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La follia del sacro
Il dio è giorno e notte, inverno ed estate, guerra e pace, sazietà e fame, e muta come il fuoco quando si mischia ai profumi odorosi, prendendo di volta in volta il loro aroma.
ERACLITO, Frammento B 67.
Il sacro. Tema forte da lei più volte richiamato. Tema cruciale, evidentemente, ma sempre più debole e destrutturato, oggi. E il venir meno del senso del sacro sarebbe, a suo avviso, fra le cause di disorientamento e spaesamento di molti giovani (e meno giovani?) d’oggi. Ma cosa intende veramente per sacro? Certo è più facile concepire il sacro come attinente al soprasensibile, all’assoluto, alla sfera religiosa. E il sacro dal punto di vista di chi nega tali realtà? Sono tanti! Alcuni per scelta consapevole, altri (i più) per adesione (più o meno) di comodo. E allora, è possibile concepire il sacro in una visione del mondo laica? È possibile tenere insieme sacralità e relativismo, sacralità e “pensiero debole”, sacralità e storia?
Quando definiamo “sacra” la vita, la natura, “sacri e inviolabili” i diritti umani, dovremmo chiarire in quale accezione intendiamo “sacro”. L’universalità – sempre auspicabile per il diritto alla vita e i diritti umani – può essere un qualcosa che struttura queste istanze come “sacre”? Oppure qui intendiamo “sacro” come “desacralizzato” a valore storicamente acquisito?
Un’ipotesi: la ritualità, che spesso struttura le nostre relazioni, nella forma di feste, ricorrenze, liturgie, consumo condiviso di sostanze, rituali magici, potrebbe essere quella propria dell’esperienza del sacro. Se così è, una “sana” ritualità nella vita di ognuno basterebbe di per sé a riempire quel bisogno di sacro che ci apparterrebbe. E ancora: il silenzio. Quando guardiamo alla vita, alla natura, agli eventi, con meraviglia, rispetto, senza giudizio. Ritualità, silenzio... come esperienze possibili, che avvicinano al sacro. O a un qualcosa di impropriamente definito tale. Quindi da ripensare in termini laici e postmoderni. Perché il sacro, in senso forte e compiuto, presuppone, a mio avviso, una visione religiosa della vita (e della morte). Non può essere – la vita – bella e piena, anche senza l’esperienza del sacro?
Angela Pancello, Bologna
“Sacro” è parola di origine indoeuropea che significa “separato”. La sacralità, quindi, non è una condizione spirituale o morale, ma una qualità che inerisce a ciò che ha relazione e contatto con potenze che l’uomo, non potendo dominare, avverte come superiori a sé, e come tali attribuibili a una dimensione, in seguito denominata “divina”, pensata comunque come “separata” e “altra” rispetto al mondo umano. Perché, come scrive Jung: “Dal sacro l’uomo tende a tenersi lontano, come sempre accade di fronte a ciò che si teme, e al tempo stesso ne è attratto come lo si può essere nei confronti dell’origine da cui un giorno ci si è emancipati”.
Questo rapporto ambivalente è l’essenza di ogni religione che, come vuole la parola, recinge, tenendola in sé raccolta (relegere), l’area del sacro, in modo da garantire a un tempo la separazione e il contatto, che restano comunque regolati da pratiche rituali capaci, da un lato, di evitare l’espansione incontrollata del sacro e, dall’altro, la sua inaccessibilità. “Sembra che tutto ciò sia stato presentito dall’umanità prima di temere o di invocare qualsiasi divinità. Dio, infatti, nella religione è arrivato con molto ritardo” (Jung).
Al contatto con il mondo sacro sono preposte persone consacrate e separate dal resto della comunità (i sacerdoti), spazi separati dagli altri in quanto carichi di potere (sorgenti, alberi, monti e poi templi e chiese), tempi separati dagli altri e nominati “festivi”, che delimitano i periodi “sacri” da quelli “profani” dove, fuori dal tempio (fanum), si svolge la vita di ogni giorno scandita dal lavoro e dai divieti (i tabù) da cui traggono origine le regole e le trasgressioni.
Oltre alla lettura religiosa, del sacro si danno anche diverse interpretazioni antropologiche e psicologiche, perché il sacro non è solo esterno all’uomo, ma anche interno a lui, come suo fondo inconscio, da cui un giorno la coscienza si è emancipata e resa autonoma, senza peraltro sopprimere lo sfondo enigmatico e buio della sua origine. Da questa origine la coscienza ancora dipende sia per la genesi delle sue ideazioni, sia per la minaccia mai scongiurata di esserne di nuovo risucchiata in quella forma che l’odierna patologia, in cui si è risolta l’antica mitologia, chiama “follia”.
A conoscere questa follia non sono la psicologia, la psichiatria o la psicoanalisi, ma la religione che, delimitando e circoscrivendo l’area del sacro, e tenendola a un tempo “separata” dalla comunità degli uomini e “accessibile” attraverso ritualità codificate, ha posto le condizioni perché gli uomini potessero edificare il cosmo della ragione, senza rimuovere l’abisso del sacro, perché è da quel mondo che vengono le parole che poi la ragione ordina in modo non oracolare e non enigmatico.
Se le religioni abdicano a questa loro funzione e lasciano la gestione della notte indifferenziata del sacro alla solitudine dei singoli, questi cercheranno rimedi in farmacia, o nella follia dei gruppi che, privi come sono delle metafore di base dell’umanità che hanno fatto grandi le religioni storiche, producono quelle promesse vuote, ma più spesso tragiche, che sono il nutrimento della religiosità da apocalisse o da New age che viene incontro al nucleo di follia che ciascuno di noi avverte dentro di sé come non interpretabile, non culturalizzabile, non leggibile.
