DAL LIBRO DEI SOGNI

Il settimo sogno

Cercavo la fanciulla. La trovai in una stretta e lunga stanza proprio nel momento in cui sorgeva il mattino. Sedeva su una seggiola e sorrideva in modo appena percettibile. Accanto a lei, a non più di un passo di distanza, era una seconda seggiola; un ragazzo, rigidamente addossato alla spalliera, vi stava seduto. Pareva avessero entrambi trascorso la notte così.

La fanciulla si scosse e mi porse la mano, levandola alta. Quella mano era, a sentirsi, calda e come irrigidita: sembrava di trattenere una bestiola che vive in libertà e provvede a sé da sé sola.

Quindi anche il ragazzo cominciò a muoversi. Destarsi gli riusciva visibilmente difficile: il viso gli si contraeva in una smorfia impaziente e spiacevole. La fanciulla si era voltata un poco di lato e lo guardava. Il viso del ragazzo era acceso per lo sforzo: si raccoglieva tutto verso il centro e, a tratti, una palpebra si alzava tremolando. Ma l’occhio così scoperto appariva vuoto.

«È inutile» disse la fanciulla con la sua voce diafana, splendente di un riso che vi era dissolto. «Non ci si può destare se prima gli occhi non sono ritornati».

Ero per chiedere: che cosa intendeva dire? Ma d’un tratto compresi. Naturalmente. Mi ricordai di un giovane operaio russo che, giunto a

Mosca dalla campagna, credeva ancora che le stelle fossero gli occhi di Dio e degli angeli. Lo avevano dissuaso da tale idea. Certo non potevano dimostrare il contrario, ma dissuaderlo potevano; e con ragione: perché le stelle sono gli occhi degli uomini saliti in alto dalle loro palpebre chiuse: diventano luminosi e si riposano. Per questo sopra la campagna, dove tutti dormono, il cielo possiede tutte le sue stelle, mentre sopra le città ne ha soltanto poche; perché nelle città sono tanti esseri inquieti, che piangono, leggono, ridono, vegliano, conservando i loro occhi.

Questo la fanciulla avrebbe dovuto dire al russo. Ma già da un pezzo essa pensava ad altro. Raccontava di qualcuno, di una giovinetta, mi parve, sposata a Merano.

«Ora si chiama...» e fece, divertita, un nome. Io assentii, assentii forse con troppo calore.

«Ora, naturalmente, sai molto» disse in tono pungente. «Sempre questo chiedere i nomi e occuparvene, quasi rappresentassero qualche cosa».

«Cara,» le dissi serio «i nomi hanno pure un senso per gli uomini. Le rose si chiamano Maria Baumann o Madame Testout o Contessa di Camondo o Émotion, ma è quasi inutile. Non sanno il proprio nome. Vengono fornite di una minuscola targa di legno, che non rifiutano: ecco tutto. Ma gli uomini sanno il proprio nome: si interessano a come si chiamano, imparano scrupolosamente i nomi a memoria e li dicono a chiunque ne li richieda. Li nutrono, per così dire, per tutta la vita e da ultimo diventano molto simili, fino a scambiarsi con loro, quasi...».

Ma parlavo inutilmente. La fanciulla non ascoltava. Si era alzata e, in piedi accanto alla finestra, dove era già giorno, sorrideva chiamando qualcuno. Un uccello, suppongo.

L’undicesimo sogno

Poi apparve una strada. La scendemmo insieme, con lo stesso passo, uno accosto all’altra. Il braccio di lei mi cingeva le spalle.

La strada era larga, vuota di un vuoto mattutino: un boulevard che scendeva dolcemente, inclinandosi quel tanto necessario per togliere al passo di un bambino il suo peso lieve. Essa camminava quasi avesse ai piedi due brevi ali. Ricordavo...

«Che cosa ricordavi?» lei chiese dopo un poco.

«Ricordavo,» dissi lentamente senza guardare la fanciulla «ricordavo una strada lontana di una città orientale, larga, chiara, vuota come questa; ma molto, molto più ripida. Ero seduto in una piccola carrozza. Il cavallo, davanti, aveva preso tutto su di sé. Non ebbi più dubbi: cominciava a non sentire il governo delle redini. Il cocchiere si comportava in conformità. Visto di dietro, sembrava non avesse più capo, e le sue spalle gigantesche erano stiracchiate come un nodo che qualcuno, adirato, vuole sciogliere e che si stringe, invece, sempre di più.

