LA POESIA DELLE COSE IN PROSA

DI MARCO RISPOLI

 

 

 

Un consolidato giudizio critico vede in Rainer Maria Rilke in primo luogo l’autore di quattro opere supreme: la raccolta delle Nuove poesie (1907-1908), il romanzo I quaderni di Malte Laurids Brigge (1910), le Elegie duinesi e i Sonetti a Orfeo (entrambi portati a compimento nel 1922). Tutto il resto, rispetto a quelle straordinarie creazioni letterarie, appare premessa, residuo, intermezzo o appendice. Si tratta di un giudizio per molti versi condivisibile, poiché certo è difficile trovare altrove, in Rilke, una compiutezza così abbagliante, una malia tanto intensa da apparire quasi prepotente.

Quando però Robert Musil individuò in Rilke «il più grande poeta lirico che abbiano avuto i tedeschi», pensava alla stupefacente qualità di tutta la sua produzione. Secondo Musil non vi è infatti «quasi nessuna riga, nessuna parola che scada rispetto al resto». La grandezza di Rilke si coglie dunque anche nei molti scritti che, seppure esclusi da un più ristretto canone o dalla conclamata popolarità, basterebbero a garantirgli un posto di riguardo nella letteratura moderna. Ancor più delle liriche giovanili, che testimoniano un talento a tratti acerbo e incontrollato ma comunque prodigioso, a mostrare questa continuità sono i componimenti più sofferti, sorti negli anni che vanno dal 1910 alla straordinaria esplosione creatrice del febbraio 1922, il mese in cui furono portate a termine le Elegie – che da tempo giacevano irrisolte – e videro la luce, dal nulla, i Sonetti a Orfeo. Basta scorrere le poesie scritte in quel decennio di transizione e di crisi, quei testi sparsi, spesso ritenuti dallo stesso Rilke niente più che esercizi preparatori, per imbattersi di continuo in brani di indiscutibile bellezza. Oppure basta volgersi agli scritti in prosa, dove con più agio, senza essere travolti dallo splendore imperioso dei versi, si possono incontrare gli elementi della più alta poesia rilkiana.

Anche per questo il lettore italiano deve essere grato a Giorgio Zampa, che in anni ormai lontani, ancor prima che l’edizione tedesca delle opere complete riunisse le prose di Rilke in un’unica sede, offrì la possibilità di accedere ad alcune fra le pagine più nascoste e preziose della sua produzione, in un volume apparso nel 1949 per Cederna. Sono testi che in certi casi non è facile reperire nemmeno in lingua originale, e che vengono qui riproposti nell’ordine e nella traduzione originari. Giorgio Zampa, uno dei massimi interpreti di Rilke, già nella scelta mostra una particolare dimestichezza e sensibilità verso la sua opera, affiancando frammenti sparsi ad alcuni dei saggi più celebri, senza curarsi troppo delle distinzioni tra i diversi generi di prosa. Si trovano così a stretto contatto un racconto e un saggio giornalistico, riflessioni di ampio respiro sulle arti figurative e densi emblemi poetologici, brevi prose liriche e prefazioni, lettere immaginarie e reali, in un assemblaggio congeniale all’esercizio critico di Rilke, che fin da principio intende farsi poesia e che, almeno a partire dai primi anni del Novecento, ha volutamente abbandonato i modi della più consueta scrittura saggistica, lasciando crescente spazio a elementi lirici anche nella comunicazione epistolare o nella riflessione teorica. La varietà formale delle prose qui raccolte non può d’altronde nascondere gli stretti legami che le uniscono, sia che si guardi a quella continua e sofferta meditazione sul rapporto tra il soggetto e il mondo che riappare, con cangianti riflessi, in ciascuno dei testi raccolti, sia che ci si volga ad alcune più specifiche ricorrenze tematiche.

