CAPITOLO VENTITRÉ

 

 

 

 

«Dovremo lasciarlo qui», disse Catone sottovoce.

Figulo scosse la testa. «Non possiamo. Se lo catturano, lo faranno parlare e poi lo uccideranno».

L’optio tacque un istante e guardò, alle sue spalle, il legionario seduto su una roccia nei pressi di un ruscello a massaggiarsi la caviglia; la stessa roccia su cui poco prima il soldato era scivolato, resa viscida e scintillante dalla pioggia. Un passo affrettato e messo male e il legionario era caduto. Si era preso una brutta storta alla caviglia e aveva urlato di dolore quando aveva tentato di ricaricare il proprio peso sul piede. Impossibile farlo continuare a piedi. Alle prime luci dell’alba, secondo i calcoli di Catone, erano riusciti a spingersi a poco più di otto miglia dal campo, e il margine del territorio paludoso distava ancora altre sei miglia. Il legato avrebbe sicuramente inviato degli esploratori a cercarli non appena ci fosse stata luce sufficiente per individuare le loro tracce. Per cui da quel momento in poi dovevano correre, se volevano riuscire a sfuggirgli. Era fuori discussione anche trasportare di peso il ferito; avrebbe rallentato la fuga, mettendo così a repentaglio la vita di tutti.

Catone fissò l’optio dritto negli occhi. «Non lo porteremo con noi. Non possiamo permettercelo. Da adesso in poi dovrà vedersela da solo, capito?»

«Non è giusto, signore», replicò Figulo. «Non sarò complice della sua morte».

«Era comunque morto. Tu e Macrone gli avete solo dato qualche ora in più di vita. Così ho deciso, optio. Adesso finiscila di discutere i miei ordini».

Figulo tenne lo sguardo di Catone per qualche istante senza parlare. «Ordini? Non siamo più soldati, signore. Siamo disertori. Cosa vi fa pensare che io debba ancora obbedire...».

«Chiudi la bocca!», gli ringhiò contro Catone. «Farai come ti ho detto, optio! Fino a prova contrario, io sono ancora l’ufficiale al comando, qui. Non scordartelo o ti ammazzo lì dove sei».

Figulo lo fissò sbalordito, poi annuì. «Sì, signore. Certo».

Catone si rese conto che il cuore gli batteva all’impazzata e le mani erano strette a pugno. Doveva veramente sembrare fuori di senno, si rimproverò. La stanchezza e soprattutto il terrore di essere catturato e riportato al campo per l’esecuzione gli avevano logorato i nervi. Doveva farsi forza se voleva superare quella difficile prova e portarsi dietro i suoi uomini. In mente aveva già escogitato un piano, seppur molto ambizioso e ottimistico. Ma del resto ogni uomo che vuole tenersi aggrappato alla vita come all’unico spuntone di una scogliera a picco sul mare è pronto a considerare anche le più irrealistiche possibilità di salvezza. Quella metafora gli era venuta in mente all’improvviso e l’idea che una mano divina potesse raccoglierli tutti e portarli in salvo lo fece quasi ridere di sé. L’impulso era irresistibile e Catone vi riconobbe il pericolo di una crisi isterica paralizzante che li avrebbe portati tutti alla morte se lui avesse ceduto.

Si strofinò gli occhi e poi strinse una mano sulla spalla dell’optio. «Scusami, Figulo. Sono debitore della vita a te e Macrone. Tutti lo siamo. E mi dispiace che tu sia rimasto coinvolto in tutta questa tragedia. Non te lo meriti».

«Tutto a posto, signore. Capisco», rispose Figulo, sorridendo. «La verità è che sto avendo difficoltà a farmene una ragione. Se avessi saputo che sarebbe andata così... cosa facciamo di lui?»

«Lo lasciamo. È un uomo morto e lui lo sa. Dobbiamo essere solo sicuri che sia pronto a combattere o che comunque non si faccia prendere vivo». Catone raddrizzò la schiena e si schiarì la voce. «Tu intanto vai avanti con gli altri. Io scambio due parole con lui e vi raggiungo».

«Due parole?». Figulo lo fulminò con lo sguardo. «Solo due parole, mi raccomando».

«Non ti fidi di me?»

«Fidarsi di un centurione? Dopo essere finiti in questa situazione? Non sfidate la sorte, signore».

