei 34 dialoghi di Platone che ci sono rimasti, 14 sono contro i retori e i sofisti, i quali persuadono la gente attraverso la mozione degli affetti, attraverso falsi sillogismi, attraverso reiterazioni di concetti semplici, attraverso il principio di autorità, che poi è in qualche modo la pratica televisiva. Ossia non persuadono la gente con argomentazioni, perché l’argomentazione richiede un certo lavoro del pensiero, ma attraverso degli effetti retorici. E quanta gente ha idee che sono solo effetto di persuasione! Soprattutto oggi, noi che viviamo nell’età della tecnica, la quale pone sul tavolo dei problemi che oltrepassano una competenza media, come facciamo a decidere, per esempio, se vogliamo fare o no le centrali nucleari? Dovremmo essere dei fisici nucleari, ma poiché non lo siamo, decidiamo sulla base della persuasione. Siccome mi fido di quello lì, che sta parlando in televisione, faccio come dice lui; oppure, siccome sono credente, faccio come dice il papa. Tutto ciò significa che la democrazia non può più esserci, perché la democrazia può esserci solo sulla base della competenza. E più il popolo è ignorante, più funziona la persuasione, e più funziona la persuasione, più è facile la dittatura, che non ha bisogno di essere violenta, com’è stato il fascismo o il nazismo o il comunismo sovietico, ma è sufficiente che la gente accetti la persuasione diffusa. La filosofia, al contrario, è nata come problematizzazione dell’opinione diffusa: per questo dobbiamo essere tutti filosofi, avere un minimo di senso critico, formarci delle opinioni, altrimenti saremo – come dice bene Nietzsche – un gregge che desidera solo l’animale capo. Purtroppo le scuole non sono considerate granché e questo fatto non preoccupa i genitori che fanno spesso oggi i sindacalisti dei figli nei confronti dei professori! Ma quando vien meno il giudizio critico non siamo autonomi e indipendenti, non siamo soggetti pensanti, siamo quel gregge che desidera l’animale capo.

