Piloti

Il mio amico Clark e io decidemmo di costruire un aereo a reazione. Cosí passammo tre settimane in camera sua a perfezionare il progetto al tavolo da disegno. A volte Clark mi lasciava mettere la visiera verde e maneggiare la squadra e il compasso, però mai a lungo. Io disegnavo come legge uno che legge le labbra; per Clark guardarmi era una tortura. Quando non ne poteva piú, mi scansava con una spinta, lasciandomi libero di giocherellare con le sue cose – la spada da samurai, la pistola Webley col tamburo otturato – e di gironzolare per la casa.

La mamma di Clark di solito era fuori. Presi l’abitudine di prepararmi un panino e di accomodarmi nella poltrona di cuoio in soggiorno, dove ascoltavo dei vecchi dischi e studiavo gli album con le foto di famiglia. Erano gente fortunata, i genitori di Clark, fortunata e niente affatto sorpresa dalla propria fortuna. Lo vedevi da quelle foto che a loro tutto veniva facile, lo vedevi dagli ampi paesaggi alle loro spalle, dalle barche e le auto, dalle facce sempre rilassate: erano bella gente cui, era chiaro, non capitava mai di perdere il lavoro, di avere mal di testa, o di buttarsi fuori di casa. Guardavo ogni fotografia come fosse una porta da cui potevo entrare, finché dentro di me qualcosa girava storto e mi venivano i nervi. Allora mettevo via gli album, e tornavo in camera di Clark a controllare il suo lavoro e a esigere questa o quella modifica.

Sicuro di sé e comandone in tutto salvo che in questo, Clark prendeva molto sul serio quasi tutte le mie idee, e la cosa mi rendeva tirannico. Piú lui si mostrava sollecito nell’accogliere i miei suggerimenti, piú io spadroneggiavo e delle sue proposte me la ridevo come fossero battute idiote. Ma Clark aveva a cuore piú la perfezione dell’aereo che l’amor proprio; non ci metteva niente ad appallottolare una pagina su cui magari aveva lavorato per delle ore e a ricominciare tutto daccapo, se solo mi veniva qualche nuova alzata d’ingegno. Non era umiltà la sua, quanto piuttosto una fiducia che sgorgava da imperturbabili profondità e che lo rendeva sordo a ogni supplica quando invece una delle mie idee ispirate non lo convinceva. A volte – in realtà, piuttosto spesso – contemplavo quella sua testa quadrata sollevando la spada da samurai, e immaginavo di sferrare un colpo che gliela spiccasse dal collo, facendola cadere sul pavimento come un melone maturo.

Clark era ostinato ma in lui non c’era ombra di meschinità. Non se la prendeva mai; era sempre lo stesso, un giorno dopo l’altro, scrupoloso e coi piedi per terra. Benché la sua famiglia avesse molti soldi e spendesse e spandesse, lui non era né viziato né interessato al possesso salvo per ciò che riguardava gli strumenti necessari a qualche suo progetto. In otto o nove mesi che eravamo amici, avevamo girato due film dell’orrore con la cinepresa 8 millimetri di suo papà, avevamo costruito una catapulta cosí perfetta che i suoi genitori ci avevano imposto di distruggerla, e avevamo messo insieme una slitta mostruosa e ingovernabile usando il telaio di un letto e cinque vecchi sci di legno che avevamo trovato nell’immondizia dei suoi vicini di casa. Scrivemmo anche il copione di un giallo radiofonico per un concorso che una radio locale bandiva ogni anno, e Clark continuò a ribattere pazientemente a macchina tutto quanto mentre io inventavo colpi di scena sempre piú tortuosi e dialoghi sempre piú ampollosi ( – Mio caro Carstairs, è stato davvero molto acuto da parte sua notare il fango sulla giacca del mio smoking. Che disdetta, però, che le sia sfuggito il revolver che ho in tasca! – ) Restammo sbalorditi di non vincere.

Io ci mettevo il genio, o almeno cosí credevo. Ma già allora mi rendevo perfettamente conto che era Clark a dare forma alle mie intuizioni e a fare tutto il lavoro. I disegni del nostro aereo, fatti su una carta frusciante, erano minutamente particolareggiati, come dei progetti veri e, per accaparrarseli, una spia non avrebbe esitato a tagliare la gola a qualcuno. Quando li esaminavo a fine giornata (prospettive frontali e laterali, dall’alto, da dietro e da sotto), i diversi disegni combaciavano come i pezzi di un puzzle e la carta perdeva la sua piattezza. Quei fogli diventavano un aereo, un aereo a reazione, il mio aereo a reazione. E per tutta la lunga corsa fino a casa, ero nella cabina di pilotaggio del mio jet, e volavo rasentando le vette dentellate, zigzagavo dentro le valli scoscese, disturbavo i pescatori nello stretto e passavo a tutta birra sopra la città con una tale scarica di lampi e di tuoni che le partite di football venivano interrotte a metà, e le majorette restavano a bocca aperta col naso all’insú, le gambe ancora piegate sotto i gonnellini scozzesi. Un rollio della carlinga, una scrollata delle ali ed ero bell’e scomparso, schizzando su, dentro le nuvole. Sentivo l’accelerazione di gravità sulle braccia, sul petto, sulla faccia. Le pelle schiacciata indietro sugli zigomi. Le lacrime che mi correvano dalle code degli occhi. L’aereo ballava come un matto. E anche quando era impossibile andare piú in alto, io andavo piú in alto. Cristo, se volavo!