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La notte indifferenziata del sacro
Venuta l’ora sesta, si fece buio su tutta la terra fino all’ora nona. E all’ora nona Gesù esclamò a gran voce: “Mio Dio, mio Dio, perché mi hai abbandonato?”.
Marco, 15, 33-34.
Rischiando di apparire blasfemo e schematico, Wojtyla è stato per me un papa senza Dio, nel senso che egli è stato, più degli altri papi, non solo l’interprete tutto mondano della spettacolarizzazione massmediatica del pontificato, ma soprattutto il custode di una religione non trascendente, bensì intesa come creazione sociale collettiva (diritti, pace, povertà ecc.). Esagero? Mi torna in mente, a tal proposito, il contenuto del pensiero di Émile Durkheim (1912): l’uomo adora Dio perché adora la società e la società ha qualcosa di sacro. Gli interessi religiosi sono solo la forma simbolica degli interessi sociali e morali. E allora concludo. Questo papa ha offerto un bisogno di società, di realtà collettiva trasfigurata dalla fede?
Nicola Capozza, Roma
Da ventitreenne, convinto anticlericale, devo ammettere che provo simpatia per Benedetto XVI che dubita e osserva con terribile prostrazione il “relativismo” che investe la nostra epoca. Non posso che apprezzare questo dubitare e questa paura per la propria fede, ma quel che mi scoraggia fortemente è la soluzione che propone di fronte al disagio (indubitabile) di questi tempi: il ritorno alla fede. Ma se è lo stesso pontefice che paragona la sua Chiesa a una barca alla deriva, come potremmo noi credere all’azione salvifica del messaggio del quale si fa portatrice? La verità è che abbiamo un bisogno efferato di sacro, quel sacro di cui la Chiesa cattolica non riesce a scuotere più neanche l’ombra. C’è più sacro in un concerto rock (ma sempre troppo poco) che in una messa domenicale. L’esperienza del limite, l’esperienza dell’eccesso e dell’abisso sono sempre più represse in questa società attuale, cristallina, calcolabile, razionale e questo genera gli omicidi in famiglia, le stragi di condominio e gli stupri coniugali. C’è qualcosa che ci muove, che nessuna discoteca e nessuno stadio sono in grado di sfiorare e nessuno sa cos’è! Io credo che sia venuto il momento di renderci conto che per porre fine a tutto questo non sia possibile tornare al messaggio repressivo della cattolicità, ma sia necessario rivalutare quell’avventura che è la vita in tutti i suoi aspetti, nella sua mutevolezza, nella sua plurivocità e iniziare a fare i conti con la nostra sublime finitezza, che è l’unico mezzo per raggiungere lo spettacolo pluriforme del mondo. Ma sarà davvero possibile (e giusto) per noi, moderni, ritrovare un nuovo rapporto con il sacro?
Edoardo Piersensini
Il sacro ha abbandonato l’Occidente, ma non le sue anime perse, costrette a confrontarsi individualmente con il volto terribile del sacro, senza il conforto di un mito, di un rito, di un sacrificio, di una fede condivisa da una collettività che, comunitariamente e non individualmente, propizia e tiene a debita distanza l’aspetto inquietante del sacro.
Il sacro, infatti, è un regime di massima violenza suicida e omicida, dove si giocano espressioni di rifiuto radicale della normalità esistente, processi simbolici di rinascita e di trasformazione, eventi di morte, e dove in gioco sono quelle situazioni-limite in cui da sempre si raccolgono questi regolatori del sacro che in tutte le culture si chiamano “sacerdoti”, da tempo provvisti di quelle metafore di base in cui l’umanità riconosce se stessa, quando la follia della mente disorienta l’anima e sottrae, al tranquillo incedere della ragione, ogni forza persuasiva.
Nel recinto del sacro, che gli antichi avevano cura di delimitare perché ciò che lì si manifesta è palese contraddizione, entusiasmo fuori misura, dolore sordo e muto, avvengono “sacrifici” (di cui la transustanziazione cristiana del pane e del vino in carne e sangue di Cristo è l’ultima traccia), in quella trasfigurazione di tutti i segni e di tutte le parole a cui non si può accedere se non attraverso i sentieri sconnessi della follia.
Le religioni storiche – che pure sono state le grandi regolatrici del sacro, perché sapevano incontrare l’uomo presso il tempio, presso l’animale sacrificato, nell’orgia dionisiaca, nel mistero eleusino, alle pendici del Golgota, nelle arene lorde di sangue e brandelli di carne – hanno da tempo disabitato il recinto del sacro per prodursi in esegesi costruite fuori dal recinto, là dove il pericolo tace o è lontano, prendendo a prestito alcuni elementi del sacro per proferire parole inincidenti, parole fuori dalla scena che il sacro ordina con riti, comandamenti, gesti perentori che si sottraggono a ogni vaglio critico.
Venendo a patti con la ragione, con la buona educazione, con la cultura, con la morale civile, la religione si è fatta evento diurno, e perciò parla di morale sessuale, di contraccezione, di aborto, di divorzio, di fecondazione omologa o eterologa, di scuola pubblica e privata. E così, producendosi in discorsi che ogni società civile può fare tranquillamente da sé, lascia la gestione della notte indifferenziata del sacro alla solitudine dei singoli che cercano non nella religione, ma nell’evento di massa (a sfondo religioso) la traccia di quei legami affettivi e comunitari che la nostra cultura dell’individualismo ha spezzato, sottraendo ai singoli quell’unica difesa (il legame comunitario) di cui gli uomini dispongono per arginare il terrore della solitudine e dell’irreperibilità di un barlume di senso.
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Sacralità e bellezza
È bello per noi stare qui.
Matteo, 17, 4.
