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Chi governa l’economia globalizzata?
Un tempo si diceva: il re è nudo. Oggi non è che il re sia nudo, è che non c’è: il comandante è Nessuno. Nessuno è il grande timoniere e la tempesta non cala.
ROMANO MADERA, L’animale visionario (1999).
Spero che questa semplicità non sia semplicismo, ma soprattutto spero in una risposta da dare a mio figlio di diciassette anni, il quale mi ha posto questi interrogativi.
Seimila persone al giorno muoiono per mancanza di acqua pulita, 2 miliardi di uomini non hanno la luce, 2,5 miliardi di uomini non hanno fogne, 1 miliardo di fratelli non ha acqua pulita, 800 milioni (di cui 166 hanno meno di 5 anni) sono denutriti e occorrerebbero 24 miliardi di dollari all’anno fino al 2015 per cambiare la situazione, quando per spese militari nell’anno in corso si spenderanno 946 miliardi di dollari, 11 milioni di bambini muoiono ogni anno per acqua sporca, denutrizione e malattie già debellate, 120 milioni di piccoli uomini non sanno cosa sia la scuola.
Davanti a situazioni di questo tipo, nella ricerca e nel percorso sul senso della vita che ognuno fa, bisogna dare per incontrovertibili queste cose, oppure no?
Simone Riccò, Modena
Se non disturba, al suo elenco qualche numero tratto da L’animale visionario di Romano Madera lo aggiungo anch’io. Il Programma delle Nazioni Unite per lo sviluppo (Pnud) riferisce che il 18 per cento della popolazione mondiale, più o meno 800 milioni di persone, dispone dell’83 per cento del reddito mondiale, mentre l’82 per cento della popolazione mondiale, più o meno 5 miliardi di persone, si spartisce il restante 17 per cento.
Quanto all’uso, all’abuso e alla distruzione delle risorse della terra, i Paesi più ricchi consumano il 70 per cento di energia, il 75 per cento del metallo e l’85 per cento del legno. “L’estrema povertà,” riferisce il rapporto Pnud, “potrebbe essere sradicata con una spesa di 80 miliardi di dollari l’anno, cioè meno del patrimonio netto accumulato dalle sette persone più ricche del mondo.” E, in effetti, le dieci persone più facoltose del mondo possiedono patrimoni per 133 miliardi di dollari, che equivalgono a una volta e mezzo il reddito nazionale dei 48 Paesi meno fortunati.
Prosegue Madera: “Che non tutto, in questo bollettino di disfatta del capitalismo storico, a qualche secolo dai suoi inizi, sia addebitabile ai maledetti comunisti e alla loro funzione di freno delle magnifiche sorti progressiste, lo dice anche qualche cifra che riguarda il cortile di casa degli Usa, dove, come è noto, non ci sono comunisti”. Ebbene, riferisce il Pnud, negli Stati Uniti l’1 per cento della popolazione possiede il 40 per cento della ricchezza, il 20 per cento un altro 40 per cento, e il 79 per cento il restante 20 per cento. Secondo i dati del ministero del Lavoro dal 1979 al 1983 il solito quinto più povero ha perso il 17 per cento del reddito che aveva, mentre il quinto più ricco l’ha aumentato del 18 per cento.
È evidente che in una condizione del genere la democrazia non può andare oltre le scelte degli esecutori tecnicamente più capaci nell’applicare i comandi del capitale finanziario che si muove a livello transnazionale, per cui Marx, quando diceva che i governi erano comitati d’affari della grande borghesia, aveva torto, ma solo per difetto. Quello che allora era un cattivo costume, oggi è un sistema, anzi, è il sistema. Per cui se nel mondo antico i debitori insolventi finivano schiavi, nel mondo del capitalismo globale interi Stati vengono costretti a lavorare per conto delle grandi finanziarie e delle grandi imprese.
“Dopo aver vinto la guerra dei settant’anni contro il comunismo,” continua Madera, “il capitalismo comincia così a mostrare il suo vero volto, che non è proprio quello del progresso che aveva scritto sulle sue bandiere.” Infatti, se questi dati e queste considerazioni hanno un loro senso e una loro plausibilità, non sembra remoto “lo spettro di un’ingloriosa soluzione finale dell’esperimento umano”, sia per quanti non hanno di che vivere, sia per i ben pasciuti a cui non si riconosce altra dignità se non quella di funzionari a diversi livelli del capitale.
