Smorgasbord
– Una scuola preparatoria in marzo è come una nave immobile per la bonaccia.
Il nostro insegnante di storia pronunciò questa frase, quasi rivolto a se stesso, mentre aspettavamo che suonasse la campanella e finisse la lezione. Era in piedi vicino alla finestra e tamburellava sul vetro con l’anello, ostentando un’aria svagata e astratta che aveva lo scopo di farci immaginare che si era dimenticato della nostra presenza. Quindi ci saremmo fatti l’idea che quando non c’eravamo, lui si trasformava in un tipo interessante, un uomo arguto e profondo, capace di battute di spirito estemporanee, un sognatore con una visione poetica della vita.
Suonò la campanella.
Andai a pranzo. Il refettorio era quasi vuoto, perché era un fine settimana senza corsi e quasi tutti i ragazzi erano andati a New York, a casa, o a casa dei loro amici, appena terminata l’ultima lezione. I pochi rimasti erano stranieri o borsisti come me o comunque paria di vario genere. La scuola ci aveva riservato un buon pranzetto: sufflè al formaggio, ma le porzioni erano esigue e tornai in camera mia che avevo ancora fame. Io avevo sempre fame.
La pioggia mista a nevischio cadeva davanti alla mia finestra. La neve nel cortile interno del campus era tutta sporca; quella caduta sopra le condotte sotterranee del riscaldamento ormai si era sciolta, ritagliando lunghe strisce marroni di fango.
Non trovavo la forza di mettermi a studiare. Al piano di sotto, qualcuno continuava a fare andare Mack the knife. Quest’unica canzone ripetuta incessantemente faceva apparire il dormitorio non solo vuoto ma addirittura abbandonato, come se quelli che erano partiti non dovessero piú ritornare. Misi in ordine la mia camera, poi provai a prendere un libro. Guardai ancora una volta fuori della finestra. Mi sedetti alla scrivania e studiai la nuova foto che la mia ragazza mi aveva mandato, ma non mi bastò per riuscire a immaginarla; se chiudevo gli occhi però, ecco che la vedevo, vedevo il suo sguardo solenne e i seni bianchi e pesanti che a volte mi consentiva solennemente di toccare, ma non di baciare. Non ancora, almeno. Ma mi aveva fatto una promessa. Quell’estate, appena tornavo a casa, saremmo diventati amanti. «Diventeremo amanti». Cosí mi aveva detto, con un tono molto riflessivo, ascoltando attentamente le sue stesse parole mentre le pronunciava. Per tutto l’anno non avevo fatto che ripetermele per cercare di ridurre la mia solitudine e gli attacchi di libido che mi facevano venire voglia di urlare e di prendere a pugni il muro. Saremmo diventati amanti quell’estate, e avremmo continuato a essere amanti per tutti gli anni dell’università, fedeli l’uno all’altra anche se finivamo di nuovo a migliaia di chilometri di distanza, e dopo l’università contavamo di sposarci e di entrare nei Corpi di Pace e fare insieme qualcosa che aiutasse la gente. Questo era il nostro progetto. A settembre, la sera prima che partissi per la scuola preparatoria, scrivemmo tutto questo su un foglio di carta, insieme a un sacco di altri dettagli concernenti il nostro futuro: il numero dei figli (sei), i loro nomi, il tipo di cani che avremmo avuto, un disegno della casa che sognavamo. Poi infilammo il foglio in una bottiglia che seppellimmo nel cortile dietro la casa di Jane. Nel giorno del nostro cinquantesimo anniversario di matrimonio avremmo disseppellito la bottiglia e mostrato il foglio ai nostri figli e nipoti per dimostrare loro che i sogni possono diventare realtà.
Stavo scrivendo una lettera a Jane quando Crosley entrò in camera mia. Crosley era un mago della scienza. Ogni anno vinceva il premio per le materie scientifiche e passava le estati lavorando in diversi laboratori di analisi. Aveva anche la passione del sollevamento pesi. Le sue braccia erano cosí tornite che quando camminava restavano staccate dai fianchi, come se portasse due secchi. Persino i lineamenti del viso sembravano muscolosi. E il viso appariva sempre rubicondo. Crosley stava in una camera in fondo al corridoio, una delle poche camere singole della scuola. Si diceva che fosse un ladro; presumibilmente era questa la ragione per cui non aveva compagni di camera. Non sapevo se le voci erano vere, e cercavo di non farmi un’opinione a riguardo, tuttavia ogni volta che ci incrociavamo, mi sentivo in imbarazzo e stornavo lo sguardo.
Crosley fece capolino dalla porta e mi domandò come andavano le cose.
Dissi che erano ok.
