La catena
Brian Gold era in cima alla collina quando il cane partí all’attacco. Era un bestione nero, tipo cane lupo, legato a una catena. Spuntò con un balzo dalla veranda posteriore e attraversò a tutta velocità il giardino della casa che confinava col parco pubblico. Il cane correva come un lampo nonostante la neve alta, puntando dritto sulla figlia di Gold. Lui aspettò che la catena lo bloccasse, invece il cane continuava ad andare avanti. Gold si lanciò a capofitto giú per la collina, urlando con quanto fiato aveva in gola. Il vento e la neve attutirono il suono della sua voce. La slitta di Anna era quasi in fondo al pendio. Gold aveva tirato su il cappuccio della giacca a vento di sua figlia per proteggerla dalle folate pungenti, e sapeva che lei non poteva sentire la sua voce né vedere il cane che stava per assalirla. Gold era cosciente della velocità della bestia e della propria impercettibile avanzata, del peso degli stivaloni di gomma, della morsa insidiosa della crosta di ghiaccio sotto la neve fresca. Il giaccone gli sbatteva contro le ginocchia. Gridò un’ultima volta mentre il cane spiccava un balzo in avanti, e in quel momento Anna ebbe uno scatto e il cane l’azzannò alla spalla anziché al viso. Gold era appena a metà della discesa, le braccia che pompavano, i piedi che scivolavano dentro gli stivaloni. Gli sembrava di stare correndo sul posto, bloccato a una distanza fissa, insuperabile, mentre il cane trascinava Anna giú dalla slitta, scuotendola come una bambola di pezza. Gold si buttò giú per la collina, disperatamente, poi a un tratto la distanza svaní e lui era là.
La slitta si era rovesciata, la neve era tutta smossa; il cane aveva marcato il territorio rivendicandone il possesso. Stringeva ancora Anna per la spalla. Gold sentí la rabbia ribollirgli nelle viscere. Vide il dorso della bestia teso, le orecchie tirate indietro, il luccichio rosso delle gengive nel muso raggrinzito. Anna era supina in terra, il viso pallidissimo e inespressivo, fissava il cielo. Non gli era sembrata mai cosí piccina. Gold afferrò la catena e tirò con violenza, ma nella neve non trovò un punto di appoggio. Il cane ringhiò solo con maggior ferocia e ricominciò a scrollare Anna. Lei non emise un suono. Davanti a quel silenzio, Gold avvertí un raggelante senso di vuoto. Si lanciò sul cane e gli uncinò il collo col braccio, tirandolo indietro. Ma quello ancora non mollava la presa. Gold sentí il calore della bestia e il ruglio della sua volontà ferina. Con l’altra mano cercò di costringerlo ad aprire la bocca. I guanti gli diventarono subito scivolosi per la saliva; non riusciva a trovare un varco. Gold aveva la bocca vicino all’orecchio del cane. Gridò: – Lasciala, maledetta bestiaccia, – e gli addentò l’orecchio con tutte le sue forze. Sentí un guaito e qualcosa lo colpí in piena faccia, facendolo ruzzolare indietro. Quando riuscí a rialzarsi, il cane stava correndo verso la casa, muoveva la testa a scatti di qua e di là, lasciando chiazze di sangue nella neve.
– L’intera faccenda sarà durata sí e no un minuto, – disse Gold. – Forse anche meno. Ma sembrava un’eternità –. Oramai aveva raccontato questa storia molte volte, e sempre faceva la medesima osservazione. Sapeva che era banale meravigliarsi per come il tempo può dilatarsi e arrestarsi, ma non poteva fare a meno di ripeterlo ogni volta. Cosí come non poteva fare a meno di ripetere anche che era stato un «miracolo» – questa era la parola usata dal radiologo – se Anna non era rimasta storpia o sfigurata, o addirittura non aveva perso la vita; e i dottori non si capacitavano del fatto che le ossa e i nervi fossero rimasti illesi. Benché contusa, la pelle della bambina non mostrava neanche un graffio.
Gold amava il viso della figlia. Lo adorava come una cosa a sé, da ammirare stupiti e da studiare. Eppure, dopo il fatto del cane, Gold non riusciva piú a guardare Anna come prima. Continuava a vedere il cane che le balzava addosso, e lui incollato per l’eternità su quella collina; allora il cuore prendeva a battergli furiosamente, e Gold si sentiva teso, inquieto, arrabbiato. Non voleva piú pensare al cane, lo voleva cancellare dal quadro. Avrebbe dovuto essere abbattuto. Era troppo cattivo, era un pericolo, eppure quella bestiaccia stava ancora là, pronta ad aggredire qualche altro bambino, perché la polizia non aveva mosso un dito.
– Non intendono fare niente, – disse Gold. – Niente di niente.
