La vita del corpo

Una sera Wiley si sentí solo e prese l’auto per andare fino a un bar di North Beach il cui proprietario, anni prima, era stato un suo collega di scuola. Guardò la partita di pallacanestro in tivú, poi attaccò discorso con la tipa seduta accanto a lui. Era una veterinaria. Si chiamava Kathleen. Quando Wiley ne ripeté il nome calcando l’accento irlandese, lei gli sorrise. Aveva le lentiggini e gli occhi erano verdissimi, «come i campi d’Irlanda», le disse lui, e lei rise, gettando indietro la testa e decidendo – lui se ne accorse, lo vide accadere – di lasciare che le cose facessero il loro corso. Kathleen era un po’ brilla. Parlando lo toccava, gli toccava il polso, la mano, una volta persino la coscia, per sottolineare ciò che andava dicendo e convincerlo delle sue ragioni. Wiley era sempre d’accordo, ma non sentiva ciò che lei gli stava dicendo. Nelle orecchie aveva un rombo impetuoso.

L’uomo con cui era venuta Kathleen, un tipo basso, col viso rosso, la barba, e un giubbotto da safari, la ascoltava tenendosi in mano gli occhiali, meditabondo. Di tanto in tanto le lanciava un’occhiata, studiandole la schiena. Poi tornava a fissare i propri occhiali. Wiley ci teneva a conservare tutto su un piano amichevole, cosí si protese e guardò il tipo finché i loro occhi non si incontrarono, e a quel punto alzò il bicchiere accennando un saluto. L’uomo restò a bocca aperta come un pesce. Infilzò Wiley con un dito e gridò qualcosa di incomprensibile. Kathleen si girò e lo prese per un braccio. A quel punto arrivò il barista. Si stava asciugando le mani con un canovaccio. Si allungò oltre il banco e si mise a parlottare con Kathleen e il bassetto, mentre Wiley li osservava con aria d’incoraggiamento.

– Che problema c’è? – disse Wiley. – Va tutto bene.

Il bassetto scrollò il braccio per liberarsi della stretta di Kathleen. Kathleen si girò a guardare Wiley e disse: – Zitto, tu.

Il barista annuí. – Per favore, stia calmo, – disse.

– Ehi, aspetti un minuto, – disse Wiley.

Il barista lo ignorò e riprese a parlottare con gli altri due. Wiley non riuscí a capire tutto, ma lo sentí comunque dire che lui, Wiley, aveva bevuto forte per tutta la sera e che era meglio non dargli peso.

– Perbacco! – esclamò Wiley. – Aspetti un attimo. Io son qui che converso tranquillamente con la mia vicina e tutto a un tratto quel Napoleone mi dichiara guerra. E pretendete pure di dire che è colpa mia!

– Signore, l’ho pregata di fare silenzio.

– Dovreste buttarlo fuori, – disse il bassetto.

– È quello che stavo per fare.

– Non posso credere alle mie orecchie, – disse Wiley. – Volete cacciarmi? Non sapete che sono un vecchio caro amico di Bob?

– Il signor Lundgran stasera non c’è.

– Questo lo vedo. Gli occhi ce l’ho. Ma il punto è che se Bob fosse qui... – Wiley si interruppe. I tre lo stavano guardando come se fosse un perfetto imbecille, il piccoletto poi faceva cosí il superiore che non era nemmeno piú seccato. Wiley dovette ammettere fra sé e sé che in effetti stava facendo proprio la figura dell’imbecille – cosa gli era venuto i mente di tirare fuori il nome del proprietario? Dio Santo! Un ex professore di algebra. – Sapete, ho molti amici importanti, – disse, cercando di buttare tutto sullo scherzo. Loro invece pensarono che dicesse sul serio. – Su, via, rilassatevi, – disse Wiley.

– Sono sicuro che il signor Lundgran sarà felice di provvedere personalmente al suo conto, – disse il barista. – Se poi intende protestare, lo troverà qui domani pomeriggio.

– Non dirà mica sul serio? Davvero vuole buttarmi fuori?

Il barista considerò la domanda. Poi disse: – Al momento, siamo ancora allo stadio di una formale richiesta.

– Ma è ridicolo!

– La invito cortesemente a lasciare il locale di sua spontanea volontà, signore. Gliene sarei davvero molto grato.

– Ma è assurdo! – disse Wiley, rivolto piú a se stesso che al barista, dietro la cui studiata gentilezza Wiley non poté fare a meno di intuire la possibilità di un competente passaggio alle vie di fatto. Ma che fosse dannato se si lasciava mettere fretta! Finí il suo whisky e posò il bicchiere sul banco. Scivolò giú dallo sgabello, piegò la testa verso Kathleen, la ringraziò con tono grave per il piacere della sua compagnia. Attraversò la stanza con molta dignità e uscí, badando di non sbattere la porta.

