CAPITOLO QUATTRO
I centurioni della II Legione attendevano il legato all’interno dei principia, la grande tenda del comando generale, seduti su varie file di sedie. Avevano trascorso una lunga giornata preparando l’unità per l’avanzata rapida prevista per l’indomani. Quale fosse la precisa destinazione della legione nessuno lo sapeva ad eccezione di Vespasiano, il legato, che si era ben guardato dal divulgare qualsiasi tipo di informazione ai suoi ufficiali. Il sole era appena tramontato e l’aria vibrava di moscerini che sciamavano attorno alle danzanti fiammelle gialle delle lampade a olio: di tanto in tanto uno scoppiettio e uno scintillio indicavano che uno dei minuscoli insetti si era stupidamente gettato dritto sul fuoco. In fondo alla tenda, sorretta da una cornice di legno, era stata posizionata un’enorme cartina in pelle animale che illustrava una sezione del Tamesis.
Le prime tre file di sgabelli erano occupate dai sei centurioni della Terza Coorte. In fondo c’era un uomo alto e scuro con un bel viso giovane, totalmente fuori luogo in mezzo alle facce profondamente segnate dal tempo e dalla vita degli altri centurioni che lo circondavano. A guardarlo bene, sembrava essere appena sopra l’età minima per potersi arruolare. Sul viso scarno, sotto una zazzera di ricci capelli scuri, due occhi marroni osservavano attenti. La tunica, la maglia di ferro e l’armatura ne lasciavano chiaramente intuire la corporatura magra, niente muscoli gonfi sulle gambe e sulle braccia che erano, per contro, sottili fasci nervosi. Neanche l’uniforme e le due sfavillanti phalerae appuntate sul pettorale riuscivano a dissimularne l’aspetto imberbe e le occhiate guardinghe che lanciava in giro, un chiaro segno dell’imbarazzo che egli stesso provava per quella situazione.
«Catone! Vuoi calmarti una buona volta?!», gli borbottò il centurione che gli sedeva accanto. «Sembri una pulce su una padella rovente».
«Scusa, è colpa del caldo, mi dà una strana sensazione di allegria».
«Be’, per tua informazione sei l’unico che si diverte. Dannata isola! Io proprio non la capisco. Un giorno diluvia e l’umidità ti ammazza, il giorno successivo il sole spacca le pietre. Sarebbe meglio che si decidesse. Dai retta a me: non saremmo mai dovuti venire in questo schifo di posto. E comunque, perché siamo qui?»
«Siamo qui perché siamo qui, Macrone». Il giovane uomo sorrise. «Se non ricordo male, tu stesso mi rispondi sempre così».
Macrone sputò a terra tra i calzari. «Che razza di gente: uno cerca di essere utile e in cambio ti danno solo risposte impertinenti. Ma chi me lo fa fare?».
Catone sorrise di nuovo, spontaneamente questa volta. Appena qualche mese prima era solo l’optio di Macrone, comandante in seconda della sua centuria. Gran parte di ciò che sapeva sulle dinamiche dell’esercito era stato proprio Macrone a insegnarglielo negli ultimi due anni. Da quando una decina di giorni prima aveva ricevuto il suo primo comando di legione, Catone si era sentito schiacciare dal senso di responsabilità per il nuovo grado e aveva sempre cercato di mantenere un contegno serio di fronte agli ottanta uomini della sua centuria, pregando che non indovinassero l’animo ansioso e tormentato che nascondeva sotto quella maschera. Semmai fosse accaduto, la sua autorità sarebbe andata in fumo e Catone viveva nel terrore di quell’eventualità. Il tempo a sua disposizione per conquistarsi la fiducia dei suoi soldati era limitato: impresa non facile considerato che a malapena era riuscito a impararne i nomi, figuriamoci le peculiarità caratteriali. Li aveva sottoposti a un durissimo addestramento, molto più duro di quanto non facessero gli altri centurioni, ma era consapevole che finché non l’avessero visto combattere in battaglia, non l’avrebbero completamente accettato come loro comandante.