Ho appena letto, su un recente “D la Repubblica delle Donne”, la lettera di Valeria a Lei indirizzata.
Valeria spiega le sensazioni provate ritornando in chiesa, più precisamente lei è tornata a messa dopo cinque anni che non ci andava. Lamenta di aver trovato una pessima illuminazione anziché la desiderata penombra, raccapriccianti e chiassosi ragazzi con chitarre, un pretuncolo perfetto cretino, vecchiette inconsapevoli ecc. E da ciò prende spunto per spiegare perché le persone intelligenti fuggono dalle chiese, e per una serie di altre considerazioni su cultura e tradizione che mi pare Lei sostanzialmente condivida.
Io mi sono riconosciuta in quell’assemblea raccapricciante, chiassosa e poco intelligente, perché io faccio parte di quelli che vanno in chiesa tutte le domeniche. Volevo spiegare a Valeria che entrando in chiesa durante una messa lei ha incontrato una comunità di persone che cambiano, invecchiano, a volte studiano a volte no, a volte sono intelligenti a volte stupide, hanno figli, figli piccoli, chiassosi e confusionari come tutti i piccoli, figli adolescenti raccapriccianti come tutti gli adolescenti, che amano le luci e le chitarre, e verso i quali cercano di essere attenti e accoglienti, magari in modo maldestro, senza pensare che questo possa disturbare chi passa in visita ogni cinque anni. Quella comunità di persone, con tutta la sua inadeguatezza, non si preoccupa di conservare la chiesa come un museo ordinato e artistico, non è lì per organizzare la coreografia più suggestiva per i visitatori alla ricerca di cultura (o meglio tradizione?), ma la usa come luogo dove apprendere a vivere il Vangelo.
Certo, fa venire le vertigini il raffronto tra l’altezza del prologo giovanneo e la bassezza di quell’assemblea e di quel prete (che avrà le sue colpe, se banalizza il Vangelo nell’omelia), però il paradosso cristiano è un Dio incarnato: l’alto e il basso che si sposano, e non sempre il matrimonio riesce bene, e comunque non è mai una cosa statica e data per sempre, ma una relazione che vive.
Nessuno di noi è all’altezza del messaggio evangelico, e senz’altro neanche la comunità della messa di Valeria lo era: ma, fortunatamente, non stava lì per fare bella figura con lei, né per salvare una tradizione in cui – come Valeria stessa dice – non ha importanza credere o no.
Tranquillizzo comunque Valeria: ci sono tante chiese in cui si celebrano riti ingessati e tante chiese vuote, silenziose e in penombra (forse presto potrà trovarci anche il latino). Tuttavia, tra una liturgia in cui si sentano accolti anche i nostri adolescenti “a vita bassa”, e una che sia suggestiva per i turisti del sacro, preferisco ancora di gran lunga la prima.
Sandra Lambertini, Bologna
Eppure, tra arte e religione, tra bellezza e fede, c’è un vincolo così stretto che ci consente di ipotizzare che in Occidente difficilmente avremmo avuto uno sviluppo dell’arte se nel Secondo Concilio di Nicea (787) non si fosse approvato il culto delle immagini, in base al principio che il cristianesimo è “religione dell’immagine” in quanto Dio si è mostrato e fatto vedere. A differenza dell’ebraismo e dell’islam, che sono “religioni della parola”, perché non accolgono l’incarnazione di Dio, il suo mostrarsi in carne e ossa.
Su questa componente della dimensione cristiana, che chiede arte e bellezza per evitare che la fede sia un puro esercizio della volontà, incapace di coinvolgere sensibilità e sentimento, interviene il teologo Pierangelo Sequeri con un lucido saggio che ha per titolo L’estro di Dio. La tesi è che la religione, trascurando l’estetica, oscilla paurosamente tra una “resa incondizionata alla ragione”, dei cui strumenti la religione si serve per difendere le proprie posizioni – dimenticando quel che già Pascal annotava quando, in polemica con Cartesio, diceva che con quella ragione si arrivava al massimo a dimostrare un Primo Principio, ma non si incontrava il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe – e un “abbandono senza riserve a un sentimento” che non sprigiona alcuna forza, ma solo parole consumate anche per la consolazione.
Abbandonato lo splendore dell’antica pratica cerimoniale, che aveva almeno il pregio di tentare di essere all’altezza della grandezza di Dio, oggi assistiamo nelle chiese a quel basso profilo della routine devozionale, priva di bellezza e splendore, cui non mancano meccanismi di seduzione per la requisizione emotiva dei fedeli: che si trovano così indotti a celebrare solo la volgarità dello spirito, sia dentro sia fuori le chiese, in quelle adunate di fede che si alimentano degli stessi ingredienti di cui un tempo si alimentavano i raduni di massa, in bilico tra la rassegnazione del dovere penoso e l’eccitazione di un estetismo d’accatto.
Arrivare a “sentire” lo Spirito all’opera, mentre “dà vita”, è l’esperienza che il teologo Sequeri indica come vertice dell’estetica nella sua forma propriamente cristiana. Essa percorre quella via mediana che lascia ai lati, come sue derive, la condizione solamente intellettuale, che sa dell’esistenza dello Spirito ma non lo sente, e la condizione mistica, che traduce l’estetica in estatica, e se ne va solitaria per vie indecifrabili e soprattutto incomunicabili, dove indiscernibile è il confine con lo straniamento e la scissione della personalità. Ma alla sensibilità della coscienza che, connettendo la fede al sentimento, evita alla fede il volto arcigno dell’intolleranza e al sentimento la sua patetica caduta nella commozione, non si perviene se non percorrendo i sentieri dell’arte e della bellezza, che in molti casi hanno abbandonato i luoghi di Dio.
