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Oro del Mar è un piccolo conservificio ittico nel porto di Barranquilla. La Lincoln del ’63 di don Ernesto, con le portiere incernierate posteriormente, era parcheggiata accanto ai pick-up malconci dei pescatori.

Al tavolo della sala riunioni al piano superiore, don Ernesto parlava con J.B. Clarke da Houston e con il capofabbrica, il señor Valdez. Don Ernesto stava sostenendo una start-up. Sul tavolo c’erano due vassoi di lumache e una bottiglia di vino. Gomez, troppo grosso per la sedia, sedeva sul pavimento sventolandosi con il cappello. Il suo ruolo era fare la guardia del corpo, ma a don Ernesto non dava fastidio avere il suo parere.

Clarke era un pubblicitario. Aprì il suo portfolio. «Mi avete detto che volete pubblicità che suggeriscano esclusività e prestigio. Parole come “prestigiosos”.»

«“Caracoles Finos y Prestigiosos”» disse don Ernesto. «Andrebbe bene su un’etichetta, o è troppo lunga?»

«Si può fare. Ho delle proposte.» Clarke tirò fuori dei disegni di etichette di lattine. Una raffigurava la Tour Eiffel con la scritta “Caracoles Finos”, un’altra vantava “Escargots di altissima qualità” con decorazioni francesi. In un’altra ancora c’era un castello sullo sfondo e in primissimo piano una lumaca su uno stelo. Tutte le etichette dicevano “Confezionato in Colombia”.

«Perché c’è scritto “confezionato in Colombia”? Perché non dire che è confezionato in Francia?» volle sapere Gomez.

«Perché è illegale» rispose Clarke. «Le producete qui, giusto? Il rimando alla Francia è un espediente per vendere» spiegò.

«Sì, non sarebbe etico, Gomez» aggiunse don Ernesto.

«Potreste usare la canzone honduregna Sopa de Caracol nelle pubblicità» suggerì Gomez.

«Non è francese» osservò Clarke.

«Le etichette avranno della colla animale. Dovremo leccarle?» chiese il capofabbrica.

«No, señor Valdez. Dopo aver testato il mercato, compreremo una macchina per etichette» spiegò don Ernesto. «Voi vi limitate a inscatolarle. Fatemi vedere i gusci.»

Valdez sollevò una scatola e la mise sul tavolo. Ne tirò fuori una manciata di gusci di lumaca.

Gomez ne annusò uno e arricciò il naso. «Puzzano di burro stantio e aglio. I ristoranti non li lavano prima di buttarli via.»

«Abbiamo cercato di tenerli a mollo, ma il Clorox fa sbiadire il colore» disse Valdez.

«Provate con il Fab, a base di borace al profumo di limone» consigliò lo scapolo Gomez.

Don Ernesto allontanò i disegni. «Señor Clarke, voglio che sull’etichetta ci sia qualcosa di semplice ed elegante. Una candela, la mano di una donna che tiene il gambo di un calice di vino. Voglio che trasmetta… “offri queste lumache di alta qualità a una signora, e lei ti vedrà per l’uomo che sei”.»

«E magari, appena ha finito le lumache, ti farà vedere la gatita dulce. Vuol dire fica» spiegò Gomez.

«Non c’è bisogno di spiegarglielo» intervenne don Ernesto. «Allora, Valdez, quali di queste lumache sono davvero francesi?»

«Quelle sul vassoio verde.»

«Ah, perciò su un vassoio ci sono lumache francesi di alta qualità, sull’altro quelle di nostra produzione. Come vedete, sembrano identiche. E credo che nel sapore non ci siano differenze. Vogliamo assaggiarle?» propose don Ernesto.

Sembravano tutti tesi.

Valdez disse: «Permiso, don Ernesto, se fosse possibile…».

«È per questo che abbiamo portato Alejandro. Gomez, va’ a chiamarlo.»

Don Ernesto scelse una lumaca francese dal vassoio verde e la mangiò con gesti cerimoniosi mentre Gomez tornava insieme ad Alejandro, un uomo sui trentacinque anni. Indossava un Borsalino di paglia, un plastron e un fazzoletto che gli spuntava dal taschino.

Don Ernesto posò il guscio sul vassoio blu. «Alejandro è un uomo di mondo, finissimo buongustaio e critico gastronomico. E inoltre ha amici che lavoravano per tutte le riviste patinate, Mr Clarke.»

