14. L’UOMO E LA NATURA
Cominciamo, senza troppi giri di parole, con una delle cose più difficili, ossia la domanda: che cos’è esattamente la natura? Sono le foreste vergini tropicali o le montagne remote mai scalate dall’uomo? O piuttosto i prati alpini pieni di fiori dove pascolano mucche del colore del fango con al collo grossi campanacci? Ne fanno parte anche le miniere a cielo aperto abbandonate, nelle quali si è raccolta l’acqua dove ora gracidano a gran voce le rane? Probabilmente esistono tante definizioni quanti sono gli amanti della natura. Una tanto semplice quanto diffusa recita: la natura è il contrario della cultura, dunque tutto ciò che non è stato creato né modificato dall’uomo. Questa formula delimita i confini della natura in modo chiaro e rigido.
Altre definizioni vedono l’essere umano, e quindi anche le sue attività, come parte della natura; questa dunque non dovrebbe essere nettamente distinta dalla cultura. E proprio questo è il problema del moderno ambientalismo: che cosa è davvero degno di protezione e che cosa invece va considerato come minaccia o deturpamento? Una domanda a cui pare difficile rispondere quando si vive sul territorio che si vuole difendere.
Appena si rivolge lo sguardo più lontano, però, la situazione appare più chiara. Ovvio che la foresta pluviale amazzonica vada conservata in condizioni il più possibile intatte. E, per favore, non si tocchi l’Antartide, che secondo il diritto internazionale non appartiene a nessuno stato. Posizioni analoghe riguardano altri patrimoni naturali, dalla barriera corallina australiana alle foreste della Kamchatka. Ma nel proprio giardino si applica la regola più morbida secondo cui anche la natura trasformata dall’uomo, in determinate condizioni, va protetta. Soprattutto quando la natura originaria è completamente scomparsa. Personalmente, sono più a favore di una chiara distinzione, altrimenti rischiamo che un giorno si arrivi a considerare «natura» anche le piantagioni di palma da olio nel Borneo.
Ma questa distinzione è poi così semplice? A partire da quale epoca storica si dovrebbe considerare l’intervento umano come fattore di disturbo? E se decidiamo di iniziare dalla comparsa dell’essere umano, come dovremmo valutare i nostri antenati come l’Homo erectus, da cui ci differenziano solo pochi tratti? Sono tutte domande alle quali non c’è una risposta chiara.
Io porrei la linea di separazione al momento del passaggio dal cacciatore-raccoglitore all’agricoltore. Questo è il punto di svolta oltre il quale nasce una coltivazione mirata e quindi si comincia a modificare le specie, da qui iniziano il deliberato intervento sul paesaggio e la sua trasformazione in un ecosistema completamente assoggettato alle esigenze dell’essere umano.
In quest’epoca diventano evidenti anche i primi disturbi irreversibili dell’ambiente, per esempio attraverso l’introduzione dell’aratro: trascinato nel terreno, questo attrezzo va a intaccare strati profondi. La cosiddetta suola di aratura – uno schiacciamento del fondo del solco – è di fatto una barriera che permane nel terreno per decine di migliaia di anni, impedendo all’acqua di fluire con facilità e bloccando persino l’ossigeno. Di conseguenza le radici di diversi alberi, quando cercano di farsi strada verso il basso in questo crostone, marciscono, e si forma invece un piatto radicale largo e poco profondo. Ciò rende instabili le piante, e quando superano una certa altezza (circa 25 metri) l’effetto leva durante una tempesta può essere tale da far cadere i tronchi.
Esattamente come gli uccelli o gli orsi, dei quali ci siamo occupati in precedenza, anche noi influenziamo il bosco e le specie arboree che lo abitano. E non solo con le modifiche accidentali causate dall’agricoltura: in Germania sul 98% delle superfici boschive si pianta, si cura e si raccoglie su scala industriale; ma già i nostri antenati dell’età della pietra, che non giravano con aratro e sega ma con arco e frecce, hanno fatto la loro parte nel mettere sottosopra la natura. Per questo vorrei gettare uno sguardo insieme a voi nel passato, indietro di qualche millennio, per vedere cos’hanno combinato i nostri avi con i modesti mezzi a loro disposizione.
Gli alberi reagiscono alle variazioni climatiche, e una variazione importante è stata la fine della più recente era glaciale. Gli ultimi resti dei ghiacciai, che avevano raggiunto uno spessore chilometrico, si sciolsero circa 12.000 anni fa, restituendo un territorio devastato. Non c’erano più foreste, annientate dall’avanzare lento verso sud dell’immensa massa di ghiaccio. In Europa centrale gli alberi erano stati stretti in una morsa, attaccati da due versanti, poiché anche i ghiacciai delle Alpi erano cresciuti, creando uno sbarramento che aveva impedito loro di migrare verso sud. Molte specie arboree si estinsero, altre si ridussero fino a contare solo qualche esemplare superstite nelle valli laterali prive di ghiaccio, altre ancora sopravvissero solo in Europa meridionale, dove faceva più caldo.
