CAPITOLO VENTOTTO
La Terza Coorte raggiunse la valle due giorni dopo aver lasciato il campo sulle rive del Tamesis. Mentre il sole calava lentamente a occidente, Massimo diede l’ordine di piantare le tende e alzare un terrapieno difensivo. Davanti a loro si apriva una bassa valle, non più di due miglia di larghezza e forse otto in lunghezza, delimitata da una linea di basse colline, oltre le quali c’era la palude che si stendeva a perdita d’occhio: un tetro mosaico di alberi rachitici e canneti, interrotto solo da una scura distesa di acqua e qualche sparuto boschetto ceduo su gobbe di terra che spuntavano qua e là come dorsi di gigantesche creature marine.
Dalla torretta di avvistamento eretta sopra la porta del campo, la vista sulla valle era perfetta; Macrone vide decine di ciuffi di fumo salire dall’ondulato andamento del paesaggio. Più vicino al campo distinse piccoli raggruppamenti di capanne circolari, mentre un rarefatto addensamento fumoso su un piccolo bosco all’incirca a metà valle indicava la presenza di un insediamento di una certa grandezza. Tutto molto tranquillo, pensò Macrone. Nei giorni a seguire, tutto sarebbe cambiato.
Udì il picchiettio graffiante di calzari chiodati sui gradini di legno e un istante dopo da dietro l’assito della torretta spuntò la testa di Massimo. Il comandante si issò e si asciugò la fronte luccicante di sudore con il dorso dell’avambraccio.
«Lavoro duro!».
«Sì, signore».
«Ma è stato un bene fare uno sforzo per arrivare qui prima della notte».
«Sì, signore», rispose Macrone, continuando a guardare i legionari impegnati a scavare l’ultima sezione del fossato e ad alzare il terrapieno su un lato del campo. I soldati della linea di picchetto coprivano i lavori a circa un centinaio di passi di distanza. Molti erano appoggiati allo scudo, segno di un’evidente stanchezza. Se il nemico li avesse attaccati in quel momento, o durante la notte, gli uomini sarebbero stati troppo stanchi per sostenere una buona difesa del campo. Per onestà andava riconosciuto a Massimo che quello era il dilemma che attanagliava la maggior parte dei comandanti: la ricerca di un compromesso tra una buona posizione e la prontezza al combattimento dei soldati. Quantomeno il mattino seguente la Terza Coorte avrebbe avuto ancora poco cammino da fare, e sarebbe dunque stata in grado di affrontare qualsiasi pericolo fosse spuntato dalla palude.
Massimo stava osservando la valle in direzione dell’insediamento nascosto dalla vegetazione. Sollevò un braccio e indicò un punto. «Vedi quella piccola collina laggiù, su un fianco della foresta, oltre il corso d’acqua?».
Macrone seguì la direzione indicata e annuì.
«Sembrerebbe il punto migliore in cui stabilire un campo permanente. Una buona visuale su tutte le direzioni e una fonte d’acqua nei pressi. Dovrebbe essere perfetta per noi, che ne dici?»
«Sì, signore». Macrone si stava stancando dei tentativi retorici del comandante di intavolare una conversazione. Se Massimo aveva tutta quella voglia di parlare, avrebbe fatto meglio a cercarsi la compagnia del centurione Felice, sempre pronto a compiacerlo. Tra l’altro, Macrone non si fidava di se stesso nel parlare con Massimo, considerato il pesante fardello della complicità nella fuga di Catone e degli altri che si portava dietro. Massimo stava ancora cercando il responsabile, per cui Macrone era in guardia contro qualsiasi tentativo di strappargli con l’inganno una seppur minima ammissione di complicità o colpa.
Il comandante di coorte si voltò verso il subalterno e ne esaminò in silenzio l’espressione del viso per qualche istante. Macrone avvertì l’imbarazzante sguardo fisso di Massimo su di sé ma, non sapendo come reagire, si limitò a tenere la bocca chiusa e a guardare avanti, come se volesse studiare il percorso che la coorte avrebbe dovuto seguire il mattino seguente.
«Non ti sto molto simpatico, vero?».
Macrone fu costretto a ricambiare lo sguardo ed esibì un’espressione perplessa. «Come, signore?»
«Oh, avanti!», fece, sorridendo, il comandante. «Non hai fatto il minimo sforzo per nascondere la disapprovazione che provi per me sin dalla tua assegnazione a questa unità».
Macrone era sbigottito. Possibile fosse stato così trasparente? La cosa era decisamente preoccupante. Cos’altro era riuscito a leggergli in faccia Massimo? Per un istante si sentì percorrere la nuca da un brivido gelido di terrore. Massimo doveva aver in mente qualcosa, voleva giocargli qualche brutto scherzo, metterlo alla prova e intrappolarlo, e la mente di Macrone vacillò per il panico.