Stava raccontando daccapo tutta la storia a suo cugino, Tom Rourke, una domenica pomeriggio, una settimana dopo l’incidente. Gold gli aveva già telefonato la sera stessa del fatto, ma la parte sulla polizia era nuova, e Rourke, proprio come Gold aveva immaginato, non nascose la sua riprovazione. Suo cugino aveva un acuto ed esigente senso della giustizia, e una riserva sempre pronta di sdegno solidale cui Gold aveva fatto ricorso fin da quando erano ragazzi. Da una settimana ormai Gold era solo con la sua rabbia e voleva un po’ di compagnia. Benché sua moglie si dichiarasse anche lei sconvolta e furente, non aveva visto la scena cui aveva assistito lui. Per lei il cane era un’astrazione, e in ogni caso sua moglie non era il tipo che rimugina sulle cose.
Rourke volle sapere come si giustificavano i poliziotti. Quale ragione adducevano per spiegare la loro totale indifferenza?
– La catena, – disse Gold. – Dicono, e questa è davvero la parte piú bella, dicono che siccome il cane era tenuto alla catena, nessuna legge è stata violata e tutto è in regola.
– Ma il cane non era alla catena, giusto?
– E invece sí, ma la catena gli permette di arrivare fino al parco. Figurati, ci entra dentro per piú di dieci metri.
– Ma è assurdo! Con questo ragionamento, basterebbe che un cane avesse una catena lunga dieci chilometri e potrebbe azzannare legalmente tutta questa città del cazzo!
– Esatto.
Rourke si alzò e andò alla finestra, una grande finestra panoramica. Restò davanti ai vetri a osservare con aria torva la neve che cadeva. – Questa faccenda mi ricorda tanto la storia dei nazisti e i cani lupo. C’è una somiglianza atroce, lo vedi anche tu, no? – Poi, continuando a guardare dalla finestra, aggiunse: – Hai parlato con un avvocato?
– L’altro ieri.
– E lui cosa ha detto?
– È una lei, si chiama Kate Stiller. Ha detto che quelli della polizia sono una massa di stronzi. E mi ha consigliato di metterci una pietra sopra. Dice che il cane farà in tempo a crepare di vecchiaia prima che noi si riesca anche solo a sentire l’odore di un’aula di tribunale.
– La so io la legge che ci vuole per te, Brian, ragazzo mio. Ti daranno tutta la giustizia che vuoi, quando gliel’avrai messo nel didietro.
Dal soffitto venne il rumore di un tonfo. Anna stava giocando al piano di sopra col figliolo di Rourke, Michael. Entrambi gli uomini alzarono gli occhi e restarono in attesa. Poi, quando non si sentí nessuno strillo, Gold disse: – Non so nemmeno perché le ho telefonato. Non ho i soldi per pagare un avvocato.
– Sai come sono andate le cose? – disse Rourke. – Il poliziotto che ha raccolto la tua denuncia ha fatto qualche casino, e adesso gli altri lo stanno coprendo. Allora, lo vuoi togliere di mezzo o no?
– Il poliziotto?
– No, dico il cane.
– Mi stai chiedendo se voglio togliere di mezzo il cane?
Rourke fissò il cugino senza fiatare.
– È questo che stai dicendo? Di ammazzare il cane?
Rourke ghignò, ma continuò a tacere.
– E come? – domandò Gold.
– Tu come preferiresti?
– Cristo, Tom, non posso crederci che sto parlando cosí.
– Ma lo stai facendo –. Rourke spinse col piede l’ottomana fino a piazzarla davanti a Gold, a quel punto ci si sedette, protendendosi verso il cugino, finché le loro ginocchia quasi non si toccarono. – Niente polpette avvelenate o farcite di schegge di vetro. Sono metodi del cazzo, non li userei nemmeno con il mio peggior nemico. No, facciamo un lavoretto pulito.
– Cristo, Tom –. Gold cercò di ridere.
– Puoi usare il mio Remington... Ti piazzi in cima alla collina e lo inquadri col telescopio. Oppure, se preferisci vederlo da vicino, puoi stenderlo con una calibro 12 o con una 44 magnum. Hai mai sparato con una pistola?
– No.
– Allora la magnum scordatela.
– Non posso sparargli.
– Ma sí che puoi.
– Capirebbero subito che sono stato io. Ho fatto il diavolo a quattro per questa storia del cane. Chi pensi che andrebbero a cercare quando lo trovano tutto a un tratto con un bel buco nella testa?
Rourke si succhiò le guance. – È vero, – disse. – Tu non puoi sparargli. Ma posso farlo io!
– No, scordatelo, Tom.
– Tu e Mary uscite. Andate a cena da Chez Nicole o da Pauly, in qualche ristorantino tranquillo dove si ricorderanno di voi. Quando tornate a casa, io avrò già finito il lavoro, ma tu sarai pulito come un angioletto.
Gold finí la sua birra.
– Dobbiamo sistemarla noi quella bestiaccia, Brian. Se non lo facciamo noi, non lo farà nessuno.
– Forse sarebbe giusto, se lo facessi io. Forse, dico. Ma che sia tu a farlo, no, questo proprio non mi sembra giusto.
– E cosa mi dici di quel cane che ancora scorrazza come e quanto gli pare dopo quello che ha fatto ad Anna? Questo ti sembra giusto? – Quando Gold non rispose, Rourke gli diede una scrollata al ginocchio. – Davvero gli hai addentato l’orecchio a quella bestiaccia?