Ma, quando i ghiacci si sciolsero, la vegetazione riprese timidamente a crescere. All’inizio si trattava solo di muschi, licheni ed erbe, ai quali presto si aggiunsero arbusti e alberi nani. Si sviluppò una tundra, come quelle che ancora oggi si incontrano nelle regioni settentrionali del Canada, della Scandinavia e della Russia – da quelle parti si può vedere come si presentava il paesaggio nell’era postglaciale. Più tardi ritornarono gli alberi: dapprima le conifere, come i pini, che insieme alle betulle resistevano meglio alle temperature ancora gelide. Poi, nel corso del tempo, si ripresentarono le querce e altre latifoglie, che scalzarono le conifere da molte zone.
Un rappresentante delle aghifoglie sembra però aver cincischiato un po’: si tratta dell’abete bianco. Si sposta molto lentamente, e a oggi ha raggiunto solo la parte centrale della Germania. Queste sequenze degli spostamenti sono ancora visibili oggi nell’arco alpino: nelle aree più elevate vi sono ghiacciai, dunque si può dire che vi regni tuttora l’era glaciale; più si scende e più le temperature si alzano, e le piante diventano più grandi e numerose. Fra i 4000 e i 5000 anni fa anche i faggi sono ritornati da sud nell’Europa centrale; e oggi costituirebbero la maggior parte delle nostre foreste se solo l’uomo moderno non avesse interferito con deforestazione e introduzione di altre specie.
Ma la colpa è tutta dell’uomo moderno? Insieme alle piante, anche i nostri antenati fecero ritorno nei territori liberati dai ghiacci, dopo che i loro avi erano stati spinti verso sud dalla glaciazione. Ma tutto sommato si può pensare che erano troppo pochi per poter arrecare danni alle foreste che si stavano ricostituendo. All’interno degli attuali confini della Germania non c’erano più di 4000 persone. Con il progressivo aumento delle temperature e il rimboschimento anche la popolazione aumentò e intorno al 4000 a.C. raggiunse le 40.000 unità. Se prendiamo in considerazione la densità per chilometro quadrato, non vi si trovava più di 0,01 persone, o, in altre parole, vi era un abitante ogni 100 chilometri quadrati. Se anche ci fosse stata un’alta domanda di combustibile non avrebbe determinato conseguenze per le foreste, che in un’area analoga danno vita ogni anno a 100.000 metri cubi di nuovo legno, quantità che corrisponde al consumo di 1000 moderne villette unifamiliari.
Il problema non veniva dunque dal fatto che quegli uomini della pietra avessero freddo ma piuttosto dal fatto che avessero fame. Infatti cacciavano i grossi erbivori, e questi prediligevano le giovani piante. Gli esemplari più grandi erano uri, bisonti, cavalli e rinoceronti, tutti animali specializzati in erba, che divoravano la steppa al punto tale da impedire ogni forma di forestazione. E questo è di importanza fondamentale per la discussione che segue. Se questi animali fossero stati presenti in numero ragguardevole e avessero potuto dare forma naturalmente al loro habitat, le regioni alle latitudini settentrionali non si sarebbero ricoperte di foreste.
I signori del territorio non erano dunque gli alberi, bensì i grandi erbivori: orde di uri, cavalli selvatici, bisonti e cervidi attraversavano le pianure erbose divorando ogni pianta appena nata. Questa almeno la teoria. E se ciononostante diversi alberi riuscivano a crescere, tanto da formare un vero e proprio bosco, in poco tempo anche questo veniva interamente spogliato delle foglie. Cavalli e cervi rosicchiavano le cortecce di querce e faggi fino a farli morire e i nuovi gettiti venivano regolarmente mozzati da mandrie affamate che strappavano boccioli e germogli. Ora, tutti questi grandi erbivori – tranne i cervidi – sono scomparsi da tempo. Sono stati veramente sterminati dall’uomo cacciatore? È possibile che quei pochi rappresentanti della specie Homo Sapiens abbiano avuto un effetto così dirompente?