Catone sorrise. «La sto sfidando dal giorno in cui mi sono arruolato nelle legioni e ancora la fortuna non sembra avermi abbandonato».

«C’è una prima volta per tutto, signore».

«Forse. Adesso va’, portali avanti. E tenete il passo».

Figulo annuì. «Stessa direzione?».

Catone rifletté un momento, guardandosi attorno. «No, iniziate a dirigervi a sud, verso quel crinale laggiù; appena l’avrete superato tutti e non sarete più in vista, girate verso la direzione di partenza. Poi ti spiego. Vai».

Mentre l’optio radunava gli uomini esausti sparpagliati in giro sull’erba in prossimità del fiumiciattolo, Catone si diresse verso il legionario ferito. «Sei uno dei soldati di Tullio, vero?».

Il legionario alzò gli occhi. Aveva la faccia profondamente segnata, come una borsa di pelle vecchia, contornata da radi ricci grigi. Catone pensò che poteva mancargli appena qualche altro anno al congedo definitivo: brutto scherzo del destino essere sorteggiati per un’esecuzione a quel punto.

«Sì, signore. Sono Vibio Pollio», rispose l’uomo, presentandosi. Poi si voltò a guardare gli altri che erano già in piedi e pronti a rimettersi in marcia. «Mi state lasciando qui, vero?».

Catone annuì lentamente. «Mi dispiace, non possiamo permetterci di essere rallentati. Se ci fosse stato un altro modo...».

«Non c’è, lo capisco, signore. Nessun rancore».

Catone si chinò su una lastra di roccia che spuntava, orgogliosa, dalla superficie del ruscello.

«Ascoltami, Pollio. Ancora non si vedono inseguitori. Se ti tieni nascosto e fai riposare la caviglia, potresti anche raggiungerci dopo. Sembri proprio il tipo di uomo che potrebbe servirmi. Cerca di tenerti ben nascosto finché la gamba non starà meglio, poi dirigiti verso sud-ovest».

«Pensavo volessimo nasconderci nelle paludi, signore».

Catone scosse la testa. «Non, non è sicuro. Se gli uomini di Carataco dovessero scoprirci, l’esecuzione, al confronto, sembrerebbe una bazzecola».

I due si scambiarono un rapido sorriso, poi Catone aggiunse: «Figulo dice che avremmo più possibilità se ci dirigiamo verso il territorio dei Dumnoni: sembra che alcuni di loro siano imparentati con la sua tribù gallica. Lui conosce un po’ la loro lingua e potrebbe convincerli a nasconderci. Ricordati di fare il suo nome se per caso incontri qualcuno della tribù».

«Lo farò, signore, non appena questa gamba starà meglio». Pollio si diede una pacca sulla coscia.

Catone annuì pensieroso. «Se non si rimette...».

«In quel caso mi unirò a voi al prossimo giro. Non preoccupatevi, signore. Non gli permetterò di prendermi vivo. Avete la mia parola».

«Mi fido, Pollio». Catone gli diede una pacca sulla spalla, sentendosi consumare dentro dalla vergogna di aver ingannato lo sfortunato veterano. «Assicurati solo di non dire una parola su dove siamo andati se riescono a prenderti vivo. Né sul ruolo di Macrone nella fuga».

Pollio sfilò la spada dal balteo. «Questa li terrà alla larga per un po’. E quando non servirà più, farò in modo che non abbiano la possibilità di farmi parlare, signore».

Tenuto conto che, in un verso o nell’altro, il soldato avrebbe affrontato morte certa, Catone soppesò bene le sue successive parole. «Difenditi come puoi, ma ricordati che gli uomini che verranno a cercarti saranno solo soldati che obbediscono a ordini. Non sono loro che ci hanno costretti a metterci in questa situazione. Capisci cosa voglio dire?».

Pollio abbassò gli occhi sulla sua spada e annuì con aria mesta. «Non avevo mai pensato di doverla usare contro me stesso. Ho sempre pensato che cadere per mano della propria spada fosse solo un passatempo di senatori e altri come loro».

«Devi farti strada, allora».

«Non partendo da dove sono seduto».

«Già... adesso devo proprio andare, Pollio». Catone gli prese la mano libera dandogli una stretta decisa. «Sono sicuro che ti rivedrò, tra qualche giorno».

«E se così non sarà, spero dipenda da voi, signore».