Per Macrone era tutta un’altra storia, invece, rifletté Catone tra sé e sé con una traccia di amarezza. Aveva militato oltre dieci anni come soldato semplice prima di essere promosso e portava il grado ormai come una seconda pelle. Macrone non aveva nulla da dimostrare e le cicatrici che gli ricoprivano il corpo erano testimonianza del coraggio mostrato in battaglia. Inoltre, era piccolo di statura e muscoloso, l’esatto contrario del suo amico. Bastava una rapida occhiata per rendersi conto che il centurione era il tipo di uomo a cui nessun legionario avrebbe dovuto rompere le scatole se avesse avuto a cuore i denti.
«Quando dovrebbe iniziare questa dannata riunione?», mormorò Macrone, schiacciando una zanzara appena atterrata sul suo ginocchio.
«In piedi!», urlò il prefetto di campo dalla parte anteriore della tenda. «Presentarsi al legato!».
I centurioni si alzarono in piedi scattando sull’attenti mentre una sentinella teneva sollevato un lembo dell’entrata e il comandante della II Legione entrava nella tenda. Vespasiano era un uomo di corporatura possente con una faccia ampia e profondamente segnata. Seppur non bella, la sua faccia aveva comunque qualcosa che metteva i soldati a loro agio, e niente dell’espressione altezzosa di distacco sociale tipica della classe senatoriale. Del resto la sua famiglia solo di recente era stata ammessa alla classe equestre e suo nonno era stato un centurione al servizio di Gneo Pompeo Magno. Vespasiano, quindi, non era così distante dall’ambiente sociale degli uomini che comandava, una caratteristica che gli garantiva la loro simpatia ed eccellenti prestazioni in battaglia, tanto che al suo comando la II Legione si era conquistata grandi onori nel corso dell’attuale campagna militare.
«A riposo, signori. Vi prego, accomodatevi».
Vespasiano attese finché nella tenda ci fu di nuovo silenzio. Quando tutti si furono seduti e i soli rumori provenivano dal forte oltre le pareti di pelle di capra della tenda, il legato si posizionò su un lato della cartina e si schiarì la voce.
«Signori, siamo a un giorno dalla conclusione della campagna. L’esercito di Carataco si sta dirigendo dritto in una trappola che segnerà il suo annientamento. Distrutto il suo esercito e catturato Carataco, lo spirito di battaglia delle tribù che ancora ci oppongono resistenza sarà definitivamente soffocato».
«Sì, come no», bisbigliò Macrone. «Quante volte l’ho sentita questa?»
«Ssst!», gli fece Catone, mollandogli una gomitata.
Ottenuta di nuovo l’attenzione, il legato sollevò un bastone sulla cartina sospesa. «Questo è il punto in cui siamo accampati, a pochissima distanza dal Tamesis. Il nostro plotone di esploratori atrebati ci dice che la zona è chiamata “i tre guadi”, per ovvie ragioni». Il legato sollevò più in alto il bastone e indicò il territorio a nord dei guadi. «Carataco si sta ritirando davanti all’esercito del generale Plauzio e a questo punto dovrebbe essere più o meno qui, poco sopra i guadi. Finora si è limitato a cedere terreno ogni volta che il generale e le altre tre legioni sono avanzate verso di lui. Carataco pensa che ci aspettiamo la stessa manovra da parte sua anche in quest’occasione. Invece di ritirarsi, però, ha intenzione di condurre i suoi uomini oltre i guadi e poi aggirarci per sorprenderci alle spalle. In questo modo attaccherà le nostre linee di rifornimento, tagliando fuori le legioni dalla base di approvvigionamento di Londinium. Se dovesse riuscirvi, questo non gli garantirebbe certo la vittoria, ma costringerebbe noi a qualche mese di ritardo per rimettere a posto la situazione.
Ad ogni modo, come i più attenti tra di voi avranno già sicuramente notato sulla cartina, così facendo Carataco si espone a un grosso rischio. I tre punti di guado si trovano all’interno di un ampio gomito del fiume, e se gli verrà impedito di accedervi mentre gli uomini del generale copriranno la parte aperta del gomito, rimarrà intrappolato con le spalle al fiume e non avrà più via di scampo. A quel punto dovrà arrendersi o combattere.