Qui entra in azione il team di ricerca internazionale guidato da Sander van der Kaars, che ha perlustrato le acque davanti alle coste australiane in cerca di resti di escrementi di specie estinte. Questi studiosi sono dell’opinione che i responsabili dell’estinzione siano i cacciatori che abitavano il continente circa 50.000 anni fa. Hanno scartato l’ipotesi dei mutamenti climatici perché in quel periodo non si sono verificate in quella zona variazioni estreme, che hanno invece caratterizzato l’emisfero boreale, mentre dopo la comparsa dei primi australiani, nel giro di poche migliaia di anni, è scomparso l’85% della megafauna (ossia animali dal peso superiore a 44 chilogrammi).
E ciò non ha nulla a che vedere con un eccessivo ricorso alla caccia. Tutt’altro: secondo le conclusioni dei ricercatori i grandi animali si riproducevano così lentamente che anche una moderata attività venatoria arrecava danni irreparabili. Gli studiosi hanno calcolato che era sufficiente l’uccisione da parte di un singolo cacciatore di un solo esemplare adulto ogni dieci anni per portare all’estinzione una specie nel giro di pochi secoli.
Se davvero prima dell’interferenza dell’uomo cacciatore fossero state grandi mandrie di bovini selvatici, rinoceronti, elefanti e cervidi a dare forma al nostro territorio, si sarebbero diffusi al massimo arbusti e cespugli, non certo foreste immense. Naturalmente anche i sostenitori della cosiddetta «teoria dei megaerbivori» sanno che a quel tempo l’Europa centrale era quasi interamente ricoperta di boschi. Ma ritengono che ciò sia da ascrivere all’essere umano. Gli agricoltori del Neolitico avrebbero cacciato e decimato i grandi erbivori, di conseguenza gli alberi avrebbero avuto una chance non prevista dalla natura e l’avrebbero sfruttata al meglio. A favore di questa ipotesi si porta il ritrovamento di pollini che provano la presenza di vegetazione da steppa in un’epoca precedente.
Tuttavia ci sono anche molte prove della presenza di polline di alberi. Questa però non è una contraddizione perché anche nelle immense foreste vergini ci sono sempre state aree libere da alberi. Potevano essere paludi, pendii ripidi oppure golene, dove le acque che esondavano durante eventi alluvionali avevano la forza di sradicare le piante. La domanda è: quanto erano grandi queste macchie steppiche? Erano predominanti o semplicemente fenomeni marginali?
C’è un altro argomento che suggerisce la presenza di zone prive di alberi. Uri, bisonti e cervidi sono animali da branco, e la vita in branco è possibile solo nelle steppe. Vi è mai capitato di addentrarvi in un bosco, lontano dal sentiero, insieme a un numeroso gruppo di escursionisti? Allora avrete notato che il gruppo si divide e si perde il contatto gli uni con gli altri; bisogna fermarsi spesso per aspettare i compagni rimasti indietro che però non si sa quando arriveranno, avendo perso il contatto visivo con loro. Per i bovini selvatici una simile situazione è ancora più pericolosa, perché una mandria attira l’attenzione dei predatori molto più di un singolo esemplare. Infatti i richiami lanciati fra i vari membri, le intense tracce odorose e soprattutto la velocità limitata del gruppo sono un invito a nozze per lupi e orsi.
Tipici animali del bosco come il capriolo, ma anche la sua principale nemica, la lince, vanno in giro senza compagnia; solo nel periodo dell’accoppiamento e dell’allevamento della prole nascono dei piccoli gruppi famigliari di due o tre individui. Questo determina un diverso comportamento nella fuga: se gli animali da branco spesso corrono per chilometri, quelli solitari in genere scappano per non più di 100 metri. A quel punto, immersi nel fitto sottobosco, non sono più visibili agli occhi degli inseguitori e possono restare tranquillamente in attesa per vedere se il predatore si avvicina.
Quindi, riassumendo: i ritrovamenti di pollini testimoniano l’esistenza di aree prive di bosco, ipotesi supportata anche dalla presenza di molti erbivori che vivevano in branco. L’attività di caccia degli uomini potrebbe avere portato alla sostanziale riduzione del numero di questi ultimi e il bosco ne avrebbe approfittato per riconquistare le zone abbandonate. A sostegno di questa teoria c’è anche il fatto che i grandi erbivori si sono estinti. Mammut e rinoceronte lanoso, elefante dalle zanne dritte e cavallo selvatico, uro e bisonte europeo: sono tutti scomparsi (solo del bisonte europeo esistono alcuni esemplari nel parco nazionale di Białowieża, in Polonia). E a spiegarlo non è sufficiente il riscaldamento climatico degli ultimi millenni.
Fin qui tutto bene. Tuttavia questa teoria traballa. Proviamo a osservare la situazione da un altro punto di vista: mettiamo da parte gli erbivori e prendiamo in considerazione gli alberi. Specie native come querce e faggi hanno affrontato un lungo processo di selezione che ha interessato molte generazioni per poter diventare i signori delle foreste vergini. Una serie di qualità fantastiche permette loro di sopravvivere da milioni di anni.