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Sacralità e mistica
Solo se esci dal tuo io, sia pure per gli occhi belli di una zingara, sai cosa domandi a Dio e perché corri dietro a lui.
CHRISTOS YANNARAS, Variazioni sul Cantico dei Cantici (1994).
“Galeotta” è l’uscita del libro di Espedita Fisher Clausura. Le nuove testimoni dell’assoluto. Un libro “strano”, sembrerebbe assolutamente fuori del tempo, o di altri tempi. In effetti se si cavalcano le convinzioni più che assodate del disincanto del mondo, della secolarizzazione, di una cultura centrata sul presente e sul benessere-piacere individuale, non si riesce a capire come si possa oggi, da parte di alcune persone (molte giovani donne), compiere scelte radicali di allontanamento dal mondo, di volontaria reclusione perpetua.
Una prima domanda è allora: per che cosa? Per “salvarsi l’anima”? Ma è davvero così schifoso il mondo da pensare di potersi “salvare” solo al di fuori? Per testimoniare qualcosa che ai più non è dato comprendere (o adeguarvisi)?
Eppure altri segnali dicono che queste scelte strane non sono inattuali. Sono forse la punta più visibile di un ritorno di spiritualità che trova già molti canali di espressione ed esplosione: sètte, gruppi fondamentalistici e non, domande serie sulla vita, vocazioni. E alcuni di questi luoghi di silenzio-riflessione-preghiera diventano luoghi (chic) di incontro anche per professionisti, politici, uomini di cultura. Imprevisto il successo del film Il grande silenzio. Ma imprevisto davvero?
Ho comprato il libro e l’ho letto. Non mi interessa particolarmente il tema né ho figlie a rischio di clausura. Quarantuno voci che raccontano la loro storia, dove riecheggia tanta umanità, modernità, freschezza. Qualche nome conosciuto al grande pubblico e la maggior parte del tutto sconosciuta. Trovo poi altre voci, queste di laici che raccontano di sé in relazione con la clausura, non dico la clausura delle monache, ma la clausura come stile, forse come modello di vita. Parlo di Zavoli, Tamaro, Celli (che narra dell’esperienza della figlia claustrale).
E mi chiedo: perché ha un tale fascino ancora oggi la clausura? Il mondo laico sente nostalgia-bisogno di valori umani “radicali”, per esigenza di rinvigorirsi dal di dentro? Ma non si corre il rischio di dimenticare che la testimonianza di quelle suore non è per invitare a ricercare una migliore umanità, ma la trascendenza di Dio?
Giancarlo De Nicolò
Non so se la scelta della clausura sia una fuga dal mondo o la ricerca di un’ ulteriorità di senso rispetto a quello offerto dal mondo. Quel che so è che oggi il cristianesimo, nelle espressioni del magistero ecclesiastico, si occupa sempre meno del sacro e sempre più di etica pubblica e privata, riducendosi in questo modo a una sorta di agenzia morale a cui neppure coloro che si professano cristiani si attengono.
Se questo è lo scenario non parlerei, per il nostro tempo, di “risveglio della spiritualità”, come da più parti ingenuamente o entusiasticamente si sente dire, ma di “domanda inevasa” circa il senso della propria esistenza, con ricerca affannosa di risposte in una dimensione religiosa a sfondo mistico, quasi un contrappeso al rigore della razionalità tecnica, a cui va sempre più uniformandosi il mondo in cui ci tocca vivere.
Oggi, infatti, sembra che la solitudine del cuore sia così abissale da non essere raggiunta da nessuna voce umana. Sembra che l’intensità della passione non trovi corrispondenza nell’amore e nell’ira che gli uomini possono vicendevolmente scambiarsi. Sembra che la solitudine non possa neppure costituirsi, e tanto meno un dialogo interiore, se l’altra parte non ha un volto sovrumano.
Sembra che la metafora dell’inconscio sia troppo povera per contenere quel patire che solo nei simboli religiosi trova l’altezza della sua iconografia. Sembra che le vette della mente non sappiano perché si protendono verso il cielo, se il cielo è vuoto. E neppure si sa perché l’esilio a cui ci avvia la disperazione possa essere immaginabile senza un inferno che ce lo prefiguri come corrispondenza immaginifica dell’anima.
Nell’atmosfera creata da queste inquiete domande, tutte le parole che quotidianamente impieghiamo nel mondo rivelano la loro afasia. E allora solo l’amore, con la vibrazione delle sue folgorazioni, può favorire quel cedimento della mente che è necessario, perché la roccaforte della ragione, a differenza del cuore, è incapace di sfiorare la verità senza possederla.
Come scrive Yannaras, ultima conoscenza sul labbro delle domande ultime, l’amore chiede la genesi del mondo, della materia, della vita, del male, della distruzione, della corruzione, chiede perché è iniqua la distribuzione dei doni e dei dolori agli uomini, e attende di capire perché l’amore per Dio e l’amore per gli uomini sono pezzi che non collimano nella rifrazione prismatica dell’intero.
Per questo non bisogna vociare all’interno della religione o fuori dalla religione. Non bisogna far chiasso in nome di Dio o contro Dio. Il rumore del mondo non deve invadere, con il grido dell’affermazione o del diniego, l’origine silenziosa da cui sono scaturite tutte le parole. A partire da questa atmosfera, che non è atto di fede ma di riconoscimento, si può cominciare a capire, senza che io riesca naturalmente a comprenderlo, il silenzio della clausura.
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Dio e il problema del male
Quando ho chiamato “Padre, dove sei?” mi ha risposto solo l’eterna tempesta che nessuno governa, mentre lo scintillante arcobaleno degli esseri si levava sopra l’abisso senza un sole che l’avesse creato, e colava goccia a goccia.