– Non avevo altra scelta.
– Gliel’hai staccato a morsi?
– No.
– Ma l’hai ferito a sangue, vero? In bocca hai sentito il sapore del suo sangue.
– Me ne è entrato un po’ in bocca, sí. Non ho potuto farne a meno.
– E aveva un buon sapore, vero? Avanti, Brian, non prendiamoci per il culo, aveva un buon sapore, sí o no?
– Ho provato una certa soddisfazione, – ammise Gold.
– Tu vuoi fare solo quello che è giusto fare, – disse Rourke. – E questo lo apprezzo. Ne riconosco il valore. Diciamo che sta a te decidere, e sappi che la mia offerta resta sempre valida, ok?
Rourke aveva tirato fuori quella storia sui nazisti e i cani lupo non per chissà quale profonda riflessione, Gold lo sapeva, ma solo perché dare del nazista alla gente era la prima risposta di suo cugino a qualsiasi fastidio o offesa ricevesse. Tuttavia, una volta che l’immagine venne evocata, Gold non riuscí piú a togliersela di mente. La fantasia che lo ossessionava era una scena su cui aveva meditato spesso: un branco di cani lupo inferociti che attaccano alcuni ebrei inermi, sulla banchina di una stazione ferroviaria.
Gold era ebreo per parte di padre, ma i suoi si erano separati quando lui era molto piccolo, ed essendo stato affidato alla madre, aveva ricevuto un’educazione cattolica. Il suo cognome non era adatto a lui; sentiva che lo faceva apparire ridicolo. Quando sentivi Gold, a cos’altro potevi pensare se non all’oro? Con quel nome Gold avrebbe dovuto essere un ricco volpone, e non il morto di fame che era, con quel suo lavoro fallimentare. Opinione inequivocabilmente condivisa da tutti i ragazzi neri che entravano nel negozio dove Gold vendeva e noleggiava videocassette. Essi gli si rivolgevano con un tono beffardamente formale chiamandolo «Signor Gold», come se il suo cognome fosse già il prezioso metallo in sé e per sé. E capitava persino, quando qualcuno di loro non aveva tutti i soldi del noleggio, che arrivassero al punto di chiedergli di metterci di tasca sua la differenza, e ostentavano incredulità quando lui si rifiutava di farlo. L’arrugginita Toyota che Gold teneva parcheggiata davanti al negozio, per loro era un mistero bello e buono, argomento di infinite conversazioni; non si capacitavano che, con tutti i soldi che aveva, non si decidesse a prendere un’auto decente. Una sera, parlando davanti al banco del negozio con degli amici, una ragazza fece l’ipotesi che Gold tenesse la Cadillac a casa perché aveva paura che i fratelli neri gliela rubassero. E tutti, a sentire questo, ammutolirono, mentre fino a un attimo prima non facevano che berciare e fare casino, come se fosse stata pronunciata una dura verità.
Certo, una Cadillac. Cos’altro?
Dopo essersene allontanato per anni, Gold aveva finito col tornare alla chiesa cattolica, e tutte le settimane andava a messa per sostenere la sua fragile fede, ma capiva che agli occhi del mondo lui restava sempre un ebreo. Era una cosa di cui non aveva mai saputo cosa pensare. Vedeva in sé alcune inclinazioni che gli parevano tipiche degli ebrei, delle peculiarità estranee ai ragazzi per lo piú di origine irlandese in mezzo ai quali era cresciuto, compresi i suoi cugini. L’amore per i libri, la pazienza, la passione della musica classica e la tendenza a un complicato moraleggiare, l’avversione all’alcool e alla violenza. Tutti aspetti che gli parevano accettabili. In lui tuttavia c’erano altre predisposizioni che apprezzava di meno e anche queste temeva di doverle attribuire alla matrice ebraica. Un’autoironia corrosiva. Degli accessi di scetticismo paralizzante. L’inettitudine fisica. Una certa inclinazione alla passività, addirittura alla resa, di fronte a persone prepotenti e a circostanze ostili. Gold sapeva anche che questa idea di ebraismo era la stessa degli antisemiti, e cercava di resistere alla sua influenza, ma senza molto successo.
Nell’immagine a lui già famigliare che Rourke aveva evocato, quella degli ebrei sulla banchina della stazione tenuti a bada dai cani lupo, Gold riconosceva un esempio della rassegnazione che detestava in se stesso. Sapeva che era ingiusto biasimare delle persone perché non avevano lottato contro una malvagità che, proprio a causa della loro innocenza, non erano in grado nemmeno di immaginare, eppure persino mentre ricordava come quegli ebrei fossero brutalizzati, affamati, e in stato di shock, non poteva fare a meno di domandarsi: Ma perché uno di loro non aveva provato a colpire una delle guardie, magari strappandogli il fucile, per il solo gusto di portare con sé all’altro mondo anche qualcuno di quei bastardi? Perché non avevano provato a fare qualcosa? Gold si rendeva conto che questa domanda era terribilmente ingiusta, eppure ogni tanto gli si riaffacciava nella mente.
