L’altro Miller

Ormai sono due giorni che Miller sta piantato qua, davanti a questa strada che ha il fondo coperto di traversine di legno, sotto la pioggia insieme al resto della Compagnia Bravo, ad aspettare l’arrivo degli uomini di un’altra compagnia cui la Bravo ha teso l’agguato. Quando arriveranno, se arriveranno, Miller farà capolino dalla buca dove è nascosto e sparerà tutti i suoi proiettili a salve in direzione della strada. Cosí farà anche ogni altro uomo della Bravo. Poi usciranno dalle loro buche, saliranno sui camion e finalmente torneranno a casa, alla base.

Questo è il piano. Ma Miller fin qui non ha mai visto un piano che funzioni, e questo non farà eccezione. Nella sua buca ci sono circa trenta centimetri d’acqua. Deve stare appollaiato su certi gradini che ha ottenuto scavando nelle pareti della buca, ma il terreno è sabbioso e i gradini continuano a crollare. Questo significa che Miller ha gli anfibi bagnati. Anche le sigarette gli si sono bagnate. Per giunta, la notte scorsa, mentre masticava i dolciumi che si era portato per darsi un po’ di energia, gli si è rotta la protesi dentaria, un ponte che ha fra due molari. Lo fa uscire pazzo, il modo in cui adesso il ponte si alza e lo graffia quando lui lo spinge con la lingua, ma dopo un’intera notte passata là fuori Miller non ha piú un briciolo di forza di volontà e non riesce a tenere la lingua lontana da quel punto della bocca.

Quando pensa all’altra compagnia, quella cui la Bravo starebbe tendendo l’agguato, Miller vede una colonna di uomini coi vestiti asciutti e le pance piene che marciano allontanandosi sempre piú dalla buca dove lui è in attesa. Li vede procedere speditamente, hanno degli zaini leggeri. Poi vede che si fermano, fanno una pausa per fumare una sigaretta, e si stendono su fragranti letti di aghi di pino, sotto gli alberi, e il brusio delle loro voci diviene sempre piú fioco a mano a mano che uno dopo l’altro scivolano nel sonno.

Questa è la verità, per Dio! Miller lo sa cosí come sa che si beccherà un raffreddore, perché lui è un campione della sfiga. Se fosse stato con gli uomini dell’altra compagnia, sarebbe toccato a loro nascondersi nelle buche.

Miller con la lingua stuzzica il ponte e un brivido di dolore lo attraversa da capo a piedi. Si raddrizza con uno scatto, gli occhi gli bruciano, stringe i denti per trattenere l’urlo che ha in gola. Riesce a ricacciarlo indietro e si guarda attorno, osservando i suoi compagni. I pochi che riesce a distinguere hanno l’aria stordita e il colorito terreo. Degli altri riesce a vedere solo i cappucci dei poncho, spuntano da terra come tanti sassi a forma di pallottola.

Tutto a un tratto, con la mente ripulita dal dolore, Miller sente il ticchettio delle gocce di pioggia che gli cadono sul poncho. Poi sente lo stridulo lamento di un motore. Una jeep avanza lungo la strada spruzzando, sbandando di qui e di là e lanciando densi getti di fango dietro di sé. La stessa jeep è tutta incrostata di fango. Si ferma slittando davanti alla posizione tenuta da quelli della Bravo, e il claxon suona due volte.

Miller si guarda attorno per vedere cosa fanno gli altri. Nessuno si è mosso. Stanno tutti lí nelle loro buche.

Il claxon suona di nuovo.

Un uomo piuttosto basso, con indosso il poncho, emerge dalla fitta boscaglia piú in su, lungo la strada. Miller capisce subito che si tratta del sergente maggiore perché l’uomo è cosí piccolo che il poncho gli arriva quasi alle caviglie. Il sergente maggiore cammina lentamente verso la jeep, attorno agli stivali ha dei grossi tocchi di fango. Arriva alla jeep e si piega infilando dentro la testa; un attimo dopo ritira la testa fuori. Guarda giú, lungo la strada. Dà un calcio a una delle gomme con aria pensosa. Poi guarda in su e urla: – Miller!

Miller continua a guardarlo. Solo quando il sergente maggiore urla di nuovo il suo nome, Miller si appresta all’ardua impresa di issarsi fuori della buca. Gli altri uomini girano i visi grigi seguendolo a mano a mano che Miller faticosamente arranca superando le loro buche.

– Vieni qui, ragazzo, – dice il sergente maggiore. Fa qualche passo staccandosi dalla jeep e con la mano invita Miller a seguirlo.