Entrò e si guardò in giro per la stanza, piegando la testa per leggere i gagliardetti del mio compagno di camera e i titoli dei nostri libri. Ero a disagio. Dissi: – Cosa posso fare per te? – senza l’intenzione di trattarlo in modo cosí formale, ma senza nemmeno rammaricarmi troppo se il mio tono era risultato freddo.
Lui sentí la mia freddezza e sorrise. Era il tipo di sorriso che sbandieri quando passi davanti a un gruppetto dove sospetti che stiano sparlando di te. Era un’espressione che aveva spesso.
Mi domandò: – Conosci García, vero?
– García? Sí, credo di sí.
– Ma sí che lo conosci, – insisté Crosley. – Sta sempre con Hidalgo e quelli di quel giro lí. García è quello alto.
– Sí, certo, – dissi. – Ho capito.
– Be’, la sua matrigna è a New York per una sfilata di moda o roba del genere, e verrà qui in auto per portarlo a cena fuori, stasera. La matrigna gli ha detto di portare qualche amico. Ti va di venire?
– Che fine hanno fatto Hidalgo e gli altri?
– Sono nel Maryland, per certe storie col polo. Devono comprare dei cavalli, credo. O forse sono dei pony, sí, mi sa che sono pony.
L’idea che qualche mio coetaneo comprasse dei pony per giocare a polo era cosí inaspettata che non riuscii a trattenermi. – Gesú, – esclamai.
Crosley disse: – Allora che fai, vieni?
Non avevo mai scambiato neanche una parola con García. Era il nipote di un famoso dittatore, e tutti i suoi amici erano nipoti o cugini di altri dittatori. Qui vivevano come gli pareva. Quasi tutti avevano l’auto e la tenevano parcheggiata a pochi isolati di distanza dal campus, benché fosse assolutamente contro le regole. Erano dei ragazzi impertinenti, burloni, e affascinanti. Andavano dappertutto sempre in gruppo, con gli occhiali da sole tirati su fra i capelli e i giubbotti gettati sulle spalle, quando parlavano pigolavano tutti insieme come uccelli: e chinga qua e chinga là. Il preside non sapeva come prenderli. Dopo le vacanze di Natale, qualcuno di loro era tornato a scuola con la gonorrea, e il preside si era limitato a convocarli nel suo ufficio, consigliando di non avere tanta fretta di perdere l’innocenza. La frase fece il giro della scuola. Bastava pronunciare la parola «innocenza» e tutti scoppiavano a ridere.
– Non so, – risposi.
– E dài, – insisté Crosley.
– Ma se nemmeno lo conosco o quasi!
– E con questo? Neanch’io sono suo amico, sai.
– Allora perché ti ha invitato?
– Ero seduto accanto a lui, oggi a pranzo.
– Ma va? – dissi. – Comunque, se questo spiega perché ha invitato te, io cosa c’entro? Perché gli sono venuto in mente io?
– Non è stata un’idea sua. García mi ha chiesto solo di portare qualcun altro.
– Come? Gli va bene chiunque, tanto per fare numero?
Crosley si strinse nelle spalle.
– Fantastico, – dissi. – La premessa ideale per una serata da sballo!
– Hai di meglio da fare? – mi domandò Crosley.
– No, – ammisi.
Aspettammo che la limousine venisse a prenderci sotto la tenda parasole della casa del preside. L’autista, un uomo piuttosto anziano, scese lentamente e lentamente si aggiustò il berretto prima di decidersi ad aprirci lo sportello. García andò a sedersi accanto alla sua matrigna, una signora tutta vestita di nero. Crosley e io ci sedemmo davanti a loro, su due strapuntini. Per prima cosa, mi colpí il profumo di lei. E per molti anni, dopo quel giorno, continuai a comprare dei profumi da donna, ma senza riuscire mai a rintracciare quel profumo là.
García attaccò a parlare a raffica, in spagnolo, appena l’autista chiuse lo sportello alle mie spalle. Sembrava in collera con la matrigna e sputava parole rabbiose, gesticolando turbinosamente. Lei gettò indietro la testa e lo investí a sua volta con una raffica di frasi concitate. La studiai apertamente. Aveva la pelle molto chiara. Indossava una cappa nera sopra un vestito nero molto accollato che mostrava solo la gola candida e l’attaccatura delle clavicole. Le labbra erano di un rosso acceso. Appena sotto gli zigomi aveva due chiazze di belletto che non era stato sfumato col pennello, come fanno di solito le donne per cercare di dare l’impressione del colorito naturale, ma al contrario era stato applicato come con negligenza, quasi per sottolineare ulteriormente il candore della pelle. I denti erano piccoli e aguzzi, li sguainava insieme a certi gesti e a certe inflessioni della voce. E, nel parlare, la sua piccola lingua appuntita guizzava dentro e fuori.