E adesso, con quella vecchia immagine di nuovo viva nei suoi pensieri, gli sembrava che la domanda dovesse rivolgerla a se stesso. Perché non faceva qualcosa? Sua figlia era stata assalita con ferocia da un cane lupo, proprio come quelli dei nazisti, ed era solo un miracolo se non era rimasta deturpata. Gold aveva visto la follia della bestia, aveva sentito la sua ferina volontà di nuocere. E adesso quel cagnaccio era ancora là, in attesa della prossima vittima, perché nessuno, lui compreso, faceva ciò che sarebbe stato necessario fare. Gold non riusciva a sottrarsi alla consapevolezza della propria inerzia. Nei giorni successivi alla conversazione con Rourke, essa divenne un peso intollerabile. Ovunque si trovasse, a casa o in negozio, Gold aveva comunque l’impressione di essere contemporaneamente anche su quella collina, incapace di muoversi o di parlare, immobile a guardare il cane che assaliva Anna con furia omicida e la catena che gli guizzava dietro come un interminabile serpente nero.
Andò in auto fino al parco un pomeriggio, sul tardi, e si fermò dirimpetto alla casa dove viveva il proprietario del cane. Era una villa in stile coloniale con una lunga fila di abbaini, una grande villa costosa, come la maggior parte delle altre case attorno al parco. Gold pensò che non era difficile immaginare come mai la polizia si fosse mostrata tanto docile. Questa non era una zona degradata, una culla di delinquenti che si facevano beffe della legge. Il profondo rintocco del battente di ottone contro la grande porta d’ingresso verde, il lampadario sfolgorante dell’atrio, il disegno elegante della scala con i monumentali montanti di legno e il corrimano lucidissimo: tutte queste cose ti dicevano che qui la legge era apprezzata e rispettata. Ovviamente un cane ha bisogno di spazio per gironzolare. Se la gente non sorveglia i propri bambini come dovrebbe, è inevitabile che ne paghi le conseguenze. Certi tipi poi sono lagnosi di natura.
Benché Gold non sperasse piú nei poliziotti, credeva di capirli. Chi non capiva erano quelli che avevano permesso che il loro cane aggredisse sua figlia. Non avevano mai chiamato per scusarsi, o anche solo per sentire come stava Anna. Sembravano infischiarsene del fatto che il loro cane era un assassino. Gold era venuto in auto fin qui con l’idea, piú o meno, di fare quattro chiacchiere con loro, per aiutarli a capire cosa ci si aspettava che facessero, come se quella gente fosse disposta anche solo a invitarlo in casa. Che illuso.
Quella sera telefonò a Rourke e gli disse di procedere.
Rourke si era fissato sull’idea che Gold portasse Mary a cena fuori in qualche buon ristorante – sarebbero stati ospiti suoi – la grande sera. Aveva una concezione teatrale dell’evento, e prevedeva che i due coniugi brindassero alla sua salute con coppe di champagne, mentre lui faceva quello che avevano deciso che andava fatto.
Ma Gold rifiutò l’offerta. Mary non sapeva niente del loro progetto, e lui non poteva starsene seduto davanti a lei per tre ore, per giunta mentre altrove si svolgeva l’azione principale, senza dirle niente. E poi a sua moglie di certo il piano non sarebbe piaciuto, ma non avrebbe potuto fare piú niente per bloccarlo; e sapere tutto a quel punto sarebbe stato solo un peso per lei. Cosí Gold reclutò uno studente universitario, un certo Simms, con l’incarico di badare al negozio tutte le sere, tranne quella del martedí, perché il martedí Simms seguiva un seminario. Benché Rourke fosse deluso dalla banale drammaturgia del cugino, acconsentí: martedí sera, allora.
Il mattino del martedí cadde altra neve, seguita da una vera e propria tormenta. All’imbrunire, le strade e i marciapiedi erano ancora coperti da uno strato di ghiaccio e gli affari procedevano a rilento. Come sempre Gold aveva un nuovo film che trasmetteva dal monitor sopra il banco, ma non riusciva a seguire la trama per via del montaggio frenetico e della brutta musica, cosí lo fermò a metà e non si diede la pena di sostituirlo con un altro. Il negozio precipitò in un bizzarro silenzio. Forse per questo, i clienti non indugiavano come al solito, chiacchierando con Gold e fra di loro. Facevano la loro scelta, pagavano e se ne andavano. Provò a leggere il giornale. Alle venti e trenta Anna telefonò per dirgli che aveva vinto una gara di poster, a scuola. Dopo che Anna ebbe riagganciato, Gold assistette a una rissa davanti al ristorante Domino, dall’altra parte della strada. Due uomini, ubriachi o drogati, ebbero un violento alterco, poi uno mollò all’altro una goffa sventola. Lottarono corpo a corpo e caddero insieme sul ghiaccio. Un fattorino e uno dei cuochi del ristorante uscirono in strada e li aiutarono a rialzarsi, poi li aiutarono ad allontanarsi in due direzioni differenti. Gold scaldò nel micronde del chili avanzato dalla cena di domenica. Mangiò lentamente, guardando la lenta processione di auto e i pedoni ingobbiti e guardinghi che sfilavano davanti alla sua vetrina. Mary ci aveva dato dentro col cumino, proprio come piaceva a Gold. La fronte gli si imperlò di sudore e si tolse il golf. I caloriferi ticchettavano. I lunghi tubi di luce fluorescente ronzavano sopra la sua testa.