“I cataclismi umani che il Novecento ha metabolizzato nelle guerre mondiali fra le potenze, e nelle guerre coloniali contro le potenze, all’inizio del nuovo millennio ancora ribollono nelle falde sommerse di una terra regolata dai soli criteri dell’accumulazione infinita e della competizione sfrenata, il cui limite è solo artificio e tregua di guerra, nella più totale assenza di rispetto per uomini e natura.” Essendo il capitalismo diventato globale, e avendo occupato tutti i luoghi della terra, a contrastarlo, secondo Romano Madera, non resta che utopia, ossia quel non-luogo dove si sono rifugiati o sono stati confinati, spinti sia da destra sia da sinistra, personaggi, progetti, idee, proposte, finiti nell’unico posto al mondo che accetta tutti i detriti della storia.
Da questo non-luogo non possono nascere, oggi, organizzazioni di contrasto, strategie di riscatto o rivoluzioni liberatorie, ma solo una chiamata che viene dal futuro, dalle sorti future della terra e dell’uomo, simile alla chiamata che un giorno mosse Abramo a lasciare la sua casa, la sua terra, il suo popolo, per diventare il padre di una popolazione utopica, all’epoca senza luogo, come senza luogo è già il nostro abitare sulla terra. Infatti l’unica civiltà che si va diffondendo, a scapito di tutte le altre possibili espressioni tradizionali e non, è la civiltà del profitto, che oggi appare come l’unico generatore simbolico dell’ordine che deve regnare sulla terra e della partizione dei ruoli che gli uomini, sia quelli affamati sia quelli sazi, devono rigorosamente assumere per avere diritto di cittadinanza.
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La rivoluzione impossibile
Il risultato delle nostre scoperte e del nostro progresso sembra essere che le forze materiali vengono dotate di vita spirituale e l’esistenza umana avvilita a forza materiale.
KARL MARX, Die Revolution von 1848 und das Proletariat (1866).
Berlusconi da Vespa ha parlato di un aneddoto di Ronald Reagan che diceva che chi ha letto Marx è diventato comunista, e chi lo ha capito capitalista. Lui, come Reagan, dice di averlo capito.
Mi chiedo, partendo da alcune considerazioni: la prima, i due libri usciti in questi ultimi tempi su Marx – quello di Carandini Un altro Marx e quello di Plebe Il quinto libro del Capitale – che tentano di illuminarci sul filosofo di Treviri. Comunque non credo che Berlusconi li abbia letti.
Io per esempio ho letto Il capitale, ho studiato Marx in filosofia della politica prima e in storia delle dottrine politiche dopo, ma non sono convinto di averlo capito. Certo non l’ha capito neanche chi in suo nome ha tiranneggiato (Stalin, Mao e compagnia). Ma di sicuro non credo che gli unici ad averlo capito siano stati il Cavaliere e Reagan!
Mi chiedo pure se molte previsioni di Marx, oggi, non si siano realizzate. Saranno criticabili alcune sue idee, ma sociologicamente, antropologicamente, filosoficamente non mi sembra così tutto sbagliato. Non dimenticando che molte cose dette da Marx, e considerate criminali da alcuni, sono state pronunciate pure da Platone, Gesù (il Discorso della montagna), Paolo di Tarso, Tommaso Moro, Tommaso Campanella, e tanti altri. Davvero in Marx era tutto negativo?
Daniele Palermo, Sciacca Marx appartiene alla tradizione giudaico-cristiana che ha del tempo una concezione escatologica dove alla fine (éschaton) si realizza quello che all’inizio era stato annunciato. La triade religiosa – colpa, redenzione, salvezza – ritrova la sua formulazione nell’omologa prospettiva dove il passato appare come male, la rivoluzione (al pari della redenzione) come riscatto, il futuro come progresso, che è poi la forma laicizzata della redenzione.
Come la redenzione, anche la rivoluzione prevede il rovesciamento del dominio del male in quello del bene, da questo tempo a un altro tempo. Al pari del popolo d’Israele, la classe operaia, scrive Marx, “ha fame e sete di giustizia”. E, come Isaia, attende “nuovi cieli e nuove terre”, così la rivoluzione attende un futuro di giustizia. Forse per questo, come con le religioni, anche con le rivoluzioni si sono istituiti nuovi calendari per una nuova misurazione del tempo.