Domani all’alba la II Legione avanzerà per coprire questi tre guadi. Semineremo il letto del fiume di triboli e gigli e organizzeremo delle linee di difesa sul nostro versante dei guadi. Il corpus principale della sua avanzata sarà diretto verso questi due punti, qui e qui. Sono molto ampi e dovremo difenderli con grande dispiegamento di forze. Di conseguenza, la Prima, Seconda, Quarta e Quinta Coorte si posizioneranno sul guado più a valle sotto il mio comando. La Sesta, Settima, Ottava, Nona e Decima Coorte, sotto il comando del prefetto di campo Sesto, si occuperanno del guado successivo subito a monte».
Vespasiano si spostò lungo la cartina e vi picchiettò sopra con il bastone. «Carataco non dovrebbe usare l’ultimo guado perché troppo stretto e interessato da correnti molto veloci e forti. Ciononostante potrebbe anche tentare di inviare lì alcune delle sue unità più leggere per attraversare il fiume e noi dobbiamo impedirglielo. Di questo si occuperà la Terza Coorte. Penso che tu e i tuoi ce la possiate fare, giusto Massimo?»
«Potete contare sulla Terza, signore. Non vi deluderemo».
«Ci conto», sorrise Vespasiano. «Siete stati scelti proprio per questo motivo. Un gioco da ragazzi per un ex ufficiale della Guardia Pretoriana. Ricorda: non uno di loro deve attraversare il fiume. Dobbiamo annientarli totalmente se vogliamo portare a termine velocemente la campagna... Ci sono domande?».
Catone si guardò attorno nella speranza che qualcun altro avesse alzato la mano, ma constatando che gli altri centurioni erano rimasti seduti impassibili, deglutì nervosamente e si fece coraggio.
«Signore?»
«Sì, centurione Catone».
«E se il nemico riesce comunque ad attraversare uno dei guadi? Come faranno le altre unità a venirne a conoscenza?»
«Ho assegnato due squadroni a cavallo alla mia unità e uno rispettivamente a Sesto e Massimo. Se qualcosa va storto, potremo così avvertire gli altri e, semmai ve ne fosse bisogno, la legione potrà ripiegare verso la posizione in pericolo con il favore della notte. Cerchiamo, però, di fare in modo che non si arrivi a quel punto. Occupatevi della difesa e assicuratevi che i vostri uomini diano il massimo. Partiremo in vantaggio, avremo l’elemento sorpresa dalla nostra e per la prima volta la loro dannata rapidità di spostamento sul territorio giocherà a nostro favore mentre si dirigeranno verso i guadi. Se ognuno farà bene il proprio lavoro, la provincia sarà bella che conquistata e non rimarrà altro che spazzare via le ultime sacche di resistenza. Poi ci potremo concentrare sulla spartizione del bottino».
A quest’ultimo commento, si levò un brusio di entusiasmo, e Catone vide gli occhi degli altri ufficiali che gli sedevano accanto scintillare alla prospettiva di ricevere la loro ricompensa. In quanto centurioni, a loro spettava una cospicua quota del denaro ottenuto dalla vendita dei prigionieri dell’ultimo anno ai mercanti di schiavi. Le terre, per contro, finivano esclusivamente nelle mani del segretariato imperiale che per il tramite dei propri agenti fondiari ne avrebbe ricavato enormi fortune in provvigioni di vendita. Il sistema era sempre motivo di furibondi litigi quando i legionari si ritrovavano a fare bisboccia insieme, e la sproporzione tra soldati semplici e centurioni faceva sì che l’assai più grande disparità di guadagni tra centurioni e agenti fondiari imperiali passasse generalmente in secondo piano.
«Altre domande?», chiese Vespasiano. Dopo un istante di silenzio, il legato si rivolse al suo prefetto di campo. «Molto bene. Sesto puoi congedarli».
Gli ufficiali si alzarono, scattando sull’attenti. Una volta che il legato ebbe lasciato la tenda, Sesto li accomiatò, ricordando loro di passare a prendere gli ordini scritti dai segretari del comandante, prima di lasciare il quartier generale. Mentre i centurioni della Terza Coorte si preparavano a uscire, Massimo sollevò una mano.
«Niente fretta, ragazzi, voglio scambiare una parola con voi nella mia tenda appena avete organizzato i turni di guardia serali».
