14
L’uomo sulla Luna
La rivincita di Harold Barrington, 1965
Tatiana e Alexander guardano Anthony. Stamane ci sono solo loro tre in cucina, proprio come un tempo. I bambini dormono ancora. La mattina è il momento preferito di Tatiana, nella sua stanza preferita. La stanza, proprio come l’avevano sognata, è di un bianco accecante, con pavimenti di calcare biancastro, lustri pensili bianchi, elettrodomestici bianchi e tendine giallo pallido, e tutte le mattine la luce del sole sorge in cucina e si spande per la casa locale dopo locale. La mattina si riuniscono qui per preparare caffè e cereali, per mangiare i croissant e la marmellata preparati da Tatiana.
Ma questa mattina presto, alle sette e mezzo, Anthony è l’unico a mangiare, seduto su un alto sgabello accanto all’isola mentre suo padre e sua madre stanno sull’attenti lì davanti. Alexander, simile a una colonna, si limita a restare immobile. Tatiana stringe lo schienale della seggiola. Come se non li vedesse, Anthony beve il caffè e prende il secondo croissant.
“Riposo, gente”, dice. “Mi fate andare di traverso tutto quanto.”
I genitori non si muovono.
“Mamma, la marmellata è incredibile. Cos’è, mirtillo e lampone?”
Anthony! vorrebbe urlare Tatiana. Anthony. E senza parole davanti al suo primogenito. Ventidue anni fra tre settimane. Tatiana ha una bimba di due mesi, che sta ancora allattando, e due piccini alle elementari. E due giorni fa Anthony si è laureato a West Point. In questa luminosa mattinata dell’Arizona, Tatiana e Alexander aspettano che il ragazzo comunichi loro cosa intende fare, come intende fare il suo ingresso nel mondo. Lei sente il marito così teso alle sue spalle che arretra, gli stringe il braccio, gli guarda la faccia impietrita, sussurra: “Ssst” e quindi: “Tesoro, hai sentito Harry in cortile? Perché è già sveglio?”
“È convinto di poter catturare una lucertola velenosa di prima mattina”, risponde Alexander, senza staccare gli occhi da Anthony. “Crede sia come pescare.” Ritrae il braccio. “Anthony, ti spiace se ne discutiamo più tardi? Devo salvare Harry da se stesso.”
“Se devi andare, vai, papà”, afferma il ragazzo, senza alzare gli occhi dal giornale. “Devo essere alla Luke Air Force Base alle dieci.”
“Non devo andare, ma una volta che arrivano i piccoli, sarà impossibile discutere, come ben sai”, replica Alexander. I ragazzini sono rumorosi, soprattutto i maschietti. Come cani selvatici, non stanno mai fermi. Janie è un po’ più tranquilla, ma non bisogna mai perderla di vista. Tempo un anno, e non ci saranno più conversazioni adulte fino all’ora del sonnellino.
Anthony! Vedi cosa stai facendo al cuore di tuo padre, al cuore di tua madre? Non riusciamo a parlare, la gola così piena di orgoglio, di amore e di paura per te.
“Rimandiamo a dopo, allora”, concede Anthony, la testa china sul quotidiano. “Sono appena arrivato. La mia prima mattina a casa. Mi fermerò per due mesi. Per favore, possiamo rilassarci...”
“Anthony...” È Tatiana. Finalmente interviene. Pronuncia soltanto il suo nome.
Il giovane sospira, si pulisce la bocca, chiude il giornale. E poi si alza. Così ora Anthony è da un lato, Tatiana e Alexander dall’altro. Tutti rigidi come pali.
Con l’alta uniforme candida, il ragazzo preleva il berretto bianco dal granito nero e se lo mette. È un laureato di West Point, un tenente. In cambio di un’ottima istruzione nella più prestigiosa accademia militare degli Stati Uniti, deve al governo americano altri quattro anni di servizio attivo. Lo sa. Sua madre e suo padre lo sanno.
E la Risoluzione del Golfo del Tonchino è stata approvata all’unanimità. Le truppe americane si imbarcano a poco a poco sugli aerei diretti verso l’Asia sud-orientale.