Se ora vogliamo toccare alcuni punti nodali del Capitale vediamo che Marx individua l’alienazione della condizione umana nel fatto che, al rapporto organico dell’uomo con la natura, il capitalismo ha sostituito il rapporto organico dell’uomo con il mercato. Ciò ha determinato una sorta di capovolgimento dei mezzi in fini, per cui non più il “bisogno” come fine dell’attività lavorativa, ma il “prodotto” e il suo valore di scambio in vista della sempre maggior acquisizione di denaro, da mezzo per produrre beni e soddisfare bisogni, diventa il fine in vista del quale si producono beni e, solo se la cosa concorre a questo scopo, si soddisfano bisogni.
Il risultato più evidente di questo capovolgimento è la reificazione dell’uomo dovuta al fatto che la cosa (res) vale in se stessa e non in quanto mezzo per la soddisfazione di un bisogno umano. In questo modo la logica del mercato dischiude quello scenario che prevede il dominio della cosa sull’uomo, del prodotto sul produttore, perché, in un processo di totale reificazione, è la cosa a definire l’uomo, che così risulta oggettivato e definito dal genere della sua attività, la quale, a sua volta, non è più ricambio organico con la natura, ma pura produzione di merci, che non solo conducono vita autonoma rispetto ai bisogni umani, ma definiscono, attraverso la loro circolazione, il senso dell’attività umana e il valore delle cose.
E non si dica che, rispetto al tempo di Marx, le cose sono cambiate, se è vero, come tutti possiamo constatare, che, a livello di circolazione mondiale, le merci conoscono una libertà di movimento ancora sconosciuta a miliardi di uomini. In questo processo di totale mercificazione del lavoro, la specializzazione accelerata imposta dal mercato porta alla frammentazione dei processi lavorativi, alla loro parcellizzazione e quindi al loro inserimento nel sistema di divisione del lavoro, con un obnubilamento delle finalità ultime della produzione e l’esonero di responsabilità dei singoli lavoratori, a cui non può che risultare del tutto indifferente prestare la loro opera in una fabbrica di armi o in una produzione di generi alimentari. Le diverse finalità del loro lavoro non hanno più alcuna rilevanza.
La rivoluzione, possibile ai tempi di Marx, oggi non è più possibile, perché, se è vero come ci insegna Hegel che la rivoluzione è il conflitto tra due “volontà”, quella del servo e quella del signore, oggi sia il servo sia il signore si trovano non più su fronti contrapposti, ma dalla stessa parte contro l’ineluttabilità di quella forma astratta, anonima e regolatrice di tutti gli scambi che si chiama mercato. Un Nessuno che regola la vita di tutti, anche se Omero ci ha avvertito che “Nessuno” è pur sempre il nome di “qualcuno”. Ma questo qualcuno non è di immediata evidenza.
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Il nichilismo sotteso alla cultura del consumo
L’umanità che tratta il mondo come un mondo da buttar via tratta anche se stessa come un’umanità da buttar via.
GÜNTHER ANDERS, L’uomo è antiquato (1956).
Mi decido a scriverle dopo aver letto la sua rubrica “Nel regno del profitto”. Di tanto in tanto alcuni scritti colpiscono alcuni neuroni in maniera tanto fisica che le frasi ritornano e non ne vogliono sapere di passare. Del suo articolo, della lettera firmata del masterizzando in Comunicazione, del brano di Marx, mi ha colpito innanzitutto il fatto che, leggendolo, avrei potuto sottoscrivere tutto, per personale elaborazione frutto dell’esperienza.
Ho quarantaquattro anni e la storia vissuta in quello che lei chiama “il sistema” è stata da delirio puro. Un incubo in cui il denaro, il capitale, stabilisce criteri assoluti e detta norme di comportamento e di pensiero totalizzanti, non dissimili, nel concreto, da ideologie da “adunate oceaniche” anche se molto più subdole perché ammantate da apparenti desideri autogeni. In pratica nessuno impone che si debba possedere, che so, un Porsche Cayenne, ma se non ce l’hai (o non cerchi di ottenerlo con tutto te stesso), non sei. Proprio come diceva lei, non si ha diritto di cittadinanza. E quel cercare di ottenerlo con tutto te stesso implica non solo la propria intelligenza e il proprio lavoro, ma anche e soprattutto i propri valori, la propria essenza, e quindi la propria anima e si arriva al proprio corpo, esterno e interno. Per non parlare del sistema della finzione e della menzogna, ormai arrivato a un grado sofisticatissimo e sostanzialmente inestricabile, in cui non il vero ma l’appena verosimile sembra, ai componenti del sistema, frutto della paranoia più profonda.
