Emicrania

Cominciò mentre era al lavoro. Alla prima fitta le mancò il fiato e sbarrò gli occhi. Poi il dolore si placò, lasciandole un vago senso di oppressione alla nuca. Joyce posò le mani ai lati della tastiera e aspettò. Dai cubicoli attorno a lei giungeva il ticchettio regolare delle altre tastiere. Sapeva cosa le stava succedendo, lo sapeva cosí bene che quando la colpí l’ondata successiva la sentí non come dolore ma come terrore per ciò che doveva ancora arrivare. Joyce spense il computer, poi radunò i referti del laboratorio e li infilò in un faldone.

Si fermò sulla soglia dell’ufficio della direttrice per dirle che oggi andava a casa prima. La direttrice fece una faccia comprensiva e si offrí di chiamarle un tassí, se Joyce non se la sentiva di guidare; lo avrebbero pagato col fondo per le piccole spese. – Lo abbiamo per questo, – le disse.

– No, ce la faccio, – rispose Joyce. E aggiunse: – Non occorre che parli a bassavoce.

Ma Joyce non prese l’auto per tornare a casa. Al contrario, come aveva in mente di fare fin dall’inizio, chiamò un tassí dal telefono nell’atrio del palazzo. La direttrice, se l’avesse saputo, avrebbe pensato che buttava i soldi dalla finestra, ma a conti fatti non era cosí. Chiunque ti dia qualcosa per l’impulso di un sentimento estemporaneo si ricorda del proprio gesto per sempre, e si aspetta che anche tu te lo ricordi, vita natural durante. E di questo fondo per le piccole spese Joyce non aveva mai sentito parlare prima di allora.

Quando arrivò a casa, trovò due scatoloni nel soggiorno, pieni dei pochi averi della sua coinquilina. Joyce e Dina avevano litigato di nuovo, e adesso Dina stava preparandosi al passo finale dato che di comune accordo avevano deciso che doveva andarsene. Joyce guardò gli scatoloni. Prese in considerazione la possibilità di frugarci dentro, ma scartò subito quell’idea perché era indegna di lei. Era il genere di cose che una volta faceva ma che si era obbligata, con una certa difficoltà, a smettere di fare. Chiuse gli occhi un istante, dondolando leggermente su un fianco e sull’altro, poi attraversò la stanza e accese il televisore. Un presentatore in giacca sportiva gialla sbraitava per farsi sentire superando il clamore del pubblico in delirio mentre un enorme orologio scandiva il trascorrere dei secondi. Joyce tolse il volume e andò in cucina a mettere su l’acqua per il tè.

Il giornale era aperto sul piano del banco, i margini dei fogli scompaginati si agitavano nella brezza. Dina aveva lasciato di nuovo la finestra aperta. Nonostante Joyce la assillasse, Dina si rifiutava di prendere anche le precauzioni piú normali e rideva della propria sventatezza considerandola una conseguenza trascurabile, se non addirittura simpatica, di uno spirito libero, non condizionato dalle questioni materiali. Ma Joyce le leggeva dentro; si rendeva conto che ritagliandosi questa parte Dina l’aveva costretta ad assumere il ruolo opposto, quello della nevrotica ossessiva e avida. A volte Joyce era costretta a stupirsi del proprio comportamento. Ma non sarebbe successo piú. Tutto questo era finito, finalmente.

Joyce accese il fornello sotto il bollitore e andò alla finestra. Posò i gomiti sul davanzale e mise la testa fra le mani, massaggiandosi le tempie coi polpastrelli. Premette sempre piú forte mentre le pulsazioni dolorose si succedevano con velocità crescente. Nel momento peggiore diventò sorda di colpo, come se qualcuno le avesse spinto la testa sott’acqua. Poi passò. Joyce udí il proprio respiro affannoso. Udí il picchiettare delle zampe dei piccioni sulle tegole del tetto e le voci dei bambini nel cortile della scuola lí accanto, un martello pneumatico tanto lontano da non essere intollerabile per il rumore, anzi quasi di compagnia, come il rombo lontano delle fanfare che marciavano nella cittadina universitaria in cui Joyce era cresciuta.

Lasciò che la brezza le asciugasse il sudore dal viso. Poi chiuse la finestra e riempí l’infusore a forma di cucchiaio con camomilla, tiglio e menta.