Clark e io non avevamo parlato molto della costruzione vera e propria del nostro jet. Avevamo lasciato la questione in sospeso intanto che mettevamo a punto il progetto. Ma non potevamo continuare a lavorare in eterno al progetto; stavamo cominciando ad annoiarci, ormai era una barba. Poi un bel giorno, durante l’intervallo, Clark mi venne vicino e disse che sapeva dove avremmo potuto procurarci un tettuccio d’aereo. Quando gli domandai dove, lanciò un’occhiata al ragazzo con cui stava facendo tiri al canestro e strinse la labbra. Da tempo aveva deciso che costituivo un vero rischio per la sicurezza. – Aspetta e vedrai, – mi disse, e riprese a giocare.

Per tutto il pomeriggio lo tormentai perché mi dicesse dove stava questo benedetto tettuccio e chi ce lo avrebbe dato. Ma lui s’era cucito la bocca. Lo avrei strangolato volentieri.

Dopo scuola, invece di dirigersi verso casa, Clark proseguí giú per il viale, oltre l’ufficio postale, il supermercato e la fila di drive-in e di sale giochi dove bazzicavano i ragazzi delle superiori. Clark aveva le gambe lunghe e non guardava mai né a destra né a sinistra, filava dritto come un razzo, ed era una fatica tenergli dietro. Detestavo stargli alle calcagna, cosí sudato, col fiatone, ignaro della nostra meta, e piú ancora detestavo il fatto che lui fosse cosí sicuro che lo avrei seguito comunque.

Girammo nel vicolo accanto alla sede dell’Odd Fellows e costeggiammo un immenso parcheggio pieno di scuolabus, poi attraversammo un terreno in costruzione sbucando in un parco dove una volta ero stato inseguito da certi ragazzi piú grandi. Dalla parte opposta del parco superammo il ponte sul torrente Flint, gonfio per la pioggia incessante di una settimana. Al di là del ponte la strada si riduceva a una serie di pozzanghere costeggiate da casette dall’aria inzuppata che erano sovrastate da alberi gocciolanti. A quel punto avevo smesso di domandargli dove stavamo andando, perché lo sapevo. Avevo già fatto quella strada milioni di volte.

– Non mi ricordo di avere mai visto dei tettucci da Freddy, – dissi.

– Ha un capannone intero pieno di roba.

– Lo so, ci sono stato, ma non ho mai visto nessun tettuccio.

– Magari l’ha appena rimediato.

– Sarebbe una bella fortuna.

Clark accelerò il passo.

Dissi: – Allora, Mister Top Secret, com’è che hai detto a Freddy dell’aereo?

– Non gliel’ho detto io. Gliel’ha detto Sandra.

E a quel punto mi toccò lasciare correre, perché ero stato io a dirlo a Sandra.

Era una strada senza uscita e la casa di Freddy era proprio in fondo. Mentre ci avvicinavamo sentivo il ringhio delle motoseghe venire dagli alberi dietro la casa. Un tempo Freddy e io eravamo stati capaci di passarci giornate intere in quel bosco. Restai indietro mentre Clark arrivava alla casa e bussava. La madre di Freddy aprí la porta. Fece entrare Clark e aspettò mentre attraversavo il cortile e salivo i gradini. – Be’, meglio tardi che mai, – mi disse, non era un rimprovero, ma a me fece lo stesso quell’effetto. Mi scompigliò i capelli mentre le passavo davanti. – Sei cresciuto un bel po’.

– Sí, signora.

– Freddy è in cucina.

Freddy chiuse il suo libro e si alzò dal tavolo. Sorrise timidamente. – Ciao, – disse, e io dissi: – Ciao, – di rimando. Fu dura. Era quasi un anno che non ci rivolgevamo la parola, da quando lui era andato in ospedale. La madre di Freddy entrò subito dopo di noi e disse: – Su, sedetevi, ragazzi. Toglietevi i giacconi. Freddy, metti qualcuno di quei biscotti su un piatto.

– Non posso restare molto, – disse Clark, ma nessuno gli rispose cosí alla fine appese la sua giacca a una sedia e si avvicinò al tavolo. Era un tavolo rotondo che occupava quasi tutta la cucina. Sul piano del tavolo il fratello di Freddy, Tanker, aveva intagliato un sacco di figure. C’erano dei nobili cervi e dei pesci guizzanti, delle aquile con dei conigli fra gli artigli, dei coguari accovacciati sopra delle capre. Tanker teneva sempre la lama del Barlow impegnata mentre raccontava le sue storie, bevendo una lattina di Olympia. E proprio come le sue storie, i disegni intagliati scivolavano uno dentro l’altro senza soluzione di continuità e avrebbero coperto già l’intero tavolo se Tanker non fosse morto.