Ma anche se tutto ciò è per me ancora fonte di sgomento, probabilmente non le dice niente di nuovo. Ciò che penso costantemente è: cosa fare? E l’unica risposta che mi do è che, in un sistema che ti ruba l’anima ma ti fa mangiare (male) e ti dà fresco d’estate e caldo d’inverno, la vera rivoluzione non è fatta di piazze e discorsi, non è fatta di black bloc o no global (si ricadrebbe nel sistema contro sistema, per vedere l’ennesimo Lenin che con belle parole riperpetua tutto) ma di pensiero, filosofia, arte, cultura, anima, spiritualità e tanta tanta fame.
Anzi, occorrerebbe forse partire dalla fame, quella vera, per riavere la libertà vera, quella di poter pensare, vedere, leggere e scrivere di tutto. Spegnere le tv, abbandonare i supermercati, andare a piedi o in bicicletta significherebbe, oggi, morire di fame e/o fare il barbone. E (incredibile!) mi capita di leggere: “I mercanti della terra piangeranno per lei (Babilonia) perché nessuno compra più le loro merci: oro, argento, perle, buoi, pecore, cavalli, carri e persino i corpi e le anime di uomini (Apocalisse, 18, 11)”. L’Apocalisse di Giovanni non è lettura allegra, ma tutto sommato di analogo argomento. E tutto ciò, confesso, mi fa pensare a san Francesco.
Antonio Massara, Palermo
Questa nostra società, che tutti definiscono complessa, a me pare molto semplice, anzi semplificata, perché ha nel denaro l’unico generatore simbolico di tutti i valori.
Che cos’è bello, cos’è santo, cos’è giusto, cos’è vero sono infatti tutti valori subordinati a cos’è utile, cos’è vantaggioso, dove la misura è il denaro, che, da “mezzo” per produrre beni e soddisfare bisogni, è diventato il “fine”, in vista del quale si producono beni e, se la cosa concorre a questo scopo, si soddisfano bisogni. È noto infatti che produzione e consumo sono due aspetti di un medesimo processo, dove decisivo è il carattere circolare del processo, nel senso che non solo si producono merci per soddisfare bisogni, ma si producono anche bisogni per garantire la continuità della produzione delle merci che assicurano denaro.
All’inizio e alla fine di queste catene di produzione (di merci e di bisogni in vista del denaro) si trovano gli esseri umani, visualizzati solo come produttori e come consumatori, con l’avvertenza che il consumo non deve essere più considerato, come avveniva per le generazioni precedenti, esclusivamente come soddisfazione di un bisogno, ma anche, e oggi soprattutto, come mezzo di produzione. Là infatti dove la produzione non tollera interruzioni, le merci “hanno bisogno” di essere consumate, e se il bisogno non è spontaneo, se di queste merci non si sente il bisogno, occorrerà che questo bisogno sia “prodotto”.
A ciò provvede la pubblicità, che ha il compito di pareggiare il nostro bisogno di merci con il bisogno delle merci di essere consumate. I suoi inviti sono esplicite richieste a rinunciare agli oggetti che già possediamo, e che magari ancora svolgono un buon servizio, perché altri nel frattempo ne sono sopraggiunti, altri che “non si può non avere”. In una società opulenta come la nostra, dove l’identità di ciascuno è sempre più consegnata agli oggetti che possiede, i quali non solo sono sostituibili, ma “devono” essere sostituiti, ogni pubblicità è un appello alla distruzione.
Si conferma così il tratto nichilista della nostra cultura economica, che eleva il non-essere di tutte le cose a condizione della sua esistenza. Il loro non permanere a condizione del suo avanzare e progredire. E come allora non dar ragione a Günther Anders, che ipotizza la nientificazione delle cose come primo passo verso la nientificazione dell’umanità, naturalmente quella esclusa dalla circolazione del denaro, quella non produttiva, quella che non consuma?