Ma una cosa non hanno sviluppato questi alberi: un meccanismo di difesa dai grandi erbivori. Niente veleno né spine o aculei. Soprattutto gli esemplari più giovani, del tutto inermi, sono destinati a diventare il pasto di cervi, cavalli e bovini. Se la teoria dei grandi erbivori fosse valida, allora le latifoglie native sarebbero state sotto costante minaccia senza difendersi.
Ebbene, come abbiamo visto, alcune latifoglie riconoscono i caprioli e sono in grado di attivare anticorpi quando questi si cibano delle loro foglie. Ma quando la densità della popolazione di caprioli è alta questa strategia serve a poco, come mostrano i tentativi vani dei proprietari di boschi di proteggere i loro alberi. Non solo tutti gli esemplari giovani di faggi e querce vengono sbocconcellati a tal punto che per decenni paiono avere una crescita da bonsai; gli animali divorano persino le sostanze chimiche aggiunte sulle gemme per respingere gli assalitori, soprattutto quando sono presenti in numero rilevante e quando c’è poco cibo a disposizione, come in certi inverni. Le latifoglie evidentemente sono così gustose che, quando la densità di caprioli e cervi supera un determinato limite, pare non ci sia modo di salvarle.
Tutto ciò non può succedere a tipiche piante della steppa quali il prugnolo selvatico (chiamato anche spino nero) e il biancospino: già i loro nomi ne rivelano la strategia di difesa. Anche piante erbacee come ortica e cardo sono ben corazzate. Aghi cavi e appuntiti riempiti di veleno, spine che si spezzano facilmente e restano infilzate nella pelle, fibre legnose e amare: sono tutti strumenti utilizzati per levarsi di torno gli avidi divoratori. A ciò si aggiunge la dispersione dei semi per via aerea grazie al vento o agli uccelli, che permette di occupare le aree di terreno libere, anche se si trovano molto lontano. Faggi e querce, invece, sono totalmente indifesi. Come già ricordato, i loro semi pesanti cadono direttamente ai piedi della pianta madre e vengono trasportati dagli animali, ma per non più di qualche chilometro: in questo modo una migrazione in territori liberi può avvenire solo nel giro di millenni.
L’unica conclusione possibile è che i branchi di erbivori non hanno mai costituito una grave minaccia. A sostegno di questa ipotesi c’è il fatto che una foresta vergine nativa impiega circa 500 anni per trovare un equilibrio stabile. Milioni di ungulati affamati non le avrebbero mai concesso questo tempo. Risultato: nonostante le «prove» costituite dalla presenza di piante da steppa e grandi erbivori, la foresta vergine deve aver dominato la regione. Querce e faggi – la cui esistenza è stata ammessa anche dai sostenitori della teoria dei megaerbivori – sarebbero stati completamente divorati se fossero stati presenti solo in macchie isolate. I loro semi sono talmente pesanti che non possono essere trasportati dal vento per centinaia di chilometri, ma solo per brevi distanze, con l’aiuto anche degli uccelli. Il fatto che queste specie così indifese si trovassero un po’ dappertutto contrasta con la teoria che ritiene mandrie di cavalli e bovini determinanti per la definizione del paesaggio.
Un peccato per quei forestali e cacciatori che abusano di questa teoria per i propri interessi. I forestali non ritengono che le radure siano un problema, indipendentemente dal fatto che alla loro origine vi siano uri o boscaioli; i cacciatori continuano a foraggiare i cervi, la cui popolazione cresce a dismisura e distrugge ogni giovane latifoglia in aree di diversi chilometri quadrati. Un avvertimento è arrivato anche da Hubert Weiger, presidente della sezione bavarese dell’associazione BUND (Bund für Umwelt und Naturschutz Deutschland, Federazione per l’ambiente e la protezione della natura tedesca): «Temiamo che una discussione sulla conservazione della natura intellettualmente coinvolgente e di alto livello possa essere sfruttata da coloro che utilizzano i terreni come strumento politico per realizzare i loro scopi che vanno contro la natura».65
Un ulteriore grave impatto sul bosco è quello del cambiamento climatico provocato da noi esseri umani, che procede rapidamente – troppo rapidamente per gli alberi. Nell’estate del 2016 si è verificato uno strano fenomeno che, al rientro dopo le mie vacanze estive in Norvegia, alla fine di agosto, mi ha molto impressionato. Quando eravamo partiti per la Scandinavia gli alberi del mio distretto erano in salute e avevano chiome di un verde splendente. Durante la nostra settimana di assenza non ero preoccupato: nell’Hardangerfjord, meta del nostro viaggio, piovve così tanto che agognavo il clima che vedevo annunciato a Hümmel: sole splendente e temperature sopra i 30°C. Quando, alla fine del lungo viaggio di ritorno, la familiare faggeta fu finalmente in vista, il mio buon umore si affievolì: in quei pochi giorni caldi molte corone si erano tinte di marrone e alcuni alberi avevano addirittura perso parecchie foglie.
