I bagliori del fuoco
Mia madre giurò che non avremmo mai piú vissuto in una pensione, ma le circostanze le impedirono di mantenere la promessa. Decideva continuamente di cambiare città e da qualche parte dovevamo pure dormire. Questa pensione era peggiore della precedente, poco accogliente, lugubre, greve per gli odori che la gente depressa non si preoccupa di spandere incontrollabilmente. Al piano sotto al nostro c’era un marinaio a riposo che tossiva e sputava senza requie. Era un uomo anziano, cordiale, sempre pronto a rivolgere qualche complimento a mia madre quando ci vedeva passare davanti alla camera semibuia dove lui trascorreva il tempo seduto sul bordo del letto a fumare. Di giorno avevo pena di lui, ma la notte, quando eravamo a letto in attesa del fragore dell’attacco successivo, col silenzio che sembrava gonfiarsi fra un accesso di tosse e l’altro, lo odiavamo. O almeno io lo odiavo.
Mia madre diceva che questa era solo una soluzione temporanea. Tempo pochi giorni e saremmo andati via da qui, non dovevo dubitarne. E per dimostrare a me e forse anche a se stessa che parlava sul serio, ogni sabato mattina esaminava minuziosamente il giornale e cerchiava le offerte di quegli appartamenti ammobiliati che sembravano, come diceva lei, «adeguati alle nostre necessità». Mi piaceva quell’espressione. Mi faceva pensare che le nostre necessità avessero un qualche peso nel mondo, e bisognasse tenerne conto. Poi, atteggiando il viso a un’espressione saggia e avveduta, confrontava i prezzi e scartava gli appartamenti piú costosi e anche i piú economici. Questi li conoscevamo, sapevamo già che il frigo era minuscolo e le pareti trasudavano umidità, che la vasca da bagno perdeva, che al piano di sopra c’era di regola un marito che picchiava la moglie. Era una strada che avevamo già battuto. Mia madre alla fine sceglieva cinque o sei possibilità, telefonava per accertarsi che l’offerta fosse ancora valida e poi passavamo la giornata visitando una casa dopo l’altra.
In realtà, non potevamo ancora permetterci di prendere una casa. Le agenzie esigevano due o tre mesi di affitto anticipato, oltre a un deposito cauzionale, e sarebbe passato ancora un po’ prima che mia madre riuscisse a mettere insieme la cifra necessaria. Questo l’avevo capito, ma ogni sabato mia madre mi ripeteva daccapo tutta la solfa perché non mi lasciassi prendere troppo dall’entusiasmo. Andavamo in giro solo a dare un’occhiata. Per farci un’idea di cosa offriva il mercato.
Bisogna ammettere che si prova un certo piacere nell’acquistare merci e servizi. Lo coltivo anche io, adesso, e faccio la parte dell’uomo che sa quello che vuole e può permettersi di comprarlo e portarselo a casa. Ma a quei tempi in genere mi accontentavo di guardare. E questa fu una fortuna per me, perché di cose ne vedevamo un sacco, ma non compravamo mai niente.
Mia madre non era di quelli che prima di acquistare una cosa fanno mille confronti e puntano subito alla targhetta col prezzo e scuotono la testa e brontolano rivolti a chiunque sia nei paraggi lamentandosi per come aumentano i prezzi. A lei del prezzo non interessava granché. Non aveva i soldi per comprare niente, certo, ma non era solo questo, c’era qualcosa di piú profondo. Lei faceva lo shopping perché si sentiva a suo agio nei negozi e la interessava la merce in vendita. I commessi che la servivano rispondevano alle sue domande senza mostrarsi mai impazienti, capivano che non c’era niente di meschino o di volgare nella sua curiosità, quella curiosità che la manteneva cosí giovane pur essendo, sotto altri aspetti, la sua rovina. Mia madre voleva di continuo scoprire cosa c’era dietro l’angolo, a qualunque costo.