Rourke chiamò poco prima delle ventidue, quando Gold stava chiudendo. – Scooter ha seppellito il suo ultimo osso, – disse.
– Scooter?
– Si chiamava cosí.
– Preferirei che non me lo avessi detto.
– Gli ho preso il collare, un souvenir per te.
– Per l’amor di Dio. Tom!
– Non preoccuparti, tu sei pulito.
– Non mi dire altro, nemmeno una parola, – esclamò Gold. – Ho paura di sapere troppo, quando verrà la polizia.
– Non verranno mai da te. Ho sistemato le cose in modo tale che non sapranno mai esattamente cosa è successo –. Diede un colpo di tosse. – Andava fatto, Brian.
– Forse sí.
– Niente forse. Andava fatto e basta. Ma ammetto che non è una cosa che mi piacerebbe rifare.
– Mi dispiace, Tom. Avrei dovuto arrangiarmi.
– Non è stato affatto divertente, ti assicuro –. Rourke restò in silenzio. Gold lo sentiva respirare. – Mi sono letteralmente congelato il culo. Pensavo che non l’avrebbero mai fatta uscire quella dannata bestiaccia.
– Non me lo dimenticherò. Grazie, Rourke, – disse Gold.
– De nada. Adesso è finita. Va’ in pace.
Verso la fine di marzo, Rourke chiamò Gold per raccontargli cosa gli era successo. Stava facendo benzina sull’Erie Boulevard quando una Bmw, allontanandosi dalla pompa dell’aria, aveva strusciato la sua auto graffiandogli lo sportello. Lui aveva urlato di fermarsi al tipo che la guidava, un nero con gli occhiali da sole e il berretto fatto a maglia. Ma quello lo aveva ignorato. Guardando dritto davanti a sé, era uscito dalla piazzola immettendosi nel viale come niente fosse. Rourke tuttavia aveva avuto il tempo di studiarsi il numero di targa. C’era anche un autoadesivo, facile da ricordare: SCUSATEMI. Rourke aveva telefonato alla polizia, che aveva rintracciato il tipo e lo aveva multato perché aveva abbandonato il luogo dell’incidente.
Fin qui, tutto bene. Poi però era venuto fuori che il tipo non era assicurato. L’assicurazione di Rourke aveva accettato di pagare quasi tutto il conto del carrozziere – ottocento verdoni per una ammaccaturina! – ma adesso c’erano ancora trecento dollari da pagare, deducibili dalle tasse. Rourke aveva pensato che toccava al signor Scusatemi saldare il conto. Il suo agente assicurativo gli aveva dato il nome del tipo e i suoi dati personali, e Rourke aveva cominciato a telefonargli. Lo aveva chiamato per due volte sempre in orari ragionevoli, dopo cena, ma entrambe le volte la donna che aveva risposto al telefono aveva detto che non era in casa e gli aveva dato il telefono di un locale di Towesend, dove però rispondeva solo una segreteria telefonica. Nonostante Rourke avesse lasciato diversi messaggi molto chiari, il tipo non l’aveva mai richiamato. Cosí alla fine Rourke aveva richiamato il primo numero, alle sette del mattino, e finalmente aveva beccato il signor Vick Barnes in persona.
– Ma da dove viene fuori questo Vick, me lo sai dire? – esclamò Rourke. – Hai fatto caso alle libertà che si prendono coi nomi? Prendi Victor, abbreviato viene Vic, giusto? V-I-C. Dove cazzo è andato a prenderla quella «k»? Oppure, prendi Sean, S-E-A-N. Saranno almeno cinquecento anni che lo scrivono cosí, dico bene? Ma loro no, loro sai come lo scrivono? Loro scrivono S-H-A-W-N. Ma chi glielo dà questo diritto?
– E cosa ti ha detto questo Vick?
– Oh, un sacco di insolenze, chiaro. Prima fa il risentito perché l’ho svegliato, poi dice che sono tutte cagate, che lui ha già chiarito tutto con la polizia, e che comunque è convinto di non avere ammaccato nessuna auto. E a quel punto riaggancia.
Rourke cosí aveva capito che era inutile telefonargli ancora; da un tipo del genere non puoi ottenere niente. Piuttosto, si era recato in quel locale, il Jack’s Shady Corner, dove era venuto fuori che il signor Vick Barnes lavorava nel club, come deejay, e dunque, sicuro come il sole, spacciava droga come contorno. Tutti i deejay spacciavano. Sennò come li avrebbe fatti i soldi per una Bmw? Tuttavia bisognava ammettere, disse Rourke, che il tipo, il nostro signor Barnes, era un vero professionista: aveva una bella voce pastosa, e sparava sfilze di frasi a raffica, ripetendole meccanicamente, secondo lo stile dei deejay. Rourke aveva bevuto un paio di birre guardando la gente che ballava, poi era andato a dare un’occhiata alla Bmw.