Non era molto piú grande di noi.
Disse qualcosa con tono conclusivo, fendendo l’aria con una mano. García fece per risponderle ma lei esclamò: – No! – e di nuovo affettò l’aria con la mano. Poi si girò verso Crosley e me e ci sorrise. Un sorriso completamente falso. Disse: – Dove vi piacerebbe andare a mangiare, ragazzi? – In inglese la sua voce sembrava piú bassa, persino un po’ roca. Ragazzi lo pronunciò «ragaaazzi».
– A me va bene tutto, – dissi.
– Tutto, – ripeté lei. Socchiuse i grandi occhi neri e strinse le labbra. Mi accorsi che la mia risposta l’aveva delusa. Guardò Crosley.
– C’è un ristorante francese a Newsbury, – disse Crosley. – Dicono che si mangia bene. Ma c’è anche un ristorante italiano. Dipende da cosa cosa preferisce lei.
– No, dipende da cosa preferite voi. Io non ho molto appetito.
Se García aveva qualche preferenza, la tenne per sé. Si era rincantucciato nell’angolo con aria torva, le spalle curve e le mani fra le ginocchia. Sembrava deciso a non cedere, quale che fosse il punto in discussione.
– Ah, c’è anche uno smorgasbord, – disse Crosley. – Se le piacciono gli smorgasbord.
– Uno smorgasbord, – disse lei. Era evidente che la parola le giungeva nuova. La ripeté, rivolta a García. Lui si accigliò ancora di piú, e le rispose qualcosa con voce cupa e uniforme.
Mi sembrava assurdo che Crosley avesse proposto uno smorgasbord. Era una proposta del tutto fuori luogo. Lo smorgasbord, tipico della tradizione scandinava, si caratterizzava per l’immenso buffet che offriva una grande varietà di piatti succulenti e sostanziosi. Allo smorgasbord andavano tutti i ciccioni dei paraggi quando erano in vena di gozzoviglie. Gli allenatori delle squadre di rugby portavano i loro ragazzi a rimpinzarsi allo smorgasbord, quando li volevano un po’ piú in carne. Si mangiava abbastanza bene e potevi riempirti il piatto quante volte volevi e ingozzarti come Dio sa cosa, ma l’atmosfera era alquanto grossolana. Certo, la cucina era buona. Grandi piatti di gamberetti disposti su letti di ghiaccio tritato. E arrosto di manzo. E tacchino affumicato. Piatti ce n’erano a non finire, davvero.
– A te piace mangiare allo smorgasbord? – domandò la matrigna di García rivolta a Crosley.
– Oh, sí, – rispose lui.
– E a te? – disse rivolgendosi a me.
Feci cenno di sí col capo. Poi, per non avere l’aria del tipo troppo insulso, esclamai: – Mi piace eccome!
– Smorgasbord, – ripeté lei. Rise e batté le mani. – Smorgasbord!
Crosley spiegò la strada all’autista e lentamente la limousine si allontanò dalla scuola. Lei chiese qualcosa a García. Lui, indicando me e Crosley con un cenno del capo, disse i nostri nomi, poi tornò a guardare con aria mesta dal finestrino i campi innevati che il tramonto anneriva. García aveva il viso lungo e gli occhi dolenti come quelli di un segugio. Quasi non ci aveva rivolto la parola mentre aspettavamo la limousine. Non sapevo perché fosse arrabbiato con la sua matrigna, o perché non parlasse con noi, o anche solo perché ci avesse chiesto di accompagnarlo, ma a questo punto non me ne importava piú niente.
Lei ci studiò e ripeté i nostri nomi con tono scettico. – No, – disse poi. Puntò un dito verso Crosley e disse: – El Blanco –. Poi indicò me e disse: – El Negro –. Poi indicò se stessa e disse: – E io sono Linda.
– Liin-da, – ripeté Crosley, calcando la voce in modo davvero esagerato, ma lei mostrò i denti piccoli e aguzzi e disse: – Exactamente.
Poi si appoggiò allo schienale e si strinse la cappa attorno alle spalle. Poco dopo la cappa si aprí di nuovo. Linda era inquieta. Si allungava in avanti, poi si appoggiava indietro, accavallava e scavallava le gambe, dondolava un piede con impazienza. Portava delle scarpe nere col tacco alto che le lasciavano quasi interamente scoperti i piedi. Sentivo il frusciare setoso delle calze che sfregavano una contro l’altra e respiravo il suo profumo fresco ogni volta che cambiava posizione. Quel profumo aveva un effetto straordinario su di me. Non mi arrivava come semplice fragranza. Era qualcosa di molto piú personale, quasi un’emanazione diretta della piú intima natura di lei che mi faceva drizzare i peli delle braccia e mi dava come dei brividi di freddo alle spalle e alle ginocchia. Ogni volta che Linda si muoveva, una forza superiore mi scuoteva costringendomi a muovermi all’unisono con lei.