Eravamo sempre andati per negozi, ma quel primo autunno a Seattle, al verde come non mai, si può dire che quasi non facemmo altro. Guardavamo le valigie di cuoio. Guardavamo i televisori disposti su delle larghe mensole in stile mediterraneo. Guardavamo i mobili d’antiquariato e i tappeti orientali. Guardare i tappeti orientali non è una di quelle cose che si possono fare a cuor leggero, perché gli uomini che li vendono sgobbano come cani, e li tirano giú da queste alte pile vacillanti e poi se li caricano in spalla e te li portano, sudando e ansimando, barcollando sotto il peso, i volti coperti di lanugine. In genere, sono tutti uomini di piccola statura. Non puoi fare tanto il difficile. Devi avere una gran faccia di bronzo e devi essere assolutamente sicuro del tuo diritto di farti mostrare anche la merce che non puoi acquistare. E noi lo eravamo.
A ogni cambiamento della moda, mia madre provava tutte le novità e io stavo a guardarla. Un tempo aveva lavorato come modella e sapeva quali posizioni assumere davanti allo specchio, come camminare avanti e indietro con noncuranza, spingendo di lato un fianco e girando la testa come se si fosse sentita chiamare. Quando mi guardava esprimevo i miei pareri con un sorriso, con una scrollata di spalle, o scuotendo mestamente il capo. La trovavo bellissima qualsiasi cosa indossasse ma mi sentivo obbligato a stabilire delle differenze. A lei non piaceva la troppa ammirazione. La trovava soffocante.
Guardavamo delle pentole di rame. Guardavamo dei mobili da giardino e delle sale da pranzo in noce. Ricordo che una volta passammo una giornata intera in un porticciolo, a studiare le merci nel magazzino di una concessionaria Chris-Craft che era fallita. La chiamavano La grande svendita. Fu l’unica vendita organizzata cui considerammo importante recarci.
Quando andavamo a caccia di case, mia madre indossava sempre un elegante tailleur grigio. Io indossavo il mio completo da piccolo lord, un golf col collo a vu, la cravatta a farfalla. Sul davanti del golf erano ricamate le parole Fraternity Row. A vederci sembravamo persone rispettabili e, nel complesso, lo eravamo. Non sembravamo al verde.
Quel giorno stavamo visitando alcuni appartamenti in una zona dalle parti dell’università. I primi tre che avevamo visto erano abbastanza decenti, ma il quarto era ridotto in condizioni terribili, l’ultimo affittuario, una donna, ci aveva vissuto come un animale in una caverna. Avevano cercato di ripulirlo ma era un’impresa impossibile. La casa odorava di carne marcia, anche con le finestre aperte e le correnti d’aria fredda che la attraversavano. Ogni cosa aveva l’aria appiccicosa. Il padrone di casa ci disse che l’inquilina precedente era caduta in depressione per via di un matrimonio fallito. Benché parlasse di una tinteggiatura e di una moquette nuova, sembrava anche lui scoraggiato e dopo poco si ridusse al silenzio. Attraversammo l’appartamento tutti e tre in silenzio, poi uscimmo subito. Lui lo capí che non avevamo abboccato. Non ci offrí nemmeno il biglietto di visita.
Avevamo ancora un appartamento da visitare, ma mia madre disse che per oggi ne avevamo visti abbastanza. Mi domandò se preferivo tornare giú al molo, o andare a casa, o cos’altro. Aveva la bocca rigida, la faccia tirata. Cercava di mostrarsi allegra ma si capiva che era di pessimo umore. Non mi andava l’idea di tornare a casa, cioè alla pensione, cosí proposi di fare una passeggiata fino all’università, tanto per vedere com’era.
Mia madre guardò di sotto in su la strada davanti a noi. Pensai che avrebbe rifiutato la mia proposta. – Sicuro, – disse invece. – Perché no? Già che siamo da queste parti.
E cosí ci avviammo. Lungo il marciapiede c’erano dei grandi aceri. Le foglie cadute raschiavano sul cemento e ci turbinavano attorno alle gambe a ogni folata di vento.
– Tu non lasciarti andare cosí, mai, – esclamò mia madre, incrociando con forza le braccia sul petto e abbassando lo sguardo. – Non ci sono scuse, per lasciarsi andare a quel modo.