Alejandro sedette e strinse la mano a Clarke. «Don Ernesto è troppo gentile. In realtà mi piace semplicemente mangiare e qualcuno pensa che abbia la puzza sotto il naso.»

Don Ernesto gli versò del vino. «Prepara il palato, amico mio. Per prime assaggia le lumache del Sud della Provenza.»

Don Ernesto gli offrì le lumache francesi.

Alejandro ne assaporò una tenendola in bocca. Bevve un sorso di vino e annuì con vigore.

Don Ernesto offrì un campione della propria produzione.

«E adesso quelle della Bretagna, anche queste francesi.»

Alejandro svuotò il guscio e masticò a lungo. «Il sapore è simile, don Ernesto, ma il secondo lotto ha più… consistenza, e il gusto è lievemente più deciso.»

A Gomez venne da starnutire e dovette coprirsi la faccia con la parte larga della cravatta.

«Le compreresti?» chiese don Ernesto.

«Devo dire che preferisco le prime, ma se non le trovassi, sì, comprerei il secondo lotto. Il secondo lotto di lumache è stato pulito nell’acqua trattata con cloro. Penso che… c’è il lieve retrogusto di cloro che trovo fastidiosissimo nell’acqua della città. Potreste farlo presente ai clienti della Bretagna.»

«Diresti che la consistenza è sensuale, dovremmo enfatizzare quella che voi esperti di vino chiamate “sensazione al palato”?»

«Senz’altro» rispose Alejandro. «Sensazione al palato, consistenza sensuale, sapore deciso.»

«Concettualmente, è la direzione che stiamo seguendo» osservò Clarke. «Sto pensando a un manifesto per gli scaffali dei negozi di alimentari. Qualcosa tipo: “C’est si bon, le papille fan din don”.»

«Mr Clarke, Alejandro, versatevi un bicchiere di vino da portare con voi, ci vediamo alle auto.»

Gomez si riempì il bicchiere. «Questo vino potrebbe essere più deciso» disse.

Valdez aprì la porta dei laboratori e la richiuse dopo il passaggio di don Ernesto e Gomez.

Don Ernesto gli parlò all’orecchio. «A Gonaïves potrei avere bisogno di trasbordare qualcosa di pesante. Il vostro paranco dovrà sollevare forse ottocento chili. Prelevate il carico da una nave e lo trasferite su un furgone. Poi lo portate a Cap-Haïtien e lo mettete su un aereo. All’aeroporto vi servirà un carrello elevatore.»

«Grosso aereo.»

Don Ernesto annuì. «DC-6A

«Ha il montacarichi al portello?»

«Sì.»

«Il carrello è dentro o ce ne serve uno?»

«Ce l’ha. L’aereo avrà già a bordo alcune lavastoviglie e frigoriferi, con uno spazio vuoto lasciato per infilare il mio oggetto. È importante che abbia quell’esatta posizione. Posso darvi più o meno otto giorni di anticipo. È anche possibile che il carico vada spostato prima in aereo e poi in nave, dipende.»

«En su servicio, don Ernesto. E i documenti?»

«Alla dogana penso io.»

All’altro capo del locale c’era una linea di produzione simile a quella di un pollificio. Topi morti appesi per la coda a una catena di montaggio in movimento. In mezzo ai topi c’era anche un opossum. Alcune donne scuoiavano gli animali e li tagliavano a filetti. Una specie di elaborata stampigliatrice azionata a mano e placcata in nickel sezionava ogni filetto in tre pezzetti simili a lumache.

«Quella macchina mi è costata dodicimila euro a Parigi» commentò don Ernesto. «Produce lumache false sin dai tempi di Escoffier. Insieme a questa mi hanno regalato un altro stampo, per tagliare la carne di gatto. Secondo qualcuno il gato è ancora più simile alle lumache di questi roditori.»

Don Ernesto prese un blocco per appunti e spuntò una voce.

Gomez canticchiava il motivetto di un famoso jingle pubblicitario: «Gato a gatita, gnam gnam gnam!».

Mentre uscivano dall’edificio, Gomez porse a don Ernesto una cravatta nera e una fascia da lutto da portare al braccio. «È più comodo metterle adesso che in macchina» disse.

Lasciarono la Lincoln allo stabilimento e viaggiarono su un SUV blindato con Paolo alla guida. Andavano al funerale di Jesús Villarreal.