Cadeva una pioggerellina fredda e leggera. Wiley restò sotto la tenda del bar e invano aspettò che spiovesse. C’era un altro locale dal lato opposto della strada, da lí uscí una rumorosa risata di donna; gli vennero in mente dei denti sporchi di rossetto, una lingua rosa che leccava i baffi color crema lasciati da una birra White Russian. Si piegò in quella direzione, spingendo in avanti la testa come faceva quando coglieva certi odori nell’aria: curry, caffè bollente, pane fresco. Poi alzò il bavero della giacca e si avviò su per la strada in salita, verso il garage dove aveva lasciato l’auto. Quando arrivò all’angolo, si fermò. Non poteva andare a casa adesso, non cosí. Doveva impedire che nella mente di Kathleen restasse un’immagine cosí assurda di lui. Era importante che lei sapesse la verità, che non lo prendesse per un ubriacone, un chiacchierone qualunque, di quelli che vengono cacciati dai bar. Perché lui non lo era. Era la prima volta che gli capitava una cosa del genere.

Attraversò la strada e tornò indietro, scendendo verso l’altro bar. Due donne erano sedute in un angolo insieme a tre uomini. Quella che Wiley aveva sentito ridere continuava a sganasciarsi. Appena qualcuno diceva qualcosa, lei giú altre risate. Erano tutti e cinque sulla cinquantina, dei turisti, a giudicare dall’aspetto, gli unici clienti del locale. Wiley ordinò un whisky e andò a sedersi a un tavolo vicino alla vetrina dove poteva tenere d’occhio il bar da cui poco prima era stato invitato a uscire.

Non gli era mai capitato niente di questo genere. Wiley insegnava inglese presso un liceo privato. Viveva da solo. Non frequentava molto i bar e quasi mai beveva whisky. Gli piaceva il buon vino, se ne intendeva un po’, ma stava ben attento a non intendersene troppo. La sera, dopo avere preparato le sue lezioni, beveva un paio di bicchieri e leggeva romanzi dell’Ottocento. Non gli piaceva la narrativa moderna, col suo narcisismo, la sua titubanza morale, il suo silenzio davanti alle grandi ingiustizie. Wiley aveva cominciato a insegnare per mantenersi intanto che scriveva la tesi di laurea, e poi aveva perso interesse per lo studio a mano a mano che cominciava a percepire il potere implicito nella sua posizione d’insegnante. I suoi studenti erano ancora tanto giovani da non essere stati sedotti dalle bugie di cui si ammantava il mondo; avrebbe potuto cambiare il loro modo di guardare la realtà.

Wiley si immergeva nei suoi romanzoni fino a tarda notte e spesso dormiva solo poche ore, ma in nove anni non aveva mai perso un giorno di lavoro; quand’era mattino, si buttava giú dal letto proprio all’ultimo minuto e guidava fino a scuola armeggiando coi bottoni, a stomaco vuoto, col caffè che sciabordava nella tazza che stringeva fra le ginocchia.

A Wiley non piaceva vivere solo. Avrebbe voluto sposarsi, ed era stato sempre convinto che a questo punto della sua vita lo sarebbe stato, ma non aveva avuto fortuna con le donne. L’ultima lo aveva scaricato dopo quattro mesi. Si chiamava Monique. Era una francese venuta a insegnare nel loro liceo nel quadro di certi scambi culturali, una parigina alta e spigliata che umiliava i ragazzi scimmiottando il loro stupido accento, e le ragazze eclissandole con la sua femminilità. Portava gli occhiali da sole persino quando andava al cinema. Le labbra di un rosso pieno erano abitualmente increspate. Wiley imparò che quell’increspatura delle labbra denotava una prontezza non alla passione ma al disprezzo, almeno per quanto riguardava lui. Dopo che Monique ebbe letto Il giovane Holden la sua insoddisfazione si insediò nella parola «fasullo». Wiley non capiva perché Monique stesse con lui. A volte pensava che fosse per via della sua parlantina; a Wiley piaceva parlare, e parlava bene, e Monique era negli Stati Uniti per migliorare il suo inglese. Ma le ragioni di lei restavano misteriose. Lo lasciò di punto in bianco, senza averle mai chiarite.

Wiley si era già scolato due whisky e ne aveva appena ordinato un terzo quando Kathleen e il bassetto uscirono dal bar. Si fermarono sulla soglia a guardare la pioggia, che adesso cadeva piú forte. Erano là in piedi, a una certa distanza l’uno dall’altro, non parlavano e guardavano la pioggia gocciolare dalla tenda del bar. Poi lei si frugò nella borsetta e disse qualcosa al suo compagno. Lui si tastò le tasche della giacca. Lei frugò di nuovo nella borsetta, infine entrambi incassarono la testa fra le spalle e si avviarono su per la salita. Wiley si alzò di botto, rovesciando la sedia. La rialzò e uscí dal bar.

Doveva galoppare ma non era facile. I piedi continuavano a farlo andare a zig zag. Si piegò in avanti, obbligandoli a seguirlo. Arrivò all’angolo e gridò: – Kathleen!