Socrate dunque ribadisce di non sapere nulla, e tuttavia di avere episteme – un sapere vero, incontrovertibile – proprio per quanto riguarda le cose d’amore. E allora nasce la curiosità di chiedergli come mai, lui che non sa niente, delle cose d’amore sa tutto? Socrate risponde che queste cose gliele ha raccontate una donna. Qui è interessante che intervenga una donna a raccontare le cose d’amore, perché le donne erano sostanzialmente escluse dai discorsi filosofici degli uomini. E perché c’è questo ricorso alla donna, soprattutto in un contesto in fondo di omosessuali (perché Socrate lo era, Alcibiade lo era, Platone lo era)? Come mai c’è l’invocazione di una donna? Probabilmente perché una donna non ha una mentalità solo logico-razionale, a cui invece mediamente risponde la mentalità del maschio. La donna è lì, al confine tra il momento razionale e il momento folle: sto parlando ovviamente della donna in generale, che è più portata a questa dimensione non esclusivamente razionale. Mentre i maschi hanno tendenzialmente un pensiero logico-matematico, le donne hanno quello sì, ma poi hanno anche l’empatia; e questo perché – secondo me – mentre il maschio è uno, la donna è sostanzialmente due, il suo corpo è fatto per due, sia che generi sia che non generi, la sua psiche è fatta per due, sia che curi sia che non curi i suoi figli. Ciò vuol dire che il due, cioè l’uno e l’altro, è costitutivo del femminile: per lei la relazione è molto più importante della sua identità. Quando la donna fa l’amore (adesso non è più così, ma almeno tendenzialmente, idealmente), fa l’amore all’interno della relazione, a partire dalla relazione, cioè a partire dal suo costitutivo (l’uno e l’altro), mentre l’uomo sta nell’identità che instaura una relazione. Il pensiero maschile è davvero un pensiero molto limitato, perché limitato a un codice, quello razionale. Gli uomini possono fare benissimo l’amore senza fare l’amore, nel loro pensiero la relazione è qualcosa di instaurato, non qualcosa di costitutivo. Certo, va detto che ognuno di noi è maschio e femmina, quindi quando identifico uomo con razionalità e donna con follia esprimo un’esagerazione per far capire. Gli uomini sono abituati a difendersi dalla parte femminile (il cosiddetto uomo “tutto d’un pezzo”) e le donne sono state incanalate a valorizzare solo la loro parte femminile, e solo adesso vengono fuori con la loro parte maschile. Nelle religioni politeiste c’erano le sacerdotesse, e Platone dice che non erano di nessuna utilità quando ragionavano. Ecco perché era necessario che una donna parlasse di tà erotikà. E che cosa ha detto a Socrate quella donna? Ha detto che Eros è figlio di una stracciona, la quale un giorno si è trovata alla festa di Afrodite. In occasione del compleanno di questa dea, al banchetto organizzato sull’Olimpo, lei si è trovata ai margini del tavolo insieme con un semidio – che compare solo in questo dialogo e in nessun altro luogo della mitologia greca – di nome Poros. I due mangiano e bevono quello che trovano sul tavolo o che cade dal tavolo e poi, un po’ ubriachi, si accoppiano: da loro nasce Eros. Qui Platone sconvolge radicalmente la mitologia greca che prevedeva che un dio così nobile come Amore fosse nato da due divinità, cioè Afrodite, dea della sessualità, e Ares, dio dell’aggressività e della guerra. Tale mitologia viene ripresa da Freud per il quale l’inconscio è abitato da queste due pulsioni di fondo, che sono da un lato l’erotica, eros, l’istinto di vita, e dall’altro l’istinto di distruzione, di aggressività. Freud colloca queste due pulsioni nell’inconscio perché esse non appartengono alla soggettività egoica di ciascuno di noi. Aggressività e sessualità appartengono agli interessi della specie. Una donna che vuol diventare madre, dal punto di vista dell’economia del suo io, va incontro a una disfatta totale, perché questa donna deve assistere alla trasformazione del suo corpo, al trauma della nascita, alla soppressione del suo sonno, del suo tempo, della sua carriera, alla dedizione di cura, alla sottrazione dei suoi amori, che magari non sono solo per il marito o per il figlio: insomma, perde tutto dal punto di vista dell’economia egoica, però ci guadagna la specie, perché è nato un figlio. La sessualità è una macchina con cui la specie garantisce la sua sopravvivenza e l’aggressività serve per la difesa della prole. Provate a toccare un cucciolo o un bambino e vedrete come la madre si comporta. Sessualità e aggressività sono le due potenze della specie, ma non coincidono con quelle dell’io. Queste cose le ha dette per primo un grande filosofo romantico, Arthur Schopenhauer, a cui Freud dedica una pagina stupenda fino a dire che la psicoanalisi non l’ha inventata lui stesso, ma proprio Schopenhauer.4 Evidentemente la differenza sta nel fatto che quando i filosofi parlano e dicono queste cose, non succede niente, quando parla un medico e le ribadisce, allora ci si accanisce contro di lui. Questo accade perché i medici hanno in mano la vita e la morte, e i filosofi no. Platone, dunque, sconvolge questa genealogia: né Afrodite né Ares, ma Penìa (che vuol dire povertà; anche noi diciamo in italiano “penuria”) e Poros, che non si sa mai come tradurre. Qualcuno l’ha tradotto con “acquisto”. In greco poros significa “via”, quindi potrebbe essere “via d’uscita dallo stato di povertà”: questo è eros. Ma che cos’è la povertà? Platone ci descrive questa storia dicendo che innanzitutto Eros non è affatto bello, vive come un randagio, dorme sotto i portici, non ha neanche una pietra dove posare il capo. Porta, cioè, tutti i caratteri di sua madre. Amore è una condizione di povertà, di mancanza, di assenza: altro che entusiasmo, gioia, felicità! No, manca qualcosa. Si arriva allo stesso risultato anche indagando l’espressione latina del desiderio: desiderare vuol dire non avere quello che si desidera, anche il desiderio è caratterizzato dalla mancanza. La parola “desiderio” ha tante etimologie, la più simpatica, anche se falsa come tutte quelle che ha inventato Tommaseo, è quella secondo la quale desiderare è aprire un varco tra i “sidera”, tra le stelle, per far passare il mio desiderio! In realtà il termine compare per la prima volta nel De bello gallico di Giulio Cesare, il quale chiamava “desiderantes” quei soldati che la sera, poiché le battaglie si facevano di giorno, si mettevano ad attendere quelli che non erano ancora tornati: essi erano desiderantes, cioè coloro che passavano la notte sotto le stelle. Ma anche qui, si osservi, troviamo il motivo della mancanza, dell’assenza. L’amore è mancanza, è povertà, è non bastare a se stessi: è il bisogno dell’altro, dove l’altro non è quello col quale ci mettiamo insieme, ma è propriamente l’altra parte di noi stessi. È l’incontro con la nostra follia.