Sembrava mortalmente offesa. Sapevo di non avere fatto niente di male, per cui rimasi zitto. Mia madre continuò: – Qualsiasi cosa ti succeda, non ci sono scuse per darsi per vinti a quel modo. Lo senti cosa sto dicendo?
– Síssignora.
Un gruppo di cinesi ci arrivò alle spalle, erano dieci o dodici, tutti giovani, chiacchieravano animatamente. Si divisero per sorpassarci, ma sempre continuando a parlare, poi, dopo averci superato, il gruppo si ricompose come un corso d’acqua dopo avere aggirato uno scoglio. Li seguimmo, attraversammo la strada dietro di loro ed entrammo nel campus, dove scomparvero dentro uno degli edifici mentre la luce cominciava ad affievolirsi e il vento a salire. Questa era la prima giornata veramente fredda da che eravamo arrivati a Seattle e non ero coperto abbastanza. Ma non dissi niente, perché ancora non volevo tornare a casa. Non avevo mai messo piede in un campus ed ero tutto preso dal confronto fra ciò che vedevo e ciò che mi ero immaginato. Non mancava niente. C’erano i palazzi dall’aria antica, gli ingressi con le volte di pietra e le alte finestre ad arco. Dei prati rigogliosi. L’edera. Le foglie dell’edera erano già rosse. E in alto, sui muri che guardavano verso occidente, negli ultimi raggi di sole del giorno, le foglie rosse luccicavano agitate dal vento. Di tanto in tanto dallo stadio Husky saliva un grande boato. Ogni volta che lo sentivo provavo un brivido di complicità e di appartenenza. Sentivo di non essere fuori posto, qui, e credevo che gli studenti che incrociavamo lungo i sentieri lastricati, guardandomi, mi avrebbero visto come uno di loro – Fraternity Row – se non fosse stato per la signora che camminava accanto a me, con una mano posata sulla mia spalla. Quella mano cominciava a pesarmi.
Mia madre non se ne accorse. Era di nuovo di buon umore, con le guance rosse per il freddo e il ricordo di giornate come questa trascorse a Yale e a Trinity, quando da ragazza riceveva i biglietti gratuiti per le partite di football da un’amica che filava con uno dei giocatori. Anche mia madre usciva con uno dei giocatori, un quarterback di Yale che rispondeva al nome di Dutch Diefenbacker e giocava nella nazionale. Uno che avrebbe voluto sposarla, aggiunse con tono noncurante.
– Vuoi dire che chiese ufficialmente la tua mano?
– Mi offrí l’anello. Glielo vendette mio padre. Mio padre l’aveva comprato per una tipa di cui era cotto, ma lei non aveva voluto accettarlo. Le sue parole esatte erano state: «Diamine, non posso mica sposarmi con un bacucco come te!» –. Mia madre rise.
– Aspetta un attimo, – le dissi. – Mi stai dicendo che avresti potuto sposare un quarterback di Yale che giocava nella nazionale?
– Proprio cosí.
– E perché non l’hai fatto?
Ci fermammo accanto a una fontana invasa di foglie. Mia madre fissò l’acqua. – Non so. Ero molto giovane allora, e Dutch non era quello che si direbbe un ragazzo brillante. Oh, era carino, ma noioso. Molto noioso –. Inspirò a fondo e disse, con una certa energia: – Una vera barba!
– Avresti dovuto sposarlo invece, – replicai. Era la prima volta che sentivo questa storia. Trovavo scandaloso che mia madre, per puro snobismo giovanile, mi avesse privato di un padre che studiava a Yale e giocava nella nazionale. Sarei stato ricco, a quel punto, e avrei potuto avere un collie. Tutto sarebbe stato diverso.
Facemmo il giro della fontana e tornammo indietro rifacendo la stessa strada che avevamo fatto all’andata. Quando uscimmo dal campus mia madre mi domandò se non avevo voglia di andare a vedere l’appartamento che avevamo saltato. – Su, dài! – esclamò, vedendomi esitare. – Deve essere proprio qui dietro. Abbiamo fatto trenta, tanto vale fare trentuno.