Nell’aria c’era lo stesso odore delle lavanderie, e i vetri delle finestre erano appannati. Freddy versò alcuni Oreo su un piatto e me lo porse. Io lo passai a Clark senza prendere nemmeno un biscotto. Il piatto era sudicio. Non era propriamente incrostato, non c’era nessun grosso residuo di cibo in evidenza; era solo lercio. Ma non era una novità. E infatti non mangiavo mai niente a casa di Freddy, salvo quando proprio morivo di fame. Clark invece sembrò non farci caso. Prese una manciata di biscotti, e dopo qualche istante di indecisione anche la madre di Freddy ne prese uno. Era una donna esile con le scapole che sporgevano come due ali quando stava con le spalle curve, come ora, che sbocconcellava il suo Oreo. Si girò verso di me, gli occhi cosí tristi che dovetti fare uno sforzo per non guardare da un’altra parte. – Ancora non riesco a credere che sei cosí cresciuto, – mi disse. – Freddy, non trovi che è molto cresciuto?

– Come la gramigna, – disse Freddy.

– Come un gigante, – dissi io, ricadendo mio malgrado nel nostro vecchio gioco.

Gli occhi di Clark andavano da Freddy a me e viceversa.

La madre di Freddy disse: – Se ho capito bene voi ragazzi state costruendo un aereo, eh?

– Siamo giusto agli inizi, – disse Clark.

– È una cosa fantastica, – proseguí la madre di Freddy. – Un aereo, caspita!

– Al momento stiamo cercando un tettuccio, – disse Clark.

Nessuno disse niente per un po’. La madre di Freddy incrociò le braccia sul petto e si ingobbí ancora di piú. Poi disse: – Freddy, dovresti raccontare ai tuoi amici quello che stavi raccontando a me, su quel tipo di cui parla il tuo libro.

– Sí, va bene, – disse Freddy. – Magari dopo glielo dico.

– Digli dei teschi.

– Teschi umani? – domandai io.

– Sí, a montagne! – disse la madre di Freddy.

– È la storia di Tamerlano, – spiegò Freddy. E attaccò a descrivere la vendetta di Tamerlano sulle città persiane che avevano osato resistere alla sua avanzata. Era una vicenda piuttosto macabra, e Freddy non lesinò i particolari piú atroci né cercò di nascondere il piacere che gli davano, o la soddisfazione che provava pronunciando le frasi ridondanti che imparava sui libri che andava leggendo. Era tipico di Freddy. Lui era buono come il pane, ma aveva una vera fissa per i Vichinghi, gli Aztechi, Gengis Khan, i Crociati e tutti quegli altri vecchi sbudellatori e cavaocchi. E io uguale. Era un interesse che avevamo in comune. Clark ascoltò a bocca aperta, con un’aria leggermente sbigottita.

Non seppi mai esattamente come fosse morto Taker; aveva avuto un incidente mentre era in moto, appena fuori Spokane, Freddy mi aveva raccontato solo questo. Bisognava avere conosciuto Tanker per capire cosa avesse significato questa tragedia nella loro vita. Quella di Freddy era una famiglia molto sfortunata. I pipistrelli avevano occupato il sottotetto della loro casa. Le loro auto deponevano le trasmissioni come le galline le uova. Venivano regolarmente beccati quando guidavano con la patente scaduta, o abbandonavano l’immondizia in luoghi dove era vietato, o non pagavano delle tasse, o almeno tutto questo capitava a Ivan. Ivan era il patrigno di Freddy e uno sfigato di prim’ordine. Non era cattivo o vizioso, era solo pieno di idee brillanti per le quali si cacciava regolarmente nei guai, peggiorando la già difficile situazione della famiglia, come quella volta in cui non aveva pagato le tasse sulla casa per via di una certa esenzione per i veterani di cui aveva sentito parlare, i cui termini però aveva mancato di accertare, cosí dopo avevano scoperto che lui non rientrava fra le categorie esentate. Questo colpo magistrale quasi gli era costato la casa, che il padre di Freddy, morendo, aveva lasciato libera da ipoteche. Tanker era l’unico in famiglia che fosse in grado di tenere testa a Ivan, e non solo perché era piú grosso e piú capace. Ivan aveva un debole per il figliastro. Dopo l’incidente, si mise a letto per una settimana filata, poi si alzò e sparí.