Mi convinsi subito che il problema non poteva essere la mancanza di acqua. Presi alcuni campioni di terreno in diversi punti e li premetti tra pollice e indice. La terra non si sbriciolava ma formava dei dischetti schiacciati che mantenevano la forma: un segno che l’umidità era sufficiente. Allora quale poteva essere la causa? La caduta di foglie in estate è quasi sempre riconducibile a una sete straziante. Prima di prosciugarsi del tutto, gli alberi eliminano la maggior parte della loro superficie traspirante. Purtroppo questo pone fine anche alla loro possibilità di effettuare la fotosintesi. In primavera hanno ancora forza sufficiente per far spuntare un po’ di foglie, ma poi non ne resta molta per altro. Come una gelata tardiva che assidera le foglie fresche e costringe la pianta a ricominciare da capo o un attacco di insetti che richiede di dar fondo alle riserve di energia per mettere in atto sistemi di difesa: a volte querce e faggi sono così esausti che muoiono. Negli abeti rossi la morte è ancora più spettacolare: gli aghi si colorano di rosso fuoco e, poiché l’albero morente viene rapidamente individuato e attaccato dai bostrichi, non si spogliano solo i rami ma anche il tronco, a causa del distacco della corteccia.
Ma torniamo all’estate del 2016. Fino al mese di agosto il tempo nella nostra regione era stato fresco e umido, condizione generalmente gradita agli alberi. Generalmente. Perché piogge estive troppo abbondanti, alle nostre latitudini, possono favorire la diffusione di organismi ostili. Infatti a luglio si era già verificata un prima perdita di parte delle corone a causa della presenza di funghi; questi banchettavano allegramente sulle foglie, che apparivano cosparse di puntini marroni o ricoperte di una sottile patina lattescente, il cosiddetto oidio. Quando la situazione si faceva insostenibile per i piccoli pannelli solari verdi l’albero doveva separarsi da loro, con la conseguenza che in certi giorni piovevano foglie come in autunno. Dopodiché, con un cambiamento repentino e nefasto, era arrivato un clima molto caldo e secco: anche l’albero più forte, a questo punto, vedrebbe sconvolto il proprio equilibrio interiore.
Nel giro di pochi giorni molte latifoglie si tinsero di marrone e alla fine si disfecero anche di tutto ciò che i funghi avevano risparmiato. La cosa curiosa era che nelle parti artificiali del bosco, dove gli alberi vengono regolarmente abbattuti, i sintomi si mostravano in misura maggiore. Ma questo si spiega facilmente: a differenza dei boschi naturali, quelli coltivati presentano molti buchi nella volta verde, attraverso i quali il sole penetra indisturbato. Di conseguenza tutto si riscalda più velocemente, l’aria si secca altrettanto in fretta e le condizioni mutano in maniera più repentina. I boschi naturali, invece, regolano autonomamente il loro microclima, affinché resti sempre in qualche modo sopportabile. Inoltre le piante si sostengono a vicenda attraverso la loro rete di radici e funghi, così da riuscire a salvare i compagni indeboliti.
E che cosa succede con condizioni climatiche differenti negli altri periodi dell’anno? In quanto forestale, tengo sempre il tempo sotto osservazione in modo particolare. Se in inverno si scatenano le tormente, temo per i grandi abeti rossi che minacciano di cadere; i piccoli faggi cresciuti sotto le chiome delle possenti conifere, che hanno ancora bisogno dell’ombra protettiva dei loro custodi (sebbene non siano imparentati), sarebbero infatti destinati a soffrire nell’estate seguente, trovandosi indifesi di fronte ai raggi del sole. Se piove troppo, il pericolo aumenta ulteriormente a causa del terreno reso molle dall’acqua, nel quale le radici faticano a fare presa. Preferisco i giorni di freddo intenso, se non altro perché in genere non portano con sé precipitazioni. Il giusto freddo si presenta solo nelle zone di alta pressione, dove l’assenza di copertura nuvolosa di notte permette al calore della Terra di disperdersi nello spazio. Tuttavia anche l’assenza totale di pioggia o neve non va bene. In estate, alle nostre latitudini, gli alberi non ricevono abbastanza acqua dalle nuvole, quindi devono attingere alle riserve che si sono costituite nel terreno durante l’inverno. Qui, fuori dal periodo vegetativo, si accumula parecchia umidità, che nei caldi mesi estivi può essere utilizzata dalle piante in aggiunta alla pioggia – ma solo se nell’inverno precedente ci sono state precipitazioni sufficienti.