Non era nel parcheggio. Rourke aveva gironzolato lí attorno, finché non l’aveva trovata parcheggiata da sola in un angoletto dietro il club, al riparo dagli ubriachi. Rourke aveva intenzione di tornare lí, quella sera, per fare gustare al signor Vick Barnes una dose della sua stessa medicina, piú una piccola dose extra, per fare buon peso.
– Non puoi, – gli disse Gold. – Capiranno che sei stato tu.
– Già, ma devono provarlo.
Gold aveva immaginato fin dall’inizio dove lo avrebbe portato questa storia, anche se invece Rourke sembrava non averlo ancora capito. Quando Gold si sentí dire: – Lo farò io, – gli sembrò di leggere la battuta di un copione.
– Non c’è bisogno, Brian. Farò tutto da solo, torno là alla chetichella e...
– Aspetta un attimo. Resta in linea un secondo –. Gold posò il ricevitore e si occupò dell’anziana signora che voleva noleggiare Tutti insieme appassionatamente. Poi riprese la cornetta e disse: – Non fare il pazzo. Ti beccheranno di sicuro.
– Senti, non posso tollerare che questo tizio mi prenda cosí per i fondelli. Non può passarla liscia, o tutti in questa città si sentiranno autorizzati a mettermelo di dietro.
– Te l’ho detto, lo farò io. Ma non stasera, stasera c’è uno spettacolo dedicato ai talenti in erba, a scuola di Anna. Facciamo martedí.
– Sei sicuro, Brian?
– Ho detto che ci penso io o no?
– Solo se davvero vuoi. Ok? Non sentirti obbligato.
Rourke passò in negozio quel martedí pomeriggio portandogli le istruzioni e l’attrezzatura: due galloni di mordente color legno marca Olympic da versare sulla Bmw, un coltello da caccia per squarciare le gomme e graffiare la vernice, e un piede di porco per fracassare il parabrezza. Gold doveva agire con estrema prudenza ma anche con celerità. Avrebbe dovuto lasciare la sua auto col motore acceso già puntata verso la via d’uscita. Se per qualche ragione qualcosa fosse andato storto, doveva piantare baracca e burattini e filare via.
Caricarono tutta la roba nel portabagagli dell’auto di Gold.
– Tu dove sarai? – domandò Gold.
– Chez Nicole’s. Lo stesso posto dove saresti andato tu quella sera, se avessi un po’ di classe.
– Ho mangiato un’ottima sogliola a la meuniére, l’ultima volta che ho cenato lí.
– Un bisteccone di prima qualità per questo cattivo ragazzo. Quasi crudo. Voglio sentire il sapore del sangue, tu mi capisci, vero Brian?
Gold lo guardò allontanarsi con la sua auto. Era una giornata calda, la terza di fila. La neve della settimana precedente era diventata grigia e cominciava a rivelare i suoi possessi: lattine di birra e cacche di cane. Le grondaie traboccavano di neve liquefatta, e il sole brillava sull’asfalto bagnato e i vetri rotti davanti al ristorante Domino, che aveva chiuso improvvisamente tre settimane prima. Vide gli stop dell’auto di Rourke illuminarsi. Suo cugino si fermò, invertí il senso di marcia e tornò indietro. Gold aspettò che il finestrino elettrico si abbassasse, poi si protese verso l’auto.
– Attento, Brian, ok? – gli disse suo cugino.
– Mi conosci.
– Non farti pizzicare. Mi raccomando.
Gold andò in auto fino al club alle undici e mezza di sera, pensando che non ci sarebbe stato troppo andirivieni a quell’ora, in un giorno feriale. I bevitori occasionali erano già a casa, quelli seri si erano messi comodi in previsione di una lunga sosta nel locale. Nel parcheggio non c’era piú di una dozzina di auto. Gold entrò a marcia indietro in un posto il piú vicino possibile al retro dell’edificio. Spense il motore e si guardò attorno, aprí il portabagagli, prese il piede di porco e avanzò nell’ombra, verso il vicolo dietro il palazzo. La Bmw era parcheggiata dove Rourke aveva detto che sarebbe stata, nel breve tratto di strada che congiungeva il vicolo e i cassonetti dell’immondizia.
Gold non aveva intenzione di usare il mordente o il coltello, Rourke aveva avuto solo un’ammaccatura allo sportello; non sembrava un danno sufficiente a giustificare la totale distruzione dell’auto del colpevole. Una bella ammaccatura di risposta avrebbe pareggiato i conti fra Rourke e il signor Barnes, e Gold avrebbe saldato il suo debito personale col cugino. Se Rourke non si accontentava, il resto avrebbe dovuto farlo da sé.