JEAN PAUL, Il discorso del Cristo morto e altri sogni (1796-1797).
Gradirei molto che lei si esprimesse in merito alle considerazioni che le sottopongo, scritte per un lavoro letterario che tratta del rapporto fra un insegnante e gli studenti su alcune vicende della vita. Ciò che le scrivo è veramente accaduto. La morte dell’alunno Mario C. ci ha colti di sorpresa. Aveva da poco superato il quinto anno che un cancro ai testicoli l’ha portato via a tutti noi. Un ragazzo dalla battuta pronta, sempre divertente, un bravo ragazzo pieno di vita. Un pio prete durante l’omelia ha confortato la platea studentesca dicendo che Mario C. ora era nella gloria del Signore, che Lui aveva bisogno di Mario C., che il Male esiste per il dono del libero arbitrio, che se Gesù aveva così sofferto sulla croce romana per salvarci dal peccato originale, la sofferenza era un viatico necessario per la salvezza. All’uscita eravamo comunque depressi e qualcosa non ci tornava.
1) Che Dio avesse bisogno di Mario C. quel giorno che è morto. Proprio quel giorno in Europa (per non parlare del mondo), secondo un’indagine statistica, sono morti centinaia di ragazzi/e sia per incidenti stradali che per malattia. Ci sembra un bisogno eccessivo.
2) Che il libero arbitrio è una pura invenzione, infatti nessuno di noi è uguale all’altro sia per Dna, per esempio, sia per costituzione fisica, sia per malattia cui si va incontro, sia per la determinante casualità ambientale. Nessuno di noi si sceglie i genitori, il quartiere, la città, il continente ecc. Per esempio: che libero arbitrio ha avuto Mario C. sul suo Dna? Che libero arbitrio ha uno che nasce a Scampia con due genitori delinquenti? O che libero arbitrio hanno avuto quelle centinaia di bambini morti nel recente tsunami che ha sconvolto le coste di Sumatra, della Thailandia ecc.?
3) L’idea del rito-sacrificio, dell’agnello di Dio, del peccato originale, del sangue che si deve versare come simbolo di salvezza e di espiazione affonda troppo le radici nei riti sacrificali antichissimi, quando si offrivano alla divinità principale le primizie agricole o gli animali, le vergini o peggio sacrifici umani, per esempio i maschi primogeniti (una vera follia), per ingraziarsi e sottomettersi alla divinità. Ancora oggi ci sono vergini che sposano la divinità o persone che abbandonano la sessualità, diventando caste per piacere alla divinità.
Sono troppe le varianti che incidono sulle nostre vite, alcuni fattori sono tipicamente umani e su questi possiamo intervenire (per esempio le ingiustizie sociali), altri fattori sono naturali, biologici (quindi esterni all’uomo) e su questi possiamo intervenire solo a lungo termine (progresso scientifico) migliorando la qualità della nostra vita. Ma non sceglieremo mai di nascere e non potremo mai scegliere di non morire.
Francesco Grisolia, Napoli
Un giorno i Greci scoprirono che l’uomo, a differenza dell’animale, da un lato non può vivere senza conferire alla propria vita un senso e, dall’altro, consapevole com’è di dover morire, non può evitare quel destino tragico che costringe a costruire un senso in vista della sua implosione.
Il cristianesimo cercò di portare l’umanità fuori dalla tragedia, promettendo una vita ulteriore alla vita terrena, quindi una vita eterna da guadagnarsi anche attraverso il dolore, concepito a un tempo come conseguenza di una colpa originaria e come caparra per l’eternità. In questo modo il tragico veniva espulso dalla condizione umana e al suo posto subentrava la speranza accompagnata dalla fede, che garantiva che nulla sarebbe andato perduto, neppure “un capello del vostro capo” (Luca, 12,7), perché tutto sarebbe stato custodito dallo sguardo accogliente di Dio.
E il male? Come non rivolgere a Dio la domanda che Giobbe un giorno gli rivolse a proposito dei mali che avevano afflitto la sua vita? Il cristianesimo non attribuisce il male a Dio, ma a quel suo antagonista, Satana (“l’avversario”), alle cui tentazioni l’uomo può cedere, essendo libero di optare per l’ubbidienza ai comandamenti di Dio o per la loro violazione. Dunque, per il cristianesimo, il male e il dolore che ne consegue non sono, come pensavano i Greci, tratti costitutivi della condizione umana, ma effetti dell’uso della libertà umana. Ciò di cui l’uomo va fiero, la sua libertà, in cui scorge la sua differenza dall’animale, è anche il fondamento del male e del dolore, che dunque non dipendono da Dio, ma dal libero arbitrio umano.
Solo accedendo a questa visione del mondo possiamo capire le parole, altrimenti terribili quando non incomprensibili che, in occasione dei funerali, sentiamo pronunciare dagli uomini di religione davanti alle bare. Parole che sfidano il dolore, che oltrepassano l’umano sentire, e che, ben ascoltate, finiscono per imputare non solo il dolore, non solo la malattia, non solo l’incontrollabile tragedia, ma persino la morte all’umana colpevolezza; che prende avvio dal giorno stesso della nascita, se è vero che occorre un rito purificatore (il battesimo) per accedere all’innocenza.
Pur di salvare la bontà di Dio, il cristianesimo non esita ad aggiungere al dolore umano anche il peso della colpa. Per questo ho sempre dubitato che il cristianesimo sia la religione dell’amore. Dell’amore per l’uomo, tanto proclamato, ma teologicamente smentito.
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Il senso del dolore
Dio disse ad Adamo: “La terra sarà maledetta per cagion tua. [...] Essa ti produrrà spine e triboli. Col sudor di tua fronte mangerai il pane, finché tornerai alla terra da cui sei tratto, perché tu sei polvere e in polvere ritornerai”.