Quando arrivammo allo smorgasbord – Swenson’s o Hansens’s, un cognome cosí, tipicamente svedese – García si rifiutò di scendere dalla limousine. Linda cercò di persuaderlo, ma lui si rincantucciò nel suo angolo, senza risponderle e senza guardarla. Lei alzò le braccia al cielo, – Ah! – disse, si girò e cominciò ad andare. Crosley e io la seguimmo oltre il parcheggio, fino alla grande stalla rossa. Il vestito di Linda frusciava a ogni passo. I suoi tacchi ticchettavano sul cemento.
Certo una cosa bisognava dirla dello smorgasbord: non era un locale pretenzioso. Questo posto era davvero una ex stalla, non un capannone qualsiasi con qualche tocco pittoresco tipo le lampade fatte con zangole del burro e i campanacci di ottone appesi alla parete con delle strisce di cuoio. Su un lato in fondo c’era la cucina, per il resto lo spazio era aperto e interamente occupato da grandi tavolacci di legno. Delle lampadine luccicanti pendevano dalle travi del tetto e al centro della stalla c’era quella che il mio professore avrebbe definito «una lauta mensa»: un lungo buffet traboccante di pietanze. C’era ogni manicaretto a cui potevi pensare, e anche altri, che nemmeno ti eri mai immaginato. Io ero già stato diverse volte in questo smorgasbord ma ogni volta restavo leggermente e piacevolmente sconvolto nel contemplare tutto quel ben di Dio.
Delle ragazze vestite in uno stile che ricordava quello tirolese giravano indaffarate per la sala, riordinando i tavoli, cambiando le tovaglie, rimpinguando il buffet con i nuovi piatti che uscivano dalla cucina.
Restammo lí a sbattere le palpebre nella luce improvvisa, poi seguimmo una delle cameriere attraverso la sala. Linda camminava lentamente, guardandosi attorno con l’aria della turista. Al suo passaggio, diversi uomini alzarono lo sguardo dai piatti. Io ero proprio dietro di lei, e li guardai a mia volta con aria minacciosa perché pensassero che quella era mia moglie.
Fummo fortunati; trovammo un tavolo solo per noi. Linda si sfilò la cappa e sventolando la mano in direzione del buffet ci disse: – Su, avanti, andate a servirvi –. Si sedette e aprí la borsetta. Quando mi girai a guardarla, si stava accendendo una sigaretta.
– Ti sei ingoiato la lingua stasera? – mi domandò Crosley mentre ci riempivamo i piatti. – Cos’hai, sei incavolato per qualcosa?
– Magari ho solo voglia di stare zitto, Crosley, sai?
Arpionò una fetta di carne e disse: – Guarda che ti ha chiamato El Negro non per dire che sei di colore. L’ha detto solo perché sei nero di capelli. I miei sono chiari, ecco perché a me mi ha chiamato El Blanco.
– Ma va? Gesú. Crosley, pensi davvero che non l’avevo capito? Mi credi proprio un fesso? – Poi, mentre giravamo attorno al buffet, gli domandai: – Parli spagnolo?
– Un poco. Anzi in realtà un poquito.
– Perché è arrabbiato García?
– Una faccenda di soldi.
– Che tipo di faccenda?
– Boh, non l’ho capito. C’entrano i soldi, però, su questo non ci piove.
Avevo deciso di moderarmi, almeno al primo giro, ma quando arrivai alla fine del buffet avevo il piatto stracolmo. Insalata di patate, prosciutto, gamberetti, pane tostato, manzo alla griglia, uova alla Benny. Anche il piatto di Crosley traboccava. Tornammo da Linda, si guardava attorno coi gomiti puntati sulla tavola. Diede una lunga boccata, alzò il mento, e soffiò un fiume di fumo verso le travi del soffitto. Mi sedetti davanti a lei. – Scorri, – mi fece Crosley, e si sedette accanto a me spingendomi da un lato.
Lei restò per un po’ in silenzio a guardarci mangiare.
– Insomma, – disse poi Linda, – El Blanco, sei di New York?
Crosley alzò lo sguardo, sorpreso. – No, signora, – disse. – Io sono della Virginia.