Gold girò attorno alla Bmw, era una bella vettura, una 328 nero lucido con quelle gomme speciali che, si immaginava, i gangster fossero pronti ad ammazzarsi per averle. Accanto all’officina autorizzata dove Gold portava ad aggiustare la sua Toyota c’era un concessionario della Bmw e Gold faceva sempre una visitina nell’elegantissimo salone espositivo mentre aspettava che gli riparassero l’auto. Gli piaceva aprire e chiudere gli sportelli, accomodarsi sui sedili di pelle e provare il cambio, confrontare gli accessori di serie e i prezzi. Fra una cosa e l’altra, il modello del signor Barnes non poteva venire meno di quarantamila testoni. Era impensabile, pensò Gold, che il signor Vick Barnes potesse ottenere un finanziamento per una cifra del genere sulla base del suo semplice salario di deejay, ragion per cui l’auto doveva averla comprata in contanti. Rourke aveva ragione. Vick Barnes era uno spacciatore.
Gold soppesò il piede di porco. Sentí l’energico pulsare della musica attraverso le mura del club, udí il vocalist – non poteva chiamarlo cantante – urlare a squarciagola, minaccioso e gemente. Era una cosa strana. Spacciavi droga alla tua stessa gente, rovinavi i loro quartieri, trasformavi i loro figli in altrettanti teppisti e prostitute, e tu diventavi un pezzo da novanta. Un uomo danaroso e rispettato. Ma se provavi a mandare avanti un’azienda modesta, a portare qualcosa di buono nella loro comunità, diventavi come niente una sanguisuga, un parassita, un Bambino di Satana. Il signor Gold. Saggiò il peso della spranga contro il palmo. Pensò che dopotutto poteva farci qualcosa con quel coltello. E forse anche col mordente. Sí, anche il mordente poteva venire buono.
Nel parcheggio, sentí una donna ridere e un uomo risponderle a bassa voce. Gold si accovacciò dietro il cassonetto dell’immondizia e aspettò finché l’auto di quei due non si allontanò coi fari che scandagliavano l’oscurità e scomparve. Gold stringeva forte in mano la sbarra di metallo. Si sentiva scoppiare di rabbia, e questo lo rese incerto. Solo uno sciocco agiva sull’onda della collera. No, lui avrebbe fatto soltanto quello che era giusto fare, quello che aveva deciso di fare prima di arrivare qui.
Gold girò attorno alla Bmw per raggiungere il lato del volante. Afferrò il piede di porco con entrambe le mani e toccò con l’estremità ricurva lo sportello, all’altezza del paraurti, il punto esatto dove era stata ammaccata l’auto di Rourke. Puntò bene i piedi. Toccò di nuovo lo sportello, poi tirò indietro la spranga come fosse la mazza di un battitore di baseball e sferrò il colpo con quanta forza aveva in corpo, rendendosi perfettamente conto, nello stesso istante in cui questa consapevolezza finiva nel dimenticatoio, di quale assoluto tradimento stesse perpetrando verso se stesso. L’impatto fu violento e gli si ripercosse su per le braccia. Il piede di porco gli scivolò di mano e Gold lo lasciò lí dov’era caduto.
Tre ore dopo, Victor Emmanuel Barnes lo trovò nel medesimo punto. Si inginocchiò e fece correre la mano lungo la fenditura dentellata che sfregiava lo sportello della Bmw, le scaglie di vernice schizzavano via sotto la punta delle sue dita. Barnes sapeva senza ombra di dubbio chi fosse il colpevole. Raccattò il piede di porco, lo buttò sul sedile accanto al posto di guida, poi montò in auto e andò a tavoletta fino all’alveare di appartamenti dove viveva Devereaux. Mentre filava a tutta birra lungo le strade deserte, lanciava urla belluine e pestava con le palme sul cruscotto. Fermò l’auto facendo stridere i freni, afferrò il piede di porco e corse su per le scale, fino all’appartamento di Devereaux. Picchiò sulla porta col pugno. – Ti avevo detto che te li davo la settimana prossima, brutto stronzo. Ti avevo detto la settimana prossima –. Voleva che lo facessero entrare. Sentí delle voci, ma siccome nessuno gli rispose, li maledisse tutti e cominciò a tempestare di colpi la porta usando il piede di porco. La porta scricchiolò e si imbarcò. Infine cedette e Barnes entrò barcollando nell’appartamento, chiamando a gran voce Devereaux.
Ma Devereaux non era in casa. C’era suo nipote Marcel, un ragazzo di sedici anni, che era rimasto a dormire lí, sul divano, dopo avere aiutato la figlia di Devereaux a scrivere una tesina per la scuola. Marcel era dirimpetto alla porta quando Barnes la buttò giú; la zia, le cuginette e la nonna si erano raccolte dietro di lui, in fondo all’ingresso, e si stringevano l’una all’altra, tremanti. Quando Barnes, mugghiando e incespicando, entrò in casa, Marcel provò a respingerlo. Lottarono. Barnes lo scansò con uno spintone e roteò il piede di porco, colpendo Marcel proprio sulla tempia. Il ragazzo sbarrò gli occhi. Spalancò la bocca. Cadde in ginocchio e poi a faccia in giú sul pavimento. Barnes guardò Marcel, poi la vecchia che veniva verso di lui. – Oh, Gesú, – disse, e lasciò cadere il piede di porco, corse giú per le scale, uscí in strada e raggiunse la sua auto. Guidò fino a casa di sua nonna e le raccontò cos’era successo, e lei quasi lo ninnò tenendo in grembo la sua testa, e pianse e pregò. Poi chiamò la polizia.