E Miller lo segue. Qualcosa non va. Miller lo ha capito subito perché il sergente maggiore lo ha chiamato «ragazzo» anziché «pezzo di merda». Miller avverte già un bruciore nel fianco sinistro, è l’ulcera che si fa sentire.

Il sergente maggiore scruta la strada deserta. – Il fatto è questo, – comincia a dire il sergente. Si ferma e si gira verso Miller. – Oh, al diavolo. Lo sapevi, no, che tua madre era malata?

Miller non dice niente, si limita a stringere le labbra.

– Perché era malata, giusto? – Miller resta in silenzio, e il sergente maggiore dice: – Be’, comunque è morta la scorsa notte. Condoglianze –. Poi alza gli occhi e guarda Miller con uno sguardo triste, e Miller si accorge che il braccio destro del sergente fa per alzarsi sotto il poncho; poi ricade di nuovo lungo il fianco. Capisce che il sergente maggiore avrebbe voluto dargli una pacca sulle spalle, il classico gesto da uomo a uomo, è solo che non funzionerebbe. Viene bene solo se sei piú alto o almeno alto uguale.

– Quei ragazzi sono qui per accompagnarti alla base, – continua il sergente maggiore, e col capo indica la jeep. – Appena arrivi, passa alla Croce Rossa, ti diranno tutto loro. E poi riposati –. Ciò detto, il sergente maggiore si allontana, dirigendosi verso il folto degli alberi.

Miller recupera le sue cose. Uno degli uomini davanti cui passa per tornare alla jeep gli domanda: – Ehi, Miller, cos’è questa storia?

Miller non gli risponde. Ha paura che se apre la bocca gli verrà da ridere e rovinerà ogni cosa. Cosí abbassa la testa e stringe le labbra mentre si sistema sul sedile posteriore della jeep, e non alza lo sguardo se non quando si sono lasciati la compagnia alle spalle da almeno un chilometro. Vicino al soldato semplice che guida c’è un altro soldato semplice, un ciccione che si gira a guardare Miller e gli dice: – Mi dispiace per tua madre. È una brutta perdita.

– La piú brutta di tutte, – dice quello al volante e gli lancia un’occhiata da dietro la spalla. Miller vede la propria faccia riflessa per un istante negli occhiali da sole dell’autista.

– Doveva succedere, un giorno o l’altro, – mormora Miller, e abbassa di nuovo gli occhi.

Le mani gli tremano. Le nasconde fra le ginocchia e guarda, oltre il finestrino di plastica che vibra crepitando, gli alberi che gli scorrono accanto. Sente la pioggia che ticchetta sul tettuccio di tela della jeep. Lui è lí, al coperto, e tutti gli altri della sua compagnia invece sono ancora là fuori. Miller continua a pensare ai compagni che stanno là a prendersi la pioggia, e questo pensiero gli fa venire voglia di ridere e di darsi una pacca sulla gamba. Un simile colpo di fortuna non gli è capitato mai.

– Mia nonna è morta l’anno scorso, – dice il soldato al volante. – Ma non è la stessa cosa, perdere la madre. Mi dispiace, Miller.

– Non preoccupatevi per me, – gli dice Miller. – Reagirò.

Il ciccione seduto accanto all’autista dice: – Senti, non fare che ti reprimi solo perché ci siamo noi, ok? Dico, se vuoi piangere o roba cosí, sentiti libero. Giusto, Leb?

L’altro annuisce. – Butta fuori tutto, non ti fare problemi.

– Non me ne faccio, – dice Miller. Vorrebbe potere spiegare a questi due come stanno veramente le cose, cosí non si sentirebbero obbligati a fare la faccia da funerale fino a quando non arrivano a Fort Ord. Ma se racconta loro cosa è successo, quelli di sicuro fanno dietro front e lo riportano dritto nella sua buca.

Miller lo sa cosa è successo. C’è un altro Miller nel battaglione che ha le sue stesse iniziali, W.P., ed è la madre di questo altro Miller che è morta. L’esercito fa sempre casino mandando all’uno la posta dell’altro e viceversa, e adesso hanno fatto casino con questa faccenda qua. Miller ha capito la situazione non appena il sergente maggiore gli ha chiesto di sua madre.