Quando Tanker era in casa, tutti si raccoglievano in cucina, e stavano seduti attorno al tavolo, a reggersi la pancia dal gran ridere per le cose che lui raccontava. Tanker tirava fuori certe storie che io, al posto suo, non avrei raccontato per tutto l’oro del mondo, come quella del giorno in cui gli si ruppe la moto mentre era a casa del diavolo e un’auto si fermò ma invece di dargli un passaggio quelli dall’auto gli tirarono addosso un sacchetto pieno di cacca. A quel punto lo bloccò un poliziotto in servizio di pattugliamento e lo portò in prigione facendolo viaggiare nel bagagliaio, e tutto durante una tormenta di neve. Tanker raccontava questa storia come se fosse l’avventura piú meravigliosa che gli fosse mai capitata, e le lacrime gli luccicavano negli occhi. Conosceva un sacco di gente, Tanker, ragazzi coi giacconi di cuoio screpolato e l’aria smagata, e la casa era sempre piena dei suoi amici. Tanker era capace di aggiustare qualsiasi cosa: l’impianto idraulico, i motori, i tetti che perdevano, tutto. A volte caricava me e Freddy sul suo furgone, un vero macinino, e ci portava a pescare. Ci dava dei nomi indiani. Io ero Brutto Compagno Di Tenda, perché mi lamentavo sempre e russavo. Freddy era Stomaco Macina Tutto.

Dopo la morte di Tanker, in casa di Freddy cambiò tutto. Adesso c’era sempre la quiete gelida che riecheggiava di abbandono. Ivan alla fine ritornò da vattelappesca dove era stato, ma lo stesso era quasi sempre via, impegnato in qualche nuova impresa. Quando Freddy e io tornavamo da scuola, la casa era sempre immersa nel buio e nel silenzio. Sua madre era chiusa nella camera da letto sul retro. A volte ne usciva per offrirci un panino e farci delle domande sulla nostra giornata, ma avrei preferito che non lo facesse. Non avevo mai visto tanto dolore; mi atterriva. Ed ero ancora piú atterrito dai tentativi di lei di superarlo, perché fallivano in modo plateale e patetico, rivelandomi un mondo di cui avevo solo cominciato a sospettare l’esistenza, un mondo dove le ferite non guarivano, e le cose non finivano sempre per il meglio.

Un giorno Freddy e io giocavamo a pallacanestro per strada, davanti casa, quando sua madre lo chiamò e lui dovette rientrare. Approfittai della sua assenza per esercitarmi col mio colpo segreto. Era un tiro a uncino con cui fregavo sempre Freddy; con quel tiro lui non riusciva nemmeno a colpire il tabellone. Scartai e tirai, scartai e tirai, dieci volte, venti volte; cinquanta volte. E Freddy ancora non tornava. C’era un grande silenzio. L’unico rumore era quello della palla che colpiva il tabellone, l’anello del canestro, l’asfalto. Dopo un po’ smisi di fare tiri e me ne stetti fermo là, ad aspettare, facendo rimbalzare su e giú la palla con una mano. La palla era troppo gonfia e mi schizzava subito in mano, con un cupo e vuoto rimbombo accompagnato da una nota acuta e tintinnante che indugiava nel silenzio. Mi dava i brividi. Ma continuai a palleggiare, incapace di interrompere quel ritmo che mi aveva come stregato. La mia mano si muoveva da sola, avvolgendo delicatamente col palmo la palla sporca di terriccio e spingendola giú quel tanto che bastava per farla rimbalzare di nuovo. Il rumore dei colpi diventava sempre piú forte, piú ampio, piú vuoto, il rumore del vuoto in sé, che pulsava come un mal di testa. Spaventato, afferrai la palla e me la strinsi al petto. Guardai la casa. Nessun segno di vita. Pensai alla madre di Freddy, sempre chiusa lí dentro, e a Freddy, là dentro con lei, tutti e due ingoiati dalla miseria. Nel suo silenzio la casa sembrava dotata di coscienza e come in attesa di qualcosa. Buttai via la palla, percorsi a grandi passi tutto il vialetto d’accesso, poi di botto mi misi a correre. Stavo ancora correndo quando arrivai al parco. Fu questa la volta in cui certi ragazzi piú grandi di me si misero a inseguirmi, aizzati dallo spettacolo della mia fuga vigliacca. Mi corsero dietro per piú di cento metri, poi però si lasciarono seminare, ma se davvero avessero voluto avrebbero potuto raggiungermi senza problemi. Loro però correvano per il gusto di farlo e la drammaticità della mia corsa li sconcertò, facendo perdere loro il ritmo.

Ero in preda al panico, ma perché? Non poteva dipendere solo dalla situazione in casa di Freddy. No, è che lo squallore della mia stessa famiglia di giorno in giorno cominciava ad apparire piú chiaro. Allora non potevo ammettere questa consapevolezza, non ancora almeno, tuttavia era sempre là, in attesa nelle mie viscere: un’amara premonizione, un crampo e un senso di allarme davanti a ogni segno di sfortuna o di debolezza negli altri, come se simili cose fossero in agguato anche per me.