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L’inflazione secondo Kant
La percezione non è una generica sensazione, ma è rigidamente ancorata alle nostre strutture mentali, che il calcolo matematico o il rilievo statistico non sono in grado di modificare. Per potersene rendere conto sarebbe opportuno che gli operatori statistici leggessero la Critica della ragion pura di Kant e la Fenomenologia della percezione di Merleau-Ponty.
U.G.
Ho letto con sorpresa la sua risposta in merito al problema dell’inflazione. Si tratta di un approccio inedito. Ed è probabilmente la scarsa familiarità con la statistica a farle formulare frasi come “quelli che distinguono tra inflazione percepita e inflazione reale sono affetti da negazione che se inconscia si chiama pazzia, se invece conscia si chiama malafede”.
L’inflazione misura la variazione dei prezzi di un paniere di beni e servizi rappresentativo dei consumi annuali di tutte le famiglie italiane. È dunque il risultato di un rigoroso procedimento che quantifica un fenomeno e non la percezione che di questo hanno le persone. Per arrivare alle percentuali tanto contestate, l’Istat rileva ogni mese oltre 330mila quotazioni di prezzo in 34mila punti vendita di 85 comuni. Tali quotazioni vengono “pesate” con i consumi medi di un campione di circa 28mila famiglie. Fra l’altro, l’Istat rende disponibili ogni mese informazioni di maggior dettaglio che, in molti casi, confermano l’esperienza della signora che le ha scritto.
Per fare solo qualche esempio, nel corso degli ultimi anni l’Istat ha registrato forti rincari per alcune voci del paniere, con punte superiori al 50 per cento per i prodotti ortofrutticoli e variazioni intorno al 15 per cento per i carburanti. L’informazione statistica, dunque, se interpretata correttamente, non è in contraddizione con la nostra esperienza quotidiana di consumatori.
Infine, vorrei ricordare che il modo degli statistici per essere onesti e in buona fede è quello di attenersi a regole e procedure rigorose concordate a livello internazionale e non di adattare le regole alle (rispettabili e rispettate) percezioni dei cittadini. Posso assicurarle che a questa deontologia l’Istat si attiene ogni giorno.
Roberto Monducci (Direttore centrale Prezzi e commercio con l’estero dell’Istat)
Non dubito che l’Istat faccia calcoli corretti a partire dai parametri assunti. Il problema è sapere se detti parametri riflettono i consumi più diffusi e non invece consumi marginali. Le polemiche che ciclicamente si sollevano intorno alla formazione del paniere inducono questi sospetti. Basta infatti tenere bassi i prezzi dei beni compresi nel paniere e aumentare tutto il resto che l’Istat può tranquillamente segnalare un’inflazione al 2 per cento, quando invece è molto di più. All’interno degli indicatori assunti dall’Istat tutto è corretto, ma nella realtà forse non lo è.
Se la sua lettera fosse accompagnata dall’elenco dei beni assunti dall’Istat come indicatori, forse questo diffuso sospetto troverebbe conferma. Se poi lei ci informa che gli ortofrutticoli sono aumentati del 50 per cento, per tener ferma l’inflazione al 2 per cento dovremmo constatare che pasta, carne, pesce, abbigliamento, abitazioni, servizi sono diminuiti in maniera proporzionale, mentre così non è. Lo stesso dicasi per quel 15 per cento di aumento dei carburanti, che inevitabilmente non può che scaricarsi su tutte le merci, a meno di non credere che questo aumento se lo siano accollato gli autotrasportatori per il bene della comunità.
Ancora, lei sospetta una mia scarsa familiarità con la statistica. Probabilmente è così. Ma io sospetto gli operatori statistici di una scarsa familiarità con l’antropologia. Mi riferisco al fatto che per la mente umana è quasi impossibile modificare la successione e il significato dei numeri; per cui 1 è 1 e non è 2 o 0,50. L’equivalenza matematica per cui 1 (euro) è 2 (mila lire) è un calcolo astratto non un vissuto mentale. Ne consegue che se 10 (mila lire) era il valore di una pizza, 10 (euro) continuerà a essere il valore per chi la vende, ma diventa 20 (mila lire) per chi la compra.