Per una volta, son tutti là fuori a inzupparsi mentre Miller è al coperto. Al coperto e diretto verso una bella doccia calda, dei vestiti asciutti, una pizza e una branda al riparo dalla pioggia. E nemmeno ha dovuto fare qualcosa di brutto per ottenere tutto questo; sta solo ubbidendo agli ordini. L’errore è colpa loro. Domani si riposerà, come il primo sergente gli ha ordinato di fare, poi marcherà visita per farsi vedere quel ponte da un dentista, e dopo magari andrà in centro, al cinema. Poi chiamerà la Croce Rossa. Quando alla fine il disguido verrà chiarito, sarà troppo tardi per rimandare Miller fuori, nella sua buca. E la cosa piú bella è che l’altro Miller nel frattempo non saprà niente. L’altro Miller avrà ancora un giorno intero per credere che sua madre è viva. Anzi, si potrebbe quasi dire che Miller la tiene in vita per lui.

Il ciccione accanto all’autista si gira di nuovo e osserva Miller. Ha gli occhi piccoli e scuri, la faccia bianca coperta di gocce di sudore. Sulla targhetta del nome c’è scritto kaiser. Scoprendo i denti, che sono piccoli e squadrati come quelli di un bambino, Kaiser dice: – Hai davvero un gran coraggio, Miller. La maggior parte dei ragazzi perdono la testa quando ricevono la notizia.

– Succedesse a me, darei fuori di matto, – dice il soldato al volante. – Chiunque darebbe fuori di matto. È umano, Kaiser.

– Sicuro, – replica Kaiser. – Non sto mica dicendo che io sono diverso. Quello sarà il giorno peggiore di tutta la mia vita, dico il giorno che muore mamma –. Batte in fretta le palpebre, ma non prima che Miller noti i lucciconi che gli sono venuti agli occhi.

– Tocca a tutti, – dice Miller, – prima o poi. Questa è la mia filosofia.

– Caspita, – esclama quello alla guida. – Che sangue freddo!

Kaiser gli lancia un’occhiata penetrante e dice: – Tranquillo, Lebowitz.

Miller si allunga in avanti. Lebowitz è un nome ebreo. Dunque Lebowitz dev’essere ebreo. Miller vorrebbe chiedergli perché è nell’esercito, ma ha paura che Lebowitz se ne abbia a male. Cosí, con tono loquace dice: – Non si vedono molti ebrei nell’esercito, oggigiorno.

Lebowitz lo scruta dallo specchietto retrovisore. Inarca le folte sopracciglia sopra gli occhiali da sole, poi scuote la testa e borbotta qualcosa che Miller non riesce ad afferrare.

– Tranquillo, Leb, – dice di nuovo Kaiser. Poi si gira verso Miller e gli chiede dove faranno il funerale.

– Quale funerale? – domanda Miller.

Lebowitz si mette a ridere.

– Sei uno stronzo, – gli dice Kaiser. – Non hai mai sentito parlare dello stato di shock?

Lebowitz resta in silenzio per qualche secondo. Poi guarda di nuovo Miller dallo specchietto retrovisore e dice: – Scusa Miller. Ridere adesso è proprio fuori luogo.

Miller scrolla le spalle. Con la lingua perlustra il ponte rotto e lo spinge un po’ troppo forte, il dolore lo fa irrigidire di colpo.

– Tua madre doveva viveva? – domanda Kaiser.

– A Redding, – risponde Miller.

Kaiser annuisce. – Redding, – ripete. E resta girato a guardare Miller. Anche Lebowitz lo osserva, lanciando ora un’occhiata allo specchietto retrovisore, ora alla strada. Miller capisce che i due soldati si aspettavano uno spettacolo diverso da quello che sta offrendo loro, piú ricco di emozioni e compagnia bella. Hanno visto le reazioni di altri soldati alla medesima notizia, cosí ormai hanno elaborato certi standard cui Miller però è venuto meno. Lui guarda dal finestrino. Stanno avanzando lungo la crestra del monte. Fette di azzurro sfarfallano fra gli alberi a sinistra della strada; poi arrivano in un’ampia radura e Miller vede l’oceano sotto di loro, limpido fino all’orizzonte, schiacciato da un cielo luminoso, senza nemmeno una nuvola. Fatta eccezione per alcuni pennacchi di umidità che indugiano sulle cime degli alberi, le nuvole sono rimaste alle loro spalle, sulla montagna, sospese sui soldati che sono ancora lassú.

– Non fraintendermi, – dice Miller. – Mi dispiace un sacco che mia madre sia morta.

Kaiser dice: – Bene. Questa è la strada giusta. Avanti, butta fuori tutto.

– È solo che la conoscevo appena, – continua Miller, e dopo questa mostruosa bugia gli sembra di essere completamente privo di peso. Lipperlí questa sensazione lo mette a disagio, ma pochi istanti dopo comincia a prenderci gusto. D’ora in avanti può dire qualsiasi cosa.