Avevo freddo, ma siccome fino a quel momento non avevo detto niente pensai che sarebbe suonato falso se mi lamentavo adesso, falso e infantile. Mia madre fermò due ragazze che portavano dei golf con su le iniziali dell’università: due studentesse, pensai, e questa parola mi provocò una facile e pungente eccitazione. Mentre le ragazze indicavano a mia madre la strada, studiai i volumi esposti nella vetrina di una libreria lí accanto, quasi mi trovassi per puro caso vicino a quella signora che non conosceva il quartiere.
Il tramonto fu limpido e veloce. A un certo punto la luce si attenuò, e poco dopo scomparve. Superammo diversi isolati, addentrandoci in una zona residenziale con grandi case in stile vittoriano le cui finestre, viste dalla strada deserta, brillavano di una luce ricca, esclusiva. Il vento ci soffiava contro le spalle. Tremavo. Ma continuai a non dire niente a mia madre. Sapevo che avrei dovuto parlare prima, che era stato stupido da parte mia tacere, e adesso non mi restava che fare appello a tutta la mia forza di volontà per nascondere la mia stupidità continuando a fare lo stupido.
Ci fermammo davanti a una casa con una torretta. Il piano superiore era immerso nel buio. – È troppo tardi, – dissi.
– Non è mica mezzanotte, – replicò mia madre. – Tra l’altro, l’appartamento che interessa a noi è quello al piano terra.
Attraversò il portico della casa mentre io aspettavo sul marciapiede. Sentii il trillo soffocato di un campanello, e guardai le finestre per cogliere qualche movimento.
– Uffa. Avrei fatto meglio a telefonare, – sbottò mia madre. Si era appena girata per tornare da me quando la portà si aprí e un omone si stagliò nel vano illuminato della porta. – Chi è? – domandò con tono brusco, ma appena mia madre si girò e lo guardò aggiunse, con voce piú gentile: – Cosa posso fare per lei, signora? – Aveva una voce cosí bassa che mi sembrava quasi di poterla toccare, era come del carbone che ruzzola su un piano inclinato.
Lei gli disse che eravamo lí per via dell’appartamento. – Temo che siamo un po’ in ritardo, – disse.
– Vi aspettavo un’ora fa, – disse lui.
Mia madre ebbe un’esclamazione di sorpresa, e gli raccontò che eravamo passati per l’università e avevamo perso il senso del tempo. Mia madre sembrava desolata ma non accennava ad andarsene, e il tipo probabilmente capí che non se ne sarebbe mai andata prima di avere visto l’appartamento. Io lo capii senza ombra di dubbio. Cosí feci il vialetto e salii i gradini del portico.
Era un uomo voluminoso che si espandeva in tutte le direzioni, alto e rotondo con una testa massiccia, una testa da trofeo. Di solito, gli omoni come lui venivano inevitabilmente soprannominati «Piccolo», ma sono sicuro che nessuno avesse mai osato chiamarlo cosí. Aveva un’aria troppo solenne e preoccupata, e il viso era ampio e grave, faceva pensare un po’ a un bufalo. Ci guardò dall’alto della sua statura, da dietro degli occhiali dalla montatura nera. – Be’, ormai che siete qui... – disse, non senza una certa gentilezza, e lo seguimmo dentro casa.
La prima cosa che vidi fu il camino. Percepii anche altre cose, i mobili eleganti, la vastità della stanza, ampia quasi quanto una chiesa, ma i miei occhi si appuntarono subito sul fuoco. Era un camino cosí grande che sarebbe bastato che mi curvassi un po’ e avrei potuto starci dentro in piedi; il fuoco fiammeggiava sibilando. Davanti al camino c’era una ragazza stesa sul pavimento a pancia sotto, un piede nudo sollevato che roteava lentamente, il mento poggiato su una mano. Stava leggendo un libro. Continuò a leggere anche dopo il nostro ingresso, poi si tirò su a sedere e disse, con voce nitida: – Buona sera –. Aveva le tette. Vedevo come le gonfiavano il davanti della camicetta. Ma non era carina. Era grossa, sgraziata e portava lo stesso tipo di occhiali del signore che ci aveva aperto, cui sfortunatamente assomigliava parecchio. Batteva incessantemente gli occhi. Mi sentii subito a mio agio con lei. Le sorrisi e dissi: – Ciao, – anziché ostentare l’indifferenza, persino l’ostilità, che riservavo alle ragazze carine.