 

Dicevamo. I convitati chiedono a Socrate quale sia la funzione di amore. Lui dice che amore è un metaxy [μεταξύ], cioè un “tramite” che ha la funzione di tradurre le parole degli dèi agli umani e di consentire agli dei di interpretare (ermeneuein) le parole degli umani. Che significa? Significa che tra gli dèi e gli umani non c’è possibilità di dialogo dialettico: perché gli dèi abitano la follia e gli umani la ragione, e quindi non è possibile che parlino direttamente, è necessario un traduttore e un interprete. L’amore fa questa operazione: fa da metaxy tra i due mondi, riempiendo l’immenso vuoto che separa i mortali dagli immortali. Qui non è da intendersi l’immortalità nel senso delle categorie cristiane, non ci interessa l’immortalità dell’anima: gli immortali sono gli dèi. C’è un immenso vuoto tra il mondo degli dèi, che è il mondo della follia, e il mondo degli umani, che è il mondo della ragione. E amore fa da mediatore: consente agli uni di intendere i discorsi degli altri e viceversa, perché di norma non c’è commercio tra gli uni e gli altri. Non si può parlare direttamente agli dèi perché gli dèi non capiscono il discorso della ragione e gli umani non capiscono il discorso della follia.

In questa condizione di metaxy, qual è la caratteristica dell’amore? Qui la descrizione diventa veramente pazzesca, e perciò dico che quello di Platone è il più grande saggio sull’amore mai apparso in Occidente. Socrate dice che ogni volta che si entra in un rapporto amoroso noi entriamo in contatto con la nostra follia, da cui siamo attratti. Ma non possiamo farlo da soli (e non è detto che una volta entrati ne usciamo). Abbiamo bisogno dell’altro. Ma quale altro? Perché non ci innamoriamo di chiunque? Ci innamoriamo solo di colui o di colei che ha intercettato la qualità della nostra follia, che ci ha già messo a nudo prima ancora che ci spogliamo, perché ha già catturato quella follia a noi stessi ignota. Pertanto Eros non è tanto il rapporto tra me e te, quanto il rapporto tra me e l’abisso di me stesso grazie a te, che me lo fai vedere. A quel punto io non sono in grado di governare questa fascinazione, che è vedere attraverso te la mia follia. Non sono in grado di governarla e perciò nella condizione d’amore io sono nella condizione di possessione, sono posseduto da te che mi fai vedere la mia follia. Noi non disponiamo della sessualità e dell’erotica come disponiamo degli occhi, dello sguardo, dell’intelligenza, della parola: è l’erotica che ci possiede, e all’interno di questa possessione non abbiamo via d’uscita, se non concessa dall’altro. Questa è la condizione d’amore.

Del resto, questo motivo ritorna anche nella letteratura. Dante, quando deve andare all’Inferno, non ci va da solo, porta con sé Virgilio, perché non si sa se dall’Inferno poi riesca a uscire. Anche noi dobbiamo entrare nel nostro inferno: di questo siamo innamorati, della nostra follia, che l’altro ci concede e ci fa vedere. Naturalmente la cosa deve essere reciproca: perciò – dice Platone – la vera condizione d’amore non è quella dell’amato, ma solo quella dell’amante. È l’amante che patisce la possessione d’amore; all’amato non importa nulla di essere amato, se non è a sua volta amante di colei o di colui che lo ama. Essere amati può essere anche un po’ noioso, ma nella condizione di amante io sono ormai preso perché l’altro ha rispecchiato la follia. Qui riprendiamo quel motivo dell’Alcibiade: quando tu vedi e guardi la parte migliore dell’occhio dell’altro, vedi te stesso.