Fa la faccia triste. – Oh, certo, starei molto peggio se non ci avesse piantato come ci piantò. Se ne andò che eravamo proprio nel mezzo della mietitura. Ci lasciò di punto in bianco.

– Sento un sacco di rabbia nelle tue parole, – dice Kaiser. – Coraggio, sputa il rospo.

Miller si è ispirato al testo di una vecchia canzone, ma non riesce a ricordare altro. Abbassa la testa e si guarda gli stivali. – Mio padre ci morí, – prosegue dopo qualche istante. – Morí di crepacuore. Cosí rimasi solo con cinque fratelli piccoli a cui pensare, per non parlare della fattoria –. Miller chiude gli occhi. Vede un campo arato e il sole che tramonta dietro il campo e una banda di ragazzini che si allontanano con le zappe in spalla. Mentre la jeep, tornante dopo tornante, scende verso il fondovalle, Miller racconta le sue fatiche e i suoi patimenti di fratello maggiore. È arrivato alla fine della storia quando sboccano sulla strada costiera e prendono verso nord. Finalmente la jeep smette di sferragliare e di vibrare. Prendono velocità. Le gomme ronzano sull’asfalto uniforme della strada. L’aria che soffia impetuosa fischia un’unica nota mulinando attorno all’antenna della radio. – Comunque, – conclude Miller, – ora saranno almeno due anni che non mi manda nemmeno due righe.

– Che storia! – esclama Lebowitz. – Dovresti farci un film.

Miller non sa come interpretare questa frase. Aspetta di sentire cos’altro ha da dire Lebowitz, ma Lebowitz resta in silenzio. Anche Kaiser sta zitto, e sono ormai diversi minuti che gli dà le spalle. Entrambi fissano la strada che hanno davanti. Miller capisce che hanno perso interesse. E questo lo delude, era divertente sparare tutte quelle balle.

Solo una cosa di quelle che Miller ha raccontato è vera: sono due anni che non riceve lettere dalla madre. Lei gli ha scritto un sacco, i primi tempi che Miller era sotto le armi, almeno una volta a settimana, certe volte due, ma lui ha sempre rispedito le lettere al mittente senza nemmeno aprirle e dopo un annetto sua madre ha rinunciato a scrivergli. Ogni tanto ha provato a telefonargli, ma Miller non va al telefono, cosí lei ha finito col rinunciare anche alle telefonate. Miller vuole che sua madre capisca che lui non è il tipo che ci ripensa. Lui è tutto d’un pezzo. Tradiscilo una volta, e lo hai perso per sempre.

Sua madre lo aveva tradito sposando un uomo che non avrebbe mai dovuto sposare: Phil Dove. Dove insegnava biologia alle superiori. Miller andava maluccio in quella materia, cosí sua madre era andata a scuola per parlare con il professor Dove, e alla fine ci si era fidanzata. Quando Miller aveva cercato di farla ragionare, lei non gli aveva dato retta. Dal modo come aveva reagito si sarebbe detto che avesse accalappiato chissà che buon partito anziché un povero balbuziente che passava la vita a studiare i crostacei.

Miller aveva fatto tutto ciò che era in suo potere per impedire questo matrimonio, ma sua madre era come accecata. Non vedeva quel che aveva già, non si rendeva conto di come fosse bella la vita che facevano loro due insieme. Miller era sempre a casa quando sua madre tornava dal lavoro, e le faceva trovare una bella cuccuma di caffè appena fatto. Bevevano il caffè insieme e parlavano di questo e di quello, o magari non parlavano affatto: magari stavano solo seduti lí in cucina, mentre la stanza attorno a loro diventava buia, finché il telefono non suonava o il cane non cominciava a uggiolare chiedendo di uscire. E allora andavano a passeggio col cane fino al laghetto artificiale. Poi tornavano indietro e mangiavano tutto quello che avevano voglia di mangiare, a volte niente, a volte lo stesso piatto per tre o quattro sere di fila, guardando alla tele i programmi che avevano voglia di guardare e andando a letto quando avevano voglia di andarci e non perché un terzo incomodo decideva per loro. Era cosí bello starsene loro due insieme, da soli, padroni in casa loro.

Ma Phil Dove aveva ridotto sua madre in un tale stato di confusione mentale che lei dimenticò quanto fosse bella la loro vita a due. Si rifiutò di capire cosa stava rovinando. – Prima o poi comunque mi lascerai, – gli disse sua madre. – Te ne andrai chissà dove, l’anno prossimo o quello dopo ancora, – il che, secondo Miller, dimostrava quanto poco lei conoscesse suo figlio, perché lui non l’avrebbe lasciata mai, mai e poi mai, per nessuna ragione al mondo. Ma quando lui disse cosí, lei rise con l’aria di chi la sa piú lunga, come se lui non avesse parlato sul serio. Invece lui diceva sul serio. Diceva sul serio quando prometteva di restare, ed era altrettanto sicuro del fatto suo quando le giurò che non le avrebbe piú rivolto la parola se sposava Phil Dove.