Le pizzicavano gli occhi. Si sentiva la pelle tutta umidiccia e la camicetta, nei punti in cui si era intrisa di sudore, le si appiccicava addosso dandole un senso di freddo. Si portò la tazza in camera, e lasciò le erbe in infusione mentre si spogliava. Poi si sedette sul bordo del letto. La stanza era un caos. Vestiti dappertutto, appesi a dei ganci, ai pomoli dei mobili, buttati sul pavimento. Dei giornali. Delle valige che ancora non aveva disfatto, preparate in vista di una visita ai genitori di Dina, visita che poi era andata a monte perché Joyce si era ammalata. Si piegò a raccattare una scarpa, poi la lasciò cadere di nuovo e si dondolò avanti e indietro sui piedi. Si infilò un accappatoio di spugna e andò in soggiorno, dove, sdraiata sul divano, sorseggiò il suo infuso guardando il televisore muto.

L’infuso la aiutò. Non molto, in effetti, ma era l’unica cosa che alleviasse almeno in parte la tortura che stava subendo. Tolti i massaggi di Dina, non c’era niente che funzionasse. Joyce aveva fatto bagni terapeutici. Si era ubriacata e si era drogata. Aveva tentato ogni rimedio di cui avesse sentito parlare, fatta eccezione per quelli ovviamente inutili come respirare col respiratore e le bombole dei sub. Questo consiglio lo aveva trovato su un bollettino tutto dedicato al problema dell’emicrania cui Dina l’aveva costretta ad abbonarsi, almeno finché non aveva deciso che leggere tutto il tempo questioni attinenti all’emicrania aveva peggiorato anziché migliorato il suo problema. Inoltre, trovava tremendamente irritante il tono vittimistico degli articoli e quel modo fasullo di dare a intendere ai lettori che non erano soli nella loro sofferenza.

Mentre era vero il contrario. In realtà ognuno era sempre solo, ma te ne rendevi conto soprattutto quando stavi male, e in questo piú che altro consisteva la sofferenza: nella coscienza della solitudine.

Joyce bevve gli ultimi sorsi del suo infuso. Posò la tazza sul pavimento e guardò i due scatoloni di Dina. Sopra c’era stampato un nome: Almadén. Dina doveva esserseli fatti dare in un negozio di liquori. Erano ancora aperti. In uno si vedeva un golf di mohair bianco piegato accuratamente, nell’altro una congerie di bottigliette e flaconi. Joyce si appoggiò allo schienale. Persino con gli occhi chiusi avvertiva lo sfarfallio della televisione mentre la telecamera saltava dal presentatore ai concorrenti e dai concorrenti al presentatore. L’appartamento era immerso in un profondo silenzio.

Era bello essere soli. Davvero soli, senza altre persone attorno a illuderti che la tua vita è intrecciata alla loro. La qual cosa non è mai vera. Persino quando stanno insieme, gli esseri umani sono soli come le mucche al pascolo, che guardano ognuna in una direzione diversa.

Non potevi entrare nella vita di un altro nemmeno se lo volevi. L’agosto passato Joyce e Dina avevano invitato un’amica a cena, e nel corso della serata questa amica aveva raccontato la storia di una coppia di amiche comuni rimasta recentemente vittima di un assurdo incidente. Mentre erano in soggiorno a guardare la tivú, dal soffitto era precipitato loro addosso il ciccione del piano di sopra con tutto il suo materasso ad acqua. Era un miracolo se non erano morte, anche se questa prospettiva non era poi del tutto confortante, considerando i danni che comunque ne avevano ricavati dato che una aveva avuto la clavicola rotta, l’altra una distorsione del collo e una commozione cerebrale. Quando la loro ospite ebbe concluso la storia, Joyce e Dina scossero la testa. Abbassarono gli occhi, fissando ognuna il suo piatto. Joyce riuscí a tenere la mascella stretta finché Dina non cominciò a sbuffare, e a quel punto tutte e tre non poterono piú trattenersi. E giú a ridere a piú non posso. Non riuscivano a fermarsi. Joyce alla fine sentendosi mancare il fiato dovette spingere la sedia indietro e chinare la testa fra le ginocchia.

Eppure conosceva bene le due dell’incidente. Il loro dolore avrebbe dovuto significare qualcosa per lei. Ma persino adesso, in preda lei stessa al dolore, Joyce non riusciva a sentire il loro, e il massimo che riusciva a fare era pensare che avrebbe dovuto sentirlo. E sarebbe stato uguale anche se quel materasso ad acqua fosse caduto in testa a lei e a Dina anziché a quelle poverette. Persino se quel coso l’ammazzava, le altre avrebbero riso, per poi magari pentirsi delle loro risate cosí come Joyce si era pentita delle proprie. Sarebbero andate avanti a vivere la loro vita, ricordandosi di lei sempre piú raramente, e sempre con un improvviso e involontario sorriso come quello che Joyce si sentiva aleggiare sulle labbra in quel preciso momento.