Kathleen era sull’angolo opposto. Il bassetto la precedeva di alcuni passi, curvo sotto la pioggia. Si fermarono entrambi e si girarono a guardare Wiley. Lui attraversò la strada e li raggiunse. Disse: – Io ti amo, Kathleen –. Restò sorpreso sentendosi dichiarare questo, e poi proseguire, mentre saliva sul marciapiede, dicendo: – Vieni a casa con me –. Kathleen era diversa da come se la ricordava. Anzi, quasi non la riconosceva. Lei si mise una mano sulla bocca. Wiley non riuscí a capire se fosse scioccata o spaventata o cosa. Forse stava ridendo. Lui sorrise con aria stupida, confuso perché era qui e per quello che aveva detto, incerto su cosa altro dire. Poi il bassetto la superò di scatto e Wiley sentí un colpo sulla guancia e la testa gli schizzò indietro, e subito dopo l’aria gli uscí tutta dai polmoni con un sibilo e lui si piegò in due, stringendosi lo stomaco, incapace di respirare o di parlare. Ricevette un altro colpo dietro le ginocchia e cadde in avanti, contro lo spigolo del marciapiede. Vide una scarpa venire verso la sua faccia e cercò di allontanare la testa ma egualmente non riuscí a evitare un nuovo colpo appena sopra l’occhio. Sentí Kathleen urlare e poi la scarpa lo colpí sulla bocca. Rotolò via e si coprí la faccia con le mani. Kathleen continuava a urlare: – No Mike No Mike No Mike No! – Wiley sentí altri colpi sulle spalle e sulla schiena. Un dolore sordo, lontano, che durò un po’, poi cessò.

Restò sdraiato dov’era, non fidandosi del silenzio, temendo che se si muoveva tutto sarebbe ricominciato daccapo. Ma alla fine si tirò su, e restò carponi sul marciapiede. C’era un paio di occhiali rotti in mezzo alla strada, luccicavano sull’asfalto bagnato, e vederli esattamente da questa angolatura, cosí vicini, cosí famigliari, cosí perfettamente parte di tutto quello che gli era accaduto, gli diede il senso di un completo annichilimento; e sapeva che mai avrebbe potuto dimenticare questa scena, lui lí bocconi, e i frammenti dei suoi occhiali tutt’intorno. La pioggia cadeva senza rumore. Si accorse di stare piangendo, e smise; erano dei singhiozzi teatrali, fasulli. Il labbro inferiore gli pulsava. Se lo leccò. Era gonfio, e sapeva di sale e di cuoio.

Wiley si alzò in piedi, appoggiandosi al muro del palazzo. Due uomini stavano venendo verso di lui e parlavano fra loro, tutti eccitati. Ebbe paura che si fermassero ad aiutarlo, facendogli mille domande. E se chiamavano la polizia? Non aveva alcuna giustificazione per il suo stato, nessuna spiegazione. Wiley stornò il viso. I due uomini gli passarono davanti come se lui non fosse lí, o come se appartenesse a quel luogo e piantato lí contro il muro rientrasse perfettamente fra i comuni arredi stradali.

Casa. Doveva andare a casa. Wiley si staccò dal muro e cominciò a camminare. Fu sorpreso di riuscire a camminare straordinariamente bene. La testa era limpida, i piedi saldi. Si sentiva pieno di vita, persino giubilante, come qualcuno che ha rischiato forte ed è riuscito a farla franca. Leggero e tranquillo. Questa sensazione durò per quasi tutto il tempo del ritorno a casa, in auto, ma poi si dileguò; quando Wiley raggiunse il suo appartamento, si sentiva debole e infreddolito, e prostrato dai brividi della febbre.

Andò dritto in bagno e accese le luci. Il labbro inferiore era tagliato e sanguinava, aveva preso un colore viola acceso, ed era gonfio come una salsiccia. Wiley aveva un altro taglio sopra il sopracciglio sinistro, e la pelle era sbucciata fino all’attaccatura dei capelli. Il mento era sporco di sangue e chiazzato di sporcizia. Sullo zigomo stava comparendo un gran livido. Mio Dio, pensò, guardandosi allo specchio. E sentí una grande tenerezza per l’essere dietro quella lurida maschera, come se non fosse la sua faccia ma quella di un bambino maltrattato. Si toccò i punti dove era ferito. La pelle sbucciata gli restò appiccicata alla punta delle dita.

Wiley fece un lungo bagno e cercò di dormire, ma ogni volta che chiudeva gli occhi avvertiva come una presenza maligna nella camera. Nonostante il bagno, continuava a sentire freddo fin nelle ossa. Si alzò e andò di nuovo a guardarsi allo specchio, sperando di trovare qualche miglioramento. Si ispezionò il volto, poi si preparò un bricco di caffè e passò il resto della nottata al tavolo della cucina, contemplando con sguardo vacuo un libro. Alla fine si addormentò lí, sulla sedia, tutto storto da un lato, il mento sul petto.

Quando suonò la sveglia, Wiley si svegliò e si preparò per andare a scuola. Non gli venne in mente nessuna ragione plausibile per non andare salvo l’imbarazzo; e siccome altri insegnanti avrebbero dovuto sostituirlo nelle loro ore libere, quella non sembrava una ragione sufficiente per non andare. Non pensò minimamente all’effetto che il suo aspetto poteva provocare. Quando i primi studenti lo videro nel corridoio di scuola e cominciarono a interrogarlo, Wiley si accorse di non avere preparato alcuna risposta. Un ragazzo gli domandò se l’avevano assalito dei teppisti.