La silloge si apre con La lezione di ginnastica, l’unico testo propriamente narrativo, in cui Rilke attinge alle sue infelici esperienze nei collegi militari frequentati durante la prima adolescenza. Ancor più dello sfondo autobiografico c’è però da osservare come nel racconto venga descritta in modo affatto peculiare, quasi isolando dal flusso narrativo singoli gesti o dettagli, l’ottusa crudeltà imperante nelle scuole e nei collegi, un tema che in quel tempo trova riscontro in molti autori di lingua tedesca, da Frank Wedekind a Thomas Mann, da Hermann Hesse a Robert Musil fino a Robert Walser. A distanza di parecchi anni, nel settembre 1914, Rilke rivisiterà ancora il plumbeo squallore della scuola militare nel breve scritto Ricordo, collocando le proprie sofferenze adolescenziali entro un periglioso percorso di formazione alla poesia (e rifiutando per converso di assecondare una prassi psicoanalitica che spinge il paziente a «vomitare ... l’inservibile dell’infanzia»). Ma la risposta più immediata alle brutalità educative così diffuse a fine Ottocento si trova nel testo dedicato alla Samskola, un istituto scolastico che Rilke visitò durante un viaggio in Svezia nel settembre 1904. Si crea così, all’interno della raccolta, un’antitesi tra il collegio militare e una scuola che, basata sui princìpi di una più liberale pedagogia, «non emana odore di polvere, d’inchiostro o di paura», un luogo in cui è tenuta in massimo conto quella sensibilità fanciullesca a cui Rilke e molti altri autori moderni guardarono come a un modello da recuperare e imitare in età adulta, specie nel campo dell’arte.

Questo plauso alle riforme in campo educativo non è d’altronde occasionale, si colloca all’interno di un’adesione ad alcune istanze di quel movimento di critica della cultura che nella Germania guglielmina va sotto il nome di Lebensreform, cui Rilke appare particolarmente legato nei primissimi anni del secolo, come testimonia anche la sua esperienza a Worpswede, il villaggio dove alcuni artisti (tra cui Clara Westhoff, la moglie) avevano cercato rifugio dall’oppressione della vita cittadina. Certi tratti del rifiuto opposto alle convenzioni borghesi, come la celebrazione di una immanente sensualità, andranno poi maturando nel corso del tempo, per accompagnare Rilke fin nelle più tarde realizzazioni poetiche (si pensi, per restare agli scritti qui raccolti, alla Lettera del giovane lavoratore). Anche negli anni in cui la vicinanza a queste tendenze riformatrici è più intensa, Rilke non si abbandona però a un ingenuo monismo – allora assai diffuso – che vorrebbe vedere l’uomo confluire in un abbraccio indistinto con la natura. Ne sono testimonianza lo scritto Del paesaggio e il capitolo introduttivo della monografia dedicata agli artisti del gruppo di Worpswede, dove si mostra anzi una chiara consapevolezza circa il carattere compensatorio dei moderni tentativi di riavvicinare la natura. La possibilità di comprenderla ha come premessa la coscienza della propria estraneità: «Si cominciò infatti a capire la natura quando non la si capì più: quando si capì che essa era l’altra parte, indifferente, incapace di accoglierci» scrive Rilke in Del paesaggio. In modo analogo, nell’introduzione a Worpswede rileva come la vita dei contadini debba esercitare il suo fascino soprattutto presso «il nevrotico abitatore della città», ed evidenzia la distanza che separa gli artisti lì convenuti dagli abitanti del villaggio: «... non vivono insieme, ma i primi quasi in opposizione ai secondi». Pur consapevole dell’impossibilità di godere di una immediata comunione con la natura, Rilke ravvisa però nell’artista colui che è in grado di cogliere una profonda unità, «sentendo uomini e cose tacitamente conviventi, come fenomeni di una identica atmosfera». Questa fiducia nell’artista, nella sua capacità di ritrovare un fanciullesco stupore e redimere l’uomo dai guasti della industrializzazione e della vita nelle metropoli, pur trovando nei due scritti sulla pittura un’espressione particolarmente accesa, in parte ancora venata di giovanile euforia, resterà uno dei tratti più caratteristici della sua intera esperienza.