Freddy aveva l’asma. Qualche giorno dopo la mia precipitosa fuga da casa sua, ebbe un attacco grave e venne ricoverato in ospedale. Ce lo disse in classe l’insegnante. Fece scrivere a tutti noi dei biglietti d’auguri, e distribuí delle fotocopie con l’indirizzo dell’ospedale e gli orari di visita. Per raggiungerlo bastava una breve passeggiata. Sapevo che dovevo andarci, non pensavo ad altro, al punto che qualsiasi altra cosa feci quella settimana significò soprattutto che non stavo andando a trovare Freddy, tuttavia non riuscii a decidermi. Quando Freddy tornò a scuola non fui capace di rivolgergli la parola e nemmeno di guardarlo in faccia. Andai dritto a casa quando suonò la campanella, uscendo dal portone principale anziché dalla porta laterale, quella che di solito usavamo Freddy e io. Poi mi accorsi che anche lui aveva cominciato a evitarmi. Mangiava rintanandosi in fondo alla mensa; quando ci incrociavamo in corridoio arrossiva e guardava il pavimento. Si comportava come se mi avesse fatto qualche torto, e la vergogna che la sua reazione mi provocò mi rese ancora piú ombroso. Per una volta, ero molto solo, e fu cosí che Clark e io diventammo amici. Questa era la prima volta che tornavo a casa di Freddy dal giorno in cui ne ero scappato via.

Clark ci diede dentro con gli Oreo mentre Freddy raccontava la truculenta storia della vendetta di Tamerlano, e quando ebbe finito ne raccontai una io, presa da un libro che mi aveva dato mio fratello sulla guerriglia sudista organizzata dal Generale Quantrill ai tempi della Guerra civile. Era una storia veramente terribile, crudele e mortificante; il protagonista era uno psicopatico soprannominato «Billy il Sanguinario». Mi rendevo conto che mentre parlavo Freddy mi guardava come rapito. Sua madre, quando il racconto divenne raccapricciante, non lesinò le esclamazioni sconvolte e disperate: – No, Dio santo, no! –, proprio come faceva una volta, quando tutti e tre insieme guardavamo alla tivú Regina per un giorno ogni pomeriggio, sbavando senza vergogna sui casi bizzarri e dolorosi raccontati fra i singhiozzi dai concorrenti, selezionati proprio in virtú delle loro vite disgraziate. Clark invece mi guardava severo. Era impaziente che ci occupassimo dei nostri affari, e troppo sano per questi macabri racconti. Sapevo che stava vedendo un aspetto di me che non conosceva, e che probabilmente non gli piaceva, ma continuai a calcare la mano sui risvolti piú orrendi. Non potevo rinunciare al vecchio e quasi dimenticato piacere di vedere Freddy pendere dalle mie labbra, in estasi davanti a tanta nefandezza.

Poi tutto a un tratto si aprí la porta sul retro e Ivan fece capolino in cucina. La sua faccia era ancora piú grossa e piú bianca di quanto ricordassi, e quasi a confermare l’esattezza dei miei ricordi, in testa portava un berretto da caccia rosso troppo piccolo per lui, che gli restava appoggiato sul cucuzzolo come quei microscopici cappellini di carta che si usano alle feste. Aveva i pantaloni sporchi di fango fino alle ginocchia. Mi guardò e disse: – Che mi venga un colpo! È un sacco che non ci si vede, eh? – In mezzo a una delle lenti degli occhiali aveva un grosso grumo di fango, come la pupilla disegnata su un paio di occhiali da pagliaccio. Ivan guardò Clark, poi la madre di Freddy. – Bella mia, non ci crederai ma quel maledetto camion mi si è impantanato di nuovo.

Soffiava un vento umido. Freddy, Clark e io restammo con le spalle curve e le mani in tasca a guardare Ivan che girava attorno al vecchio autocarro di Tanker carico di legna, spiegandoci perché non era colpa sua se le gomme erano consumate quasi fino all’asse. – La verità è che questo macinino non ce la fa piú –. Diede una manata al paraurti. – Non è piú di primo pelo... da anni!

– ’Gnorsí, – disse Freddy. – È vecchio come il cucco e questo è un fatto.

– Siamo arrivati al capolinea, sono già due volte che il camion mi si impantana, – disse Ivan.

– Non c’è due senza tre, – dissi io.

– E la quarta vien da sé, – disse Freddy.

– Esatto, – disse Ivan. – Ma non ho il coraggio di venderlo –. E a quel punto vidi che la mascella gli tremava e pensai con orrore che stava per mettersi a piangere. Ma non pianse. Schiacciò il labbro inferiore contro i denti, se lo succhiò con aria tetra, poi lo risputò fuori. Aveva delle labbra carnose ed espressive. Per capire di che umore era, gli guardavo la bocca anziché gli occhi, sempre sepolti furbescamente sotto le palpebre socchiuse.

– No, per tirarlo fuori di qui, l’unica è scaricare la legna. Voi ragazzi siete pronti con l’olio di gomito?

Freddy e io ci guardammo senza fiatare.

Clark stava studiando il camion. – Vuole davvero che scarichiamo tutta quella legna?

– Ma cosa vuoi che sia, per dei ragazzi grandi e grossi come voi? Scommetto che ci metterete meno di un’ora, – disse Ivan. – Poi un’altra trentina di minuti per ricaricare la legna sul camion. Vedrai, in poco piú di un’ora avrete bell’e finito.

