11. FAVOLE, MITI E BIODIVERSITÀ

Abbiamo visto fin qui una serie di relazioni all’interno della natura che a volte si sviluppano in modo complicato e nascosto. Non mi sono invece ancora addentrato in altre connessioni che forse ai vostri occhi risultano di gran lunga più evidenti. E questo per un motivo preciso: non esistono.

Per esempio, è dalla notte dei tempi che si prende in considerazione la comparsa di frutti su faggi e querce per prevedere il tempo. Un antico proverbio contadino recita: «Ghiande e faggiole sulle piante, l’inverno sarà pesante». O ancora: «Molte ghiande a settembre, tanta neve a dicembre». Per soppesarne la veridicità, chiediamoci innanzitutto: perché un albero dovrebbe farlo? Perché una produzione abbondante di semi dovrebbe essergli di aiuto per l’inverno, o comunque quali sarebbero le conseguenze indirette?

Purtroppo non ho una risposta. Quello che è certo è solo che ogni quercia e faggio si sintonizza con le altre piante della rispettiva specie fissando uno stesso ritmo di fioriture, in modo da produrre contemporaneamente una cospicua quantità di frutti a intervalli di qualche anno. Il motivo è il già citato incremento della popolazione di erbivori, che in questo modo non possono disporre di un’offerta costante di nutrimento. Tuttavia ciò non ha nulla a che vedere con l’inverno.

Ma facciamo un passo avanti: i boccioli (esattamente come le gemme delle foglie) vengono predisposti già nell’estate dell’anno precedente. Pertanto, se la pianta dovesse adeguare la propria produzione di semi alle temperature dell’inverno, dovrebbe intuirle con un anno di anticipo. La realtà è che faggi e querce non hanno mezzi diversi per prevedere il tempo rispetto a quelli che abbiamo noi uomini. Gli alberi sono in grado di prendere atto delle giornate che si accorciano o dell’abbassamento della temperatura. Di conseguenza, per esempio, regolano la caduta delle foglie in modo che sia conclusa prima dell’arrivo delle nevicate intense. Peraltro anche questa previsione del tempo a breve scadenza non ha sempre successo. In caso di brusche anticipazioni dell’inverno nel mese di ottobre, per esempio, i rami ancora verdi e carichi di fogliame si spezzano sotto il peso della neve umida: una lezione severa per le piante, dalla quale comunque, se sono ancora giovani, possono imparare qualcosa, cominciando a lasciar cadere le foglie con un po’ di anticipo. Questa però è semplicemente una misura precauzionale e non ha nulla a che fare con una capacità di prevedere i fenomeni atmosferici. Lo ribadisco: una previsione del tempo con un anno di anticipo è impossibile, anche per gli alberi.

D’accordo, ma come la mettiamo con gli scoiattoli? Anche a loro la credenza popolare attribuisce la capacità di prevedere gli inverni rigidi. Se fanno scorta di ghiande e faggiole con particolare solerzia e le mettono al sicuro, si dice, l’inverno sarà molto duro. Ma è proprio così? Scommetto che conoscete già la risposta. Naturalmente anche questi simpatici roditori non hanno un sesto senso per il meteo dei mesi a venire: no, l’impulso che li spinge alla raccolta è semplicemente legato all’offerta. Se gli alberi producono semi in abbondanza, quei folletti rossi possono nasconderne molti. Negli anni di pausa, quando grazie all’accordo tra le piante dai rami non pende quasi nulla, gli animali trovano poco o niente e pertanto non possiamo osservarli mentre sistemano abbondanti provviste.