«Signore, non volevo certo mancare di rispetto! È solo il mio modo di fare. Non... non ci so fare molto con le persone».
«Stronzate. Non è quello che mi è stato raccontato. Tu sei un comandante nato. Se ne accorgerebbe chiunque». Poi Massimo lo guardò sospettoso. «Forse è proprio così. Pensi di essere migliore di me».
Macrone scosse la testa.
«Cos’è? Hai troppa paura di rispondere?».
Macrone ormai era furioso e non trattenne più la risposta. «Non ho paura, signore. Cosa volete veramente? Cosa volete che vi dica, eh, signore?»
«Tranquillo, centurione! Tranquillo...», fece Massimo, ridacchiando. «Mi chiedevo solo cosa stessi pensando, tutto qui. Non volevo intendere nulla di male».
Nulla di male... Il disprezzo per Massimo era bruciante. I buoni soldati non facevano giochetti di quel tipo, solo i pazzi e i politici, e Macrone non era nemmeno sicuro che tra i due vi fosse tanta differenza.
«Ad ogni modo, volevo farmi una chiacchierata con te. Conosci Catone da un po’, giusto?»«Da quando è entrato nella Seconda, signore».
«Lo so, ho sfogliato il tuo fascicolo e so che sei la persona più adatta da consultare per capire come intenderà muoversi».
«Non ne so niente, signore».
Massimo annuì pensieroso. «Ma conoscevi l’uomo e la tua opinione in merito mi sarebbe molto utile. Cosa pensi che farà Catone? Potrebbe essere già morto, ma supponendo che sia ancora vivo, cosa farebbe adesso? Allora?»
«Io... io non ho davvero idea, signore».
«Avanti, Macrone! Riflettici. Potrei anche pensare che stai tentando di coprirlo».
Macrone avrebbe voluto fingere una risata, ma poi pensò che sarebbe suonata vuota e non avrebbe imbrogliato nessuno, men che meno il nervoso comandante. «Signore, se conoscete il mio fascicolo, sapete anche che gioco secondo le regole e che non ho nessuna simpatia per chi le infrange, men che meno per uno che molla me e il resto dei miei soldati nella merda fino al collo; a mio modo di vedere Catone si è meritato ciò che ha avuto. Per quanto riguarda ciò che potrebbe fare, posso solo tirare a indovinare. Non lo conosco così bene da essere in grado di anticipare le sue mosse». Macrone sapeva di dire il vero e resistette all’impulso di sorridere prima di proseguire. «Potrebbe fare qualsiasi cosa, anche tentare il tutto per tutto per attirare Carataco».
«Questo è assurdo. Non avrebbe alcuna possibilità di farcela».
«Lui lo sa, signore, ma l’esercito è l’unica famiglia che Catone abbia. Senza di noi non è nulla. Farà qualsiasi cosa per riprendersi il suo posto nella legione. Ecco perché sono sicuro che è nascosto da qualche parte nella palude in attesa dell’occasione migliore. E probabilmente ci sta guardando proprio in questo momento... e non è nemmeno il solo, signore. Guardate là!».
Macrone fece un cenno con la testa verso una fattoria poco distante. A meno di un quarto di miglio, al riparo dietro bassi cumuli di paglia, alcune figure stavano osservando il forte romano. Si limitavano a guardare rimanendo immobili.
«Volete che mandi una squadra per spaventarli, signore?»
«No». Massimo non staccò gli occhi dai contadini. «Possiamo aspettare fino a domani. Nel frattempo lasciamo che si diffonda la voce del nostro arrivo e che questi locali rosolino bene; facciamo crescere la paura e il nervosismo».
Il mattino seguente la coorte smontò il campo e si mise in marcia verso la valle. Macrone sapeva che li stavano osservando. Di tanto in tanto si guardava attorno e coglieva una faccia che lesta si ritirava dietro a un albero o si riabbassava a terra in qualche campo coltivato che la colonna costeggiava. I suoi tanti anni di esperienza gli avevano fornito un buon occhio per il territorio e mentre avanzavano Macrone individuò ogni potenziale punto per possibili imboscate. Nulla però sembrava accadere, non un solo atto di ostile di provocazione al passaggio dei legionari nella piccola pacifica valle.