Alcune certezze che ancora riecheggiano negli scritti del 1902, per esempio la possibilità di guardare al paesaggio come a una smisurata cassa di risonanza per la propria individuale sensibilità, al pari di quei pittori che «si volgono alla natura, e mentre la cercano, cercano sé stessi», entrano definitivamente in crisi già in quell’anno, quando Rilke si reca a Parigi, dove soggiornerà a lungo. E sarà evidente, di lì a poco, il congedo da uno Jugendstil non sempre privo di tratti manieristici, di cui il lettore può trovare ancora qualche residuo nelle visioni raccolte nel Libro dei sogni. A Parigi, in un contesto metropolitano opposto a quello di Worpswede, grazie soprattutto all’esempio di Auguste Rodin (a cui dedica in questi anni un ampio studio) Rilke abbandona l’idea di un artista che nel mondo vede un mero «pretesto», ed esplora piuttosto la possibilità di ritrarre le cose senza che diventino luogo di proiezione del soggetto. Un simile apprendistato, che comporta una disciplina talora mortificante, non intacca tuttavia in alcun modo la fiducia nella poesia, anzi: proprio frenando l’effondersi della propria persona nel mondo circostante, cercando un dettato lirico «oggettivo», fondato sulla capacità di vedere il mondo, il poeta finisce per affermare ancor di più la propria potenza creatrice. Di questa prassi il lettore ha un esempio nelle pagine dedicate a Furnes, nelle descrizioni di luoghi che, da altra prospettiva, appaiono in alcune delle più spettacolari Nuove poesie, per esempio nei riflessi delle case lungo il Quai du Rosaire di Bruges, in cui la città che è data per morta si desta a nuova vita. Oppure nel gioco di sguardi che domina la descrizione dell’Incontro tra un passante e un cane, un episodio che nel suo dipanarsi in forma di dialogo e di congedo offre una rappresentazione delle più estreme possibilità e dei limiti di questo tentativo di entrare in contatto con le cose e gli esseri al di fuori di sé.

Né la fiducia nella poesia verrà posta in questione quando una simile poetica fondata sullo sguardo e i suoi esiti si riveleranno inadeguati, nel corso del decennio successivo. Sono gli anni funestati dalla Prima guerra mondiale e Rilke nell’ottobre 1914, con la prosa Abbiamo una visione, rileva uno degli abbagli più clamorosi della festosa retorica che accompagnò l’inizio del conflitto, mettendo in guardia tutti coloro che non ne coglievano l’inaudita carica distruttiva attardandosi a pensare alle guerre del passato: «... sebbene anch’essa sia una guerra, voi ancora non la conoscete».

Ancor più che una tempestiva critica dell’entusiasmo bellico (verso cui lo stesso Rilke aveva inclinato in alcune poesie scritte immediatamente dopo la mobilitazione, nell’agosto 1914), questo periodo reca con sé un laborioso ripensamento sull’attività poetica, documentato da alcuni testi che costituiscono forse il nucleo più prezioso della silloge curata da Giorgio Zampa. Grazie agli appunti e ai più corposi saggi di quegli anni è possibile osservare il tentativo di offrire il proprio spazio interiore alle cose del mondo, rinunciando necessariamente a possedere una qualche individualità d’eccezione. Il poeta deve dunque «essere pensato fuori da ogni destino», come si legge nella breve premessa al Centaure di Maurice de Guérin. Lontano dagli eroi e dalle loro fulgide esistenze, dovrà accettare una vita poco appariscente, di cui Rilke offre una allegorica rappresentazione nella breve prosa Sul poeta, attraverso l’anonima figura di un cantore che accompagna i naviganti intenti a risalire con fatica il Nilo: dai margini dell’imbarcazione, egli è in grado di entrare in rapporto con «quanto vi era di più lontano», avvicinando i viaggiatori al paesaggio che si dispiega all’orizzonte. Oppure dovrà essere simile a quel principe mendicante, sant’Alessio, cui fu imposto di vivere nel sottoscala della propria ricca dimora, come aveva suggerito Hofmannsthal nel discorso Il poeta e questo tempo e come Rilke ribadisce nello scritto Sul giovane poeta (1913). In questo saggio, originato da un confronto con la più giovane generazione dei poeti espressionisti, e in particolare con Franz Werfel (ciò che talora sembra tradursi in una sorta di mimetica adesione al pathos caratteristico della sua lirica), Rilke mostra come il dileguarsi dell’individualità del poeta sia proprio ciò che permette una più alta celebrazione della poesia: i singoli poeti diventano insignificanti, scompaiono nella poesia, simili ai costruttori delle antiche cattedrali, che lavorarono «senza lasciare traccia nella presenza ... delle loro opere». Solo se affrancata dagli accidenti individuali, la poesia può ambire all’universalità, rivelandosi frutto di una più alta ispirazione, secondo un principio che Rilke vorrà inverare nel modo più clamoroso nella «tempesta creatrice» del febbraio 1922, portando a termine le Elegie e scrivendo nel giro di pochi giorni, «sotto dettato», i Sonetti a Orfeo. Se molta poesia moderna appare tesa, come suggerisce Luciano Zagari, tra fugaci epifanie e sforzi costruttivi, tra l’abbandono a una superiore ispirazione e l’artificio linguistico, Rilke, pur senza dimenticare la disciplina lavorativa appresa da Rodin, va sempre più celebrando la natura epifanica dell’atto poetico: pur dovendo ammettere «che le poesie si costruiscono, sono lontanissimo dal ritenerle cose che si inventano» scrive al proposito nel saggio del 1913.