Una via di mezzo tra mito e realtà sono quelle relazioni che in effetti esistono, ma alle quali vengono attribuite false interpretazioni. La più classica è, a mio parere, quella che riguarda la compresenza di zecche e ginestre. Le piccole vampire si troverebbero a proprio agio nei cespugli di ginestre: questa perlomeno è l’opinione comune. L’arbusto di ginestra è diffuso nelle regioni europee in cui l’Atlantico favorisce estati fresche e inverni miti, quindi anche da noi nell’Eifel. Qui, anzi, è presente in quantità tale che in alcune zone caratterizza il territorio. In primavera i cespugli sono carichi di fiori gialli simili a farfalle, così fitti che a stento si intravede il verde delle foglie sottostanti. Grandi siepi di ginestre punteggiano il paesaggio di un giallo brillante, e per questo dalle mie parti questa pianta è soprannominata «oro dell’Eifel».

Le zecche amano davvero la ginestra? La pianta è velenosa in ogni sua parte, e non solo per l’uomo: le sostanze presenti nei rami, nei fiori e nelle foglie hanno un effetto perlomeno scoraggiante anche sugli erbivori, tanto che caprioli, cervi e persino il bestiame al pascolo si tengono ben lontani dalle siepi. In presenza di un alto numero di animali le piante più gustose vengono decimate; la ginestra ha dunque un vantaggio nei confronti delle specie concorrenti e può diffondersi indisturbata – e lo fa caparbiamente e con successo. Per il trasporto dei semi la ginestra ha sviluppato diverse strategie. Al caldo del sole di mezzogiorno i baccelli esplodono e scagliano i semi sul terreno circostante. Essendo sferici, se si trovano su un pendio possono rotolare per qualche metro, allontanandosi ancora di più. Ma poiché questo non le basta, la ginestra si avvale anche della collaborazione delle formiche.

Già, eccole di nuovo, le sovrane segrete della campagna, in questo caso impegnate ad aiutare la ginestra a radicarsi ovunque, persino nei boschi. Lì in realtà per i suoi semi è un po’ troppo buio, ma loro hanno tempo: può capitare che restino nell’humus anche cinquant’anni, finché un giorno un temporale o le attività umane fanno cadere gli alberi. A quel punto i raggi del sole colpiscono il terreno e svegliano delicatamente i «belli addormentati», che germogliano velocemente e nel giro di un solo anno raggiungono il mezzo metro di altezza. Solo giovani alberi di altre specie o altri arbusti come i lamponi possono disturbarli, ma qui sono i caprioli ad accorrere in aiuto: cibandosi del fogliame fresco, tengono alla larga quell’ombra così fastidiosa per i piccoli di ginestra.

Nel frattempo, dal manto dei caprioli cadono degli ospiti che gli animali si portano in giro: le zecche. Si tratta di esemplari molto grossi, ormai allo stadio finale della loro esistenza; si riempiono completamente di sangue succhiandolo un’ultima volta, per poi lasciarsi cadere e rintanarsi nel cespuglio più vicino, dove depongono le uova e infine muoiono. I topi che si aggirano tra i cespugli, sfregando contro il fogliame, raschiano via le zecche appena nate, le quali ricominciano da dove si erano interrotte le loro madri: succhiano sangue. Anche loro si lasciano cadere dopo il pasto, crescono e compiono le loro mute. Successivamente, affamate, restano in agguato nella vegetazione – per esempio negli arbusti di ginestra – in attesa dei grandi mammiferi (magari anche di esseri umani). Pertanto vi sono molte zecche là dove ci sono molti caprioli, e questi a loro volta fanno sì che la ginestra si diffonda senza freni. Dunque le zecche non amano la ginestra, bensì i mammiferi. La ginestra è semplicemente una specie che approfitta degli erbivori e, così come le zecche, è presente in massa dove questi vivono. Ma zecche e ginestre, pur condividendo lo spazio, non dipendono le une dalle altre.

Gli alberi, pur senza volerlo, sono in grado di raggiungere insieme risultati incredibili, anche se questi non sono necessariamente rilevanti per la loro vita. Ogni anno in autunno va in scena uno spettacolo che mi ricorda un parco giochi per bambini, e in particolare le giostre. Le avete in mente? Quelle giostre in cui si sta seduti con le gambe rivolte verso l’esterno; se le si tiene raccolte verso di sé la giostra gira più rapidamente, se si allungano le gambe la velocità diminuisce. In effetti dubito che gli alberi trovino le giostre divertenti, ma ciò non toglie che tutti gli anni facciano qualcosa di simile. La contemporanea caduta delle foglie nell’emisfero settentrionale, infatti, fa sì che la Terra giri un po’ più in fretta, riducendo di conseguenza la durata del giorno. Non ci credete?