«La carrozza impazzava nella sua corsa, quasi strappasse la strada e le case e ogni cosa; come se più nulla rimanesse dietro. In basso, all’estremità della via, era il fiume, un magnifico, superbo, famoso fiume che splendeva. Vidi quanto fosse lucente. Poi vidi il cielo colmo di mattino, e alti venti vivaci. Quindi, di nuovo, il dorso del cocchiere che copriva ogni cosa. Immaginavo che gridasse, ma nulla era dato distinguere oltre il fracasso della carrozza. Nuovamente vidi il cielo, che prometteva una splendida giornata; e a un tratto, in un lampo, scorsi il cavallo, un animale-fantasma, troppo grande per noi, e fui quasi convinto che non ci appartenesse. Vidi, quasi disponessi di molto tempo, un bambino giocare tranquillo nel vano di una porta. Vidi una bettola a una cantonata; accanto all’uscio un’insegna di lamiera recava dipinta una bottiglia, una piccola, storta, gonfia, sorprendente bottiglia; era molto dubbio che nella realtà esistesse un simile oggetto. Una finestra mi accecò, alzatasi non so dove; poi, per la frazione di un secondo, vidi un viso atterrito, poi...».

Ma ricordavo solo fino a quel punto.

«Io so perché te ne ricordi» disse la fanciulla.

«Certo, perché camminiamo. E perché quegli istanti così stranamente particolareggiati in cui vedevo una quantità di cose erano molto simili a questi. Come se, in fondo, fosse lo stesso: il medesimo sentimento, la medesima onda di sentimenti, pensieri, splendore e movimento che trascina tutto con sé...».

«Siete strani» disse la fanciulla mentre continuavamo a scendere per l’ampia strada chiara. «Voi pensate, non fate quasi nient’altro che questo, e tuttavia vi sfugge tutto. Non sapevi dunque che la gioia è uno spavento che non si teme? Andare attraverso uno spavento sino alla fine: ecco la gioia. Uno spavento di cui si conosce più della lettera iniziale. Uno spavento in cui si ha confidenza. Oppure avesti paura?».

«Non so» risposi confuso. «Non posso risponderti».

Il ventiseiesimo sogno

«Portata via di qui e posta sotto una campana di vetro» disse la fanciulla rivolta verso la stanza vicina. Quindi entrò e chiuse la porta, tirandola pianamente a sé.

«Claire» dissi sotto l’impeto di un sentimento che già tutto, un tempo, doveva essere stato così: in quel momento era necessario dire: «Claire», e in quel punto. Ma questa volta la direzione era diversa; diversa a tal segno che tutto sarebbe stato permesso di dire: «cobalto» o «affanno» o «carassio», ma non quello, non: «Claire». Era falso, era offensivo, era proprio impossibile a dirsi, in quel momento: «Claire».

Lo capii subito e compresi benissimo che il disprezzo con cui la fanciulla si allontanò da me non doveva sorprendermi. Udii che apriva da qualche parte un cassetto, e poco dopo essa era in piedi accanto alla finestra con un pezzo di tela; lo alzava nella luce, lo tendeva osservandolo con il capo leggermente piegato. E così, in quest’atteggiamento, disse sprezzante:

«È incredibile che lei non abbia voluto baciarla». Si trattava di una frecciata senza motivo, ed io mi limitai ad un piccolo gesto ironico. La fanciulla sedette sul largo davanzale, pose il pezzo di tela sopra un ginocchio e lo lisciò adagio, da destra e da sinistra, con ambe le mani. E sia la suggestione di questa carezza o il fatto ch’io osservi i capelli biondi della fanciulla chinata o Dio sa quale motivo, comprendo che, veramente, la cosa è incredibile. Una immensa assurdità sale dentro di me muovendo da un piccolo ricordo. Vedo degli occhi – gli occhi dilatati di una tisica – e questi occhi imploravano. Mio Dio, che cosa imploravano?

«Ora non deve restare molto di lei» disse la fanciulla. Le sue mani giacevano, una accanto all’altra, sopra il lavoro posato sul ginocchio; pareva se ne volesse allontanare il più possibile, mentre mi guardava. Mi guardava, ma spingendo il suo sguardo tanto lontano che io perdevo in esso quasi ogni concretezza.

«Era una donna di servizio» dissi in fretta, come rispondendo a una domanda e come se quello fosse l’ultimo momento per tale spiegazione. E non sapevo che subito avrei preso a raccontare:

«Serviva» debbo avere raccontato «in quel grande albergo frequentato in massima parte da malati. Io non vi rimasi, del resto, che otto giorni. Era lei a servirmi. Notai che lo faceva bene: il terzo giorno sapeva tutto, conosceva le mie piccole abitudini, mi viziava. Ma tossiva. Aveva contratto la malattia».