Catone scoppiò a ridere, poi si alzò e, senza dire altro, si mise a correre dietro a Figulo e agli altri, ormai allontanatisi. Si voltò una sola volta a guardare, poco prima che il punto in cui avevano guadato il corso d’acqua sparisse dalla vista dietro un avvallamento. Pollio si era trascinato sulla riva e si era seduto con la punta della spada puntellata a terra tra le gambe divaricate; entrambe le mani sul pomello, il soldato appoggiò il mento sul dorso delle mani e rimase lì seduto con gli occhi fissi verso la direzione da cui erano arrivati. In quell’istante Catone capì che avrebbe potuto tranquillamente risparmiarsi quel sotterfugio artificioso: Pollio era pronto a morire ed era ben determinato a fare in modo che accadesse prima di rischiare di tradire i suoi compagni. Ciononostante, la cautela non era mai troppa, concluse Catone. Anche gli uomini più onorevoli, mossi dalle intenzioni più nobili, talvolta potevano rischiare di tradirsi. Conosceva fin troppo bene le tecniche di tortura degli aguzzini della II Legione per sapere che solo uomini di eccezionale resistenza erano in grado di tacere le informazioni che essi cercavano. E alla fine dei conti, Pollio non era altro che un uomo semplice come tanti.

Con l’avanzare della mattinata, la pioggia battente si ridusse a una pioggerella leggera; il cielo, però, rimaneva coperto e non sembrava voler concedere ai fuggitivi nemmeno il tepore di un solo raggio di sole. Catone e Figulo continuarono a guidare avanti gli uomini, alternando la camminata alla corsa, un miglio dopo l’altro, verso le paludi distanti che offrivano la migliore opportunità di sfuggire alle squadre di esploratori di sicuro inviate a braccarli. La pioggia gli aveva lavato di dosso gran parte del fango della notte precedente, ma i soldati rimanevano comunque sporchi e tremavano quando, rallentando, il sudore gli si gelava sulla pelle. Sprovvisti di borracce, l’ultima nonché unica occasione che avevano avuto di placare la sete era stata al ruscello dove avevano lasciato Pollio, e proseguendo a quel passo sostenuto Catone iniziò a sentirsi la lingua sempre più gonfia e collosa. Nonostante lo sfinimento, non uno dei soldati ruppe la marcia. Nessuno batteva la fiacca perché erano tutti consapevoli che chi fosse rimasto indietro sarebbe caduto facile preda della morte. A Catone questo non poteva che far piacere, giacché sapeva bene che non c’era lusinga o punizione fisica che potesse risollevare un uomo allo stremo quanto la paura della morte.

Mentre camminava, ansimante e sopportando la fitta sul fianco, il giovane cercò di conservare un seppur minimo senso del passaggio del tempo. Senza sole che con il suo moto nel cielo potesse indicare il trascorrere delle ore, poteva solo tentare stime a occhio per cui, quando superarono un’altura e videro aprirsi davanti una vasta distesa pianeggiante che si stendeva fino al lontano orizzonte, calcolò che potesse essere quasi mezzogiorno. La poca luce conferiva alla vista, già di per sé lugubre, un aspetto ancor più tetro: si fermarono a osservare quell’infinito dedalo di canneti, e stretti corsi d’acqua, piccoli isolotti ricoperti di alberi striminziti e rigogliosi arbusteti di biancospino e ginestrone.

«Non è granché accogliente», borbottò Figulo.

Catone fece un profondo respiro per riprendersi prima di rispondere. «Già... ma questo ci tocca e dovremo farci l’abitudine per un bel po’».

«E dopo, signore?»

«Dopo?». Catone scoppiò in una risata amara, poi sottovoce rispose: «Probabile che non ci sia nemmeno un dopo, Figulo. Vivremo alla giornata, correndo sempre il pericolo di essere scoperti da una delle due parti e finire ammazzati... a meno che non riusciamo a guadagnarci una sospensione della pena».

«Sospensione?», sbuffò Figulo, incredulo. «E come potrebbe accadere, signore?»

«Non ne sono sicuro», riconobbe Catone. «Meglio non dare troppo presto false speranze ai soldati. Quando avrò riflettuto bene sulla cosa, ti farò sapere. Dai, continuiamo».