Be’, si tratta solo di piccole frazioni di secondo, quasi impossibili da percepire a causa di altri processi che vi si sovrappongono, ma si tratta comunque di un fenomeno misurabile. Sul nostro pianeta la maggior parte della terraferma si trova nell’emisfero boreale. Ed è qui che cresce la maggioranza delle piante. Una volta staccate e cadute a terra, le loro foglie si trovano circa 30 metri più vicine al centro della Terra (30 metri è la distanza media tra le cime degli alberi e il terreno). Questo spostamento di peso verso l’interno ha lo stesso effetto delle gambe raccolte dei bambini sulla giostra. In primavera, quando spuntano le foglie, si ha l’effetto contrario: le foglie fresche, ricche di acqua, portano il peso di nuovo verso l’alto, ossia, considerando un diverso punto di vista, lontano dal centro della Terra. Risultato: siamo un po’ frenati. Con una certa dose di fantasia possiamo dire che gli alberi ci fanno fare un giro di giostra. Ma poiché implica solo uno spostamento infinitesimale ed è accompagnata da altri fenomeni legati al centro di gravità, come le maree, questa sorta di piroetta è a sua volta una via di mezzo tra mito e realtà.

Un mito di tutt’altro genere è invece quello che riguarda la biodiversità: siamo convinti di fare qualcosa di buono per l’ambiente salvando singoli animali o piante, ma ciò è vero soltanto in pochi casi. Perché se il raggiungimento del nostro scopo richiede di modificare l’ambiente, finiscono nei guai altre specie. Ma procediamo con ordine.

Quando vediamo quanto è complessa l’interazione tra diverse specie, dobbiamo chiederci se siamo davvero in grado di comprendere correttamente le connessioni presenti nel mondo che ci circonda. Negli esempi che vi ho portato finora si è parlato di alcuni animali che si influenzano gli uni con gli altri secondo modalità piuttosto complicate. Ma come per un giocoliere, che all’inizio lancia in aria solo due palline e le aumenta via via, ogni volta che aggiungiamo un elemento nuovo – una nuova specie – la situazione si fa più ingarbugliata e meno chiara. In Germania il numero di queste «palline» corrisponde, secondo le conoscenze attuali, a 71.500 (comprendente animali, piante e funghi); nel mondo sono state identificate fino a oggi 1,8 milioni di specie.48

Tutto ciò già appare complicato ma in realtà lo è ancora di più, dato che esistono molte piante e animali che non sono stati ancora scoperti. Ho avuto occasione di parlare con un’entomologa, che in un certo senso appartiene a sua volta a una specie in pericolo. Per la ricerca su coleotteri, mosche e animaletti simili ci sono troppo pochi fondi e soprattutto scarseggiano le nuove leve tra gli studenti. Per questo sulla mappa delle specie scoperte in Germania ci sono ancora diversi spazi bianchi. Ai 71.500 protagonisti conosciuti si affianca dunque un numero imprecisato di specie, delle quali non conosciamo l’effetto sull’ecosistema. È dunque evidente che non siamo in grado di comprendere la natura nel suo complesso, ma questo, secondo me, in fondo non è necessario.