«Lei tossisce» le dissi una mattina. Si limitò a sorridere. Subito dopo, fuori, fu colta da un nuovo attacco.

Poi mi rimisi in viaggio. A Firenze, quando ebbi aperto la valigia, la vidi coperta di uno strato di violette. E la sera un biglietto volò via dalla mia camicia da notte: «Addio» vi era scritto: come a scuola, sotto dettatura.

Naturalmente, non pensai più a lei. Tuttavia, quando due mesi dopo ritornai nel grande albergo frequentato in massima parte da malati e non la trovai, ne chiesi subito notizie.

«Marie è malata» disse la nuova cameriera quasi offesa. Ma la sera stessa la vidi. Era aprile, e il clima del luogo era famoso. Ma quella sera faceva stranamente freddo. Marie si inginocchiò dinanzi alla mia stufa, e quando volse il viso dalla mia parte, uscì dal riverbero del fuoco. I suoi occhi conservavano lo splendore della fiamma. Non si alzò subito, e notai che le riusciva difficile farlo. L’aiutai un poco; sentii quanto fosse leggera. «Va bene, no?» domandai disinvolto e come con intenzione scherzosa. Non rispose, ricordo; mi guardò solamente, mi guardò, mi guardò. Non più da molto vicino, aveva indietreggiato fino all’armadio. Credo che non le riuscisse stare in piedi. Il crepuscolo, nella stanza, non aveva alcun riguardo per noi. Annottava. Non vi era nulla che potesse facilitare la cosa. Ed essa lo sosteneva tutto da sola, quel peso. Perché io, allora, non ero che imbarazzato e inquieto, sì, persino impaziente. Ma infine essa superò tutto, si accostò (aveva ancora forza, sempre nuova forza), e mi guardò ancora una volta da vicino. Come era buio. Era come se i capelli le fossero diventati più morbidi, per la malattia forse o perché negli ultimi tempi non aveva più servito. Alzò un poco le braccia (ero quasi per dimenticarlo) e mi posò entrambe le mani sul petto. L’ultimo gesto, prima che se ne andasse... A questo punto mi spaventai.

«Ho parlato senza interruzione?» chiesi inquieto alla fanciulla. Non la scorsi subito: era in una grande poltrona rivestita di verde che poco prima non si trovava ancora accanto alla finestra. Sedeva curva sul suo lavoro, forse un poco più del necessario.

«E tu?» chiese improvvisamente. Non alzò gli occhi una sola volta.

«Io, sì, la lasciai andare. Non feci nulla. Non dissi neppure nulla. Cercavo qualche cosa di leggero, di nessuna importanza...».

La fanciulla levò lo sguardo, scrutandomi con quella sconcertante oscurità che si forma a volte negli occhi azzurri quando sono rimasti abbassati un poco.

«E poi?» chiese.

«Poi accesi la luce».

Era di nuovo intenta al lavoro. Voltava la tela a destra e a sinistra, quindi la allontanava da sé e l’osservava, il capo all’indietro, per acquistare la maggiore distanza possibile, gli occhi socchiusi.

«Andai certo a riposare di buon’ora» ricordai.

«Ero stanco. Oppure no: rimasi a leggere; è così, lessi...».

Speravo, nel silenzio, di riuscire a ricordare che cosa, allora, avessi potuto leggere.

Ma essa, con risoluzione improvvisa e senza molta cura, mi parve, posò la tela sopra il davanzale e raccolse insieme alcuni fili colorati che le erano rimasti in grembo.

«Leggesti» disse a un tratto sarcastica, levando su di me i suoi occhi freddi e opachi. «Leggesti» ripeté con durezza inaudita.

Questa parola, dal modo con cui la pronunciò, perse il suo senso. Fu per me come se avesse fatto il nome di una malattia che proprio allora imperversava, di una malattia infettiva per cui molti morivano. Rabbrividii, quasi ne fossi rimasto contagiato.

La fanciulla aveva ora le mani intrecciate intorno a un ginocchio sollevato; il suo viso era rivolto verso la finestra, e là fuori, da qualche parte, essa disse:

«Mio Dio»1 – con l’accento sulla prima e lunga sillaba.

Infine non resistetti più. Feci qualche passo verso la finestra. Sentivo nascere in me parole che bastava pronunziassi per...

Nella stanza accanto si levarono voci. Fu come se tutto un fascio di voci mescolate fosse gettato contro la porta, di nuovo e ancora di nuovo: e noi eravamo là entrambi, mi parve, colti dalla stessa paura.