Qualcosa cuoceva nel forno, qualcosa al cioccolato. Mi avvicinai al caminetto e diedi le spalle al fuoco, allungando indietro le braccia.
– Oh, sí, è abbastanza comodo, – disse l’uomo, in risposta a un commento di mia madre. Si guardava attorno con un’aria buffa, quasi fosse sorpreso di trovarsi lí. Era una stanza davvero enorme, la piú grande che avessi mai visto in un appartamento. Noi non potevamo permetterci un posto come questo, ma stavo già perdendo di vista questo semplice dato di fatto.
– Vado a chiamare mia moglie, – disse il signore, ma restò dov’era, guardando mia madre.
Lei girò su se stessa, lentamente, annuendo fra sé e sé con aria riflessiva. – È bello tutto questo spazio, – disse. – Dà una tale sensazione di libertà. Dove trova il coraggio per rinunciarci?
Lui lipperlí non rispose. La ragazza si mise a spulciare il tappeto. Poi disse: – Siamo pronti per un piccolo cambiamento, vero Sister?
La ragazza annuí, senza alzare la testa.
Dalla stanza accanto arrivò una signora, portando un piatto pieno di biscotti al cioccolato. Era alta e sottile. Due profonde rughe le correvano lungo le guance, incorniciandole la bocca come fra due parentesi. I capelli grigi erano raccolti a coda di cavallo. Venne verso di noi a passi lenti, misurati, come se portasse dei doni a un altare, e posò il piatto sul tavolino da caffè. – Arrivate giusto in tempo per assaggiare qualcuno dei biscotti del dottor Avery, – disse la signora.
Pensai che alludesse a una ricetta. Ma appena il padrone di casa si avventò sul piatto facendo man bassa dei biscotti, capii. Capii non solo che era lui il dottor Avery, ma anche che quei biscotti erano per lui; era calato sul piatto con un’avidità che manifestava inequivocabilmente un diritto geloso ed esclusivo. Avevo quasi paura di avvicinarmi al piatto, ma Sister prese un biscotto e sopravvisse, anzi allungò di nuovo la mano per prenderne addirittura un altro. Cosí mi feci coraggio e ne presi un paio anch’io. Mentre mangiavamo i biscotti, la signora fece scivolare il braccio dietro la schiena del dottor Avery e si appoggiò al marito. L’idea che mi ero fatto del matrimonio, da quel poco che avevo visto, mi induceva a considerare le manifestazioni pubbliche di affetto coniugale come puro e semplice teatro «Guardate, questa è una casa dove le persone si abbracciano!» ma quella donna era cosí palesemente felice accanto a quell’uomo che non potei fare a meno di sentirmi felice per lei.
Mia madre vagava inquieta. – Le dispiace se do un’occhiata in giro? – domandò.
La signora Avery chiese a Sister di mostrarci il resto della casa.
C’erano diverse altre stanze, tutte assai spaziose. In due di esse c’era il caminetto. Sopra la mensola del camino, nella camera da letto matrimoniale, era appesa una grande foto che ritraeva un uomo con occhi scuri e pensosi. Quando domandai chi fosse, Sister mi disse, con un pizzico di supponenza: – Quello è Gurdjieff.
Non mi infastidí la sua condiscendenza. Sister era piú grande di me sia come età che fisicamente, e avevo il sospetto che fosse anche piú sveglia. La sua condiscendenza non mi sembrava fuori luogo.
– Gurjieff, – disse mia madre. – Sí, ho sentito parlare di lui.
– Gurdjieff, – ripetè Sister, come se mia madre avesse pronunciato male il nome.