Dagli esempi fatti nei capitoli precedenti risulta chiaro quanto il sistema sia fragile e quali conseguenze possa avere la perdita anche di una sola specie. Consci di ciò, il nostro sforzo deve mirare a mantenere il più possibile intatto il territorio o a lasciarlo a sé stesso. Ma che cosa significa «intatto»? A chi dobbiamo affidarci a questo riguardo? Enti forestali e proprietari di aree boschive sostengono che i boschi destinati a essere sfruttati commercialmente sono un bene per la biodiversità. Il Terzo inventario nazionale dei boschi ha rivelato che in Germania l’età media degli alberi è di 77 anni. Urrà! L’opuscolo pubblicato dal ministero dell’Alimentazione e dell’agricoltura esalta l’importanza ecologica degli alberi antichi e sottolinea che da questo punto di vista qui da noi è tutto in regola.49 Affermazione che probabilmente contesterebbe, se potesse, il sirfide Brachyopa silviae. Questo piccolo aviatore è stato scoperto solo nel 2005 e in seguito riconosciuto non più di sei volte in tutto il mondo, dunque può essere considerato estremamente raro. E c’è un motivo.

Questo insetto, nonostante le ali, non si sposta molto volentieri e resta preferibilmente nei boschi, dove si sente a proprio agio. Qui scova le ferite nelle cortecce degli alberi, dalle quali filtra la linfa, il suo cibo preferito. O perlomeno la base del suo nutrimento, poiché sulla superficie della linfa si concentrano batteri e altri microorganismi, i quali formano una massa vischiosa che questo sirfide considera decisamente appetitosa. Ma i punti da cui fuoriesce la linfa si trovano solo su piante molto vecchie, che abbiano almeno 120 anni sul groppone. Di più sarebbe anche meglio. Dunque, se l’opuscolo del ministero si accontenta di un’età media di 77 anni dovremmo preoccuparci per il destino del sirfide della linfa.

Che tra l’altro fu scoperto solo per caso, come ha raccontato il dottor Frank Dziock.50 Aveva collocato trappole per insetti in zone alluvionate con lo scopo di catturare sirfidi per scoprire come reagiscono quando si alzano i livelli delle acque. In un primo momento non pensò di aver trovato nulla di particolare in quella trappola, finché non gli cadde lo sguardo su due punti sul dorso di una mosca. Quella caratteristica non apparteneva ad alcuna specie conosciuta, dunque doveva trattarsi di una specie non ancora scoperta.

Questo insetto, come abbiamo detto, ha bisogno di alberi vecchi e feriti. Ma nei boschi destinati allo sfruttamento commerciale gli alberi danneggiati sono a rischio, poiché vengono spesso abbattuti nelle operazioni di pulitura. Lo scopo a lungo termine è fare in modo che solo faggi e querce senza difetti possano rafforzarsi e crescere in altezza, per trasformarsi un giorno in prezioso legname da vendere. Una sfortuna per i sirfidi: le loro esigenze vengono completamente ignorate. È vero che qui e là vengono risparmiate alcune piante ai fini di protezione dell’ambiente, ma se si abbattono tutte le altre intorno questi «ultimi Mohicani» non riescono a diventare molto vecchi: se il sole raggiunge e riscalda il terreno che li circonda, infatti, viene loro a mancare il tipico clima freddo-umido del bosco. A ciò si aggiunge la distruzione della rete costituita da radici e funghi e che abitualmente soccorre gli alberi vecchi e malati: una rete decisiva per la salute di un bosco. Per questo vogliamo osservarla un po’ più da vicino.

Nel mio libro La saggezza degli alberi l’ho già descritto: il Wood Wide Web, ossia l’Internet del bosco (come l’ha definito, con un’espressione azzeccata, la rivista «Nature»). È costituito principalmente da funghi, i cui filamenti si diramano nel terreno collegando tra loro alberi e altre piante. I funghi sono tipi strani: non possono essere annoverati né tra le piante né tra gli animali, anche se assomigliano un po’ di più a questi ultimi. Fotosintesi: zero. Devono ricavare il nutrimento da altri esseri viventi, le pareti delle loro cellule contengono chitina, come quelle degli insetti, e alcuni di loro, come i funghi mucillaginosi, riescono persino a spostarsi. Ma non tutti i funghi sono amichevoli. L’armillaria, per esempio, attacca gli alberi per prendersi dalla corteccia le loro riserve di zuccheri e altre leccornie. Spesso con questa operazione causa la morte della sua vittima, dopodiché se ne torna nel terreno per passare a un’altra pianta della stessa specie. Gli alberi però non sono totalmente indifesi di fronte alle aggressioni dei funghi e degli insetti, bensì possono avvalersi degli avvertimenti che provengono dai loro simili. In alcuni casi questi emettono segnali odorosi che contengono informazioni sul briccone con cui si ha a che fare. A quel punto gli altri alberi possono depositare nella propria corteccia le difese adeguate, in modo da guastare l’appetito a insetti o mammiferi affamati.