Wiley annuí, pensando che in fondo era vero.

– Dovevano essere almeno dieci quei balordi, eh?

– No, non erano cosí tanti, – disse Wiley, e se ne andò. Si infilò subito nella sua aula anziché fermarsi in sala professori, ma era seduto dietro la cattedra nemmeno da cinque minuti, che entrò il preside.

– Signor Wiley, – disse, – si faccia un po’ vedere... – Gli andò vicino e lo scrutò in viso. Alle spalle del preside intanto gli studenti stavano entrando alla spicciolata, cercando di non guardare Wiley mentre si sedevano nei loro banchi. – Cos’è successo esattamente? – domandò il preside.

– Mi hanno assalito dei teppisti.

– Si è fatto vedere da un medico?

– No, non ancora.

– Beh, deve farlo. Ha un sacco di lividi, ferite e contusioni. Non è mica un bello spettacolo. Ha chiamato la polizia?

– No. Sono ancora un po’ sottosopra –. Wiley disse questo a bassa voce, perché gli studenti non lo sentissero.

Mac, un amico di Wiley, fece capolino dalla porta, e dopo un disinvolto cenno al preside, – Stai bene? – gli domandò.

– Pare di sí.

– Ho sentito dire che erano in otto. È vero? Erano otto?

– No –. Wiley cercò di sorridere ma il viso non glielo permise. – Solo due, – disse. Non poteva confessare che era stato uno solo a ridurlo in quello stato, non con tutti quei danni.

– Due bastano e avanzano, – disse Mac.

Il preside disse: – Se vuole andare a casa, signor Wiley, basta che me lo faccia sapere. Dico sul serio, niente eroismi. Sono già ammirato che lei sia voluto venire lo stesso a scuola, oggi –. Uscendo, si fermò sulla soglia e si girò verso gli studenti. – È un avvertimento, signore e signori. Quello che è accaduto al signor Wiley, accadrà ai vostri figlioli. Sarà un fatto comune. Questo è il genere di mondo in cui siete destinati a vivere se non fate qualcosa per cambiarlo –. Girò lentamente lo sguardo per tutta l’aula, proprio come faceva durante le assemblee scolastiche. – A voi la scelta, – disse.

Mac applaudí in silenzio alle parole del preside.

Appena Mac e il preside furono usciti, si alzarono due ragazzi e fecero finta di prendersi a calci e a pugni, e intanto gridavano – Ahi! Ahi! Ahi! – Uno dei due ebbe la meglio e spinse l’altro in fondo all’aula, lo spedí al tappeto e quello si allungò scompostamente sul pavimento, agitando braccia e gambe. Poi suonò la campanella, ed entrambi tornarono ai loro banchi.

Questo era un corso riservato ai migliori studenti dell’ultimo anno di liceo. I ragazzi stavano leggendo Benito Cereno, uno dei romanzi preferiti di Wiley, ma non riusciva a dare il via alla discussione in classe per via del modo in cui loro lo fissavano. Cosí decise di parlare lui. Cominciò con l’osservare come Melville smascherava le contraddizioni intrinseche nella legge umana, la quale pretenderebbe di essere al servizio della giustizia mentre in realtà è un’arma in piú nelle mani di quelli che possiedono delle proprietà, anche quando tali proprietà erano costituite da esseri umani. Questo era uno degli argomenti prediletti di Wiley, la mercificazione dell’umanità. Mentre si accalorava nel discorso, dimenticò in quali condizioni fosse ridotto il suo viso e come al solito cominciò a pattugliare l’aula, la testa piegata da un lato, le mani in tasca, strabicando da un occhio. Mise in relazione il Benito Cereno con l’altra opera di Melville che i ragazzi avevano appena letto, Bartleby, citando con enfasi derisoria e melodrammatica il caso del narratore pieno di buone intenzioni il quale non riesce a comprendere la ferocia di un essere umano che egli ha cercato di trasformare in una macchina fotocopiatrice. E questa non era la voce di qualche bestia reazionaria e fascista, disse Wiley, facendo tintinnare le monete e le chiavi che aveva in tasca mentre a grandi passi misurava l’aula. Questa era la voce dell’uomo moderno: moderno, illuminato, liberale.

Piano piano era levitato fino a quel culmine dell’indignazione in cui ogni cosa gli pareva chiara, il male e il bene, e tutte le scaltre imitazioni del bene che attendevano il pellegrino incauto. In tali momenti, Wiley si dimenticava completamente di sé. Diventava Scott Fitzgerald che denuncia la polvere marcia che si libra nella scia di Gatsby, Jonathan Swift che mette alla berlina l’amabilità dei borghesi proponendo un crimine cosí osceno da levarti il fiato, eppure meno osceno dei crimini che la gente normale tollerava tutti i giorni senza pensarci due volte.