Gli effetti dell’infuso stavano cominciando a svanire. Joyce alzò la testa dai cuscini e lentamente si tirò su a sedere. Fissò di nuovo gli scatoloni, poi guardò il televisore. C’era un tipo che sorrideva fisso mentre una tipa gli rovesciava in testa un recipiente pieno di una poltiglia bianca.

Joyce si alzò. Andò in cucina, mise dell’altra acqua nel bollitore, poi si appoggiò al banco. Le pulsazioni stavano ridiventando forti; ogni volta che la colpivano, abbassava leggermente la testa, come se stesse annuendo. Fu assalita da un nuovo attacco di sordità. Quando ne uscí, il bollitore stava fischiando; delle gocce d’acqua rotolavano dai lati, sibilando quando arrivavano al frangifiamma. Joyce riempí di nuovo il cucchiaioinfusore, versò l’acqua nella tazza, e tornò in soggiorno. Si inginocchiò in mezzo ai due scatoloni di Dina e cominciò a frugare dentro a quello che aveva in cima il golf di mohair.

Sotto il golf c’erano alcune foto che Dina aveva tenuto sulla toletta, infilate fra la cornice e lo specchio. Una lunga sequenza che ritraeva il fratello di Dina e la sua famiglia, foto dopo foto le due figlie diventavano sempre piú alte, i faccini teneri e rotondi si asssottigliavano, facendosi guardinghi. Un ritratto dei genitori di Dina realizzato in uno studio fotografico. Diverse istantanee di Joyce. Joyce diede una rapida occhiata alle foto e le accantonò. Si sedette sui talloni. Tirò un respiro profondo, controllato, e raddrizzò la testa: l’immagine di una donna che è appena riuscita ad avere la meglio su se stessa dopo un attimo di debolezza. Il motore del frigorifero cominciò a vibrare. Joyce sentí le bottiglie che tintinnavano una contro l’altra. Prese un altro respiro, poi si protese di nuovo e continuò a svuotare lo scatolone.

Vestiti. Scarpe. Un phon. E per finire, in fondo a tutto, i libri di Dina: I carri degli dèi, Il tennis al coperto, Mille Ville, Cercando Bigfoot, Allenarsi senza sudare, e La Bhagavad-Gita. Joyce aprí Cercando Bigfoot e diede una scorsa alle illustrazioni. Comprendevano un grafico della voce registrata con un microfono nascosto, la riproduzione del calco in gesso di una grossa zampa con degli artigli sorprendentemente sottili, simili alle dita di una mano, e una fotografia sfocata del mostro in carne e ossa, che attraversava una radura con le braccia che oscillavano con noncuranza lungo i fianchi. Joyce rinfilò ogni cosa nello scatolone. Non si stupiva se il cervello le stava andando in pappa. Dina aveva tanta di quella robaccia in testa che fare due chiacchiere con lei equivaleva a una sabbiatura per le cellule grigie.

Appena Dina se ne fosse andata, Joyce intendeva rimettersi in forma, mentalmente. Aveva una lista di libri che intendeva leggere. Avrebbe tenuto un diario e seguito qualche corso serale di filosofia. All’università Joyce se l’era cavata niente male col corso propedeutico di filosofia, al punto che quando il professore le aveva restituto la tesina finale vi aveva aggiunto un appunto in cui la ringraziava per avere contribuito a rendere cosí piacevole l’insegnamento in quella classe.

Non che Joyce pensasse di diventare un filosofo di professione. Ma certo non si sentiva mai tanto viva come quando parlava di idee, e ricordava ancora la pacata sicurezza con cui il suo professore analizzava le opinioni degli studenti fino a rinvenirne le origini in una mentalità carica di superstizioni, di pregiudizi e di pura emotività. Il loro professore era famoso per la sua capacità di fare piangere la gente. Joyce si appassionò subito a quel genere di discussioni in classe. Lei, quanto piú vedeva avvicinarsi la verità delle cose, tanto piú si sentiva limpida, e osservava con divertito distacco il panico in cui invece precipitavano alcuni suoi compagni di classe quando rischiavano di venire privati di qualcuna delle loro illusioni. Ma da allora Joyce non si era piú sentita cosí limpida riguardo a niente, perché si era lasciata coinvolgere da altre persone, e le altre persone finivano sempre con l’intorbidare l’acqua. Al punto che con i loro bisogni, le loro richieste, i loro sentimenti, le loro ansie, la loro smania di essere al centro della tua attenzione non una ma nove o dieci volte al giorno, ti costringevano a dire tante di quelle bugie che dopo un po’ finivi col dimenticare persino il sapore della verità. Ma Joyce non era arrivata fino a questo punto, non ancora. Da sola, avrebbe potuto ricominciare a leggere, a pensare, a vedere le cose nella loro nudità. Da sola, avrebbe potuto essere fredda e dura come la verità esigeva. Mai piú falso buon umore. Mai piú finta intimità. Mai piú bugie.