Tornammo in soggiorno e ci sedemmo attorno al fuoco, il signore e la signora Avery sul divano, mia madre su una sedia a dondolo davanti a loro, Sister e io distesi sul pavimento. Sister riaprí il libro, e un istante dopo sollevò di nuovo il piede a mezz’aria e ricominciò il lento movimento rotatorio. Mia madre e la signora Avery stavano parlando della casa. Io guardavo il fuoco, le voci sopra la mia testa erano piacevoli e insignificanti, almeno finché non sentii che nominavano me. Mia madre stava raccontando alla signora Avery la nostra passeggiata all’università. Disse che era un bel campus.
– Bello? – fece il dottor Avery. – Cosa intende con bello?
Mia madre lo guardò. Non rispose.
– Immagino che intenda riferirsi all’architettura, è cosí?
– Certo, penso agli edifici. E al parco. All’effetto che fa l’insieme.
– Pura paccottiglia pseudogotica, – sentenziò il dottor Avery. – Il set di un fim.
– Il dottor Avery ritiene che l’università attribuisca un’importanza eccessiva alle apparenze, – disse la signora Avery.
– È l’unica cosa di cui si preoccupino, – confermò il dottor Avery.
– Non saprei, – fece mia madre. – Non mi intendo di architettura. L’insieme mi è piaciuto, tutto qui.
– Sí, be’, è ciò che vogliono, – replicò il dottor Avery. – Quel posto sembra un’università. Lo stesso dicasi per il tipo di istruzione che offrono. Ma è pura simulazione. Vuota apparenza. Tutta materia e niente anima.
A questo punto mi distrassi di nuovo e tornai a guardare le fiamme. Il dottor Avery continuò a brontolare. Prima aveva detto sí e no quattro parole, ma adesso che aveva cominciato non la finiva piú, né io desideravo che tacesse. Il suono della sua voce aveva qualcosa di ipnotico e rassicurante, un po’ come il ronzio di un motore quando sei sdraiato sul sedile dietro, e torni a casa dopo un lungo viaggio. Ogni tanto interveniva anche la signora Avery, per esprimere la sua approvazione su ciò che diceva il marito, e comunicare la sua totale adesione; poi lui riattaccava a parlare. Sister si spostò accanto a me. Sbadigliò, girò una pagina. I ceppi si assestarono nel caminetto, come un vecchio cane che si accomoda nella sua cuccia.
Il dottor Avery parlò a lungo senza che nessuno lo interrompesse. Poi mia madre pronunciò il mio nome. Nient’altro, solo il mio nome. Il dottor Avery andò avanti a parlare come se non avesse sentito. Era tutto allungato in avanti e dimenava un dito secondo la cadenza del discorso, gli occhiali gli luccicavano mentre scuoteva la grande testa. Guardai mia madre. Era rigida sulla sedia a dondolo, con le mani impastava la borsetta che aveva in grembo. Il viso era vuoto, pietrificato. Era la stessa espressione che le compariva sul volto quando la incastrava qualche piazzista ostinato o una coppia di predicatori Mormoni. Mia madre voleva andare via.
Ma io no. Sonnecchiando davanti al fuoco, intorpidito e soddisfatto, mi ero dimenticato che quella non era casa mia. Il caldo e i bagliori del fuoco mi facevano lo stesso effetto della voce del dottor Avery, e mi sentivo cullato nella serenità domestica in cui mi sembravano vivere queste persone. Riuscii persino a dimenticarmi che non erano la mia famiglia, e che anche loro avrebbero lasciato presto questa casa. Li avevo inglobati nella mia storia senza considerare in alcun modo che essi avevano la loro da vivere.