E quello che accadeva a Bartleby, spiegò Wiley, era solo un indizio di ciò che si stava preparando. – Guardate le multinazionali! – disse. Poi, per l’ennesima volta, descrisse l’evoluzione delle moderne teorie economiche fino alle loro logiche conclusioni: fabbriche ad altissima tecnologia costruite nel mezzo di giungle straniere dove, dietro recinzioni di filo spinato sorvegliate da soldati e da cani, selvaggi che non avevano mai visto un gabinetto con lo sciacquone assemblavano fax o computer di ultimissima generazione. Un milione di Bartleby, un miliardo di Bartleby!

Wiley non aveva alcuna documentazione circa queste fabbriche nella giungla; ne aveva sentito parlare però, e la cosa non gli pareva affatto assurda ma al contrario perfettamente in tono con lo spirito del capitalismo fine ventesimo secolo. Bastava quella verosimiglianza a farlo montare su tutte le furie ogni volta che toccava l’argomento. Finí la sua lezione quando mancavano solo pochi minuti alla campanella. Si sentí molto professionale. Non era mica un’impresa da niente essere presi a calci in culo alle due di notte e tenere una lezione cosí incandescente alle nove del mattino successivo! Domandò agli studenti se avevano domande. Sembrava che nessuno ne avesse, almeno lipperlí. Wiley li sentí bisbigliare e alla fine una ragazza alzò la mano, timidamente, quasi sperando di non essere notata. Quando Wiley la invitò a parlare, la ragazza guardò il ragazzo dall’altra parte del corridoio fra i banchi, un certo Robbins, e disse: – Di che colore erano?

Wiley non capí la domanda. Lei guardò di nuovo Robbins. Robbins disse: – Erano neri, vero?

– Chi?

– I bastardi che l’hanno assalita.

Wiley aveva avuto sempre simpatia per questo ragazzo e si aspettava che imparasse qualcosa dalle sue lezioni e che sviluppasse pensieri migliori di quelli di suo padre, un agente dell’Fbi, il quale aveva sempre a che ridire col preside per le letture consigliate da Wiley. Wiley si appoggiò alla lavagna. – Non lo so, – rispose.

– Figuriamoci, – fece Robbins.

– Dico davvero, – ribatté Wiley. Ma la cosa suonò improbabile alle sue stesse orecchie, cosí aggiunse: – Era buio. Non sono riuscito a vederli.

Robbins se ne uscí con una gran risata. Anche qualche altro studente si mise a ridacchiare; e quando uno di loro, ridendo, fece un verso strano tutti furono colti come dalle convulsioni. – Silenzio! – esclamò Wiley, ma quelli continuavano a ridere. Erano irraggiungibili, fuori delle sue possibilità; non poté fare altro che starsene piantato là, ad aspettare che smettessero. Wiley aveva tre studenti neri in classe, due ragazze e un ragazzo. Tutti e tre stavano fissando i loro libri, esattamente nella medesima posizione, come se si fossero messi d’accordo, benché fossero seduti a una certa distanza l’uno dall’altro. All’inizio dell’anno si erano sempre seduti vicini, ma adesso facevano come tutti gli altri e migravano continuamente di banco in banco. Sembravano trovarsi a loro agio nella sua classe. Era proprio ciò che Wiley voleva, che questa aula fosse come un santuario, un luogo cui tutto il resto del mondo avrebbe dovuto assomigliare. Non c’era altra ragione per lui di essere qui.

Suonò la campanella. Wiley si sedette e scartabellò fra le sue carte mentre gli studenti, improvvisamente e bizzarramente quieti, uscivano passando davanti alla cattedra. Poi andò negli uffici della scuola e disse al preside che dopo tutto aveva deciso di tornarsene a casa. Si sentiva da cani, spiegò.

Dormí qualche ora. Quando si svegliò andò a guardare l’elenco dei veterinari riportato dalle pagine gialle e trovò una certa dottoressa Kathleen Newman nello staff di una clinica specializzata in chirurgia per gli animali esotici. Telefonò alla clinica e domandò della dottoressa Newman. L’uomo che aveva risposto al telefono disse che la dottoressa era in riunione. – È un’emergenza?

– Ho paura di sí, – disse Wiley. – Sí, una specie di emergenza. Le dica, – continuò, – che il cetaceo del signor Melville è scomparso.

Sillabò la parola «cetaceo» per il centralinista.

Dopo pochi secondi, ecco in linea una voce di donna. – Chi parla? – Era lei. Ma il tono era brusco e formale. Wiley si era immaginato che lei avrebbe raccolto la sua battuta e adesso non sapeva da dove cominciare. – Pronto? Pronto? Oh, al diavolo, – disse lei, e riagganciò.

Wiley andò a guardare l’elenco telefonico. C’era un Dott. K. P. Newman in Filbert Street. Si appuntò il numero e l’indirizzo.