Linda spense la sigaretta. Le sue lunghe unghie avevano lo stesso rosso carico del segno del rossetto sul mozzicone. Disse: – Vengo adesso da New York e vi posso assicurare che è un vero manicomio. Da non credersi, davvero. Sentite questa. Sono in tassí e restiamo imbottigliati in un ingorgo pazzesco, sapete com’è, no? e fermo accanto a noi c’è un altro tassí e il passeggero seduto dietro si mette a fissarmi. Mi guardava e faceva tanto d’occhi. Sapete? Cosí... – Linda ci guardò roteando gli occhi. – Ovviamente lo ignoro. Ma tutto a un tratto lo sportello si apre e quel tipo sale sul mio tassí, da matti, eh? «Mi scusi, – mi dice ’sto tipo, – ma io desidero sposarla». «Questo è davvero molto carino da parte sua, – gli rispondo, – ma lo chieda a mio marito». «Che c’entra suo marito, – fa lui. – Non mi importa di mia moglie, si figuri se mi può importare di suo marito!» A quel punto, ovviamente, non ho potuto fare a meno di ridere. «Ah, – dice lui, – trova che sono buffo? La faccio ridere? Ma guardi che se voglio io le...» E si mette a dirmi... – Linda si interruppe scrutando me e Crosley attentamente. Tirò su col naso, fece una smorfia e continuò: – Si mette a dirmi delle cose che non credereste mai. Mai. Dice che mi vuole fare questo e mi vuole fare quello. Allora, faccio per mettermi a urlare. Ma come apro la bocca, «Ehi, – mi dice lui, – tranquilla, ok? Rilassati». Dopodiché scende e risale sul suo tassí. Restiamo ancora là imbottigliati nei nostri rispettivi tassí per un bel pezzo, e sapete lui cosa fa? Si mette a leggere il giornale, come se nulla fosse. Su, avanti, cosa fate, non mangiate piú? – ci domandò, e col capo accennò al tavolo del buffet.
Una ragazza alta e bionda stava tagliando delle nuove fette di roast beef su un piatto di portata. Era una ragazza piuttosto formosa, vedevo come erano tesi i lacci del suo corpetto. Le guance le splendevano. Le braccia e le spalle nude erano rosse per lo sforzo. Crosley mi guardò inarcando il sopracciglio. Inarcai il mio in risposta, benché in cuor mio non fossi del suo parere. Quella ragazza era un vero sogno vichingo, tutta gemütlichkeit, ma io ero inebriato dalla matrigna di García e in quello stato non ti viene voglia di un bicchiere di latte, hai voglia di bere ancora quel liquore che ti sta facendo incespicare e cadere.
Crosley e io ci riempimmo di nuovo i piatti e tornammo al tavolo.
– Ho sempre fame, – mi disse Crosley.
– A chi lo dici, – gli risposi.
Mentre mangiavamo Linda fumò un’altra sigaretta. Guardava i tavoli attorno a noi come fosse al cinema. Cercavo di mangiare con un po’ di educazione e lo stesso faceva Crosley, picchiettandosi le labbra col tovagliolo dopo ogni gigantesco boccone, ma alcuni di quelli seduti intorno a noi si ingozzavano senza il minimo ritegno. Avvicinavano la bocca al cibo anziché il contrario, e masticavano a bocca aperta guardandosi in giro diffidenti, gli avambracci che abbracciavano il piatto. La numerosa famiglia seduta alla nostra sinistra era quella che dava lo spettacolo peggiore di tutti. Il loro modo di mangiare aveva qualcosa di competitivo e di disperato; si abbuffavano quasi come se si preparassero a una vita in cui non avrebbero piú potuto mangiare. Come fossero dei profughi, fuggiti a chissà quale grande carestia, come se oltre quelle pareti la terra fosse afflitta dalla siccità e dalla carestia. Provai a mia volta una specie di angoscia; mi sembrava che la fame mi crescesse a ogni boccone.
C’era un chiasso tremendo, un rombo costante come quello di una cascata.
Linda si guardava attorno con espressione soddisfatta. Benché fosse cosí diversa da tutti i presenti, sembrava come di casa. Ci spedí al buffet perché ci riempissimo di nuovo il piatto, poi perché ci servissimo dei dolci e del caffè. Mentre concludevamo il nostro lauto pasto di punto in bianco domandò a El Blanco se aveva la ragazza.
– No, signora, – le rispose Crosley. – Ci siamo lasciati, – aggiunse, e diventò tutto rosso. Era chiaro che stava mentendo.
– E tu ce l’hai? – disse Linda rivolgendosi a me.
Annuii.
– Ah! – fece lei. – El Negro ha la muchacha! Bene! E come si chiama?
– Jane.
– Jaaane, – ripeté Linda come al rallentatore. – Benissimo. Raccontaci tutto di Jaaane.
– Jane, – dissi io.
Linda sorrise.
Le raccontai ogni cosa. Le dissi come ci eravamo conosciuti, e che tipo era lei, e i nostri piani per il futuro, tutto. Le dissi anche qualcosa piú di tutto, perché lasciai intendere, in modo discreto ma preciso, a quali estremi la nostra passione ci avesse già spinto. Volevo impressionarla con la mia potenza, infiammarla, toglierle quel sorrisetto dalla faccia, ma piú parlavo, piú il sorriso di Linda diventava crudele e i suoi occhi ridevano di me.