Per farsi tramite di una poesia che non sia soggettiva invenzione, è necessario per Rilke non soltanto abbandonare la zavorra costituita da una troppo pronunciata personalità, ma anche rinunciare a una poetica fondata sullo sguardo, in un processo che culmina nel 1919 con le ardite sinestesie immaginate in Rumore primigenio, uno scritto in cui Rilke deplora il dominio che la vista ha esercitato, a scapito degli altri sensi, sul «poeta europeo contemporaneo» (dove è chiaro come egli pensi anche alla propria poesia). Un simile processo si palesa in modo esemplare già nei due frammenti raccolti sotto il titolo di Esperienza, scritti durante un soggiorno in Andalusia, a Ronda, nel 1913. Nel primo la circolazione tra l’interiorità umana e il mondo esterno si compie grazie al contatto con un albero escluso dallo sguardo, e senza che sia dunque possibile stabilire attraverso «quale senso» il poeta riceva «una comunicazione tanto sottile e diffusa». Nel secondo una analoga possibilità di varcare i confini tra sé e il mondo è frutto di una sensazione uditiva, «un richiamo di uccello» che sembra riunire l’individuo e il mondo esterno «entro uno spazio ininterrotto», che il poeta cerca di preservare alla vista chiudendo «gli occhi per non essere turbato dal contorno del proprio corpo». Simili sensazioni restano tuttavia un dono fugace, e molti sono gli ostacoli che Rilke incontra nel tentativo di fare di sé una cassa di risonanza per le cose terrene, attraverso una sorta di capovolgimento della propria poetica giovanile: lo testimonia lo sgomento con cui registra nel breve Appunto del 1913 la difficoltà a spogliarsi completamente dei propri tratti individuali, offrendosi al mondo esterno.

Il bisogno di sondare gli ostacoli che impediscono un’immediata rispondenza tra lo spazio interiore e il mondo esterno induce Rilke a volgersi verso gli elementi contro cui il nostro sentire sembra frangersi senza alcuna eco. È ciò che avviene in due prose tra le più celebri, il saggio sulle bambole e lo scritto sui gatti (in origine prefazione a Mitsou, il ciclo di disegni che Balthus, ancora bambino, dedicò al suo gatto nel 1920). Le bambole, a differenza di gran parte degli altri oggetti, che pur logorandosi si arricchiscono nel contatto con l’uomo, appaiono come un «terribile corpo estraneo», che oppone una pervicace resistenza alle effusioni del «nostro calore più puro», e nella loro impermeabile opacità sembrano perfino costringere i fanciulli, che non conoscono ancora una netta separazione tra sé e il mondo, a un doloroso processo di individualizzazione. E tuttavia, con la loro indolenza a tratti crudele, anche le bambole appaiono necessarie al poeta, poiché fugano ogni illusione riguardo a un’immediata analogia tra sé e il mondo.

Altrettanto difficile si rivela la possibilità di trovare corrispondenza al proprio intimo nei gatti, benché in modo opposto. Se le bambole restano estranee all’uomo a causa del loro torpore, i gatti lo sono per la loro agile alterità e per l’indifferenza all’umano sentire, osserva Rilke con toni lievi, a tratti giocosi: «... si è mai saputo se veramente si degnino di ammettere per un istante la nostra futile immagine nel fondo della loro retina?». Per converso, la loro stessa esistenza non può che restare per gli uomini «un’ipotesi discretamente azzardata», tanto da indurre a una riflessione sulla pretesa di possedere davvero una creatura vivente. La vicenda di Balthus è esemplare perché consente di correggere la tradizionale idea di possesso, perfezionandola con il dolore della perdita. Anche qui affiora dunque l’idea di un amore che rinunci a possedere o anche soltanto a volere un preciso oggetto, motivo tra i più caratteristici dell’opera di Rilke: collocato in posizione centrale nel Malte, nella celebrazione delle grandi amanti che si precipitarono verso l’amato ormai perduto, «ma dopo pochi passi l’hanno già superato, e davanti a loro è ancora soltanto Iddio», l’ideale di un amore intransitivo riecheggia poi diverse volte nelle Elegie, ma trova una delle più compiute espressioni nelle pagine dedicate alla contessa Anna de Noailles, dove Rilke traccia la genealogia di questo sentire risalendo fino a Saffo, ravvisando nella capacità di spostare verso le cose del mondo un «amore eccessivo per uno solo» la premessa della più alta poesia.