E un’altra cosa. Basta con la tivú. Joyce l’aveva comprata solo per tenere buona Dina, ma ora non serviva piú. Prese il telecomando, guardò il finale di uno spot su dei furgoni, poi spense l’apparecchio. Lo schermo vuoto la mise a disagio. S’innervosí, era un po’ come se il televisore la stesse osservando. Rimise il telecomando sul tavolinetto e cominciò a svuotare l’altro scatolone.

A metà dello scatolone, fra due asciugamani, trovò ciò che stava cercando. Un paio di forbici, delle bellissime forbici tedesche che non appartenevano a Dina ma a lei. Joyce non sapeva che stava cercando quelle, ma non appena sentí le lame con la punta delle dita, poco mancò che scoppiasse a ridere ad alta voce. Dina le aveva preso le forbici. Deliberatamente. Non c’era possibilità di equivoci, perché queste forbici erano uniche. L’impugnatura era di ottone e, quando erano chiuse, erano a forma di testa d’anatra; sulle lame c’erano incise delle parole in tedesco che significavano: «Per la adorata Karin dal suo papà». Joyce le aveva trovate da un antiquario in Post Street, e da quando le aveva portate a casa Dina se ne era innamorata. Le prendeva in prestito cosí spesso che Joyce sospettava che si inventasse dei lavoretti da fare solo per avere la scusa di usarle. E adesso le aveva rubate.

Joyce tirò fuori le forbici dallo scatolone, le aprí e le richiuse diverse volte. Ecco un’esperienza di quelle che fanno aprire gli occhi, però. La piccola Miss Spirito Libero, Miss Non Gravata dai Possessi Materiali arrivava a rubare pur di non vivere senza un certo paio di forbici. Dina era una ladra, un’ipocrita e una ladra.

Joyce posò le forbici accanto al telecomando. Si premette forte le tempie con le palme. Per la prima volta, quel giorno, si sentí stanca. Con un po’ di fortuna, forse sarebbe riuscita a schiacciare un pisolino.

Fece scivolare di nuovo le forbici fra i due asciugamani e rimise nello scatolone tutto quello che aveva tolto. Che Dina se le tenesse pure quelle forbici. Era assurdo pensare di dirle qualcosa – sarebbe caduta dalle nuvole sostenendo che era stata una svista – e Joyce non poteva parlare delle forbici senza rivelare che aveva frugato negli scatoloni. E allora che se le tenesse, accidenti. Col passare del tempo Dina avrebbe cominciato a capire, mesi e mesi dopo, anni e anni dopo, che Joyce sapeva che le aveva rubato le forbici; ma Joyce avrebbe continuato a non parlarne, non avrebbe mai nominato le forbici nei biglietti di auguri che le avrebbe inviato per Natale o nelle telefonate affettuose che le avrebbe fatto per il compleanno o nelle cartoline che le avrebbe mandato dai vari posti che aveva in mente di visitare. Dài e dài, Dina avrebbe capito che Joyce l’aveva perdonata e che le aveva fatto dono delle forbici, e a quel punto, per la prima volta, Dina avrebbe cominciato a farsi un’idea di che tipo fosse davvero Joyce, e di quanto si fosse sbagliata su di lei. Dina si sarebbe resa conto di quanto era stata cieca e insensibile. Alla fine avrebbe capito cosa aveva perso.

Quando Joyce si svegliò, Dina era in piedi accanto al divano e la guardava dall’alto. Alcune lame di luce pallida tagliavano il tappeto e il muro; il resto della stanza era immerso nella penombra. Joyce cercò di sollevare la testa. Sembrava un macigno. Si stese di nuovo.

– Lo sapevo, – disse Dina.

Joyce aspettò. Quando Dina continuò semplicemente a guardarla, domandò: – Sapevi cosa?

– Indovina –. Dina si girò e andò in cucina.

La sentí riempire d’acqua il bollitore. Le gridò: – Ti riferisci forse al fatto che sto male?

Dina non rispose.

– La cosa non ti riguarda, – proseguí Joyce.

Dina si affacciò dalla soglia della cucina. – Non fare cosí, Joyce. Quanto meno, sii sincera su quello che sta succedendo, ok?

– Senti, fa’ finta che io non ci sia, – ribatté Joyce. – Se sto male, la cosa non ti riguarda.