Occhi ridenti, ecco un cliché per il quale il mio professore d’inglese mi avrebbe spellato vivo. – Come ridevano esattamente questi occhi? – mi avrebbe chiesto, alzando lo sguardo dal mio tema mentre i compagni mi gufavano attorno. – Cos’era, un risolino o un cachinno? Forse era un riso sguaiato? Oppure era un ghigno?
Ecco, erano esattamente degli occhi che ghignavano. Dico, quelli di Linda. E mentre recitavo per lei la parte del Grande Hombre mi resi conto che stavo fallendo su tutta la linea. Mi sembrò di sentirle dire: «Ok, El Negro, avanti, raccontami pure della tua ragaazza, ma noi lo sappiamo cosa vuoi davvero. Tu vuoi succhiarmi la lingua, e sbavarmi sulle tette e affondare la faccia dentro di me. Questo è quello che vuoi».
Crosley mi interruppe. – Signora... – disse, e con un cenno del capo indicò la porta. García era appoggiato allo stipite, con le braccia incrociate sul petto e in viso un’espressione furiosa. Quando Linda lo vide, lui girò i tacchi e uscí.
Gli occhi di Linda di colpo si fecero opachi. Restò immobile per un istante. Fece per prendere una sigaretta dal portasigarette, poi la rimise a posto e si alzò in piedi. – Andiamo, – disse.
García ci stava aspettando dentro l’auto, rigido e silenzioso. Non disse niente durante tutto il viaggio di ritorno. Linda fece dondolare il piede e guardò dal finestrino le case che ci scorrevano accanto e i campi illuminati dalla luna. Appena prima che arrivassimo a scuola, García si allungò verso di lei e le disse qualcosa a bassa voce. Lei lo ascoltò impassibile e non rispose. García stava ancora parlando quando la limousine si fermò davanti alla casa del preside. L’autista aprí lo sportello. García continuava a fissare caparbiamente la matrigna. Sempre con aria impassibile, lei prese il portafogli dalla borsetta. Lo aprí e ci guardò dentro. Meditò qualche istante sul suo contenuto, poi estrasse una banconota e la offrí a García. Era un biglietto da cento dollari. – Cazzo! – esclamò lui, e si appoggiò di nuovo allo schienale. Senza cambiare espressione, Linda si girò verso di me e mi porse la banconota. La presi, non sapevo cosa altro fare. Lei tirò fuori un altro bigliettone dal portafoglio e lo offrí a Crosley, che esitò ancora meno di me. A quel punto Linda ci rivolse il medesimo falso sorriso con cui ci aveva accolto, e disse: – Buona notte, è stato un piacere conoscervi, ragazzi. ’Notte ’notte, – fece rivolta a García.
Scendemmo tutti e tre dalla limousine. Dopo qualche passo rallentai e mi girai.
– Continua a camminare, – sibilò Crosley.
García urlò qualcosa in spagnolo mentre l’autista richiudeva lo sportello. Feci subito dietro front e insieme a Crosley attraversai il cortile interno. Mentre ci avvicinavamo al dormitorio, lui accelerò il passo. – Non posso crederci, – sussurrò. – Cento testoni –. Quando fummo dentro, si fermò e mi gridò: – Cento testoni! Cento verdoni!
– Ehi, fate meno casino! – urlò qualcuno.
– Ok, – disse Crosley e, abbassando la voce, aggiunse: – Fanculo!
Salimmo fino al nostro piano, ridendo e spintonandoci a vicenda. – Ci credi tu? – mi disse Crosley.
Scossi la testa. Eravamo davanti alla mia porta.
– No, senti, fermati un attimo –. Mi mise le mani sulle spalle e mi guardò negli occhi. Disse: – Tu davvero ci credi, cazzo?
Gli dissi che no, non ci potevo credere.
– Be’, neanch’io. Non riesco a crederci, cazzo.
Dopodiché, sembrava non ci fosse molto altro da dire. Avrei invitato Crosley a entrare, ma a dire la verità ancora pensavo a lui come a un ladro. Ci facemmo qualche altra bella risata, poi ci augurammo la buona notte.
La mia camera era fredda. Tirai fuori la banconota dal portafoglio e la guardai. Era nuova e rigida, il tipo di banconota che ti fa pensare al riscatto di un rapimento. Il ritratto di Franklin era sorprendentemente reale. Lo guardai per un po’. Cento dollari erano un sacco di soldi, a quei tempi. Non avevo mai avuto cento dollari prima, non tutti insieme, in un biglietto solo. Per stare piú tranquillo, lo fermai con un po’ di nastro isolante a una pagina di Uomini coraggiosi, pagina 100, cosí non mi sarei dimenticato qual’era.