Le calde giornate estive mi danno altrettante preoccupazioni. Quando se ne susseguono troppe il terreno inaridisce e gli alberi soffrono e sono più soggetti a malattie, come ho già spiegato. Le piogge, quando arrivano, si presentano frequentemente sotto forma di temporali; subito prima che questi si scatenino, il vento spesso si rafforza fino a raggiungere la violenza di una bufera, mettendo in pericolo soprattutto le latifoglie, che hanno un’ampia superficie esposta all’attacco delle raffiche. In inverno, che in Europa è più propriamente la stagione delle tempeste, gli alberi decidui presentano invece un profilo senza chiome, dunque più aerodinamico, come ha loro insegnato l’evoluzione. Perciò non amo i temporali estivi.
Insomma, il dio del clima non riesce a far contento un forestale come me. A mia discolpa vorrei dire che mi preoccupo semplicemente per le piante e per il loro futuro. E poiché osservo la situazione giorno per giorno, mi sono reso conto dei cambiamenti che hanno preso piede di anno in anno. Non si tratta solo degli inverni miti di cui parlano tutti i media. Si può notare anche uno spostamento in avanti delle stagioni: la prima neve ormai si fa aspettare fino a gennaio, nonostante il mio distretto – che sta a un’altitudine di 500 metri – di norma dovrebbe essere imbiancato già verso fine novembre. E marzo spesso finisce senza aver offerto giornate abbastanza tiepide da permettermi di stare un po’ seduto all’aperto.
Anche le api rimangono di frequente a bocca asciutta, perché i fiori di campo e altre fonti di nettare precoci compaiono molto tardi oppure perché le basse temperature impediscono agli insetti di uscire in cerca di cibo. E mentre i garden center offrono fiori in abbondanza per riempire balconi e aiuole, noi, nel nostro piccolo terreno dietro casa, dobbiamo aspettare fino a metà maggio per vederli. L’ultima neve cade in aprile, le ultime gelate si possono verificare anche all’inizio di giugno, per questo talvolta gerani e petunie vanno acquistati di nuovo. Il caldo vero e proprio, negli ultimi anni, si è presentato solo in agosto – nel 2016 addirittura a metà settembre –, in un periodo in cui, dal punto di vista meteorologico, dovrebbero comparire già le prime avvisaglie dell’autunno, magari insieme all’estate di san Martino, ma con temperature decisamente in calo, soprattutto di notte.
Potremmo anche pensare che in fondo non cambia niente se tutto scivola un po’ più avanti. Purtroppo però l’orologio interno degli alberi funziona in un altro modo, o forse loro sono semplicemente più testardi. Si accorgono, esattamente come noi, che le giornate si fanno più corte e si preparano pian piano al riposo invernale. Non possono conservare per quattro settimane di più il fogliame sui rami, perché va comunque messo in conto che è possibile un arrivo anticipato dell’inverno che porti con sé delle nevicate. Una vera e propria punizione per quelle piante che hanno mantenuto intatta la chioma troppo a lungo godendo del sole autunnale: i loro rami si rompono e alcuni esemplari addirittura non resistono e cadono, come è accaduto nell’ottobre del 2015.
L’unica soluzione, per l’attuale vegetazione arborea, sarebbe spostarsi verso nord, cosa che in realtà sta facendo. O perlomeno ci prova. Perché noi esseri umani non abbiamo previsto le migrazioni degli alberi. Gli appezzamenti di bosco che abbiamo piantato per delimitare le proprietà pongono dei confini fissi alla diffusione delle piante verso regioni più fresche. Prendiamo il nostro prato, per esempio. Durante la falciatura vedo sempre delle piccole querce che fanno capolino tra l’erba, e che purtroppo finiscono regolarmente per essere vittime della nostra falciatrice. Ora, la quercia madre si trova a soli 30 metri di distanza, tuttavia questa sarebbe comunque una migrazione, seppure molto lenta. Ho già spiegato quanto lontano vento e uccelli possono trasportare i semi. Ma se ogni pezzo di terra su cui il seme può cadere è già riservato, secondo i nostri programmi, ad altri scopi, il viaggio verso nord degli alberi non potrà compiersi mai.