Il pianale del camion era coperto di legna da ardere, una catasta alta quanto le fasce laterali con una specie di picco al centro. Ivan aveva fatto legna tagliando gli alberi dietro la casa. Ormai ce n’erano rimasti pochini e quasi mezzo ettaro di bosco era stato trasformato in un pantano pieno di spuntoni, attraversato dai solchi lasciati dalle gomme pieni di acqua nera. Oltre il pantano sorgeva una casa da cui giungevano sempre un sacco di urla. C’erano due figlie pallide e magre come chiodi che bisticciavano incessantemente con la madre, e strillando correvano fuori di casa, e strillando saltavano dentro le auto col motore truccato dei loro amichetti. Il padre e il figlio maschio erano come cane e gatto, e tiravano avanti rivendendo i pezzi cannibalizzati dalla raccolta di rottami che occupava il cortile posteriore della loro casa. Ogni pomeriggio e durante i fine settimana uscivano di casa per sdraiarsi sotto quelle vecchie carcasse di auto e urlavano l’un con l’altro, superando con la voce il fracasso delle loro chiavi inglesi. Freddy e io avevamo passato ore, con la faccia sporca di nerofumo e dei ramoscelli fra i capelli, a spiare questa famiglia nascosti dietro gli alberi. Adesso Freddy non aveva piú bisogno di spiarli: scomparsi gli alberi, i vicini erano in piena vista tutto il tempo.

Ivan aveva sgobbato forte per trasformare gli alberi in legna da ardere. Ma la legna da ardere valeva poco. I quattro soldi che cosí raggranellava non valevano la pena, non valevano la scomparsa di tutto quel verde, e degli uccelli, e dei dispettosi scoiattoli, e della frescura in estate, e delle lunghe lame di luce del pomeriggio. Quel bosco per me era stato la selvaggia regione degli indiani Irochesi, la foresta inglese e la giungla africana. Era stato Marte. E adesso tutti questi luoghi non esistevano piú, erano scomparsi. Ero un ragazzino che non sapeva che non avrebbe mai costruito un aereo a reazione, ma sapeva che questo lago di fango era l’opera di un idiota.

– Secondo me lei può fare uscire il camion dal fango senza bisogno di scaricarlo, – disse Clark.

– Già provato. Niente da fare –. Ivan si sedette sul ceppo di un albero e si guardò attorno con aria soddisfatta. – Prima cominciate, prima finirete, ragazzi.

– Un punto in tempo ne salva cento, – dissi io.

– Chi ha tempo non aspetti tempo, – disse Freddy.

– Avanti, coraggio, – disse Ivan.

Clark si era arrampicato su una ragnatela di radici. Ne discese e avanzò verso il camion. Piú si avvicinava, piú il terreno si faceva brodoso, cosí cominciò a camminare in punta di piedi, poi procedette saltando prima su un piede poi sull’altro, ma non c’era un punto solido su cui atterrare e ogni volta che saltava affondava di piú. Quando sprofondò oltre le caviglie, rinunciò a ogni cautela e prese a camminare normalmente, con le scarpe da ginnastica che gorgogliavano, raccogliendo fango a ogni passo. Quando arrivò al camion, sembrava che avesse ai piedi due palloni pesanti da ginnastica. Si accovacciò dietro una delle ruote posteriori, poi dietro l’altra.

– Possiamo provare a stendere due guide di legno, – disse.

Ivan ci strizzò l’occhio. – Guide di legno, dici?

– È cosí che facevano i pionieri quando i carri coperti restavano impantanati, – disse Clark. – Costruivano come due piste con dei ciocchi di legno.

– Figliolo, quello ti sembra un carro coperto?

– Facevano la stessa cosa anche coi pezzi d’artiglieria. Durante la Guerra Civile.

– Forse dovremmo solo scaricare il camion, – dissi io.

– Frena! – esclamò Ivan. Si posò le mani sulle ginocchia. Studiò Clark. – Mi piacciono i ragazzi con delle idee, – disse. – Avanti, facciamo un tentativo.

– Tentar non nuoce, – esclamò Freddy.

– Proprio cosí, – disse Ivan.

Freddy e io andammo fino al capannone per prendere un paio di pale. Cercammo di aggirare i solchi e le pozzanghere ma il fango ci risucchiava egualmente le scarpe. Ora che eravamo soli, continuavo a pensare a quanto era dimagrito Freddy. Ma non mi veniva proprio niente da dire. Neanche lui parlò.

Freddy entrò nel capannone, io lo aspettai fuori e quando uscí gli dissi: – Stiamo per traslocare –. Nessuno a casa mia aveva detto una cosa del genere, ma non so come mi vennero in mente quelle parole e mi sembrò giusto dirle.

Freddy mi porse una pala. – Dove andrete?

– Boh.

– E quando ve ne andate?

– Di preciso non lo so.

Ci avviammo verso il camion.

– Spero che non ve ne andiate, – disse Freddy.

– Chissà, forse non se ne farà niente, – dissi io. – Forse alla fine resteremo qui.

– Sarebbe magnifico, dico se rimani.

– Casa mia, casa mia, per piccina che tu sia...

– ...tu mi sembri una badia, – concluse Freddy, ma continuò a guardare per terra e non rispose al mio sorriso.