Sfortunatamente spesso soffia un vento che spinge il messaggio di avvertimento in un’unica direzione. Contro l’effetto del vento deve entrare in atto un altro tipo di comunicazione, della quale si occupano principalmente le radici, che si collegano con quelle dei compagni e trasmettono le novità più importanti attraverso segnali chimici ed elettrici. Ma questa rete formata dalle radici non riesce a raggiungere gli angoli più lontani: a volte il passaggio delle informazioni viene interrotto dalla morte di un gigante della foresta primordiale.

Per superare questi «vuoti» intervengono i funghi. Analogamente alla fibra ottica di Internet, essi trasmettono messaggi di albero in albero grazie alle loro fibre sotterranee, così che in breve tempo tutto il bosco sa cosa sta accadendo. Ma questo servizio non è gratuito: in cambio i funghi ricevono da faggi, querce e compagni fino a un terzo della produzione derivata dalla fotosintesi in forma di zuccheri e altri carboidrati. Ciò priva le piante di molta energia, che corrisponde all’incirca alla quantità che utilizzano per formare le proprie parti in legno (il terzo rimanente serve per la corteccia, le foglie e i frutti).

Chi pretende molto deve anche essere affidabile nelle consegne. E i funghi sembrano essere esperti in questo, ma il compito non è sempre facile. Il Wood Wide Web, infatti, subisce delle pesanti interferenze. Per esempio in inverno i cinghiali perlustrano i boschi in cerca di faggiole, ghiande o tane di topi e nel farlo smuovono il terreno in profondità, distruggendo inevitabilmente le connessioni dei funghi in aree di parecchi metri quadrati. Questo però non è un gran problema per i funghi, che per sicurezza stendono diversi filamenti paralleli e quindi possono passare facilmente da quello ormai inservibile a quello intatto più vicino. Va anche detto che è del tutto ininfluente se in autunno andate a funghi e raccogliete porcini, gallinacci o boleti, sia che decidiate di estrarli con un movimento rotatorio sia che scegliate di reciderli (un’antica querelle tra amanti della natura), perché la ferita che causate viene risanata rapidamente sotto terra.

Oltre a trasportare informazioni e zuccheri da un albero all’altro, i funghi forniscono altri servizi. È il caso delle piante le cui radici faticano a ricavare le sostanze nutritive dal terreno: quando, per esempio, assorbono composti di fosfato, riescono a raggiungere solo quelli disponibili a distanza di pochi millimetri, che si esauriscono velocemente. Per fortuna i teneri stoloni vengono avvolti dalla ragnatela generata dai funghi che è connessa alla grande rete. In questo modo gli alberi si vedono consegnare a domicilio le sostanze desiderate, provenienti da terreni più lontani.

I funghi possono raggiungere un’età molto avanzata, ma anche loro all’inizio sono esseri molto piccoli, chiamati spore. Una spora ha un grande problema: quando ruzzola giù dal cappello finisce direttamente nel punto sottostante, che però è già occupato dal fungo madre, e ciò rende impossibile la diffusione nel territorio. Da un unico cappello possono cadere miliardi di queste sferette, e tutte desidererebbero spostarsi da lì – cosa piuttosto difficile in zone del bosco normalmente prive di vento. Ma qui entra in gioco la particolare struttura dei funghi.