Feci fatica ad addormentarmi. Avevo come una pietra nello stomaco per tutta la roba che avevo mangiato, e mi sentivo male per le cose che avevo raccontato. Mi rendevo conto che ero stato un bugiardo e uno sciocco. Continuavo a rigirarmi sotto le coperte, poi mi tirai su a sedere e accesi l’abat-jour. Presi la nuova foto che la mia ragazza mi aveva mandato, chiusi gli occhi, e appena riuscii a ritrovare un po’ di serenità le rinnovai le mie promesse.
Jane e io ci lasciammo un mese dopo il mio ritorno a casa. I suoi erano usciti, una sera, e noi cogliemmo al volo l’occasione per fare l’amore nel letto a baldacchino dei suoi genitori. Era la quinta volta che facevamo l’amore. Jane si alzò dal letto subito dopo e cominciò a rivestirsi. Quando le chiesi qual era il problema, non mi rispose. Pensai: Oh, Cristo, e adesso cosa c’è? – Avanti, – insistei. – Dimmi cosa c’è che non va.
Si stava allacciando le scarpe. Alzò gli occhi e mi disse: – Tu non mi ami.
Mi sorprese sentirle dire questo, non tanto perché l’aveva detto, quanto perché era la verità. Prima di quel momento non me ne ero reso conto, ma era vero, non l’amavo.
Poi per molto tempo mi dissi che in realtà non l’avevo mai amata, ma questo non era vero.
Ci sentiamo obbligati a sorridere delle passioni dei giovani, e di ciò che ricordiamo delle nostre personali passioni giovanili, come se non fossero altro che una serie di dolci inganni con cui ci siamo baloccati, prima di mettere giudizio. Non parlo solo della passione che i ragazzi e le ragazze provano gli uni per gli altri ma anche delle altre passioni, la passione per la giustizia, la passione di fare ciò che è giusto fare a costo di rigirare il mondo come un guanto. Tutte queste passioni a tempo debito ricevono i nostri raggelati sorrisetti. Eppure non c’era niente di sciocco in ciò che provammo. Niente di futile. Nel mio caso, ad esempio, posso solo dire che non fui all’altezza delle cose. Lasciai che la luce si spegnesse.
Quella notte dopo la cena di García, non passò molto che sentii un lieve colpo alla mia porta. Ero ancora sveglio come un grillo. – Sí? – dissi.
Entrò Crosley. Indossava una vestaglia blu di un qualche materiale tipo seta che luccicava nella fioca luce del corridoio. Disse: – Hai mica l’Alka Seltzer o qualcosa del genere?
– No, magari.
– Anche tu, eh? – Chiuse la porta e si sedette sul letto del mio compagno di camera. – Ti senti male come mi sento io?
– Quanto ti senti male tu?
– Io sto morendo. Mi sa che c’era qualcosa che non andava in quei gamberetti.
– Avanti, Crosley! Ti sei mangiato questo mondo e quell’altro.
– Anche tu.
– Vero. Ed è per questo che non mi lamento.
Crosley gemette e si dondolò avanti e indietro sulla sponda del letto. Sentii una nota di vero dolore nella sua voce. Mi drizzai a sedere. – Ti senti bene, Crosley?
– Piú o meno, – disse lui.
– Vuoi che chiami l’infermeria?
– Dio, – disse lui. – No, ce la faccio –. Continuava a dondolarsi. Poi, con un tono cautamente disinvolto, disse: – Senti, ti dispiace se resto ancora qui per un po’?
Stavo quasi per dire di no, ma mi trattenni. – Ma certo, – gli dissi. – Fa’ come se fossi a casa tua.
Ma doveva avere colto la mia esitazione. – Lascia perdere, – disse con tono amaro. – Scusa se te l’ho chiesto, eh? – Però non accennò ad andarsene.
Ero confuso, Crosley mi impietosiva perché stava male, ma mi tratteneva quello che avevo sentito sul suo conto. Ma forse quello che avevo sentito sul suo conto non era vero. Non volevo essere ingiusto, per cui dissi: – Senti, Crosley, ti dispiace se ti faccio una domanda?
– Dipende.
Mi stava guardando, le braccia incrociate sullo stomaco. Nel chiaro di luna la sua vestaglia era iridescente come il petrolio.
– È vero che ti hanno beccato a rubare?
– Stronzo, – disse lui. Abbassò gli occhi, scrutando il pavimento.
Aspettai.
– Se vuoi sapere la storia, – disse poi, – basta che chiedi in giro. Lo sanno tutti quello che è successo, ok?
– Io non lo so.