Dopo un’ora di marcia ininterrotta, la colonna seguì un sentiero che aggirava la foresta e prese a risalire il pendio che portava sulla sommità della collina dove Massimo aveva deciso di porre l’accampamento. A sinistra, oltre il corso d’acqua, su un’altura c’era un grande villaggio costituito dalle solite capanne circolari e da altre strutture più piccole per animali e viveri. Dalle bocche di sfiato dei camini salivano turbinando dolcemente ciuffi di fumo. Macrone scorse alcune figure in movimento nei pressi della palizzata perimetrale del villaggio e notò che le porte erano chiuse.
«Ufficiali, da me!», urlò Massimo.
Quando tutti i centurioni e gli optiones gli si furono raggruppati attorno, il comandante si tolse l’elmo, si asciugò la fronte con il bordo dell’imbottitura di feltro e iniziò a ragguagliarli, mentre il resto dei legionari si metteva al lavoro nella zona designata dagli agrimensori per l’accampamento; una squadra di sentinelle si disperse sulla collina, mentre altri soldati iniziarono a darci sotto con i picconi, rompendo il terreno per il fossato e il terrapieno.
«Tullio!».
«Signore?»
«Voglio un fossato aggiuntivo attorno al campo, e assicurati che lo spazio tra i due sia disseminato di triboli. E fai piantare anche dei gigli».
Tullio annuì. I piccoli pozzi con pali appuntiti al centro sarebbero stati un’utile aggiunta alle difese.
«Sì, signore, passerò l’ordine all’agrimensore».
«No, occupatene personalmente. Voglio che venga fatto bene e voglio anche che venga tirato su un portale fortificato sul sentiero principale in uscita dalla palude. Assicurati che venga fatto non appena il campo sarà in piedi».
«Sì, signore».
«E adesso...», proseguì Massimo schiarendosi la voce e concentrando l’attenzione sugli optiones. «Sapete tutti perché siamo qui. Il generale e il legato vogliono che ritroviamo quegli uomini e li riportiamo indietro. Si nascondono da qualche parte in questa palude. Non conosciamo i sentieri e le piste al suo interno, ma», sottolineò Massimo con un ghigno, «non avremo difficoltà a convincere qualcuno tra i locali a farci da guida quando ne avremo bisogno. Nel frattempo, nonostante l’apparente tranquillità della zona, dobbiamo essere pronti a rispondere a un attacco in qualsiasi momento».
Alcuni ufficiali si scambiarono occhiate di sorpresa. Durante la marcia verso la valle non c’erano stati segni di possibile pericolo e i contadini che vivevano nella zona erano armati al massimo di falci fienaie.
Massimo sorrise compiaciuto di fronte alle espressioni degli ufficiali. «Vedo che alcuni di voi ritengono che la mia sia eccessiva prudenza. Probabile, ma non dimenticate che Carataco ha ancora alcuni uomini al seguito, ovunque si trovi...».
Un numero più che sufficiente di uomini, precisò tra sé e sé Macrone. Abbastanza almeno da annientare la coorte.
«Non dovete preoccuparvi dei locali, e toglietevi dalla testa di stabilire relazioni amichevoli con loro. Al contrario...», e qui Massimo fece una pausa per dare maggior peso alle sue successive parole, «voglio che li trattiate in un modo che metterà dolorosamente in chiaro che Roma è qui per rimanerci e che essi devono assolutamente essere grati al nostro volere e alla nostra pietà. Ogni segno di resistenza dovrà essere punito con il massimo della durezza... Sono stato chiaro?».
Tutti annuirono con un mormorio di assenso.
«Bene, perché se vedo anche uno solo di voi che usa la mano delicata con le genti del luogo o che mostra un solo briciolo di compassione, dovrà vedersela con me e gli farò personalmente risalire fino in gola le palle a calci. Sono stato chiaro? Quindi, adesso non ci resta che impostare il tono...».
Mezz’ora più tardi la Prima Centuria si incamminò giù per il pendio con Massimo in testa, accompagnato da tutti gli optiones e dai centurioni Macrone, Antonio e Felice. Tullio, l’ufficiale più anziano dopo Massimo, rimase a supervisionare i lavori di costruzione del campo, dall’alto del quale osservò la piccola colonna scendere verso il villaggio britanno dall’altra parte del fiume. Un imbuto di terreno fangoso calpestato sulle due rive del tranquillo corso d’acqua indicava la presenza di un punto di guado; Massimo e i suoi entrarono nell’acqua bassa, facendola ribollire di schizzi e riemersero, gocciolanti, sull’altra riva, risalendo un sentiero battuto che conduceva alla misera palizzata intorno al villaggio.