La difficoltà della nostra mente di modificare la successione e il significato dei numeri, primo principio dell’ordine e dell’organizzazione mentale, gioca a favore di chi vende le merci, non di chi le acquista. Il vissuto percettivo, infatti, non lavora solo al livello di generica sensazione che i prezzi siano aumentati, ma anche al livello di precisa sensazione, per chi vende, che non si guadagna abbastanza se quello che prima costava 10 (mila lire) oggi non può che costare 5 (euro).
L’unità di misura, primo cardine dell’organizzazione mentale, non è facilmente modificabile ed elaborabile dalla nostra mente con un calcolo astratto a cui manca un riscontro vissuto, per cui le 40 (mila lire) di una cena al ristorante non ce la fanno a diventare 20 (euro), perché le divisioni matematiche hanno scarsa efficacia sui vissuti mentali.
Il risultato è che il vissuto mentale, ancorato alla successione numerica e al suo significato dai tempi dell’origine dell’uomo, manda in frantumi il calcolo matematico, con un vantaggio “reale” e non “percepito” di chi vende rispetto a chi acquista. Questo ci insegna la fenomenologia della percezione quando ci dice che noi non viviamo nel mondo “reale” ma in quello “percepito”. La percezione, infatti, non è una generica sensazione, ma fa preciso riferimento alle nostre strutture mentali, a partire dalle quali costruiamo il mondo per noi reale. Questo insegnava Kant quando diceva che il “mondo reale” è cosa in sé inaccessibile, perché accessibile è solo il “mondo per noi”.
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La ragione calcolante
L’impresa, con la sua ritirata dal sociale, ha favorito una ipersemplificazione degli strumenti concettuali, che non sono più in grado di interpretare le nuove complessità, rendendo povere le competenze delle imprese proprio su quei conflitti che ora sono diventati critici.
PIER LUIGI CELLI, L’illusione manageriale (1997).
Il Festival dell’Economia di Trento, quest’anno centrato sulla diade “capitale umano-capitale sociale” si è concluso con le considerazioni di Gary Becker che rimanda il successo alla “capacità di una nazione di utilizzare la sua gente”, definendo il “capitale sociale” come “un bene che ha a che fare con le competenze dell’uomo, la sua istruzione, la sua salute”. Si tratta di “capitale” – in accezione non solo metaforica – poiché “è parte integrante di ciascuno di noi, un qualcosa che dura, come dura un macchinario, un impianto o una fabbrica”. “Le macchine sono importanti,” chiarisce Becker, “ ma la crescita è impossibile in assenza di una solida base di capitale umano.” Non occorre a questo punto uno slancio eccessivo della memoria per ricordare Heidegger, che ne L’oltrepassamento della metafisica ammonisce come l’uomo sia divenuto, entro l’orizzonte tecnologico, “la materia prima più importante”, nulla più di questo. Una pertinenza del capitale che, in qualità di simulacro dell’Apparato tecnico assurto a Soggetto, riduce infine l’uomo a suo mero predicato. Ma si tratta oggi, mi pare, di una riduzione dissimulata, ovvero giocata sulla falsa sublimazione dell’elemento umano, perché se il capitale “è parte integrante di ciascuno di noi”, ciò non significa forse un appiattimento dell’individuo su quelle competenze che l’Apparato esige in vista del proprio accrescimento? Un accrescimento privo di scopi e referenti che siano diversi dall’Apparato stesso?
Gli scenari di Becker e Tito Boeri (responsabile scientifico del Festival) collimano: il “capitale umano” identificato nel “bagaglio di conoscenze personali” è ciò che aumenta le probabilità di sopravvivenza dell’individuo entro i meccanismi procedurali del sistema della tecnica, rendendo ciascuno più produttivo e meno rimpiazzabile.
Eppure, la volontà dichiarata di collocare in primo piano l’uomo, i suoi sogni di prosperità e di felicità, si stempera, credo, nel quadro via via più obiettivo dei primati che la tecnica sa conseguire. Perciò mi domando: se l’individuo è “funzionalmente” determinato, se il capitale, lungi dall’essere un mezzo di asservimento, diviene misura stessa della persona, delle sue qualità quantificabili, non è per ciò evidente il feticismo di un “capitale” che si fa “umano”, con l’accurata cordialità dell’imbonitore? Perché se il capitale sono io, se io stesso esprimo la razionalità sistematica del calcolo in cui si fonda l’Apparato, allora nemmeno la luce della critica ha più ragion d’essere. Il pensiero può procedere tranquillo sulla logica binaria del “funzionale” o “disfunzionale” – del “sì” o del “no” – senza intermediazioni né diversivi. Se l’uomo si “capitalizza”, cosa resta?