Genesi, 3, 17-19.
L’impianto della religione cristiana si basa sull’assunto del peccato originale: la colpa del capostipite ricade su tutta la progenie per l’eternità. Il figlio di Dio si fa carne per assumere su di sé il peccato di Adamo e riscattare sulla croce l’umanità. Così la dottrina.
Oggi, se qualcuno pensasse di colpevolizzare, non dico i pronipoti, ma i figli per le colpe del padre, sarebbe preso per pazzo e, se quel qualcuno fosse lo Stato, si griderebbe alla più spietata e arbitraria delle tirannie. Nella cultura morale e giuridica moderna, infatti, la responsabilità è personale, individuale. Solo nelle culture arcaiche la responsabilità è tribale, razziale, ricade sulla comunità, finché la memoria dura. Pertanto, è inimmaginabile e insostenibile per l’uomo moderno il peccato originale. Dio non può essere più vendicativo del più vendicativo degli uomini.
Non è difficile concludere che la teoria del peccato originale non è mai stata in mente Dei, ma è stata concepita dagli uomini in ragione della loro cultura storicamente, anzi preistoricamente datata, e della loro terrorizzata visione della divinità.
Ezio Pelino, Sulmona
Di fronte al dolore, alla sofferenza e al male della terra che risulta difficile giustificare, l’umanità ha sempre pensato di essere decaduta: da una condizione paradisiaca nella versione giudaico-cristiana, da un’età dell’oro dove non c’erano pene e dolori in altre tradizioni, da una condizione celeste dove l’anima viveva non imprigionata nei limiti del corpo nella tradizione filosofica inaugurata da Platone.
Ma solo nella tradizione giudaico-cristiana questa caduta, ipotizzata per giustificare il dolore e le pene di questa terra, viene connessa a una “colpa” che chiede riparazione ed è suscettibile di redenzione. In questa visione il dolore è “castigo” e a un tempo “evento purificatore”. Come tale concorre alla redenzione e alla salvezza. In questa prospettiva il dolore non è pensato come costitutivo dell’esistenza, ma della colpa dell’esistenza e insieme come mezzo del suo riscatto.
Per la cultura greca il dolore non è la conseguenza di una colpa, ma il costitutivo dell’esistenza, di cui bisogna accogliere per intero la caducità, senza illudersi con speranze ultraterrene o con ipotesi di salvezza da colpe originarie. Accolta la caducità dell’esistenza, occorre poi imparare a vivere tutta l’espansione della vita e tutto il suo contrarsi, perché questa è la condizione del mortale che nessuna narrazione mitica o religiosa può modificare.
Se la sofferenza, come vuole il cristianesimo, è la conseguenza di una colpa suscettibile di redenzione, questa terra e l’esistenza che su questa terra si compie sono vissute come un transito. Il futuro atteso lenisce la crudeltà del dolore, perché chi oggi soffre domani sarà consolato. In tale prospettiva il dolore non è più pensato come qualcosa che ineluttabilmente appartiene alla vita, ma come qualcosa che è capitato alla vita terrena in seguito a una colpa, e quindi come qualcosa di fondamentalmente separato dalla vita.
Ciò significa che la vera vita non conosce il dolore, e se sulla terra la vita non è esente dal dolore è solo perché la vita sulla terra non è quella vera, quella per cui siamo nati. Questo comporta una svalutazione della vita terrena: “valle di lacrime” che, come dice Isaia, trova la sua giustificazione nell’attesa di “nuovi cieli e nuove terre”. Per questo, essendo pegno di salvezza, per la tradizione giudaico-cristiana il dolore non va solo sopportato, ma anche amato.
A differenza di quella cristiana, la cultura greca non ama il dolore, perché ama la vita e tutto quanto può concorrere ad accrescerla e a potenziarla. Ma, a differenza di noi moderni, con misura, perché, senza misura, ogni virtù degenera. La virtù non ha per i Greci il significato della mortificazione e del sacrificio, ma, come la virtus latina, è la capacità di eccellere, di essere migliore, per cui non si dà virtù senza lotta. La lotta non la si ingaggia solo con il nemico, ma anche con lo stato di bisogno, con la necessità a cui occorre far fronte, con la sorte che, se infausta, è minacciosa. Per cui la virtù è la capacità di dominare il caso, di imprimere alla cattiva sorte una svolta positiva.
Per i Greci, dunque, dal dolore – visualizzato non nella modalità cristiana dell’espiazione della colpa, ma nella modalità tragica dell’ineluttabilità della legge di natura – nascono quelle due forme, non di rassegnazione, ma di resistenza al dolore che sono: il “sapere”, che consente di evitare il male evitabile, e la “virtù” che consente, entro certi limiti, di dominare il dolore.
Perché la virtù, qui intesa come forza e coraggio di vivere al di là delle avversità, sia efficace, è necessaria la misura, senza la quale anche la forza e il coraggio di vivere vanno incontro alla sconfitta, perché l’uomo che vuole andare oltre il proprio limite decide anche la sua fine. Quando diviene tracotante, la sua forza volge in debolezza, la sua felicità in sciagura. Per questo la virtù chiede all’uomo di essere attento al suo limite, perché l’uomo non può diventare immortale come un dio, ma con il modello immortale del dio deve restare in tensione, per generare, come dice Dante, riprendendo il mito greco di Ulisse, virtù e conoscenza.
A lei la scelta della visione del mondo cui appartenere: se a quella colpevolizzante del cristianesimo o a quella tragica ma insieme estetica dei Greci.
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Gesù profeta ebreo o messia universale?