Mentre si avvicinavano, Macrone iniziò a vedere sempre più facce di locali che li osservavano al lato della porta; per un istante, si chiese se gli abitanti del villaggio avrebbero tentato una qualche resistenza alla colonna di Romani pesantemente armati. Sollevò una mano appoggiandola sul pomo del gladio, pronto a estrarlo al primo segnale di pericolo. Avvertiva la crescente tensione anche tra gli altri ufficiali e quando furono a distanza di tiro di catapulta dall’ingresso del villaggio, Massimo diede l’ordine di arresto. Osservò per un istante la palizzata difensiva e poi si rivolse a Macrone.
«Cosa ne pensi?».
Macrone vide che gli abitanti che li osservavano erano appena una manciata e nessuno di loro sembrava armato.
«Mi sembra abbastanza sicuro, signore».
Massimo si grattò il collo. «E allora mi chiedo perché tengano chiusa la porta...». Si voltò verso la fila di testa della colonna. «Meglio mandare prima avanti qualche soldato, non si sa mai...».
«Non ce n’è bisogno, signore». Macrone fece un cenno alle spalle del comandante. «Guardate laggiù».
I battenti della porta si stavano lentamente aprendo verso l’interno e poco oltre si intravedeva già un gruppetto di uomini. In testa, un uomo magro con lunghi capelli bianchi, immobile, appoggiato a un bastone.
Felice si avvicinò a Macrone. «Comitato di accoglienza, che dici?»
«Se lo è, penso che durerà ancora per poco», rispose sottovoce Macrone.
Soddisfatto dell’apparente assenza di pericoli, Massimo diede l’ordine alla colonna di avvicinarsi. All’ombra della palizzata, l’uomo con il bastone finalmente si mosse, avanzando con passo deciso verso i visitatori sulla soglia del suo villaggio. Poi iniziò un discorso con voce intensa e profonda.
«Alt!», gli intimò Massimo, sollevando una mano e chiamando al di sopra della spalla. «Interprete! Da me!».
Lo raggiunse un legionario, uno dei recenti rimpiazzi arrivati dalla Gallia. Macrone notò che il soldato aveva gli stessi lineamenti celtici degli abitanti del villaggio. Il legionario si mise sull’attenti tra il centurione Massimo e l’anziano del luogo.
«Scopri cosa vuole e digli di farla breve», gli disse brusco Massimo.
Mentre il legionario traduceva la stringata richiesta, il capo del villaggio fece dapprima un’espressione confusa e poi si incupì. Quando rispose, nessuno poté evitare di cogliere il tono risentito con cui parlò.
«Signore», tradusse il legionario a Massimo, «voleva solo accogliervi nella valle e assicurarvi che lui e la sua gente non vi faranno alcun male. Voleva offrirvi ospitalità nella sua capanna e l’opportunità di acquistare scorte alimentari dai suoi contadini. Ma dice di essere sorpreso. Aveva sentito dire che Roma era una grande civiltà e invece coloro che la rappresentano di civiltà ne dimostrano ben poca...».
«Ha detto questo?»
«Sì, signore, esattamente questo».
«Bene». Massimo serrò le labbra per un istante, fissando il capotribù con uno sguardo di manifesto disprezzo. «Ne ho abbastanza delle cazzate di questa gente. Digli che se voglio la sua merdosa ospitalità, me la prendo come e quando voglio. Digli che lui e il resto della sua gente faranno esattamente quello che gli dirò di fare io, se hanno a cuore la loro vita».
Quando il legionario ebbe finito di tradurre, i locali si scambiarono sguardi sconvolti.
Poi il comandante di coorte indicò il piccolo affollamento alle spalle del capotribù.
«Quella donna e quei ragazzini. Sono la sua famiglia?».
Ascoltata la traduzione, il britanno annuì.
«Macrone, arrestali! Prendi cinque plotoni e preparatevi a riportarli da noi al campo. Tra un po’ ne arriveranno altri».
«Arrestarli?». Macrone era sconcertato quanto gli stessi abitanti del villaggio. «Perché, signore?»
«Ostaggi. Voglio che questi selvaggi cooperino».
Macrone era combattuto tra il disgusto per ciò che Massimo stava facendo e il dovere di obbedire agli ordini.
«Sono... sono certo che deve pur esserci un altro modo per farglielo capire, signore».
«Capire?», sbraitò Massimo. «Io ci cago sulla loro comprensione! Hai capito? E adesso, obbedisci agli ordini, centurione!»