Lavorammo a turno per liberare le ruote, uno riposava mentre gli altri due scavavano. Ivan rideva ogni volta che scivolavamo nel fango, ma per il resto ci osservava in silenzio. Era quasi impossibile scavare nel fango e restare in equilibrio, soprattutto quando il lavoro di scavo si fece piú fondo. Alla fine rinunciai e mi misi a scavare in ginocchio – facevi piú leva in quel modo – e Clark e Freddy mi imitarono. Ero coperto di fango fino alla vita e ai gomiti. Ero cosí inzaccherato che smisi di badarci e lavorai di buona lena e basta. Mi arresi allo spirito del fango e non mi preoccupai piú anche se ci sguazzavo dentro.

Sotto la direzione di Clark, scavammo davanti a ciascuna ruota due trincee piuttosto larghe, lunghe circa un metro e mezzo, in salita, un po’ come due rampe. Ficcammo dei pezzi di legno sotto le ruote e poi a mano a mano che avanzavamo con lo scavo, rivestivamo le rampe con degli altri ciocchi. Avevamo quasi finito quando le pareti cominciarono a franare. Clark la prese sul piano personale. Continuava a ripetere: – Cavolo! – e Ivan rideva, dondolandosi avanti e indietro sul ceppo. Clark urlò rivolto a Freddy e a me: – Scavate! Scavate! Scavate! –, e si sdraiò a pancia sotto per togliere con le mani il fango che franava. Sentivo che Freddy aveva il fiatone, ma non si fermò, e neanch’io. Scavammo come talpe e finalmente arrivò il momento in cui le rampe erano pronte e le pareti reggevano. Clark gridò a Ivan di mettere in moto il camion. Era eccitato e urlò con lui proprio come prima aveva urlato con noi. Ivan restò piantato là, a guardarci con gli occhi socchiusi. Clark ributtò i ciocchi avanzati sul camion. – Avanti, ragazzi, – disse. – Noi dobbiamo spingere.

A quel punto Ivan si alzò in piedi, si sfregò le mani e venne verso il camion, sempre guardando Clark. Prima di salire in cabina, gli disse: – Ragazzo, se mai avrai bisogno di un lavoro, vienimi a trovare.

Clark, Freddy e io ci appoggiammo alla ribalta del pianale mentre Ivan avviava il motore e ingranava la marcia. Le ruote posteriori cominciarono a girare, sparando all’indietro dei geyser di fango. Io ero in mezzo, ragion per cui non lo presi in pieno, ma Freddy e Clark furono coperti di fango dalla testa ai piedi. Freddy girò la testa, poi si piegò di nuovo in avanti e cominciò a spingere insieme a Clark e a me. Ivan muoveva il camion facendolo tremolare avanti e indietro, cercando di portarlo sui ciocchi. Il camion si alzò leggermente, esitò, poi slittò indietro sputando una nuova raffica di fango. Clark e Freddy sembravano decorati a stucco. Si strinsero verso il centro, mentre Ivan faceva rollare di nuovo il camion. Trattenni il fiato per non respirare il pesante gas nero che usciva dal tubo di scappamento. Gli occhi mi bruciavano. Il camion rollò e si sollevò di nuovo, le ruote sull’orlo della rampa. Clark grugní, una volta, due volte, tre volte. Seguii il suo ritmo e spinsi con quanta forza avevo in corpo, finché non scivolai e caddi lungo per terra mentre il camion finalmente sobbalzava in avanti. Le ruote gemettero sul legno. Un ceppo venne sparato indietro e volò appena sopra la testa di Clark. Lui sembrò non accorgersene. Stava guardando il camion che avanzava sulla pista che avevamo costruito scivolando in avanti languidamente, rumorosamente, mentre dalle ruote posteriori, che procedevano un po’ svirgolando, si alzavano due grandi pennacchi di fango. Le ruote girarono selvaggiamente, il motore strillò, dei ciocchi rotolarono giú dalle paratie. Guizzando e ondeggiando il camion attraversò il pantano e spandendo gale di fango raggiunse l’asfalto rotto davanti al capannone. Ivan ingranò la seconda, una gran claxonata, e via.

– Stai bene? – disse Clark.

Freddy era piegato in due, con la testa quasi fra le ginocchia. Alzò una mano per dire di sí ma continuava a boccheggiare. Il camion aveva lasciato dietro di sé un silenzio esagerato in cui sentivo distintamente gli spasmi e i raspamenti di ogni respiro di Freddy. Respirare gli costava una grande fatica, era un lavoro duro e solitario. Come feci per andargli vicino, Freddy mi allontanò con un cenno della mano. Clark prese uno sterpo e cominciò a togliersi il fango dalle scarpe da ginnastica. Sembrava un progetto troppo ottimistico, data la crosta di fango che lo copriva fino alla punta dei capelli, ma vi si dedicò serio e metodico. Freddy si raddrizzò. Era pallido come uno straccio, il petto gli si alzava e gli si abbassava come a un uccellino. Restò là per un po’, a guardare Clark che si puliva le scarpe con lo sterpo. – Possiamo pulirci su a casa, – disse.