Sua madre aveva sposato Phil Dove. La sera del matrimonio Miller si era trasferito in un motel dove aveva dormito anche le due notti successive, finché non aveva finito i soldi. A quel punto si era arruolato nell’esercito. Sapeva che questa decisione l’avrebbe fatta soffrire, perché gli mancava solo un mese al diploma, e anche perché suo padre era morto mentre era sotto le armi. Non in Vietnam, ma in Georgia, per un incidente. Lui e un suo compagno stavano immergendo la biancheria della mensa in un grosso bidone pieno di acqua bollente che chissà come gli si era rovesciato addosso. All’epoca dell’incidente Miller aveva sei anni. La madre di Miller, da allora, aveva nutrito un odio viscerale per l’esercito, non tanto perché suo marito era morto – lei sapeva i rischi della guerra per la quale lui stava partendo, sapeva delle imboscate e delle mine – ma per il modo in cui egli era morto. Disse che l’esercito valeva ben poco se non faceva nemmeno morire un uomo in un modo decente.

Non aveva tutti i torti. L’esercito era uno schifo proprio come pensava sua madre, se non peggio. Passavi tutto il tempo ad aspettare. Vivevi un’esistenza completamente stupida. Miller odiava ogni minuto di quella vita, ma c’era un certo piacere nel suo odio perché era convinto che sua madre sapesse quanto lui era infelice. Quella coscienza le avrebbe provocato dolore. Non un dolore atroce come quello che lei aveva inferto a lui, un dolore che gli si diffondeva dal cuore allo stomaco, ai denti e a tutti gli altri organi, ma comunque il dolore peggiore che lui avesse il potere di infliggerle, un dolore che le avrebbe impedito di dimenticarsi di lui.

Kaiser e Lebowitz stanno discutendo di hamburger. Ognuno descrive il suo hamburger ideale. Miller cerca di non sentirli ma le loro voci sono insistenti, e dopo un po’ anche lui non riesce a pensare ad altro che alle fettine di pomodoro, alla senape Gulden’s, alla polpetta fumante farcita di pezzetti di cipolla, e al reticolo nero disegnato dalla griglia. Sta quasi per chiedere loro di cambiare argomento quando Kaiser si gira e dice: – Ti andrebbe di mandare giú un boccone?

– Non so, – dice Miller. – Forse sí.

– Una sosta l’avevamo in programma, ma se preferisci che tiriamo diritto, basta che lo dici. A te la scelta. Voglio dire, tecnicamente parlando dovremmo riportarti subito alla base.

– Forse qualcosa lo mando giú volentieri, – risponde Miller.

– Ben detto. In un momento cosí devi tenerti in forze.

– Sí, sento che dovrei mangiare qualcosa, – ripete Miller.

Lebowitz alza gli occhi e lo osserva dallo specchietto retrovisore, scuote la testa, poi storna lo sguardo.

Imboccano la prima traversa e si inoltrano nella campagna fino a un incrocio dove due pompe di benzina guardano due ristoranti. Uno dei due ristoranti ha le porte e le finestre chiuse con delle tavole di legno, cosí Lebowitz parcheggia davanti all’altro. Spegne il motore, e i tre uomini restano immobili in quel silenzio improvviso. Poi Miller sente in lontananza del metallo che urta rumorosamente contro dell’altro metallo, il gracchiare di una cornacchia, lo scricchiolio di Kaiser che si sistema sul sedile della jeep. C’è un cane che abbaia davanti a una roulotte striata di ruggine parcheggiata lí accanto. È un cagnaccio scheletrico, bianco, con gli occhi gialli. Mentre abbaia, si gratta, con una zampa alzata e contratta, contro un cartello dove c’è una mano aperta e sotto le parole: SCOPRI IL TUO FUTURO.

Scendono dalla jeep, Kaiser e Lebowitz attraversano il parcheggio e Miller li segue. L’aria è calda e puzza di nafta. Nella pompa di benzina dirimpetto un uomo in costume da bagno, con la pelle tutta rosa, sta cercando di gonfiare le gomme della sua bicicletta, e si muove a scatti insieme allo stantuffo della pompa, sudando copiosamente. Miller spinge con la lingua contro il ponte rotto, sollevandolo leggermente. Si domanda se ce la fa a mangiare un hamburger, e decide che un hamburger non può fargli male almeno se sta attento a masticare dall’altra parte.