Per quanto riguarda le migrazioni degli animali, si fanno sforzi a livello internazionale affinché ci siano corridoi liberi che permettano a gnu, zebre ed elefanti di muoversi da un parco nazionale all’altro. Iniziative analoghe esistono anche in Europa centrale dove si sostengono, per esempio, gli spostamenti del gatto selvatico. Associazioni ambientaliste come BUND stanno lavorando per la creazione di corridoi lungo i quali queste tigri in miniatura possano diffondersi e vagare per l’intero territorio tedesco.66
E gli alberi? Avanzano in modo talmente placido che nessuno ci pensa. Persino tra i forestali si dice che faggi & Co. sono troppo lenti perché riescano a sfuggire ai cambiamenti climatici migrando verso nord. Ma il problema non è che sono lenti, ma che vengono letteralmente trattenuti, dato che sono subito allontanati da qualsiasi posticino in cui i loro semi germogliano in modo non pianificato. Gli abeti rossi devono crescere nell’area X, i faggi nell’area Y; nell’appezzamento a fianco è autorizzata l’agricoltura, un altro è registrato come pascolo. Questa rigidità dei confini impedisce la realizzazione di ciò che la natura ha in programma: il cambiamento.
E qui torniamo al mio prato e… sì, mi dichiaro colpevole. Se costringiamo l’ambiente in una camicia di forza, come facciamo a capire come reagirà ai cambiamenti climatici? Le nostre specie arboree sono davvero troppo lente per mettersi in marcia verso il fresco Nord?
Credo che una possibile via d’uscita, a parte una generale difesa del clima attraverso il risparmio di energia, sia la creazione di un numero maggiore di aree protette. Abbiamo bisogno di boschi selvatici che formino una sorta di sistema – come i sassi che permettono di guadare un torrente senza bagnarsi. Ognuno di questi sassi corrisponde a una riserva; se ce ne fossero a sufficienza, la migrazione di specie selvatiche potrebbe avvenire liberamente attraverso il nostro paesaggio antropizzato, da un’area protetta all’altra. Se tali aree non fossero troppo lontane tra loro, allora forse potremmo davvero osservare come reagiscono gli alberi alle mutazioni climatiche. E magari si scoprirebbe che non hanno la minima intenzione di dirigersi verso nord.
Sappiamo già che, finché non vengono disturbati da pratiche legate allo sfruttamento commerciale, le faggete sono in grado di rinfrescare da sole la propria temperatura anche nelle estati calde. Ma quando alcuni esemplari vengono abbattuti, e la luce del sole riesce a penetrare asciugando e riscaldando l’aria, gli alberi si trovano in difficoltà. La soluzione è tanto chiara quanto ovvia: meno consumo di legna = meno consumo di energia = meno cambiamenti climatici = boschi più sani e con maggiore capacità di adattamento. Se questo accadesse almeno su una parte del territorio, potrebbe esserci speranza per questi lenti giganti del regno vegetale.
In molti casi le conseguenze dell’intervento dell’uomo sulla natura sono più sottili e più difficili da cogliere rispetto, per esempio, all’abbattimento di alberi; ciò accade semplicemente perché causa ed effetto si trovano molto lontani tra loro.
Vent’anni fa sono andato con la mia famiglia, per la prima volta, nel Sudovest degli Stati Uniti, e quest’anno ci siamo ritornati. L’America del Nord ci ha conquistati. Lo spettacolo offerto dai parchi nazionali con le loro imponenti rocce d’arenaria lascia letteralmente senza fiato. Oltre che dalla flora e fauna di quelle distese disabitate, siamo stati colpiti in modo particolare proprio dalle bizzarre formazioni rocciose. L’Arches National Park deve addirittura il suo nome alla grande quantità di impressionanti archi naturali in arenaria che ospita.
Molti di questi archi giganteschi, nonostante le loro dimensioni, appaiono in realtà così fragili che il visitatore si chiede come possano ancora stare in piedi e aver sfidato per millenni vento e tempeste. Ma per parecchi di questi monumenti la domanda non si pone più: solo nel parco nazionale delle Canyonlands, dal 1977 sono crollati 43 archi, e probabilmente la responsabilità di questa tragedia per i turisti – ma soprattutto per le popolazioni native, per le quali gli archi hanno un significato religioso – va attribuita almeno in parte alle attività umane. Lo studio di un gruppo di ricerca dell’Università di Salt Lake City (Utah), infatti, ha rilevato che le rocce subiscono continue oscillazioni.
La maggior parte dei movimenti ha origine naturale. Oltre che dai terremoti, sono provocati anche dall’escursione termica, per cui durante il giorno la roccia si espande, mentre di notte si restringe nuovamente a causa delle temperature più basse, finché alla lunga l’arco non frana.