– D’accordo, tu non lo sai. Tu non sai un cazzo sei e uguale a tutti gli altri –. Alzò la testa. – Ma la cosa davvero esilarante è che non sono stato beccato mentre rubavo, ma mentre rimettevo a posto quello che avevo rubato. Come vedi, non cerco scuse. L’avevo rubato, è vero.
– Cosa avevi rubato?
– Un cappotto, – disse lui. – Il cappotto di Robinson. E non venirmi a dire che non lo sapevi.
– Giuro, non lo sapevo.
– E allora devi essere uno di quelli che vivono sul pero o giú di lí. Ma lo conosci Robinson, no? Robinson era il mio compagno di camera. Aveva ’sto cappotto di cammello, era uno spettacolo. Ci ero andato in fissa. Pensavo tutto il tempo a quel cappotto. Ogni volta che Robinson usciva, me lo infilavo e mi guardavo allo specchio. E poi un bel giorno l’ho preso punto e basta, dico quel cappotto del cazzo. L’ho chiuso nel mio armadietto, in palestra. Robinson ci è uscito matto. Continuava ad andare a guardare nell’armadio dieci, venti volte al giorno, come se pensasse che il cappotto magari era uscito un attimo, a fare una passeggiata o chissà che. Cosí alla fine l’ho riportato indietro. Robinson è entrato in camera proprio mentre lo stavo rimettendo sulla stampella.
– Sei fortunato che non ti abbiano sbattuto fuori dalla scuola.
– Vorrei che l’avessero fatto, – disse Crosley. – Ma al preside gli andava di recitare la parte del Gesú. È riuscito a salvare le cose per via del fatto che l’avevo riportato indietro –. Crosley si sfregò le braccia. – Ragazzi, morivo dalla voglia di avere quel cappotto. È ridicolo quanto lo volevo. Lo sai? – Mi guardò dritto negli occhi. – Lo sai di cosa parlo?
Annuii.
– Davvero?
– Sí.
– Bene –. Crosley, si appoggiò con la schiena al cuscino, poi sollevò i piedi stendendosi sul letto. – Ehi, – disse, – mi sa che ho capito perché García mi ha invitato.
– Davvero?
– Era arrabbiato con la sua matrigna, giusto? E voleva punirla.
– E allora?
– E allora io sono la punizione. Probabilmente ha sentito dire che sono un manolesta, e si immaginava che chiunque veniva con me non poteva essere che un altro manolesta. Che ne dici della mia teoria?
Cominciai a ridere. Mi faceva un male da cani allo stomaco ma non riuscivo a fermarmi. Crosley disse: – Dài, amico, non farmi ridere, – e attaccò a ridere anche lui, rideva e gemeva al tempo stesso.
Restammo là sdraiati un po’ senza parlare, poi Crosley disse: – El Negro.
– Sí?
– Cosa pensi di farci col tuo testone?
– Non saprei. Tu cosa ci vuoi fare?
– Ci voglio comprare una donna.
– Una donna?
– È un sacco di tempo che non mi faccio una scopata come si deve. Anzi, – aggiunse, – a dirla tutta, non ho scopato mai.
– Neanch’io.
Pensai a queste parole. «Comprare una donna». Effettivamente, poteva farlo. E anch’io potevo. Non c’era bisogno di aspettare, non dovevo restare sulla graticola in questo modo, mese dopo mese, aspettando che Jane si decidesse a salvarmi dalla tortura. Tre mesi d’attesa erano un tempo molto lungo. Un tempo irragionevolmente lungo per qualsiasi cosa, se non avevi una buona ragione per aspettare, se bastava pagare per ottenere quello di cui avevi bisogno. Era strano pensare che si poteva comprare anche questo, una bocca per la tua bocca, e braccia e gambe che ti tenessero stretto. Non avevo mai preso in considerazione una simile eventualità prima di quel momento. Pensai ai soldi che avevo nascosto dentro il libro. La testa mi girava già solo per la possibilità.
Jane non lo avrebbe mai saputo. E la cosa in nessun modo poteva danneggiarla, anzi in un certo senso poteva persino essere d’aiuto, perché la nostra situazione sarebbe stata piuttosto goffa all’inizio se né lei né io avevamo esperienza. Come uomo, era mio dovere sapere tutto quello che c’era da sapere. Le cose sarebbero andate molto meglio in questo modo.
Dissi a Crosley che l’idea mi piaceva. – È venuto il momento di perdere la nostra innocenza, – dichiarai.
– Exactamente, – esclamò Crosley.
E cosí ci tirammo su a sedere e ci mettemmo a parlare, protendendoci l’uno verso l’altro dai rispettivi letti, tenendoci le pance gonfie, per capire come potevamo combinare questa faccenda, e dove, e quando.