Macrone e Catone si scambiarono un’occhiata e Massimo se ne accorse. «Sono certo che i miei centurioni saranno felici di sapere che non li tratterrò troppo a lungo e non gli farò sprecare il loro tempo prezioso».
Catone avvampò.
Massimo fissò per qualche istante il giovane ufficiale con sguardo glaciale e poi spiegò un sorriso. «Fate in modo di essere nella mia tenda prima che venga chiamato il primo cambio di guardia».
«Sì, signore», risposero in coro Catone e Macrone.
Massimo fece un cenno secco della testa, si voltò e uscì a passo rigido dalla tenda delle riunioni.
Macrone seguì con gli occhi il comandante. «E adesso che cosa si sarà messo in testa?!».
Un centurione lì vicino indietreggiò, senza staccare gli occhi da Massimo finché il comandante della coorte non fu sparito oltre i lembi della tenda. Poi disse sottovoce a Macrone e Catone: «Fossi in voi starei molto accorto».
«Accorto?», ripeté accigliato Macrone. «Che cosa stai dicendo, Tullio?».
Caio Tullio era il centurione più anziano dopo Massimo, un veterano con oltre vent’anni di servizio e svariate campagne militari alle spalle. Sebbene fosse uomo molto schivo e riservato, era stato comunque il primo a salutare Macrone e Catone quando questi erano stati assegnati al comando della Terza Coorte. Gli altri due centurioni, Caio Pollio Felice e Tiberio Antonio, invece, si erano limitati a scambiare poche parole con Catone, che ovviamente ne aveva avvertito l’ostilità. Macrone aveva avuto un po’ più di fortuna: lo conoscevano da più tempo, da prima della promozione, e gli riservavano modi più cordiali, come era loro richiesto dall’etichetta giacché l’investitura al centurionato di Macrone era precedente alla loro.
«Tullio, allora?», incalzò Macrone.
Sulle prime Tullio esitò, la bocca socchiusa come se fosse sul punto di dire qualcosa, poi scosse semplicemente la testa. «Niente, cercate solo di non mettere a Massimo i bastoni tra le ruote, soprattutto tu, ragazzo».
Catone schiacciò le labbra in una linea sottile e Macrone non poté fare a meno di scoppiare in una risata. «Non prendertela così, Catone. Sarai anche centurione, ma ogni tanto devi pure scusare gli altri se ti scambiano per un ragazzino».
«I ragazzini non portano queste addosso», replicò Catone, battendo la mano sulle medaglie, ma rimpiangendo all’istante di aver ceduto a quel suo immaturo impulso di riscatto.
Macrone sollevò entrambe le mani con un sorrisetto condiscendente. «Va bene! Ritiro tutto, ma guardati attorno, Catone. Vedi forse qualcuno qui che non sia come minimo cinque o dieci anni più vecchio di te? Penso che sarai d’accordo sul fatto di essere una specie di eccezione».
«Sarà pure un’eccezione», aggiunse tranquillamente Tullio, «ma per il suo bene farebbe meglio a non mettersi troppo in mostra».
Il veterano poi si voltò e seguì Antonio e Felice verso l’uscita della tenda. Macrone li guardò incamminarsi e si grattò il mento.
«Chissà cosa voleva dire».
«Non lo indovini?», borbottò amaramente Catone. «Sembra proprio che il comandante della nostra coorte non mi ritenga all’altezza del mio incarico».
«Stronzate!», rispose Macrone, mollandogli un buffetto sulla spalla. «Nella legione tutti ti conoscono e non devi dimostrare niente a nessuno».
«Vallo a dire a Massimo».
«Un giorno, forse. Se non dovesse arrivarci prima da solo».
Catone scosse la testa. «Massimo ha raggiunto la legione solo da qualche mese, fa parte dello scaglione di sostituzioni arrivato mentre noi due eravamo in ospedale a Calleva ed è molto probabile che non sappia assolutamente nulla di me».
Macrone toccò una delle medaglie di Catone. «Queste dovrebbero dirgli tutto quello che deve sapere. E adesso avanti, dobbiamo assegnare gli uomini alle vigiliae di guardia. Non vogliamo certo far tardi per il discorsetto di Massimo, giusto?».