La moglie di Mac, Alice, passò da lui quel pomeriggio portandogli del pane e un po’ d’insalata. Alice era stata un’allieva di Wiley, e fra le piú amate. Era una ragazza pallida, pensosa, dai movimenti lenti, e lui mai si sarebbe aspettato che potesse flirtare con un insegnante, a dimostrazione di quanto poco ne sapesse Wiley di queste faccende; Alice e Mac ci davano dentro fin da quando lei frequentava il primo anno delle superiori. Si sposarono appena dopo il diploma di Alice. Il matrimonio fece scandalo, ovviamente, e Mac rischiò di perdere il posto, anche se in un modo o nell’altro la situazione non degenerò mai fino a quel punto. Wiley trovò quel matrimonio un fatto sommamente sconcertante. Lo disapprovava e al tempo stesso ne era invidioso; gli sembrava quasi che Mac l’avesse imbrogliato. Ma da allora ormai erano passati già otto anni.

Alice si bloccò appena varcata la soglia e lo fissò in viso. Lui si accorse che era sconvolta fino quasi alle lacrime.

– Tempo qualche giorno e tornerò come nuovo, – le disse.

– Ma com’è possibile che abbiano potuto conciarti in questo modo? Un’azione cosí orribile, proprio a te!

– Sono cose che capitano, – disse Wiley.

– Be’, non dovrebbero capitare.

Lei lo rimandò in soggiorno. Wiley si stese sul divano e la guardò dalla porta della cucina mentre apparecchiava la tavola e preparava il pranzo. Era felice di averla tutta per sé, a casa sua; era uno dei suoi desideri. Ma Alice non sapeva che lui aveva di queste fantasie. Quando uscivano tutti e tre insieme e andavano in qualche bar, Alice si sedeva sempre accanto a Wiley e magari gli posava la testa sulla spalla. Beveva dal bicchiere di lui. A lei piaceva ballare, e quando ballava con Wiley gli si appiccicava addosso, ma per tutto il tempo parlava incessantemente delle banalità quotidiane, il che in qualche modo rendeva la loro vicinanza rispettabile. Al termine della serata, Mac e Alice riaccompagnavano Wiley a casa con la loro auto, e salivano da lui per telefonare alla babysitter e per bere un ultimo bicchiere di vino, e poi un altro ancora, e Wiley allora si metteva a leggere per loro qualche sublime passo del romanzo in cui era immerso in quei giorni, e Alice si stendeva sul divano e appoggiava la testa sul suo grembo mentre Mac li osservava benigno seduto in poltrona. Wiley sapeva che avrebbe dovuto sentirsi onorato da tanta fiducia, invece si sentiva offeso. Quella fiducia gli pareva opprimente. Voleva dire che prendevano alla leggera la sua capacità di desiderare. Tuttavia sopportava, perché non sapeva cosa altro fare.

Adesso Alice stava affettando pomodori sul bancone della cucina. Aveva i piedi un po’ a papera. Portava i capelli raccolti in una crocchia, ma alcune ciocche ribelli le penzolavano sulla faccia; lei le soffiava via mentre lavorava. Con gli anni, aveva messo su qualche chilo, ma a Wiley piaceva la piccola piega di carne sotto il mento di lei, quelle sue mani paffute.

Lei lo chiamò a tavola. Era insolitamente silenziosa, lo guardò un attimo, poi riabbassò subito lo sguardo. Lui non pensò che fosse perché aveva la faccia maciullata, bensí perché per la prima volta erano loro due soli. Tutte le civetterie di Alice con Wiley avevano un che di recitato, ma adesso non c’era lí Mac a dare ironia alla scena e a renderla innocua.

Alla fine Alice gli chiese: – Ti va un po’ di vino?

– No, grazie.

– Sicuro?

Wiley annuí.

Alice puntò la forchetta verso le bottiglie vuote, allineate contro il muro della cucina. – Quelle te le sei scolate tutte tu?

– Sí, be’, ma nel corso del tempo.

– Magnifico! Sono felice di scoprire che non te le sei bevute tutte insieme. E quanto tempo ci hai messo a berle?

– Non saprei. Non tengo nota di tutte le bevute.

– Questo è il guaio di vivere da soli, – disse lei, come se lo sapesse.

– Suppongo di sí.

– Allora come mai non hai sposato Monique? – domandò Alice lanciandogli un’occhiata di sguincio.

– Monique? Oh, dài! Mi avrebbe seppellito di risate se solo avessi osato tirare fuori l’argomento.

– Credevo che fosse pazza di te.

Wiley scosse la testa.

– Be’, sembrava che ti adorasse, giuro.

– No, niente affatto.

– Ok, allora che mi dici di Lynn?

– Fu una tale scemenza, dico quella storia con Lynn. Non mi va di parlare di lei.

– Era cosí viziata.

– Non fu colpa sua. È solo che tra noi non poteva funzionare.

– Non mi piaceva, sai? Era cosí sarcastica. Fui contenta quando vi lasciaste –. Alice addentò un pezzo di pane. – E adesso con chi ti vedi? Con qualche donna sposata, scommetto.

– Perché mai ti viene in mente una cosa del genere?

– Non ci hai presentato piú nessuna, dopo Monique. Ragion per cui devi avere qualche dama segreta. Una Dark Lady...

– Vorrei tanto che non cercassi di fare cosí la spregiudicata, – disse lui. – Davvero pensi che abbia un amore?