Invece fa male. Dopo il primo paio di morsi, Miller spinge via il piatto. Appoggia il mento su una mano e ascolta Lebowitz e Kaiser che discutono se sia possibile o no prevedere il futuro. Lebowitz sta raccontando di una ragazza che conosceva una volta, una ragazza dotata di percezioni extrasensoriali. – Ce ne andavamo a zonzo in auto, – racconta Lebowitz, – e lei cosí, tutto a un tratto, era capace di dire a cosa stavo pensando. E ci azzeccava sempre. Incredibile.

Kaiser finisce il suo hamburger e beve un sorso di latte. – E cosa c’è di tanto speciale? – ribatte. – Lo so fare anch’io –. Prende l’altro piatto e addenta l’hamburger che Miller ha lasciato.

– Avanti, – lo invita Lebowitz. – Forza. Provaci. Be’, sappi che non ho pensato a quello a cui tu pensi che ho pensato.

– E invece sí.

– Ok, adesso sí, – dice Lebowitz, – ma prima no.

– Per me, preferisco restare alla larga dagli indovini, – dice Miller. – Per come la vedo io, meno si sa, meglio si sta.

– Ecco un altro pensiero filosofico uscito dalla riserva privata di W.P. Miller, – dice Lebowitz. Guarda Kaiser, che sta finendo di mangiare l’hamburger di Miller. – Be’, allora cosa ne dici? Io ci sto, se tu ci stai.

Kaiser mastica meditabondo. Deglutisce, si lecca le labbra. – D’accordo, – dice. – Perché no? Sempre che Miller qui non si scocci.

– Di cosa mi dovrei scocciare? – domanda Miller.

Lebowitz si alza in piedi e inforca di nuovo gli occhiali da sole. – Non c’è da preoccuparsi per Miller, – dice. – Miller è un tipo a posto. Miller non perde la testa a differenza di quello che succede a tanti altri nella sua situazione.

Kaiser e Miller si alzano dal tavolo e seguono Lebowitz fuori del ristorante. Lebowitz si ferma all’ombra di un camion e si piega per pulirsi gli stivali con un fazzoletto. Gli ronzano attorno un sacco di mosche di un blu scintillante. – Di cosa mi dovrei scocciare? – ripete Miller.

– Pensavamo di fare una visitina all’indovina, – gli risponde Kaiser.

Lebowitz si raddrizza e i tre uomini attraversano il parcheggio.

– In effetti preferirei continuare il viaggio, – dice Miller. Quando arrivano alla jeep, lui si ferma, ma Lebowitz e Kaiser continuano a camminare. – Ehi, ascoltatemi, – dice Miller, e fa qualche passo di corsa per raggiungeli. – Ho un sacco di cose da fare, – dice rivolto alle loro schiene. – Devo tornare a casa.

– Sappiamo che sei a pezzi, – gli dice Lebowitz. E continua a camminare.

– Non sarà una cosa lunga, – dice Kaiser.

Il cane abbaia ancora una volta e poi, quando vede che i due soldati sono decisi a entrare nel raggio delle sue zanne, corre a nascondersi dietro la roulotte. Lebowitz bussa alla porta. La porta della roulotte si apre e sulla soglia ecco una donna, dal volto tondeggiante, con gli occhi neri e infossati, le labbra carnose. È un po’ strabica e uno dei due occhi fissa qualcosa accanto a lei mentre l’altro scruta i tre uomini davanti alla porta. Ha le mani coperte di farina. È una zingara, una vera zingara. Miller non ha mai visto una zingara prima d’ora, ma la riconosce con la stessa sicurezza con cui riconoscerebbe un lupo se ne vedesse uno. La sola vista di lei gli fa salire il sangue al cervello. Se vivesse da queste parti tornerebbe qui la notte, con altri uomini, tutti urlanti, tutti muniti di torce, e la caccerebbe via.

– Sei in servizio? – domanda Lebowitz.

La zingara annuisce e si pulisce le mani sulla gonna. Le dita lasciano delle scie gessose sulla gonna sgargiante, fatta con pezzi di stoffa di colore e misura diversi. – Tutti e tre? – domanda lei.

– Sicuro, – esclama Kaiser. Ha la voce innaturalmente sonora.