Per approfondire lo studio delle vibrazioni che sono alla base dei crolli, gli studiosi hanno posizionato dei sensori sul Rainbow Bridge, uno dei più alti archi naturali (circa 90 metri) e luogo sacro per gli indiani Navajo. Ai turisti non è consentito avvicinarsi; i ranger accompagnano i visitatori interessati fino a un punto di osservazione raggiungibile solo a piedi dopo aver percorso in barca un tratto di un braccio laterale del lago Powell. Lo scopo di tale prudenza non è tanto proteggere l’arco quanto rispettare i sentimenti religiosi delle tribù native. E d’altra parte non è dal turismo che viene la minaccia a questo monumento.
Come ha stabilito il team di Jeffrey R. Moore, nella roccia si evidenziano effetti derivanti da attività umane – effetti percepibili addirittura a intervalli di pochi secondi. L’origine sta infatti nel moto delle onde del lago Powell, che vanno a infrangersi dolcemente sulle rive. Il ritmo delle acque del lago, che dista diversi chilometri, può essere percepito e misurato anche sul Rainbow Bridge, sul quale provoca scosse lievi ma continue.67 E se si può misurare un movimento così leggero proveniente da un lago lontano circa 25 chilometri, non stupisce che vengano registrate anche le onde d’urto delle trivellazioni nell’Oklahoma, che si trova a 1600 chilometri di distanza. Se anche non è possibile stabilire in modo univoco cosa abbia causato i recenti crolli dei monumenti rocciosi, questi dati sono un chiaro esempio di come le nostre attività possano avere degli effetti sull’ecosistema anche a distanze notevoli.
A questo proposito tornano «a galla» anche le acque freatiche. Di fronte alla vicenda degli archi crollati mi è venuto in mente un pensiero che per il momento è comunque pura speculazione, dato che, a quanto mi risulta, non si è ancora indagato in questo senso: l’acqua presente nelle profondità del terreno contiene gas. Si tratta, tra l’altro, dell’ossigeno necessario per la respirazione di crostacei e altri animaletti, oltre che, naturalmente, dell’anidride carbonica da questi espirata. Che cosa succede quando si scuote una bottiglia di acqua gassata lo sapete bene: l’acido carbonico sfugge attraverso le bollicine, lasciando l’acqua più povera di gas e meno acida.
Possiamo paragonare il sottosuolo a una gigantesca bottiglia che viene di continuo agitata da tremori prodotti artificialmente. Questo non dovrebbe causare modifiche nel contenuto di gas e acidi? È una conseguenza verosimile perlomeno nei dintorni degli impianti di fracking, dove si utilizzano liquidi pressurizzati per fratturare il sottosuolo fino a una profondità di 3000 metri, una tecnica che provoca un gran numero di scosse. Inoltre questo metodo rilascia nel terreno molte sostanze chimiche, le cui particelle penetrano nelle fessure e spaccature degli strati lavorati, rivestendole. Mi chiedo che cosa potrebbero dire i crostacei ciechi su ciò che accade al loro ambiente.
Almeno nell’Europa centrale la maggior parte dei fiumi sotterranei che formano questo meraviglioso ecosistema è ancora intatta, ma nelle vicinanze degli insediamenti urbani, anche qui, ci sono stati cambiamenti drammatici. Da un lato, nel terreno filtrano sostanze tossiche provenienti da agricoltura e industria, dall’altro lato vengono costantemente pompate fuori ingenti quantità d’acqua: solo in Germania, dai rubinetti ne escono ogni giorno quasi 10 milioni di metri cubi. A ciò vanno aggiunti gli usi industriali dell’acqua, come nelle miniere a cielo aperto, che devono essere di continuo liberate dall’incredibile quantità di acqua di falda che le invade. 550 milioni di metri cubi solo in una miniera di lignite nei pressi di Colonia nel 2004: una volta e mezza la quantità di acqua potabile consumata nell’intera Germania. E gli effetti si sono sentiti nel sottosuolo corrispondente a una superficie di almeno 3000 chilometri quadrati. Un terreno nel quale scorrazzano anche esseri che non sono ancora stati scoperti e il cui influsso sul ciclo della natura ci è quindi sconosciuto.
Vi sono però anche estese regioni nelle quali le falde acquifere sono intatte; queste, insieme agli strati più profondi del terreno, rappresentano gli ultimi habitat inviolati dell’Europa centrale. Dunque non dovete andare troppo lontano per trovare una natura intonsa, che probabilmente è molto meno distante da voi rispetto al più vicino parco nazionale o area protetta; tuttavia è irraggiungibile.
Molto vicine e comprensibili sono invece le conseguenze dell’evoluzione dell’uomo negli ultimi 100.000 anni. E se avete la pelle chiara e gli occhi azzurri, allora quella che vi guarda dallo specchio ogni mattina potrebbe essere una specie in via di estinzione.