A questo punto interviene l’insufficienza del linguaggio, perché la follia non riesce a esprimersi con il linguaggio razionale, e allora ci sono i corpi: i corpi sono il tentativo disperato di oltrepassare l’insufficienza comunicativa concessa dalla ragione. Il pudore non è più una faccenda di vesti e sottovesti: il pudore è che io faccio l’amore con te perché tu mi hai fatto visualizzare la mia follia. Con te io entro in rapporto con me. Tu mi hai fatto vedere quello che a me è ignoto, ciò da cui mi sono difeso per tutta la vita. Per inciso, non dobbiamo confondere l’autoerotismo con la conoscenza di sé. L’autoerotismo è la traduzione materialistico-sessuale del concetto di persona come per se unum. Perché se è vero che la conoscenza di me, me la dà l’altro, allora dell’altro ho bisogno. Una relazione sessuale con un altro è molto più problematica che una relazione sessuale con me stesso, perché l’altro mi mette in gioco, mentre io non mi metto mai in gioco.

Noi nasciamo folli e poi, quando subentra l’io razionale, organizzato, l’io fa fatica a tenere a bada tutti i demoni che abbiamo dentro; l’io perciò è necessariamente sempre conservatore e si modifica con difficoltà; inoltre, più si diventa vecchi e più l’io diventa rigido. Il nostro io è la nostra parte “fascista”, mentre l’erotica è sostanzialmente rivoluzionaria. Deleuze ha scritto cose bellissime quando ha parlato del desiderio come potenzialmente rivoluzionario. Naturalmente in queste condizioni sono possibili tutti gli scenari: sono possibili le pene d’amore più angoscianti, le malattie come catastrofi di amori perduti, è possibile anche il suicidio, perché la ragione non funziona più in questi contesti. E quando noi parliamo di passione, vogliamo dire che l’io è “passivo”: io non sono più padrone di me, ma l’altro è padrone di me. La passione implica che io subisco l’altro e non governo l’altro: tradotto in termini psicologici, ciò significa che la follia mi possiede.

Oggi abbiamo modificato il concetto di libertà nei termini di revocabilità delle nostre scelte, quindi non sorge nessuna continuità biografica e si finisce per concedersi tempo amoroso come momento passionale in cui eravamo posseduti, in cui soffrivamo ma eravamo anche entusiasti. Una volta che finisce tutto questo, non ci si ama più. Ma perché finisce tutto questo? Perché non siamo “artisti”. Per essere “artista”, in tal senso, io ho una concezione dell’altro come veramente altro da me, non “mio”. È questo aggettivo possessivo che estingue l’amore. Tu sei interessante finché sei altro da me. Finché io non esaurisco la comprensione di te. È proprio il cambiamento che rafforza una relazione, e non il contrario. Invece a volte accade che dopo il cambiamento ti ripudio, o persino ti ammazzo. È anche necessario che i due mantengano reciprocamente dei segreti, cioè la segretezza della qualità della loro psiche non deve essere mai esaurita nella relazione d’amore. Naturalmente bisogna essere “artisti”; se invece – come diceva bene Platone nel Simposio – si è banausoi, gente banale, non nasce niente d’interessante. L’amore è in ogni caso necessario per vivere, è una carica psichica enorme. Con esso la psiche si potenzia e le storie d’amore, anche quando finiscono male, vanno bene lo stesso: l’amore genera, non solo figli, ma un io diverso.