Poco più avanti il sentiero prendeva una biforcazione: un ramo curvava a sinistra e aggirava un margine dell’acquitrino, sparendo velocemente dalla vista nella foschia che aleggiava pesante su tutto e si fondeva con il ricamo di sparsi banchi di nebbia più fitta, ancora impigliati alle cavità e alle pieghe più umide e profonde del terreno. L’altra diramazione, invece, sembrava meno battuta e si inoltrava dritta nel cuore della zona paludosa.

«Prendete il sentiero di destra!», urlò Catone, uscendo dalla colonna e girandosi a cercare Figulo. «Falli continuare. Non farli riposare finché non vi sarete addentrati di almeno mezzo miglio nella palude».

«Sì, signore. E voi dove andate?»

«Vado a controllare sulla collina, voglio essere certo che nessuno ci segua. Ogni tanto girati a controllare se arrivo: non mi piace l’idea di ritrovarmi da solo in mezzo alla palude».

«Allora a dopo, signore», rispose Figulo, sorridendo.

E lì si separarono: Figulo verso il cuore niente affatto accogliente della distesa paludosa alla testa della colonna di fuggitivi inzaccherati, e Catone in marcia verso l’altura che avevano appena superato. Non sapeva il perché di quell’impulso a tornare indietro per un’ultima occhiata. Probabile che lo spingesse il bisogno di fermarsi a riflettere su come pianificare il passo successivo. O forse era solo per prendersi un attimo di riposo e dare un ultimo sguardo sul mondo prima di immergersi in una vita di clandestinità e terribili privazioni. Quale che fosse il vero motivo, tornò lentamente sulla cima della collina, il cuore oppresso dalla situazione senza via di uscita. E se non avessero trovato il modo di riscattarsi? E se gli fosse toccato di passare il resto della vita in fuga per la paura di essere scoperto e catturato dalla sua stessa gente? Valeva la pena vivere una vita del genere? E se anche nell’immediato futuro fossero riusciti a scampare alla cattura da parte di ciò che rimaneva dell’esercito di Carataco e delle legioni, queste ultime, prima della fine dell’anno, avrebbero comunque assunto il controllo della parte meridionale dell’isola, e a quel punto avrebbero avuto tutto il tempo di scovare e distruggere le ultime sacche di resistenza al governo di Roma; e prima o poi anche i fuggitivi sopravvissuti sarebbero stati ritrovati e giustiziati, per quanto, a quel punto, il ricordo del loro crimine potesse essersi ormai affievolito nella memoria delle autorità militari.

Se quello doveva essere il suo destino, meglio allora rischiare il tutto per tutto subito, tentando di riconquistarsi il favore del generale Plauzio e del legato Vespasiano nonché l’annullamento della condanna a morte. L’alternativa era in ogni caso troppo terrificante da prendere in considerazione e Catone sperava di riuscire a farlo capire anche agli altri, quando sarebbe arrivato il momento di illustrare il suo piano. Poteva solo cercare dei volontari, non potendo più contare sull’autorità del proprio grado militare per farsi obbedire. In quel momento gli rimaneva solo la fiducia degli uomini nelle sue capacità di comando. Figulo l’aveva capito subito, ma aveva anche dimostrato la presenza di spirito necessaria per comprendere che doveva essere mantenuta una certa misura di ordine se il piccolo gruppo di soldati voleva sopravvivere, e che Catone era l’uomo migliore per garantire quell’ordine... per il momento, almeno.

Catone era talmente immerso in quelle riflessioni sul futuro che raggiunse la cima dell’altura senza nemmeno rendersene conto; d’un tratto, si ritrovò davanti il territorio coperto da una coltre di nevischio che avevano appena attraversato.

Individuò immediatamente il piccolo plotone di cavalleria, una ventina di uomini a occhio e croce, sparsi a una cinquantina di passi l’uno dall’altro. Potevano essere a circa un paio di miglia di distanza, diretti verso il sentiero che Catone e i suoi avevano seguito. Si gettò a terra, di nuovo con il cuore impazzito, in attesa di capire se li avessero individuati. Si rimproverò per non essersi avvicinato alla cima con più cautela. La fatica non era una giustificazione quando c’era in ballo la vita dei suoi compagni.

«Idiota!», mormorò a denti stretti. «Maledetto idiota...».