In auto don Ernesto ricevette due telefonate non tracciabili, una delle quali da Paco, a Medellín. Dopo la sparatoria sul fiume soltanto Paco era riuscito a prendere l’aereo a Miami, ed era volato a casa accanto a tre posti vuoti.

Hans-Peter Schneider era morto? Paco non lo sapeva. Aveva visto i corpi di due suoi uomini, e altri due che pensava facessero parte dell’equipaggio della nave.

Don Ernesto gli parlò con voce calma, poi guardò fuori dal finestrino per un po’, senza dire niente. Candy. Ripensò alle volte che se l’erano spassata alla grande in un grazioso hotel sull’isola di San Andrés.

Don Ernesto arrivò al cimitero con mezz’ora di anticipo, e dai finestrini oscurati del SUV guardò avvicinarsi la processione per il funerale di Jesús Villarreal. Aprì il biglietto che aveva ricevuto dalla vedova di Jesús e lo rilesse:

Estimado señor,

Jesús sarebbe onorato di averla al suo funerale. Potrebbe esserle di conforto quanto lei lo è stato per noi, la sua famiglia.

La vedova e il figlio arrivarono a bordo di una Chrysler accompagnati da un bell’uomo di mezza età con una sofisticata acconciatura grigia.

Gomez osservò il gruppo con il binocolo.

«L’uomo in giacca nera è armato» disse. «Ha una fondina nella parte anteriore destra dei pantaloni. Aspettiamo che si giri. Sotto il braccio destro c’è un’altra fondina. È mancino. L’autista è vicino al bagagliaio. Ha un’arma da fianco e in mano il telecomando della macchina. Probabile che dentro ci sia un fucile. Abbiamo Ognisanti e Cuevas dietro di loro. Patrón, perché non mi manda a salutare la vedova e a portarle un suo biglietto?»

«No, Gomez. Paolo, chi è il capellone?»

«È un avvocato sciacallo, Diego Riva, di Barranquilla. Ha difeso Holland Viera quando dirottò l’autobus» spiegò Paolo.

Mentre lo osservavano, Diego Riva passò una busta di pelle nera alla vedova, che se la nascose dietro la borsa. Una trentina di persone si radunò sulla tomba di Jesús Villarreal, un semplice buco in mezzo alle tombe di marmo del cimitero di Barranquilla. In quello di Cartagena c’era un bell’angelo di marmo che don Ernesto progettava di offrire alla vedova Villarreal appena fosse riuscito a far cancellare l’incisione dedicata al legittimo proprietario.

La señora Villarreal indossava un severo abito nero. Il figlio le stava accanto, solenne nel vestito della cresima.

Don Ernesto si avvicinò. Per primo strinse la mano al figlio. «Adesso l’uomo di casa sei tu» disse. «Chiamami, se a tua madre serve qualcosa.»

Si rivolse alla señora. «Jesús era un uomo ammirevole in molti sensi. La sua parola aveva valore. Spero che lo stesso si possa dire di me.»

La señora Villarreal si sollevò il velo per guardarlo. «La casa è molto spaziosa, don Ernesto. I soldi non sono un problema. Grazie. Jesús mi aveva dato istruzioni perché le facessi avere questa.» Gli passò la busta nera. «Aveva detto che deve leggerla con attenzione prima di fare qualsiasi cosa.»

«Señora, posso chiedere perché ce l’aveva Diego Riva?»

«Si occupava degli affari di Jesús. Avevamo paura che i nostri nemici la portassero via. Riva l’ha tenuta nella sua cassaforte per me. Grazie di tutto, don Ernesto. Ah, don Ernesto? Dios se lo pague

Un Gulfstream IV li aspettava all’aeroporto internazionale Ernesto Cortissoz. Venti minuti dopo il funerale, don Ernesto e il suo entourage erano in volo per Miami.

Sul tavolino davanti a sé, don Ernesto aveva i documenti di Jesús Villarreal. Li sfogliò con cura una prima volta, poi chiamò il capitano Marco a Miami.

«Sai se Hans-Peter Schneider è morto?»

«Non lo so, patrón. Non abbiamo più trovato sue tracce. Nella casa non sembra esserci nessuno. Niente polizia.»

«Sto venendo lì. Occupiamo la casa. Voglio che trovi il tuo amico Favorito. Puoi metterti in contatto con lui?»

«Sì, patrón

«Avete la ragazza, Cari? Può esserci utile?»

«Sì, ma sostiene di aver chiuso con questa faccenda, patrón

«Ho capito. Dimmi cosa vuole, Marco.»