Nella rinuncia al possesso è d’altronde implicito quell’isolamento – la necessità di mantenere «un intervallo puro» tra sé e gli altri, come si legge in Esperienza – che Rilke andò difendendo in modo sempre più risoluto nel corso degli anni. Questa tendenza a salvaguardare la propria solitudine – foss’anche solo dall’affettuosa vicinanza di un cane, come mostra la scena descritta in Un incontro – non va tuttavia fraintesa come una forma di estetismo, tesa a evitare il contatto con le presunte banalità dell’esistenza umana. Al contrario: non è facile trovare nella letteratura moderna un autore che con maggiore insistenza e intensità abbia voluto offrire con la propria opera una riflessione sulla vita e sulle cose terrene, anche quelle in apparenza più ordinarie. L’intuizione critica di Giuliano Baioni, che ritrae Rilke come un «grande consolatore», si fonda proprio su questa singolare attitudine a intervenire sui nodi della condizione umana, talora con la pretesa, quasi sfacciata, di risolverli. Lo stesso Rilke aveva d’altra parte visto nell’impulso alla consolazione un nucleo originario della propria poesia: «consolare mi sembrava l’unica cosa necessaria» si legge in Ricordo.

Di questa inattuale disposizione reca testimonianza esemplare il dittico Su Dio. Sotto questo titolo la casa editrice Insel accostò nel 1933 la significativa lettera che Rilke scrisse a una sua lettrice, Lotte Hepner, nell’autunno del 1915 e l’immaginaria missiva che un giovane lavoratore indirizza al «signor V.» (l’iniziale allude al poeta belga Émile Veraheren), un testo conosciuto con il titolo di Lettera del giovane lavoratore e scritto nel febbraio 1922, ennesimo riverbero, dunque, di quel momento di felice furia creativa. Pur così diverse, le due lettere mostrano come Rilke non abbia considerato la propria poesia un esercizio che avesse in sé il proprio fine, e non si sia dunque sottratto al confronto con le questioni più urgenti e comuni della vita. Di qui derivano anche le alterne fortune della sua opera, giacché la popolarità che essa conobbe in quanti vollero trovarvi una fonte di saggezza esistenziale, quasi un manuale di vita, finì per addensare su di essa qualche pesante riserva critica. A fronte della diffusa tendenza a negare alla poesia, in modo di volta in volta orgoglioso o sofferto, ogni immediato rapporto con la concretezza del reale, difendendone così la purezza, simili riserve appaiono perfino comprensibili. Nulla tolgono però alla poesia di Rilke, e anzi ne evidenziano il significato più proprio. Perché nella Lettera di un giovane lavoratore, ma in fondo in tutta la sua opera, si avverte ben poco di quel «patto infranto» tra il linguaggio e il mondo che avrebbe pesantemente condizionato, almeno da Mallarmé in poi, la poesia moderna. Se è vero che l’opera di Rilke è sempre una riflessione sulla poesia e sul poeta (come sarà certo evidente al lettore di questo libro), è altrettanto vero che tutta la sua poesia è anche una riflessione sull’uomo e sulla sua esistenza. A una tradizione religiosa volta a «calunniare le cose terrene», alle sue filiazioni letterarie, Rilke oppone una immanenza che è al contempo religiosa e poetologica, e si mette alla ricerca di opere che «celebrino il terrestre», secondo un programma che trova precisi riscontri nelle Elegie: dire le cose del mondo, anche le più comuni, «casa, / ponte, fontana, porta, brocca, albero da frutto, finestra», ma dirle «come le cose stesse mai / pensarono di essere nell’intimo».