È propria del fondatore di una religione un’infallibilità psicologica nel conoscere un determinato genere medio di anime, che non si sono ancora riconosciute come appartenenti alla stessa categoria. Egli è quello che le raccoglie insieme: la fondazione di una religione diventa sempre, in questo senso, una lunga cerimonia di riconoscimento.
FRIEDRICH NIETZSCHE, La gaia scienza (1882).
Per il cristianesimo Gesù è divino, “della stessa natura del Padre”. È il Messia a lungo atteso venuto a compiere la sua missione di evangelizzazione e di salvezza dell’umanità. Di tutta l’umanità. Eppure un Gesù ecumenico non è presente nei Vangeli. Questi ci presentano un Gesù che in vita non ha avuto una visione universalistica della sua missione. Si preoccupa soltanto della salvezza del popolo ebraico. Non gli interessano i pagani e nemmeno i samaritani, che pure erano ebrei, anche se non ortodossi. Le sue indicazioni agli apostoli sono chiare: li indirizza ai correligionari e li dissuade dal convertire altri. In Matteo si legge: “Non andate tra i pagani e non entrate nelle città dei samaritani; rivolgetevi piuttosto alle pecore perdute d’Israele”. Sempre in Matteo, a una donna cananea che, gettandosi ai suoi piedi, lo implora, disperata, di guarire la sua figlioletta posseduta dal demonio, “non rivolge neppure una parola”. Devono intercedere per lei gli apostoli, commossi dalla sua disperazione: “Esaudiscila, vedi come ci grida dietro”. Ma egli, inflessibile, risponde che altro è il fine della sua missione: “Non sono stato inviato che alle pecore perdute della casa d’Israele” e con durezza aggiunge: “Non è bene sottrarre il pane ai propri figli per darlo ai cagnolini”. La spiegazione di questo insolito comportamento sta nella nazionalità della povera donna: non è ebrea, ma greca, di origine siro-fenicia.
Gli esempi potrebbero continuare a dimostrazione che in quella terra il cristianesimo sarebbe probabilmente rimasto confinato se Paolo, ebreo ma cittadino romano, con la sua autorità, con il suo carisma, non fosse riuscito a imporre la propria visione universalistica: “Non ha valore né essere stato ebreo né pagano, ma soltanto la fede operante nella carità”, e non avesse diffuso il Verbo in tutto il Mediterraneo orientale, in Grecia e, soprattutto, al centro dell’impero, a Roma. Ma per questo dovette contrastare gli stessi apostoli che, pur insufflati dallo Spirito Santo e dotati della polilalia, erano abbarbicati a una visione localistica e giudeizzante tanto da escludere i non circoncisi.
Ezio Pelino, Sulmona
Anch’io, come lei, penso che senza la predicazione di Paolo di Tarso il cristianesimo sarebbe rimasto nei confini della terra d’Israele, e lì probabilmente estinto. Ma così non è stato, e allora una ragione ci deve essere. E io la intravedo nel fatto che il cristianesimo, come tutte le religioni che riescono ad affermarsi, ha colto alcune metafore di base dell’umanità nel momento in cui potevano essere recepite.
Come ci insegna Nietzsche, il valore di un’idea religiosa, filosofica, politica non deve essere giudicato in base al solo criterio del vero o del falso, ma innanzitutto a partire dagli effetti di realtà che produce, dalla cultura che diffonde, dalla storia che crea. E non c’è alcun dubbio che il cristianesimo abbia creato una grande storia, quella dell’Occidente, come Maometto quella del mondo islamico, perché la loro idea del mondo presente e futuro corrispondeva alle attese del tempo di allora e del tempo a venire.
Da questo punto di vista chiedersi se Gesù era un profeta regionale o un Messia universale è di scarso interesse, perché universale è diventato il suo messaggio e condivisa da milioni e milioni di uomini la sua parola.
Se però vuol saperne di più le consiglio la lettura di Inchiesta su Gesù, dove Corrado Augias, con l’intelligenza dell’acuto investigatore che tutti gli riconosciamo, interroga ora amabilmente, ora in modo insinuante e talvolta critico, la storia del cristianesimo e il noto biblista Mauro Pesce, che non si sottrae ad alcuna domanda, perché sa che neppure la prova storica può fondare o scalfire l’atto di fede. Ne esce un profilo di Gesù ligio alla legge di Mosè, profondamente legato alla tradizione del suo popolo, e insieme intransigente e critico verso quegli aspetti della tradizione e del culto che riteneva interpretassero più la Legge che il suo Spirito.
In ogni caso Gesù non aveva alcuna intenzione di fondare una nuova religione, che poi invece nacque col nome di “cristianesimo”, probabilmente per effetto della predicazione di Paolo. Ma questo non è rilevante perché, come ci ricorda Nietzsche: “Il significato e l’originarietà del fondatore di una religione si rendono di solito evidenti nel fatto che egli vede un certo genere di vita, lo sceglie, per la prima volta prevede a quale fine può servire, come può essere interpretato. Gesù (o Paolo), per esempio, s’imbatté nella vita della povera gente della provincia romana, una vita modesta, piena di virtù, conculcata; egli la interpretò; ripose in essa il più alto senso e valore, e con ciò il coraggio di disprezzare ogni altro genere di vita, il tranquillo fanatismo di chi custodisce il Signore, la segreta sotterranea fiducia in se stessi che cresce sempre di più, e infine è pronta a conquistare il mondo (cioè Roma e le classi superiori dell’impero romano)” (La gaia scienza, § 353).
Intuizione del momento storico e storiche condizioni. Queste sono le vere origini di ogni religione, che poi la fede successiva alimenta e porta fuori dalla storia per iscriverla in quella dimensione trascendente ed eterna che siamo soliti chiamare “cielo”.