Il loro frutti sono generalmente costituiti da un gambo con sopra un cappello, e questo ha un significato profondo, come ha scoperto il biomatematico Marcus Roper dell’Università della California (Los Angeles). Le spore cadono verso il basso dalle aperture nella faccia inferiore del cappello, così che sono protette dalla pioggia e non rischiano di raggrumarsi a causa dell’umidità. Lo stesso cappello emana del vapore acqueo, rinfrescando un po’ l’aria intorno. L’aria fresca scende lungo i bordi del cappello, raccoglie le spore e poi torna a scaldarsi come l’aria circostante. Di conseguenza, aria e spore risalgono anche fino a 10 centimetri al di sopra del cappello.51 A quel punto basta una leggera brezza per trasportare più in là i minuscoli passeggeri, e in questo modo la sopravvivenza di porcini & Co. è garantita.

La piccola spora può cadere dunque fortunatamente in un’area del terreno non ancora colonizzata. A quel punto distende alcuni dei suoi filamenti (ife) e si mette in attesa dei segnali delle radici delle piante. Se dai dintorni non arriva nessuna richiesta in forma chimica, la spora ritira le ife. Le sue riserve di nutrimento le permettono di fare diversi tentativi.52 Se avviene il contatto con la pianta desiderata, per esempio un faggio, può avere inizio una lunga, lunga vita. Perché riguardo alle età raggiunte i funghi non hanno nulla da invidiare agli alberi. Nel terreno di alcuni boschi americani sono stati trovati fasci di ife di antichissime specie di armillaria. Il record è per ora detenuto da un esemplare di Armillaria ostoyae che ha 2400 anni e si estende quasi per 9 chilometri quadrati.53

Il mondo dei funghi deve essere in larga parte ancora esplorato e là fuori nella natura, nel terreno che calpestate ogni volta che fate un passo, si nascondono innumerevoli segreti. Ma anche negli alberi sono all’opera alcune creature che riescono a vivere solo in determinate condizioni. No, non parlo degli scolitidi, che hanno preferenze alimentari tutto sommato semplici. Solo una cosa chiedono all’albero: che sia indebolito e pertanto incapace di difendersi. A quel punto all’insetto basta dare un bel morso alla corteccia o al cambio (cioè lo strato del tronco da cui si generano le cellule del legno e della corteccia). Poiché è facile trovare questa condizione nell’area di diffusione di una specie arborea (e dunque dello scolitide che predilige quella determinata pianta), tra questi insetti non ci sono specie in pericolo di estinzione. Ben diverso è il discorso per quanto riguarda i coleotteri «specializzati»: le loro pretese sono così precise che potremmo definirli dei veri pignoli. E questo talvolta è addirittura un eufemismo, come dimostra il caso del Tenebrio opacus, che si sente a proprio agio solo quando molte – molte – condizioni vengono rispettate.

Tutto comincia con un’antica faggeta in cui si è stabilita una coppia di picchi neri. I due considerano diversi chilometri quadrati del bosco come proprio territorio, e su quell’area estesa, lavorando qua e là sui tronchi, si costruiscono diversi ambienti in cui vivere. Per portare a termine il lavoro si prendono tutto il tempo necessario, dato che il legno è particolarmente duro. Diversamente da altre specie della stessa famiglia, infatti, i picchi neri cercano principalmente alberi sani – d’altronde, chi vorrebbe abitare in una casa marcia? Tuttavia i faggi sani sono particolarmente duri, persino per i picchi. Il loro cervello – a differenza di quello umano – è ben saldo nel cranio e non viene sballottato su e giù ogni volta che il becco colpisce ritmicamente il tronco; inoltre il cervello è protetto dai contraccolpi anche attraverso una sorta di speciale «sospensione» del becco che ammortizza le vibrazioni prima che giungano al cranio. Ciononostante, il legno giovane risulta davvero resistente, ma i picchi sono pazienti. Iniziano la loro opera beccando l’ingresso agli anelli più esterni, dopodiché abbandonano il cantiere anche per qualche anno.