Dina scosse la testa. – Non riesco a crederci. Ci risiamo, – disse e si eclissò di nuovo in cucina.

– Ci risiamo cosa? – domandò Joyce. – Sono qui sdraiata sul divano. Alludi a questo?

– Lo sai benissimo a cosa alludo, – rispose Dina. Si riaffacciò di nuovo dalla porta della cucina e disse: – Smettila di fare questi giochetti mentali.

– Giochetti mentali? – ripeté Joyce. – Gesú Giuseppe e Maria!

Dina fece un passo avanti ed entrò in soggiorno. – Non è giusto, Joyce.

Joyce si girò su un fianco e restò immobile, a sentire Dina che faceva rumore in cucina.

– Non sono mica stupida! – gridò Dina.

– Nessuno ha mai detto il contrario.

Dina entrò in soggiorno portando due tazze. Ne posò una sul tavolinetto, vicino a Joyce, l’altra la tenne in mano e andò a sedersi in poltrona.

– Grazie, – disse Joyce. Lentamente si tirò su a sedere, dondolando la testa per come le girava. Prese il tè e strinse la tazza contro il petto, lasciando che il vapore fragrante le scaldasse il viso.

Dina si allungò in avanti e soffiò sulla propria tazza. – Hai un’aria orribile, – disse.

Joyce sorrise.

Bevvero il tè, guardandosi da sopra le tazze. – Mi vuoi fare impazzire? – disse Dina. – Non posso organizzare una semplice gita al mare senza che tu metta su tutta questa scena?

– Ignorami, – replicò Joyce.

– Dici sempre cosí. Ma guarda che se non la smetti, io me ne vado, Joyce. Forse non ora, ma prima o poi giuro che me ne vado.

– Vattene ora, – disse Joyce.

– Davvero vuoi che me ne vada?

– Se intendi andartene, fallo ora.

– Hai un’aria semplicemente orribile. È un’emicrania di quelle forti, eh?

– Fa’ finta che io non sia qui, – insisté Joyce.

– Ma non posso. Lo sai che non posso. Ecco cosa c’è di ingiusto quando fai cosí. Non posso prendere e andarmene se stai male in questo modo.

– Dina.

– Cosa?

Joyce scosse la testa. – Niente. Niente.

Dina disse: – Accidenti a te, Joyce.

– Forse sarebbe meglio che tu te ne andassi, – disse Joyce.

– È ciò che intendo fare. Giuro. Ma poi non venirmi a dire che non ti avevo avvisato.

Joyce annuí.

Dina si alzò e raccolse uno degli scatoloni. – Oggi mi hanno raccontato una barzelletta stupenda. Sui dei polacchi che...

– Non adesso, – disse Joyce. – Mi ucciderebbe.

Dina portò lo scatolone in camera sua e tornò a prendere l’altro, quello con le forbici. Era piú voluminoso del primo e faticò un po’ ad afferrarlo. – Accidenti a te, – ripeté rivolta verso Joyce. – Non posso credere che siamo arrivati a questo.

Joyce finí il suo tè. Incrociò le braccia e si protese finché con la testa quasi non toccò le ginocchia. Dalla camera da letto di Dina sentiva venire il rumore di cassetti aperti e richiusi violentemente. Poi ci fu il silenzio, e quando Joyce alzò la testa Dina era di nuovo lí accanto a lei.

– Povera Joyce, – le disse Dina.

Joyce si strinse nelle spalle.

– Tirati su, – le disse. Si sistemò in fondo al divano e disse. – Okay –. Joyce si stese di nuovo, la testa adesso sul grembo di Dina. Dina la guardò dall’alto. Le ravviò i capelli, aggiustando indietro una ciocca.

– Giochetti mentali, – disse Joyce, e rise.

– Zitta, – le disse Dina.

Poi si spostò leggermente su un fianco. Posò le mani sulle guance di Joyce e cominciò a premerle i pollici sulle tempie. Muoveva i pollici avanti e indietro disegnando come dei piccoli cerchi, aumentando gradualmente la pressione. All’inizio il ritmo era fluido e quasi impercettibile, ma quando divenne piú netto Dina cominciò a canticchiare a mezza voce. Joyce chiuse gli occhi. Sentí che le palpebre le tremavano nervosamente, poi finalmente si rilassarono. Udí il giornale frusciare in cucina. Dina canticchiava quasi facesse le fusa. Sentí la morbidezza delle cosce di Dina, e il calore che emanavano. Le mani di Dina erano calde sulle sue guance. Joyce alzò le braccia e mise le sue mani su quelle di Dina, come per costringerla a non toglierle piú di lí.