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La morte di Dio
"Dove se ne è andato Dio?” gridò l’uomo folle rivolto a molti di quelli che non credevano in Dio. “Ve lo voglio dire! L’abbiamo ucciso, voi e io. Ma come abbiamo fatto?”
FRIEDRICH NIETZSCHE, La gaia scienza (1882).
Ho diciotto anni e vivo a Napoli. Sono perfettamente consapevole che lei è molto impegnato; spero, però, che trovi il tempo di leggere queste righe.
Nietzsche uccide Dio invenzione degli uomini. Uccidendo Dio Nietzsche libera l’uomo da ogni prospettiva ultramondana che ponga il senso dell’essere al di là dell’errore e da tutte le credenze metafisiche e religiose elaborate attraverso millenni per dare un senso e un ordine rassicurante alla vita. Per Nietzsche è la realtà stessa, cioè l’essenza malefica e caotica del mondo, a confutare l’idea di Dio.
Se Nietzsche uccide Dio in questo modo, allora non uccide proprio nessuno. La religione cattolica dice che Dio ha creato uomini liberi: e in virtù di questa libertà il mondo non è il luogo delle azioni divine ma il luogo delle azioni umane. La realtà di un mondo malefico e caotico, quindi, rivela l’assenza di Dio, ma non la sua non esistenza. Dio è assente perché noi siamo liberi.
Lei che ne pensa?
Secondo Nietzsche la morte di Dio è l’atto di nascita del superuomo (un uomo che, libero dalle credenze metafisiche e religiose, si rifà da capo, progettando liberamente la propria vita).
Ma se l’uomo ha inventato liberamente l’idea di Dio e liberamente ha deciso di crederci, l’uomo è stato sempre libero di progettare la propria vita, l’idea di Dio non gli è stata imposta ma lui stesso l’ha creata. È stato l’uomo a scegliere Dio, quindi il superuomo che programma la sua vita senza Dio non potrà mai esistere perché l’uomo ha già scelto liberamente e ha scelto di credere in Dio.
Che cosa ne pensa?
Perché il filosofo non può credere?
Ha paura di non avvertire più il dramma dell’esistenza? Ha paura di perdere la curiosità?
O ha paura di perdere il lavoro?
Dio ci ha creato a sua immagine e somiglianza: ragioniamo e proviamo emozioni e sentimenti proprio come Lui e proprio come Lui avvertiamo il dramma dell’esistenza.
Perché esisto?, si chiede l’uomo.
Perché esisto da sempre?, si chiede Dio.
Dio ci ha creati per condividere questo grande evento e questo grande dramma che è la vita: la possibilità di dire “io esisto” e l’impossibilità di sapere “perché esisto”.
Lei che ne pensa?
La prego mi risponda. Queste potranno anche essere stupidaggini ma lei mi farà capire dove sbaglio!
Giada, Napoli
Intorno a Dio c’è poco da dire. Fede e mancanza di fede sono adesioni dell’anima che vengono prima di tutti i ragionamenti e resistono a tutti i ragionamenti. Qualcosa possiamo invece dire intorno alla morte di Dio annunciata da Nietzsche, secondo il quale Dio è morto perché oggi gli uomini vivono e si comportano prescindendo dalla sua esistenza, costruendo un mondo che si lascia comprendere anche senza ricorrere all’idea di Dio.
Non è stato sempre così. Nel Medioevo, per esempio, dove la letteratura parlava di inferno, purgatorio e paradiso, dove l’arte era arte sacra, dove persino la donna era donna-angelo, nulla di quella cultura poteva essere compreso se si prescindeva dall’idea di Dio. Quindi Dio esisteva e faceva mondo. Oggi il nostro mondo può benissimo essere compreso senza ricorrere all’idea di Dio, mentre difficilmente sarebbe leggibile senza l’idea di “mercato” o l’idea di “tecnica”. Oggi quindi Dio è morto. Intorno al suo nome non accade un mondo, perché il mondo in cui viviamo non ha bisogno dell’idea di Dio per essere compreso. Altri sono i suoi referenti.
Per questo dico che – al di là dell’apparente risveglio religioso, fatto più di effetti mediatici (come si è visto in occasione della morte di Giovanni Paolo II o l’elezione di Benedetto XVI) e di speculazioni politiche (vedi l’appoggio dei movimenti religiosi e ultraconservatori all’elezione di Bush o le continue genuflessioni dei politici italiani davanti al papa) – le religioni si stanno avviando inesorabilmente verso la loro estinzione, non per l’inarrestabile processo di secolarizzazione che caratterizza la nostra cultura, e neppure perché con le conquiste della scienza e della tecnica l’uomo può ottenere da sé quel che un tempo implorava da Dio, ma perché l’età della tecnica ha modificato la nostra psiche, abituandola a un tempo contratto che è l’intervallo che intercorre tra i mezzi e i fini.
Un mezzo è un mezzo se adeguato al fine che vuol raggiungere, perché se è inadeguato, non è più un mezzo. Allo stesso modo un fine è un fine, e non un sogno, se i mezzi per conseguirlo sono disponibili oggi e non chissà quando. Questo tempo contratto fra il recente passato e l’immediato futuro, che è il tempo proprio dell’età della tecnica, sopprime, dentro di noi, il tempo escatologico che prevede che, alla fine (del mondo), si realizzi quello che all’inizio era stato annunciato. E siccome la religione si fonda sul tempo escatologico, se questo non ha più riscontro e risonanza nella nostra psiche, la religione muore, perché non più sostenuta da quella dimensione temporale (l’escatologia) di cui si alimenta. Resta il problema del “senso della vita” a cui le religioni offrivano risposte. Perciò l’umanità vaga senza orizzonte, ma senza neppure più la disponibilità di affidarsi a quelle che già Eschilo chiamava “cieche speranze”.