«Sì... signore». Macrone chiamò quaranta uomini dalla testa della colonna e si incamminò a passo veloce verso la famiglia del capotribù. Esitò un istante e poi strappò via la donna e i suoi tre bambini dal gruppo, portandoli deciso verso le due file di legionari. Dagli altri abitanti del villaggio si levò immediatamente un coro di urla furiose. La donna si dimenò nella stretta di Macrone e si voltò a guardare il capotribù. Il vecchio avanzò di un passo, si fermò, serrò e disserrò più volte i pugni impotente, e quando la donna gli gridò qualcosa, aggrottò la fronte e scosse la testa. Una volta che la donna si ritrovò separata dal resto degli abitanti dalla truppa di legionari, Macrone le lasciò il braccio, la fissò negli occhi e indicò a terra. «Ferma!».
Massimo si rivolse al traduttore. «Digli che voglio che ogni famiglia del villaggio porti un figlio qui, adesso. Se qualcuno tenta di nasconderli, farò crocifiggere l’intera famiglia. Fa’ in modo che capisca bene».
Il borbottio infuriato dei locali si trasformò in un gemito di orrore e disperazione a mano a mano che la richiesta del comandante di coorte veniva tradotta. Alcuni uomini iniziarono a inveire contro i Romani, le facce ardenti di rabbia e odio. Non volendo che lo scontro degenerasse ulteriormente, il capotribù si affrettò a infilarsi nello spazio sempre più stretto tra i suoi e i nervosi legionari. Sollevò le braccia e tentò di calmare la sua gente. Un istante dopo il baccano si placò, diventando un brusio di sottofondo carico di risentimento e del pianto di donne e bambini.
«Digli di sbrigarsi prima che sia costretto a dare un esempio di quello che intendo fare!», sbraitò Massimo.
Gli abitanti iniziarono a obbedire all’ordine e ogni famiglia portò fuori i rispettivi figli, consegnandoli alle ruvide mani dei legionari sotto lo sguardo sempre più disgustato e impietosito di Macrone. Poco dopo ne furono raggruppati una trentina, accerchiati dagli scudi dei Romani e intimoriti dai loro sguardi seri. Alcuni bambini piangevano e urlavano, tentando di divincolarsi dalla stretta dei soldati.
«Fateli stare zitti!», urlò Massimo.
Uno degli optiones sollevò un pugno e colpì alla testa un bambino di non più di cinque anni. Il piccolo smise immediatamente di singhiozzare e si accasciò a terra, stordito. Una donna cacciò un urlo e si lanciò in avanti, infilandosi tra due legionari nel tentativo di raggiungere il figlio riverso a terra.
«Lascia stare quel moccioso!», le sbraitò contro Massimo, furente. La donna, rannicchiata sul figlio, si voltò per guardare l’ufficiale romano. Macrone si accorse che era giovane, poco più che ventenne, aveva due occhi marrone scuro penetranti e capelli biondo oro raccolti in due trecce. La britanna contorse il viso in una smorfia di disprezzo e sputò sui calzari di Massimo. Avvenne tutto in un attimo. Un raschio metallico, lo scintillio di una lama che fendeva l’aria, uno scricchiolio liquido e un tonfo quando la testa della donna toccò terra e rotolò verso il capotribù. Il figlio di lei, ripresi i sensi, si ritrovò in una pozza del sangue della madre e urlò.
«Oh merda...», mormorò Macrone. Poi sentì un getto caldo sullo stinco e si ritrasse velocemente.
Per qualche istante si udì solo il lamento del bambino, poi Massimo capovolse il cadavere con un calcio, allontanandolo dal piccolo, e si chinò per ripulire la lama sulla tunica della donna. La ripose nel fodero e tornò in posizione eretta, guardando torvo gli altri abitanti del villaggio. Un uomo si fece largo tra la folla, le mani chiuse a pugno, denti stretti, ma fu immediatamente bloccato da altri suoi compagni, che tentarono di trattenerlo mentre lui si dimenava violentemente. Massimo gli indirizzò un ghigno beffardo e puntò un dito contro la piccola folla.
«Digli che accadrà la stessa cosa a chiunque osi sfidarmi. Non ci saranno più avvertimenti, solo morte. Riferisci al capotribù che deve venire con noi quando ce ne andremo. Gli farò avere una lista di ciò che ci serve al campo».
L’intera Prima Centuria fece dietrofront e, portandosi dietro il gruppo di bambini in lacrime, si rimise in marcia incolonnata, allontanandosi dal villaggio verso il declivio che scendeva al ruscello. I locali la seguirono fuori della porta fino a metà discesa, ammutoliti e terrorizzati. Macrone aveva la nausea, distolse lo sguardo e guardò la valle. Possibile che fosse la stessa che gli era parsa così pacifica mentre la attraversavano poco prima? Nel giro di poche ore, la secolare serenità di quella valle di contadini era stata affogata nel sangue dagli uomini di Roma. Nulla sarebbe più stato come prima.