– Se te la senti, – disse Clark, – vorrei dare un’occhiata a quel tettuccio.

Era tutto il pomeriggio che speravo che Clark tirasse in ballo la storia del tettuccio, perché ero sicuro al cento per cento che Freddy non poteva avercelo. E invece sí, ce lo aveva. Stava nel sottotetto del capannone, dove il padre di Freddy aveva immagazzinato gli articoli piú interessanti provenienti dal deposito di rottami di cui un tempo era stato proprietario. Con tutti i pomeriggi di pioggia che avevamo trascorso giocando lassú dovevo averlo visto centinaia di volte, ma considerandolo inutile, dato che non avevo nemmeno capito di cosa si trattasse, non ci avevo mai fatto caso. Il tettuccio era piú piccolo di quanto previsto dai nostri progetti, ma i progetti potevano essere modificati: era un vero tettuccio di aereo, e tanto bastava. Freddy lo illuminò lentamente con la torcia elettrica dal basso verso l’alto, e poi viceversa. Si doveva essere preparato in vista di questo momento, perché a differenza di tutte le altre cianfrusaglie stipate lassú il tettuccio non era coperto di polvere, anzi, sembrava addirittura lucidato. La luce evidenziò alcuni graffi. Tolti quelli, era perfetto: pulito, intero e persino luccicante. Un oggetto semplice, ma anche tecnico. Concreto.

Se mai avessi nutrito dei dubbi, si sarebbero dileguati in quell’istante. Ormai era evidente che la costruzione del nostro jet non solo era possibile ma praticamente era già cosa fatta. Bastava solo qualche altra giornata come questa e ben presto avremmo potuto assemblare i vari pezzi e volare!

Clark domandò a Freddy cosa voleva per quel tettuccio.

– Ve lo regalo. Tanto sta qui a far niente.

Ci gingillammo ancora per un po’ nel capannone, poi tornammo a casa di Freddy, dove sua madre, sconvolta dallo stato pietoso in cui eravamo ridotti, ci ordinò di spogliarci e di fare la doccia. Clark però non volle e si lavò solo la faccia e le mani; io invece feci una lunga doccia, poi la madre di Freddy mi diede alcuni vecchi vestiti di Tanker per tornare a casa e avvolse i miei panni inzaccherati in un foglio di carta da macellaio legato con dello spago annodato in modo da ottenere una specie di piccola maniglia, un po’ come un pacchetto di frattaglie. Freddy ci accompagnò fino in fondo alla strada. Il sole stava calando. Dopo qualche metro mi girai a guardare e vidi che era ancora là. Ma quando mi girai una seconda volta, Freddy era scomparso.

Ci fermammo sul ponte del Flint e tirammo dei sassi contro una bottiglia che era rimasta impigliata nelle alghe. Ero molto su di giri perché avevamo tirato fuori il camion dal fango e avevamo trovato il tettuccio, inoltre la madre di Freddy mi aveva prestato la giacca da motociclista di Tanker, e anche se le maniche mi arrivavano alla punta delle dita, mi dava una sensazione di onnipotenza che rasentava la follia. Quasi speravo di imbattermi nella banda dei ragazzi del parco, sicuro di potere infliggere loro una bella batosta.

Mi protesi oltre la ringhiera del ponte, sputai nell’acqua.

– Freddy vorrebbe essere dei nostri, – disse Clark.

– Te l’ha detto lui? A me non non ha detto niente.

– Eri sotto la doccia.

– Be’ cosa ti ha detto?

– Solo che gli piacerebbe venire con noi sull’aereo.

– Come? E se non accettiamo non ci dà il tettuccio?

– No. L’ha chiesto cosí, senza contropartita.

– Significherebbe ridisegnare la cabina di pilotaggio. Cambiare tutto.

Clark aveva una pietra in mano. La guardò con un certo interesse, poi con un rapido movimento delle dita la lanciò nel torrente.

– E tu cosa gli hai detto?

– Solo che gli avremmo fatto sapere.

– Cosa pensi?

– Non so, Freddy mi sembra ok ma tu lo conosci meglio di me.

– Freddy è uno a posto, è solo che...

Clark aspettò che concludessi la frase. Quando fu chiaro che non l’avrei fatto, disse: – Decidi tu.

Allora dissi che, secondo me, era meglio tenere la cosa fra noi due soli, almeno per il momento.

Mentre attraversavamo il parco Clark mi chiese di restare a cena da lui cosí non lo avrebbero spellato vivo per come si era conciato. Aggiunse che suo padre era ancora a Portland, come se questo spiegasse qualcosa. Lungo la via del ritorno, Clark se la prese comoda fermandosi di continuo a guardare le vetrine dei negozi e le auto parcheggiate. Quando finalmente arrivammo a casa sua tutte le luci erano accese e si sentiva della musica. Anche se le finestre erano chiuse alcune note arrivavano fino in fondo al marciapiede. Clark si fermò e restò, in ascolto.

– Strauss, – disse. – Bene. Mamma è di buon’umore.