– Sí, be’, credevo che avessi qualcuna –. Alice questo lo disse con tono annoiato. Stava studiando il viso di Wiley. – Dio mio, quei balordi ti hanno davvero conciato per le feste!

Wiley spostò il piatto da un lato. – Era solo uno, sai? – disse. – Un tipo piuttosto basso. Un mezzo nano.

– Mac mi ha detto che erano due. «Due fratelli dalla pelle scura», cosí mi ha detto. Dov’è andato a prenderla questa storia?

– Gliel’ho raccontata io, – ammise Wiley.

Dopodiché, siccome si fidava di lei e sentiva il bisogno di confidarsi, cominciò a raccontarle quello che gli era veramente accaduto la notte prima. Alice lo ascoltò senza mai dare segni visibili di disgusto o di pietà. Sembrava solo e semplicemente interessata. Di tanto in tanto, rideva, perché nel raccontare il fatto Wiley non poté fare a meno di trasformare il suo piccolo disastro in una vera e propria storia. E intessere delle storie, persino quelle che parlavano di solitudine e di umiliazione, portava spontaneamente alla luce la sua vena istrionica e spiritosa. Wiley si accorse che Alice si divertiva ad ascoltarlo, certo non se lo era aspettato, quando Mac l’aveva pregata di andare a dargli un’occhiata. E, una volta tanto, ascoltava un discorso sincero. A casa non ne sentiva spesso. Mac aveva un gran cuore, ma era anche un puttaniere, e un bugiardo.

Wiley raccontava le storie che lo riguardavano come se fossero accadute a qualcun altro. E da quella distanza lui stesso si rendeva conto che c’era da ridere davanti allo spettacolo di un uomo che energicamente professa la sua scelta per la vita contemplativa, la vita dello spirito e dell’intelletto, ma poi una bella sera si sbronza e finisce con l’azzuffarsi per qualche strampalata signorina. Il fatto è che il corpo aveva un intelletto tutto suo. Wiley spiegò ad Alice di essere stato come rapito dal proprio corpo per i suoi bassi propositi; si era ritrovato, le disse, come legato al dorso di un cavallo schiumante, sfuggito al controllo, che voleva trascinarlo a tutti i costi verso le piú aberranti degradazioni.

Ma in finale non si trattava di una storia buffa. Quando Wiley raccontò ad Alice cosa era successo in classe al mattino, lei si fece seria e guardinga.

– Ero senza parole, – le disse. – Non riuscivo a spiccicare verbo. In classe abbiamo letto Native son, abbiamo letto L’uomo invisibile. Li faccio parlare davvero, quei ragazzi, davvero cerco di farli riflettere su queste cose qua, e che mi va a succedere? Proprio a causa mia, mi scoppia in classe un conflitto razziale!

– Forse dovresti dire la verità ai tuoi ragazzi.

– Vuoi scherzare?

– Ti rispetterebbero di piú, se lo facessi.

– Sí, me l’immagino!

– Be’, dovrebbero rispettarti di piú.

– Ma dài, Alice!

– Alcuni ti rispetterebbero di piú. E sarebbero quelli giusti.

– La storia farebbe il giro della scuola. Sarei licenziato su due piedi.

– Questo è vero, – ammise Alice. Posò la guancia sulla mano. – Eppure...

– Eppure, cosa? – Quando lei non rispose, lui disse: – Va bene, diciamo che magari non mi importa se mi licenziano. Mi importa, ma diciamo, per ipotesi, che domani vado là e dico tutto ai miei ragazzi, racconto come sono andate davvero le cose. Be’, sai cosa penseranno? Penseranno che me la sono inventata, dico questa seconda storia, non la prima. Capisci, per buonismo, per non colpevolizzare i ragazzi neri che ho in classe. E alla fin fine l’unica cosa che succederà davvero sarà che i miei tre ragazzi di colore si sentiranno anche peggio di come si sentono adesso. Si sentiranno trattati con condiscendenza. Insultati. Penseranno che mento per proteggerli, come se davvero fossero colpevoli di qualcosa. Tutti penseranno che mento.

Wiley si accorse che Alice titubava. Poi lei gli disse: – Ma tu non starai mentendo. Tu starai dicendo la verità.

– Sí, ma non lo saprà nessuno!

– Tu sí! Tu saprai che è la verità!

– Ascolta, Alice –. Wiley adesso era arrabbiato, e spazientito. Aspettò qualche istante prima di riprendere a parlare, cosí da non lasciare trasparire la sua rabbia. Le disse: – Mi sento da cani. Non riesco nemmeno a contare tutte le cose sbagliate che ho fatto nelle ultime ventiquattr’ore. Ma ormai non c’è piú rimedio, le ho fatte. Cercare di disfarle potrebbe unicamente peggiorare le cose, e non parlo solo per me. Penso ai ragazzi –. Gli sembrò un ragionamento del tutto logico, espresso con molto buon senso e moderazione.

– Forse è cosí –. Alice stava girando nervosamente uno dei suoi anelli. – Forse il mio è semplicismo, tuttavia proprio non riesco a capire come sia possibile che dire la verità diventi un errore. Ho sempre pensato che tu fossi lí proprio per questo.