Ignoro quale fosse questa loro storia. Noi li vedemmo mai piú. Ma adesso, dopo tanti anni, posso azzardare un’ipotesi. La mia ipotesi è che l’università aveva negato un posto di ruolo al dottor Avery, e che quell’università non era la prima a disconoscere i suoi meriti, né l’ultima. Lo vedo portare avanti la sua battaglia contro le vacue apparenze da un’immeritevole università a un’altra, poiché tutte rifiutano, con veemenza crescente, l’invito perentorio del dottor Avery a perseguire la grandezza spirituale. I colleghi, piccoli intelletti accompagnati da altrettanto piccoli cuori, lo prendono in giro, lo considerano noioso, uno scocciatore. Tanta nobiltà d’animo, essi insinuano, è solo un modo per nascondere la propria mediocrità nel campo del lavoro, quale che sia la disciplina del dottor Avery. E ogni volta lo costringono a fare le valige. La signora Avery consola l’anima ferita del marito con inesauribile fedeltà, e con infornate sempre piú grandi di biscotti al cioccolato provvede ai bisogni della sua materia in perenne espansione. Lei crede in lui. La fede di lei, quale ne sia il fondamento, è eroica. Non le viene mai in mente, a differenza di quanto capiterebbe a una donna piú meschina, che le semplici felicità che la vita poteva offrirle – amicizie consolidate, una casa tutta sua, una vita radicata in una comunità – siano state sacrificate non in nome di qualche verità superiore ma della vanità e dell’arroganza.
No, questo dubbio appartiene a Sister. Sarà Sister l’eretica. Non ha scelta, essendo figlia loro. Col tempo, non molti anni dopo quella sera, Sister capirà che le delusioni della sua vita derivano dai fallimenti dei suoi genitori. Chi conosce quei fallimenti meglio di Sister? Cominciano le scenate. Il dottor Avery viene accusato di essere quello che è, la signora Avery di essere quella che è. Le visite a casa da Barnard o da Reed o da qualsiasi altra università in cui Sister è riuscita a entrare grazie alle borse di studio, e poi dalla lontana città dove lavora, diventano dei pezzi di teatro. Bisbigli rabbiosi in cucina, urla attorno al tavolo da pranzo, partenze anticipate. Si va avanti cosí per anni, ma non per sempre. Sister fa pace coi suoi. Arriva persino ad avere caro ciò che prima detestava, la loro ostilità a parlare e a comportarsi come tutti gli altri, gli incessanti cambiamenti di sede, gli spruzzi vivificanti della loro bizzarria nel flusso fangoso delle cose. Scopre che non ha altra scelta, deve amarli per forza, e chi potrebbe amarli piú di lei?
Può essere andata in questo modo, o in un altro modo ancora. Ho inglobato queste tre persone nella mia storia senza sapere niente della loro, proprio come feci quella sera, sognando di essere uno di famiglia. Invece eravamo degli estranei. Ero stato in casa loro al massimo tre quarti d’ora, ma quel poco tempo era bastato perché mi riscaldassi e perdessi di vista la realtà.
Mia madre pronunciò di nuovo il mio nome. Restai dov’ero. In circostanze normali sarei balzato in piedi senza bisogno di essere pungolato, non per cieca ubbidienza ma perché mi piaceva anticiparla, ostentare il nostro gioco di squadra. Stavolta invece mi limitai a fissarla imbronciato. Stonava su quella sedia a dondolo; era una donna troppo fascinosa per stare su una sedia a dondolo. Mi sembrava che il fascino di mia madre fosse come una cosa a parte, un’altra presenza, un’amica mondana e impaziente che smaniava di portarla fuori di lí, lontano da quella vita casalinga.
Disse che era ora di tornare a casa. Sister alzò la testa e mi guardò. Continuai a restare sdraiato. Vidi la sorpresa sul viso di mia madre. Aspettava che mi muovessi e quando non mi mossi spostò lentamente il dondolo in avanti e si alzò in piedi. La imitarono tutti, tranne me. Mi sentii sciocco e viziato a restare là sdraiato sul pavimento da solo, ma egualmente continuai a non muovermi mentre mia madre passava agli ultimi convenevoli. Quando si avviò verso la porta, mi alzai e mormorai i miei saluti, poi la seguii fuori della stanza.
Il dottor Avery ci aprí la porta.
– Sa, – disse mia madre, – continuo a pensare che quello sia un bel campus.
Lui rise: – Oh oh oh. – Be’, e sia, – ammise, – A ciascuno il suo –. Aspettò finché non arrivammo al marciapiede, poi spense la luce e chiuse la porta. Un solido tonfo dietro di noi.
– Si può sapere cosa ti è preso? – domandò mia madre.
Non risposi.