Durante questo tempo i funghi prendono il comando. Una manciata di minuti dopo il primo colpo di piccone – o meglio, di becco – sono già sul posto. Ogni metro cubo di aria è pieno delle loro spore, che si posano immediatamente nelle parti ferite. Lì cresce un nuovo fungo, che disgrega il legno mentre lo divora. In questo modo lo rende morbido e friabile, così che la nostra coppietta, dopo anni di attesa, può finalmente continuare a costruire senza rischiare dei gran mal di testa. Quando il buco è terminato, è giunto il momento di mettere su famiglia. Anche se va detto che le cose non filano sempre così lisce, perché a volte capita che altri uccelli importuni abbiano adocchiato la casa e cerchino, per così dire, di prenderla in affitto. Al picchio nero basta qualche energica minaccia per sbarazzarsi della timida colombella. La taccola, invece, testardamente, si piazza lì e tiene la posizione, e in quel caso il picchio deve ricominciare da capo il suo progetto. Per fortuna i picchi neri hanno una bella riserva di abitazioni, e questo anche perché spesso maschi e femmine preferiscono dormire in letti separati.

Con il passare dei decenni questi buchi negli alberi marciscono lentamente e il loro pavimento sprofonda verso il basso, finché non diventa troppo profondo per i piccoli dei picchi neri, che non riescono più a raggiungere l’apertura dalla quale un giorno dovrebbero spiccare il volo. A quel punto tornano in gioco le discrete colombelle, che arrivano portando con sé del materiale da nidificazione – cosa che non era venuta in mente ai picchi – col quale rialzano il fondo della cavità nell’albero. Pian piano il legno marcisce ancora, così come l’apertura d’ingresso, il cui diametro si amplia fino al punto che anche i gufi riescono a infilarsi all’interno. Questi ultimi si trovano a proprio agio nelle cavità, che ormai hanno assunto dimensioni ragguardevoli, e vi soggiornano anche per anni. Anche un paio di topi selvatici dal collo giallo si accomodano nel buco caldo e asciutto, da dove lasciano cadere avanzi di cibo e scaglie di pelle.

Ed ecco che entra in scena il nostro tenebrione. È solo adesso, una volta che gli inquilini sono andati e venuti secondo l’ordine appena descritto, che decide di mettersi comodo. Il motivo risiede nei suoi gusti alimentari: lui e le sue larve prediligono un mix di legno sbriciolato e ridotto quasi in farina dall’azione dei funghi, resti di insetti, brandelli di piume e scaglie di pelle, e tutte le altre cosucce lasciate cadere dagli affittuari del buco – Buon appetito!54 Non c’è da stupirsi che questo coleottero e le specie a lui simili siano in pericolo. Infatti gli alberi che marciscono sempre più col passare degli anni non sono molto amati nei boschi destinati a sfruttamento commerciale. Spesso, ai primi segnali di danneggiamento da parte dei picchi, vengono abbattuti e venduti prima che il legno, marcendo dall’interno, perda valore. Se anche qua e là resta in piedi qualche esemplare per garantire un minimo di conservazione della specie, questi sopravvissuti solitari non servono comunque a molto, visto che è necessario un gran numero di simili buchi per assicurare l’esistenza di questa comunità dall’equilibrio così delicato.

Dunque al Tenebrio opacus le cose non vanno meglio che al sirfide citato poco sopra. E per conservare queste e altre specie non ci resta che una cosa da fare: invece di tentare un salvataggio preservando qui e là singoli alberi altrimenti destinati all’abbattimento, dovremmo sottrarre grandi superfici boschive allo sfruttamento commerciale. L’affermazione che la silvicoltura regolata può combinare al meglio economia e protezione della natura rientra pienamente nel novero di miti e leggende.

Così come non sono del tutto indifesi di fronte agli attacchi degli scolitidi, gli alberi non devono neppure accettare senza lamentarsi qualsiasi capriccio del clima. Non solo riescono a sopportare grosse variazioni di temperatura, ma sono anche in grado di influenzare il tempo, come vedremo nel prossimo capitolo.