Wiley avrebbe avuto altri argomenti da presentare. Avrebbe potuto dirle che lui era un insegnante, e non poteva mettere a repentaglio la propria autorità morale. Che quando la verità faceva piú male di una bugia, bisogna riconoscere i meriti della bugia. Che se altre persone devono soffrire solo perché tu abbia la coscienza pulita, è meglio essere in grado di accettare la propria immoralità e tirare avanti. Erano tutti buoni argomenti, il distillato della vita adulta, ma Wiley non disse niente. Non era mica scemo, immaginava benissimo quali sarebbero state le risposte di lei, perché in fin dei conti erano le stesse sue. È solo che non poteva agire secondo quelle idee.

– Alice, – disse. – Mi senti?

Lei annuí.

– Non avrei dovuto rovesciarti addosso tutta questa roba. Ti ho frastornata.

– Non sono affatto frastornata.

Lui non rispose.

– Devo andare, – disse Alice.

L’accompagnò fino alla porta.

– Non dirò niente a Mac, – gli disse.

– Lo so. Mi fido di te.

– E per cosa? Per tenere qualcosa segreto a mio marito? – Lei rise, una risata poco piacevole. – Non preoccuparti, – gli disse. – Lo so com’è Mac.

Per il resto del pomeriggio Wiley corresse temi. Interruppe per cena e poi concluse la correzione. Non complesso erano dei buoni lavori, i migliori dall’inizio dell’anno. Aveva chiesto ai suoi studenti di parlare del Bartleby di Melville. Una ragazza aveva immaginato la situazione come un matrimonio in cui Bartleby era la moglie e il narratore il marito: «Il narratore vede Bartleby nello stesso modo in cui gli uomini considerano le donne, cioè come se Bartleby non abbia altro scopo su questa terra che essergli utile». La ragazza proseguiva forzando un po’ la trama del romanzo per riuscire a dimostrare la sua tesi, ma a Wiley non dispiacque. Era un tema pieno di freschezza e di passione. Questa ragazza non avrebbe mai pensato di guardare le cose da quel punto di vista all’inizio dell’anno. Wiley era commosso, e orgoglioso di lei.

Annotò i voti sul suo registro e poi telefonò al numero della Dott. K.P. Newman di Filbert Street. Quando lei rispose, le disse: – Sono io, Kathleen. Quello di ieri sera, – aggiunse.

– Tu? – disse lei. – Dove hai preso il mio numero?

– Dall’elenco del telefono. Volevo solo chiarire due o tre cose.

– Eri tu anche prima, vero? – disse lei. – Mi hai telefonato al lavoro.

– Sí.

– Lo sapevo che eri tu. Ma non hai detto niente. Hai dato persino un nome falso, vigliacco.

– Ma quello era uno scherzo, – disse Wiley.

– Tu sei pazzo. Telefonami ancora e avrai la polizia addosso.

– Aspetta. Kathleen. Ho bisogno di vederti.

– Io no.

– Aspetta. Ti prego, ascoltami. Io non sono cosí, non sono come sembravo ieri sera. Davvero, Kathleen. Ieri sera è stato tutto un qui pro quo. Vorrei solo fare un salto lí da te, solo un minuto, il tempo di chiarire tutto quanto.

– Cosa? Hai il mio indirizzo?

– È sull’elenco.

– Cristo! Non posso crederci! Togliti dalla testa di venire qui. C’è Mike, – disse lei, – e stavolta non lo fermerò. Dico sul serio.

– Non sei mica sposata con Mike.

– E chi lo dice?

– Me lo avresti detto.

– E allora? Che differenza fa?

– Fa differenza.

– Tu sei pazzo.

– Ti chiedo solo pochi minuti per spiegarti come stanno le cose.

– Guarda che attacco.

– Solo pochi minuti, Kathleen! Non ti chiedo altro. Poi me ne andrò, se ancora vorrai che me ne vada.

– Qui c’è Mike, – disse lei. Poi silenzio. Poi, proprio un istante prima di riagganciare, Kathleen aggiunse: – E non ti azzardare a chiamarmi di nuovo al lavoro.

A Wiley piacque questa frase; significava che Kathleen supponeva che avessero un futuro.

Prima di uscire si guardò allo specchio. Certo cosí conciato non era bello, ma poteva ancora parlare. Doveva solo convincerla ad ascoltarlo. Avrebbe continuato a ripetere il suo nome. Kathleen. Pronunciandolo con tono trasognato, calcando l’accento irlandese, come piaceva a lei. Detto a quel modo, quasi cantando, quel nome aveva un potere straordinario su Kathleen; lo aveva visto già la sera prima, quando sul volto della donna era fiorita la ragazza spontanea e naturale, la ragazza pronta per l’amore. Lui avrebbe continuato a ripetere quel nome, Kathleen, e una volta che fosse riuscito a farsi ascoltare da lei chissà cosa sarebbe potuto succedere, perché tutto quello di cui lui aveva davvero bisogno erano le parole, e le parole, Wiley lo sapeva, erano infinite.