– Ti senti bene?
– Sí, – dissi. Poi aggiunsi: – Ho un po’ freddo.
– Freddo? Perché non hai detto niente? – Cercò di fare la faccia preoccupata ma capii perfettamente che era contenta di avere ricevuto una giustificazione piuttosto semplice per ciò che era accaduto in casa degli Avery.
Si tolse la giacca del tailleur. – To’.
– Sto bene.
– Infilatela.
– Davvero, mamma, sto bene.
– Infilatela, stupidotto!
Mi misi la giacca sulle spalle. Camminammo per un po. – Mi dà un’aria ridicola, – sbottai.
– E allora? Chi se ne importa?
– A me importa.
– Ok, a te importa. Mi dispiace. Diamine, fai davvero crepare dal ridere, stasera.
– Non intendo tenermi addosso questa giacca anche sull’autobus.
– Nessuno ha detto che la devi tenere addosso anche sull’autobus. Ti va di mangiare un boccone prima che torniamo a casa?
Le dissi come no, altroché, quello che voleva lei.
– Sicuramente da queste parti c’è qualche pizzeria. Ti va una pizza?
Eccome, dissi.
Un cane nero con gli occhi luccicanti attraversò la strada e venne verso di noi.
– Ciao, Bobby, – disse mia madre.
Il cane ci trotterellò accanto per un po’, poi imboccò una traversa.
Alzai il bavero della giacca di mia madre e mi ingobbii.
– Hai ancora freddo?
– Un po’ –. Tremavo come una foglia. Mi sembrava di non avere mai avuto tanto freddo in vita mia, e pensai che era tutta colpa di mia madre, che mi aveva fatto uscire di nuovo per strada, allontanandomi da quel bel camino acceso. Sapevo benissimo che non era colpa sua ma la biasimai lo stesso, per questo e per il vento che mi soffiava in faccia e per ogni altra cosa senza nome che non era come avrebbe dovuto essere.
– Vieni qui –. Mi fece girare verso di lei e cominciò a strofinarmi energicamente le braccia. Feci per allontanarmi ma lei mi tenne fermo e continuò a sfregarmi. Funzionò abbastanza. Non è che adesso sentissi caldo, ma certo ero meno gelato di prima.
– Giusto per curiosità, – disse mia madre, – a te come ti è parso il campus? Sinceramente.
– Mi è piaciuto.
– Secondo me era bellissimo.
– Anche secondo me.
– Che borioso quel signor Avery, – disse mia madre. – Avrei dovuto rispondergli per le rime.
Adesso ho il mio caminetto. Dove viviamo, gli inverni sono lunghi e freddi. Il vento fa cadere la neve in diagonale, la casa scricchiola, i vetri delle finestre si glassano con felci di ghiaccio. Dopo cena, preparo il fuoco, costruendo quattro pareti di ciocchi un po’ come una baracca senza tetto. È il modo migliore. Solo i pivelli usano il sistema della tenda indiana. I miei figli aspettano dietro le mie spalle, spintonandosi per conquistare la posizione migliore, litigando furiosamente sul loro diritto di accendere il fiammifero. Suggerisco che lo facciano insieme. Le loro mani tremano di impazienza mentre accendono i fiammiferi e li avvicinano alla carta appallottolata, incendiandola in piú punti finché gli sterpi non cominciano a scoppiettare. Allora si accoccolano sui talloni e guardano le fiamme inghiottire la baracca. Sui loro volti un’espressione reverente.
Mia moglie entra ed elogia il fuoco, sapendo come ne vado orgoglioso. Si stende sul divano con un libro ma non legge. Neanch’io leggo il mio. Guardo il fuoco, guardo la luce che si trasforma sui volti dei miei cari. Cerco di sentirmi a casa, e mi ci sento, quasi del tutto. Questo è il momento che sogno quando sono lontano; questa è la casa che sogno. Ma sento che con una parte di me sto chiamando a raccolta tutte le mie forze, come se temessi di essere stato imbrogliato. Quasi che considerare vero questo sogno significhi in qualche modo farlo svanire, come una voce che viene a scuotermi dal sonno.