Luca Delvecchio, Rimini
Già il fatto che si parli dell’uomo come di un “capitale” o vi si faccia riferimento come a una “risorsa” (le cosiddette “risorse umane”) la dice lunga in ordine al punto di vista che oggi si assume nel considerare l’uomo. Tramontato il principio che regolava l’etica kantiana secondo cui “l’uomo va trattato sempre come un fine e mai come un mezzo”, oggi vediamo che non solo l’immigrato, ma ciascuno di noi ha diritto di cittadinanza non in quanto esiste, non in quanto è un uomo, ma solo in quanto “mezzo” di produzione e di profitto.
A ciò si aggiunga il fatto che per l’economia, e a maggior ragione per la tecnica e per la razionalità che le governa, modello di efficienza e di funzionalità è la “macchina”, che non soffre di quegli “inconvenienti umani” che sono lo stato di salute, la variazione degli umori, i ritmi di efficienza, i livelli di precisione, che fanno sentire l’uomo inadeguato rispetto alle macchine che impiega, anche perché dette macchine, dal computer al cellulare, giusto per fare degli esempi, incorporano una quantità tale di cultura oggettivata da far apparire la cultura soggettiva di chi le impiega in tutto il suo limite e la sua inadeguatezza.
Eppure, anche se nel complesso macchinale l’uomo percepisce se stesso come il congegno più asincronizzato, può davvero la ragione strumentale che governa sia la tecnica sia l’economia e che utilizza solo il pensiero calcolante regolato da criteri di efficienza, produttività, obiettivi a breve e medio termine, essere all’altezza della globalizzazione del mercato che, per essere compresa, richiede competenze antropologiche per entrare in relazione con altre culture e visioni del mondo di cui il pensiero calcolante è del tutto sprovvisto?
Se il tipo di pensiero è limitato al calcolo tipico della ragione strumentale, forse le imprese che si regolano esclusivamente su questo tipo di pensiero si precludono la capacità di anticipare e governare i cambiamenti, con il risultato che avranno sì una storia, ma non un futuro, per aver trascurato quello che loro chiamano il “capitale umano” che ha ritmi di accumulazione radicalmente diversi dal capitale finanziario. Se quest’ultimo infatti si misura sui tempi brevi del rendiconto trimestrale e della quotazione in Borsa, il cosiddetto “capitale umano” esige un respiro più lungo e una forza che si conquista per maturazione e arricchimenti successivi dei quali il pensiero calcolante non ha la più pallida idea.
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Il pensiero infelice
Ciò che oggi domina è il pensiero come calcolo che giunge persino a mettere l’uomo nel proprio conto.
MARTIN HEIDEGGER, Il principio di ragione (1957).
Un pomeriggio d’estate la mia mente decide di volare libera nel flusso dei pensieri. L’ha deciso lei. Mi lascio portare.
Con una progressiva benefica sensazione, come di “risveglio della coscienza”, comincia a configurarsi un’idea. Immagino. I mercatini dei bambini, nella festa di paese: giocano il loro mondo spensierato. Dentro il mondo degli adulti. Però, a guardare meglio, il primo pare proprio la riproduzione in miniatura del secondo. Mi stonano le parole “spensierato” e “mercato” associate qui. Che c’entrano i bambini con le logiche del “dio Denaro”? Nel loro spazio di gioco, nelle loro relazioni bambino-bambino, non dovrebbero insinuarsi le dinamiche del mercato! Forse è un po’ troppo presto per il loro “addomesticamento” a questa realtà. Perché i bambini imparano già a scambiare oggetti con altri oggetti attraverso la mediazione del denaro?