Tornando al Simposio, prima di Socrate interviene Aristofane, che racconta una storia stupenda: racconta che gli uomini non erano come noi li vediamo ma erano l’uno e l’altro contemporaneamente, cioè i loro corpi erano fusi. Maschio con femmina, femmina con femmina, maschio con maschio. I Greci non avevano i problemi di genere intorno a cui ci accaniamo noi oggi, e ciò non meraviglia, perché, lo ribadisco, erano il popolo più grande mai apparso sulla terra! Gli uomini erano dunque composti da due corpi agganciati: erano peripheroi, cioè “rotondi”, amphoteroi, che vuol dire “l’uno e l’altro”, e si muovevano con quattro braccia e quattro gambe. Un bel giorno, Zeus, che aveva paura di questi esseri, li divise in due, come le sogliole, e ciascun uomo divenne il “simbolo” di un uomo. La parola “simbolo” va sottratta sia ai semiologi sia agli psicoanalisti. “Simbolo” non vuol dire che una cosa sta per un’altra (per esempio il tricolore non è il simbolo, ma il segno dell’Italia). Simbolo [συμβολον] in greco vuol dire “mettere assieme”: i Greci chiamavano “simbolo” il coccio di una scodella rotta. Quando due amici si separavano prendevano un piatto, lo spezzavano in due, e ciascuno ne portava via una metà: questa metà si chiamava “simbolo” nel senso che essa non aveva più il suo significato (in un mezzo piatto non ci puoi mangiar dentro) ma acquistava significato se si congiungeva con l’altra metà. Quando i due amici, o i loro figli, si ritrovavano, allora si ricostituiva l’unità originaria, la memoria di un’antica amicizia. Ecco allora che ciascun uomo è diventato, dopo la divisione, il “simbolo” dell’uomo, la metà che cerca la metà. Ma l’uomo vero è due, è l’uno e l’altro. Ancora una volta i Greci insistono sul concetto di relazione, non sull’individuo che instaura relazioni. C’è un abisso tra la cultura latina e quella greca, e guai a tutti coloro che interpretano Platone come un’anticipazione del cristianesimo, perché i casi sono due: o non ha capito nulla dei Greci o non ha capito nulla del cristianesimo. Il greco vive la relazione: l’uomo è due, l’uno e l’altro, mentre noi lo concepiamo come l’uno che instaura relazioni con l’altro.

Agli uomini divisi in due – continua Aristofane – vennero fuori tutte le viscere, e allora Zeus si impietosì di questi esseri tagliati in due e mandò Apollo a ricostituire un po’ di bellezza, raccogliendo la pelle sul ventre: l’ombelico è proprio il segno di questa ricucitura. Perciò una parte non è se stessa finché non trova la sua parte corrispondente, e quindi la sua condizione è di mancanza (torniamo al concetto di amore, di desiderio come mancanza), di completezza non raggiunta che fa vivere la mancanza, fino a quando due si incontrano e ricompongono l’unità.

 

L’amore fisico non è altro che l’uomo di Aristofane, l’uomo intero, l’uno e l’altro, la fusione dei loro corpi che supplisce all’insufficienza del linguaggio, è memoria dell’antica unità, tentativo di ricomporla e nel contempo anche sconfitta, perché una volta finito il gesto d’amore, si ritorna nella solitudine dei propri corpi, e ciò fa parte della dimensione tragica della cultura greca, che poi il cristianesimo ha soppresso attraverso la speranza in un’altra vita più bella di questa.

Il greco ti dice che in un attimo tu ricostruisci l’unità originaria, e poi però viene la sconfitta, perché l’uomo è mortale, perché nulla dura in lui, perché il senso del limite è costitutivo dell’umano.

 

 

1 Cfr. PLATONE, Alcibiade primo, 132c-133b.

2 Cfr. S. FREUD, Contributi a una discussione sul suicidio (1910), in Opere, vol. VI, Boringhieri, Torino 1974.

3 Il termine greco ἐνϑουσιασμός ricorre per la prima volta in PLATONE, Timeo, 71e; Fedro, 249e.

4 Cfr. s. FREUD, Una difficoltà della psicoanalisi (1917), in Opere, vol. VIII, Boringhieri, Torino 1976, pp. 663-664.