La zingara annuisce di nuovo e gira l’occhio buono fissando prima Lebowitz, poi Kaiser, poi Miller. Guardando Miller, sorride e si mette a snocciolare una sfilza di versi strani, forse sono le parole di un’altra lingua o forse è una formula magica, e sembra aspettarsi che lui la capisca. La zingara ha uno degli incisivi tutto nero.

– No, – dice Miller. – No, signora. Io no, – e scuote la testa.

– Accomodatevi, – dice la zingara, e si fa da un lato.

Lebowitz e Kaiser salgono i gradini e scompaiono nella roulotte. – Avanti, – insiste la donna, e con le sue mani bianche fa cenno a Miller di avvicinarsi.

Lui indietreggia, continuando a scuotere la testa. – Lasciami in pace, – le dice, e prima che la zingara possa replicare, Miller gira i tacchi e se ne va. Torna alla jeep e si siede al posto di guida, lasciando entrambe le portiere aperte per fare entrare un po’ d’aria. Il caldo sta asciugando tutta l’umidità di cui è impregnata la sua mimetica. Sente l’odore muffoso del tetto di tela della jeep e l’odore aspro del proprio sudore. Oltre il parabrezza, coperto di fango a eccezione di un paio di semicerchi opachi, vede tre ragazzi urinare solennemente contro il muro della pompa di benzina dall’altro lato della strada.

Miller si piega per allentarsi gli anfibi. Il sangue gli affluisce alla faccia mentre armeggia con i lacci umidi, e quasi gli manca il respiro. – Maledetti lacci, – dice. – Maledetta pioggia –. Finalmente riesce a slacciarli e si raddrizza, boccheggiando. Osserva la roulotte. Maledetta zingara.

Non riesce a credere che quei due si siano davvero infilati là dentro. A dire cazzate. A sfottere. Questo dimostra quanto sono stupidi, perché lo sanno tutti che non puoi sfottere un’indovina. Non c’è modo di prevedere cosa ti predirrà, e una volta sentita la predizione, non c’è piú modo di impedire che il fatto previsto accada. Una volta che hai sentito cosa c’è dietro l’angolo, non è piú dietro l’angolo, è qui. Volere conoscere il futuro è come aprire la porta a un assassino.

Il futuro. La gente non ne sapeva già abbastanza sul futuro, che bisogno c’è di frugare nei dettagli? C’è solo una cosa da sapere circa il futuro: ogni cosa non può che peggiorare. Una volta capito questo, hai capito tutto. Ai particolari non vale la pena starci a pensare.

Miller certo non ha alcuna intenzione di pensare ai particolari. Si sfila i calzini bagnati e si massaggia i piedi bianchi e grinzosi. Di tanto in tanto lancia un’occhiata in su, verso la roulotte dove la zingara sta leggendo il destino di Kaiser e di Lebowitz. Miller canticchia a bocca chiusa. Lui al futuro non ci pensa.

Perché è vero, tutto peggiora e basta. Un giorno sei seduto davanti a casa tua e infili dei bacchetti dentro un formicaio, e senti il tintinnio dell’argenteria e le voci di tua madre e tuo padre in cucina; poi, da un certo momento in poi, un momento che non riesci nemmeno piú a ricordare, una di quelle voci scompare. E tu non la senti piú. E da oggi a domani sta sicuro che ti attende qualche imboscata.

È inutile pensare a cosa ci aspetta. Miller ha già un’ulcera, e i denti sono pieni di carie. Il suo corpo non ce la fa piú. Come farà quando avrà sessant’anni? O anche solo fra cinque anni? Miller, qualche giorno fa, in un ristorante ha visto un tizio piú o meno della sua età, paralizzato su una sedia a rotelle, c’era una donna che lo imboccava e intanto parlava con gli altri seduti al loro stesso tavolo. Il ragazzo aveva le mani accartocciate in grembo, come un paio di guanti buttati lí per caso. I pantaloni gli erano saliti a metà del polpaccio, rivelando delle gambe pallide e di una magrezza assoluta. Il ragazzo riusciva sí e no a muovere la testa. La donna che lo stava imboccando lo imboccava da cani perché era troppo occupata a chiacchierare con gli amici. Metà della minestra era finita sulla camicia del ragazzo. Eppure i suoi occhi erano luminosi e attenti. Miller aveva pensato: Ecco, potrebbe succedere anche a me.

Capace che tutto fila liscio ma poi un bel giorno, senza che tu ne abbia alcuna colpa, la circolazione sanguigna impazzisce e ti va in tilt una parte del cervello. E ti ritrovi sulla sedia a rotelle. E se poi non ti piglia un colpo tutto a un botto, il risultato è lo stesso, ma arriva un po’ piú tardi, lentamente. Siamo tutti condannati.