La morte di Marcel era già nel notiziario del mattino. Ogni mezz’ora raccontavano la storia, mostrando delle fotografie di lui e di Barnes. Di Barnes, mentre veniva fatto salire su un’automobile della polizia; di Marcel, mentre parlava alla Fiera Interprovinciale della Scienza. Marcel si era diplomato con lode al liceo di Morris Field, si era offerto volontario in rappresentanza della scuola per partecipare al programma Il Grande Fratello, ed era stato presidente dell’Associazione della Gioventú Cristiana. Il motivo dell’aggressione era ignoto.
Le troupe delle varie reti televisive seguirono gli studenti dagli scuolabus fino ai portoni della scuola, chiedendo se avevano conosciuto Marcel e riprendendo in primo piano i ragazzi piú sconvolti. All’inizio della seconda ora, il preside parlò a tutta la scuola, usando il circuito interno, e disse che gli assistenti sociali erano a disposizione dei ragazzi che avevano bisogno di parlare con loro. Gli studenti che non si sentivano di continuare a seguire le lezioni per quel giorno erano giustificati.
Garvey Banks lanciò un’occhiata alla sua ragazza, Tiffany. Né lui né lei avevano conosciuto Marcel, ma fuori era bello e a scuola non c’era altro che pianti e crisi isteriche. Quando lui fece un cenno col capo in direzione della porta, lei sorrise con quel suo modo speciale di sorridere, raccolse i libri e chiese al professore il permesso di andare a casa. Garvey aspettò qualche minuto, poi fece lo stesso.
Andarono a piedi fino a Bickel Park e si sedettero su una panchina che guardava lo stagno. Due anziane signore coi capelli bianchi stavano gettando del pane alle anatre. L’erba bagnata fumava sotto il sole. Tiffany posò la testa sulla spalla di Garvey e si mise a canterellare a bocca chiusa. Garvey avrebbe voluto sentirsi giú per via di quel ragazzo che era stato ammazzato, ma era cosí bello starsene al sole, abbracciato alla sua Tiffany.
Restarono seduti sulla panchina, a prendere il sole. Non parlarono. Non parlavano quasi mai. A Tiffany piaceva guardarsi attorno e starsene assorta nei suoi pensieri. Dopo avrebbero noleggiato un film e sarebbero andati a casa di Garvey. Si sarebbero baciati. Non avrebbero fatto niente di rischioso, tuttavia avrebbero trovato il modo di farsi felici. Ecco cosa stava per succedere, e Garvey stava tranquillo ad aspettare che succedesse.
Dopo un po’ Tiffany smise di canterellare. – Sei pronto, Gar?
– Pronto.
Si fermarono al Gold’s Video e Garvey prese dallo scaffale Colazione da Tiffany. La prima volta lo avevano noleggiato per via del titolo, poi era diventato il loro film preferito. Un giorno o l’altro, sarebbero andati a vivere a New York e avrebbero conosciuto un sacco di gente figa, altroché.
Il signor Gold fu lento a scrivere la ricevuta. Aveva l’aria malata. Mentre dava il resto a Garvey, gli domandò: – Com’è che voi ragazzi non siete a scuola?
Garvey si sentí colto in castagna, e decise di darsi un po’ di arie col signor Gold. – Hanno ammazzato un amico mio, – rispose.
– Lo conoscevi? Conoscevi Marcel Foley?
– Sí, signore. Da quando eravamo ragazzini.
– Che tipo era?
– Marcel? Eh, Marcel era il migliore. Se avevi un problema, andavi da lui. Sa, un problema con la ragazza o roba cosí. Qualche guaio a casa. Qualche impiccio con un amico. Marcel ci sapeva fare, vero, Tiff? Aveva un talento speciale, sapeva far fare pace alla gente. Ti ascoltava e ti parlava come se tu fossi importante, come se tutti fossero importanti. Sapeva rappacificare la gente, capisce cosa intendo? E dopo quelli andavano piú d’accordo di prima. Era un paciere. Marcel era un paciere nato. E al mondo non c’è una cosa piú bella, non trova?
– Sí, – disse il signor Gold. – È vero –. Posò le mani sul banco e abbassò la testa.
Allora Garvey si accorse che il signor Gold era disperato, e gli venne in mente che era una cosa davvero ingiusta che Marcel Foley fosse stato ucciso nel fiore degli anni, quando aveva ancora tutta la vita davanti a sé. Era una cosa troppo brutta, ma Garvey sapeva che non sarebbe finita cosí. Toccò la spalla del signor Gold. – L’assassino avrà quel che si merita, – gli disse. – Lo sistemeranno a dovere. Vedrà.