Continuò a osservare e nulla gli fece sospettare che gli esploratori avessero avvistato la preda in lontananza. Evidentemente, erano troppo impegnati a esaminare il terreno sotto gli occhi in cerca di tracce del passaggio dei fuggiaschi. Avanzavano senza nessuna fretta sulla distesa erbosa dolcemente ondulata, cavalli al passo, fermandosi solo per ispezionare ogni arbusto di ginestrone che incontravano. Considerata la rotta che seguivano, Catone previde che sarebbero passati lontanto da lui e iniziò a distendere i muscoli. Si chiese se avessero incontrato Pollio e se il veterano avesse o meno alzato la spada contro di loro. O se magari avesse seguito il consiglio di Catone, usandola contro se stesso invece che contro i suoi ex commilitoni. Chissà che alla fine non avesse deciso di trovarsi un nascondiglio e i soldati non l’avevano visto. Poi iniziò a sperare che Pollio fosse stato trovato e costretto a rivelare la falsa direzione che lui aveva escogitato proprio nel caso in cui il legionario avesse parlato. E gli uomini a cavallo sembravano diretti proprio da quella parte.

Quando il più vicino si trovò a circa un miglio di distanza, Catone scorse dei movimenti concitati più o meno in mezzo alla fila dei cavalieri. Uno di loro era smontato di sella e stava richiamando l’attenzione dei compagni. Quando la voce si diffuse su entrambi i bracci della linea, i cavalieri alle estremità fecero girare i cavalli e conversero sul raggruppamento. Il giovane strizzò gli occhi per cercare di vedere meglio cosa stava accadendo. A quel punto, quasi tutti i soldati erano smontati da cavallo e l’ufficiale al comando stava parlottando con il soldato che aveva fatto la scoperta. Qualche istante dopo, Catone si rese conto che quelli non erano legionari perlustratori: il taglio delle cappe e gli scudi a goccia che portavano a tracolla li identificava come soldati di una coorte ausiliaria, e quando scorse il luccichio dell’insegna con la testa d’orso si sentì raggelare il sangue nelle vene.

«Batavi...».

La spietata tribù germanica aveva fornito al generale Plauzio parecchie coorti di cavalleria con guerrieri resistenti e spericolati che un anno prima si erano guadagnati una temibile fama sul guado del Medway, facendo strage di ogni prigioniero che avevano incontrato sul loro cammino, in un terrificante spargimento di sangue, uno dei tanti, ricordò Catone con crescente terrore. Non avrebbero mostrato alcuna pietà se li avessero trovati. Gli attriti tra i legionari e i Batavi andavano ben oltre le abituali rivalità tra le unità di un esercito: gli incontri casuali tra bande di Romani e Germani in licenza nella cittadina di Camulodunum si erano sempre trasformati in carneficine.

Il capo dello squadrone si allontanò dai suoi uomini, strofinandosi la schiena indolenzita e scrutando il territorio circostante. D’istinto Catone si schiacciò a terra quando il viso dell’uomo si voltò completamente verso il punto in cui si trovava lui sull’altura. Assurdo, tentò di rassicurarsi: nessuno avrebbe potuto vederlo con quella poca luce e a quella distanza. Poi l’ufficiale batavo si voltò e fece dei segnali con le braccia. Gli uomini rimontarono velocemente a cavallo e formarono una colonna sciolta in attesa di ordini. Il capo balzò in sella e tirò a sé le redini. Al suo segnale, il piccolo contingente ripartì raggiungendo gradualmente un trotto costante. A Catone bastò un solo secondo per capire che i Batavi si stavano dirigendo verso di lui. Non aveva idea di cosa avessero potuto vedere, ma in ogni caso avevano dedotto correttamente la direzione presa dai fuggitivi.

Strisciò indietro e quando fu certo che non potevano vederlo si alzò e si girò, mettendosi a correre lungo il sentiero verso la palude. A circa mezzo miglio davanti a sé vedeva le minuscole figure dei suoi compagni che si inoltravano nella foschia che aveva iniziato a ricoprire il sentiero. Correndo, Catone guardò spesso a terra per accertarsi di dove metteva i piedi, e ogni tanto sul fango vide impressa l’inconfondibile orma di un calzare legionario. Quelle tracce avrebbero portato i Batavi dritti a loro.

Non paga di aver già reso loro insopportabile la vita, la pioggia adesso sembrava anche voler cospirare contro i fuggitivi romani, indicando ai Batavi dove cercarli, e quando gli inseguitori li avessero raggiunti, li avrebbero massacrati senza pietà.