Illuminazione. Perché invece non scambiare fantasie! Passarsi tra le mani sogni, desideri, impressioni, illusioni, fantasticherie, utopie, idee, pensieri. Mettersi lì, un banchetto in mezzo al parco, alla piazza, a commerciare pensieri. La gente che si ferma potrebbe acquistare tutti i pensieri che altri hanno scambiato in precedenza. Acquistarli nel senso di acquisirli, farli propri, dentro di sé. E venderli a loro volta, esprimerli, per metterli a disposizione dello scambio futuro. Pensieri.
Pensieri felici, come diceva il buon Peter Pan. “Per volare devi aggrapparti al tuo Pensiero Felice.” E se puoi volare, allora prima o poi riuscirai a raggiungere la famosa Isola che non c’è. Il segreto è che tutti possiamo volare perché tutti sappiamo volare. Solo, ce lo siamo dimenticati. O abbiamo smesso di crederci. Se tutti ci mettessimo in volo, si riuscirebbe a pensare un altro mondo. Quello che immaginiamo, esattamente come ce lo immaginiamo. Spesso mi capita di chiedermi dove stia scritto che il mondo debba andare così. Forse, se cominciassimo a mangiare idee, potremmo davvero farla la nostra rivoluzione. Lei non crede?
Con grandissima stima e affetto, Chiara M., Ferrara
Alla notte, tempo dei sogni, segue il giorno, tempo della realtà. E la realtà decide che il primo pensiero che l’uomo ha formulato riguardava il come sopravvivere. Prendendo per esempio gli animali, che erano i suoi progenitori, l’uomo cominciò a uccidere per mangiare. Poi, sazio, prese a pensare come fosse possibile mangiare senza lavorare. Decise allora che si potevano uccidere i propri simili per impossessarsi delle loro terre e ridurli in schiavitù. Infine, raggiunto anche questo obiettivo, l’uomo prese a pensare come garantirsi dalla fame futura. Andò quindi a cercare risorse ora con le guerre ora con il mercato che, come ci ricorda Max Weber, “è il controllo razionale degli impulsi irrazionali”. Disciplinando l’impulso al guadagno e depurandolo degli aspetti violenti, il mercato traduce la ragione occidentale in “ragione economica”, nascondendo la violenza sotto le buone maniere della razionalità, per cui con ragione Nietzsche ci ricorda che: “Gli uomini fanno con coltello e forchetta quel che gli animali fanno col morso dei denti”.
Del resto la parola “ragione” viene da ratio, che era quanto si doveva corrispondere quando si acquisiva un bene: redde rationem. Lei si chiede se bisogna abituare i bambini a questo tipo di “ragionevolezza”. Penso di sì, perché l’alternativa è la violenza fisica di chi si appropria di una cosa senza rendere l’equivalente, comportamento a cui i bambini sono particolarmente portati.
Il problema è un altro. Dobbiamo limitare le possibilità del pensiero alla ragione calcolante, alla ragione capace solo di far di conto? Evidentemente no, anche se la nostra società non dà molto credito, anzi emargina chi non entra nel regime della ragione che fa di conto, per cui anche l’artista diventa artista quando entra nel mercato, anche lo scrittore può scrivere quel che pensa solo se il mercato lo accredita.
E allora il male non è che i bambini imparino ad “andare al mercato”, ma che dal mercato non sappiano più uscire e non sappiano più vedere le cose del mondo, sia quelle naturali sia quelle create dall’uomo, se queste non assumono il volto di una merce.
Questo è il “pensiero infelice” di cui la nostra cultura soffre, finendo imprigionata in quella che, sempre Weber, nel 1904 chiamava “la gabbia d’acciaio che oggi determina con strapotente costrizione, e forse continuerà a determinare finché non sarà consumato l’ultimo quintale di carbon fossile, lo stile di vita di ogni individuo”.
Se non è carbon fossile sarà petrolio, ma cento anni dopo l’avvertimento di Weber la musica non è cambiata. Il nostro stile di vita più non conosce il bello ma solo il funzionale, più non conosce il vero perché si accontenta del verosimile, non sa più riconoscere le orme del sacro perché tutto ha profanato, né le tracce del dolore che occulta negli scantinati della rimozione. Il nostro stile di vita colloca la gioia nel frastuono, l’amore nel sesso, lo sguardo nella distrazione; il nostro stile di vita soffoca nella ragione fatta calcolo e mercato e scambio e interessi e assicurazioni per conservare quel tesoro che inaridisce: la vita senza più bellezza.