Un giorno o l’altro Miller dovrà morire. Lui questo lo sa, ed è orgoglioso di saperlo mentre tutti gli altri fanno solo finta di saperlo, essendo invece convinti in cuor loro che vivranno per sempre. Ma non è questo il motivo per cui Miller non vuole pensare al futuro. C’è qualcosa che è peggio, qualcosa che non va preso in esame, qualcosa che lui non prenderà in esame.

Lui non lo prenderà in esame. Miller si appoggia allo schienale e chiude gli occhi, ma gli sforzi per stimolare il sonno falliscono miseramente; dietro le palpebre chiuse Miller è ben sveglio e oppresso dalla malinconia, e suo malgrado è costretto a indagare proprio ciò che ha paura di trovare, finché, senza nemmeno un filo di sorpresa, quel qualcosa gli appare chiaro. È una verità semplice semplice. Anche sua madre dovrà morire. Esattamente come lui. Impossibile sapere quando. Miller per esempio non può essere sicuro che sua madre sarà ancora lí a casa quando lui tornerà, pronta a ricevere il perdono di lui, quando lui alla fine deciderà che sua madre ha sofferto abbastanza.

Miller apre gli occhi e guarda le forme rozze delle costruzioni dall’altro lato della strada, il loro profilo nascosto dal sudiciume sul parabrezza. Chiude di nuovo gli occhi. Sente il proprio respiro e sente il dolore famigliare, quasi fisico, di sapersi fuori della portata di sua madre. Perché volontariamente si è ritirato dove lei non può vederlo, non può parlargli, non può toccarlo in quel suo modo sbadato, posando le mani sulle spalle del figlio, fermandosi dietro la sedia su cui lui è seduto per domandargli qualcosa o anche solo per riposarsi un attimo, la mente altrove. Questa avrebbe dovuto essere la punizione della madre, ma in qualche modo, chissà come, è diventata la punizione del figlio. Miller capisce che deve smetterla. Questa faccenda lo sta uccidendo.

E deve smettere adesso, come se fin dall’inizio avesse programmato di smettere oggi. Miller sa esattamente cosa deve fare. Quando torna alla base, invece di presentarsi alla Croce Rossa, farà i bagagli e prenderà il primo pullman e tornerà a casa. Nessuno potrà biasimarlo per questo. Perfino i superiori, quando scopriranno l’errore da loro stessi commesso, non potranno che comprendere il suo gesto, perché quella è la cosa piú naturale che ci si possa aspettare da un figlio annichilito dal dolore. Cosí, anziché punirlo, probabilmente chiederanno le sue scuse per lo spavento che gli hanno procurato.

Miller prenderà il primo pullman per tornare a casa, che sia di quelli veloci o no. Sarà pieno di messicani e di soldati. Lui si siederà accanto al finestrino e sonnecchierà. Ogni tanto emergerà dai sogni per guardare fuori le colline verdi che gli corrono accanto e la terra argillosa pronta per essere arata e le stazioni dove il pullman si ferma, stazioni offuscate dai gas di scarico e rumorose per il ruggito dei motori, dove quelli che lui osserverà dal finestrino lo guarderanno con aria intontita proprio come se anche loro fossero appena usciti dal sonno. Salinas. Vacaville. Red Bluff. Ma arrivato a Redding, Miller prenderà un tassí. Chiederà al tassista di fermarsi da Schwartz e di aspettarlo un minuto, giusto il tempo di comprare un mazzo di fiori, poi si farà portare a casa, giú per la Sutter e su per la Serra, oltre il campo di baseball, oltre la scuola elementare, oltre la chiesa mormone. A destra sulla Belmont. A sinistra per Park Avenue. E Miller protendendosi dal sedile, finalmente dirà: Ecco, ancora qualche metro, quasi ci siamo, sí, ci siamo, è quella là.

Suona il campanello e sente un rumore di voci di là dalla porta. La porta si apre, le voci si affievoliscono. Chi è tutta questa gente? Gli uomini in giacca e cravatta, le donne coi guanti bianchi. Qualcuno balbetta il suo nome, ormai gli suona estraneo, se l’è quasi dimenticato. W-W-Wesley. Una voce maschile. Miller è sulla soglia, sente un forte profumo. Gli tolgono i fiori di mano e li mettono insieme a tanti altri fiori, sul tavolino in soggiorno. Si sente chiamare di nuovo per nome. È Phil Dove, che gli sta andando incontro dal capo opposto della stanza. Cammina lentamente, con le braccia tese, come un cieco.

Wesley, gli dice. Wesley, grazie a Dio sei a casa.