Negli ultimi nove mesi Alexander ha contattato tutti i suoi conoscenti dei servizi segreti militari e della nuova Defense Intelligence Agency, cercando di procurare al figlio un posto che fosse all’altezza delle sue capacità, che assolvesse il suo obbligo di servizio attivo e soprattutto che fosse nel Paese. Finalmente, quattro settimane fa, il direttore della DIA gli ha promesso che l’avrebbe assunto nel suo stato maggiore speciale. Avrebbe riferito direttamente al capo del dipartimento che rappresenta il principale fornitore di informazioni militari internazionali per gli Stati Uniti. Il ragazzo ha ricevuto l’offerta scritta ufficiale da quindici giorni.
Anthony è alto, robusto, con i capelli neri e gli occhi scuri. È figlio di suo padre in ogni tratto fisico tranne uno: ha la bocca di Tatiana. Gli uomini non hanno bisogno di una bocca così piena per attirare le api verso il nettare, ma Anthony ce l’ha. È giovane, idealista, bellissimo. Spacca il cuore.
Tatiana e Alexander abbassano la testa. Anche se ormai il figlio ha quasi le dimensioni del suo enorme marito, del suo esuberante Alexander, lei vede davanti a sé un Anthony di quindici mesi, un bimbetto bruno e paffuto, seduto nell’appartamento di New York, intento a mangiare croissant, le manine tozze coperte di briciole e luccicanti di burro. Le sorride con i suoi quattro denti da latte, lì nell’appartamento solitario senza il suo papà, che arranca tra il fango e il sangue della Vistola con il battaglione penale. Tatiana si domanda cosa veda Alexander.
“Allora, figliolo, cos’hai deciso?” chiede lui.
Anthony guarda solo la madre, che batte le palpebre con cautela. “Quella della DIA è un’offerta favolosa, papà”, risponde. “So che cerchi di aiutarmi, lo apprezzo. Ma non intendo accettarla.” Con un sospiro, smette di guardarli. “Vado in Vietnam.”
Il silenzio cala sulla cucina immacolata. Una porta sbatte da qualche parte sull’altro lato della casa. Due bambini corrono, corrono. Si odono i tonfi dei loro piedini.
Tatiana tace, Alexander tace, ma lei lo sente contrarsi.
“Forza, gente”, prosegue Anthony. “Credevate davvero che dopo essere sopravvissuto al programma di addestramento Beast Barracks e al mio sergente istruttore, il Re delle bestie, volessi rinchiudermi in un ufficio della DIA?” È indifferente, disinvolto. Può permetterselo. Ha solo ventidue anni. Un tempo anche loro hanno avuto ventidue anni.
“Anthony, non essere ridicolo”, lo contraddice Alexander. “Non ti rinchiuderanno in un ufficio. Si tratta dei servizi segreti militari, per l’amor di Dio. Si tratta di supporto logistico, e lo sai.”
“È proprio questo il problema, papà. Non voglio occuparmi del supporto logistico. Voglio combattere.”
“Non essere” - Alexander si interrompe per tenere la voce bassa - “Non essere stupido, Anthony...”
“Ascolta, ho deciso. Ho parlato con Tom Richter. È cosa fatta.”
“Oh, ne hai parlato con Richter!” Impossibile tenere la voce bassa.
“Vuole raccomandarmi per la 2a divisione aerea della compagnia A”, continua Anthony. “Un turno con loro, e forse riesce a procurarmi un posto nelle forze speciali con lui per il prossimo giro.”
“Il prossimo giro?” gli fa eco Tatiana, incredula.
Nessuno si muove.
“Mamma, papà, sapete che siamo in guerra, vero?”
Tatiana si accascia su una sedia e stende le braccia sul tavolo, i palmi all’ingiù. Il braccio di Alexander le si posa sulla schiena, sulla spalla.
“Mamma, dai”, dice Anthony.
“Ormai è troppo tardi per confortare tua madre, cazzo”, lo rimbecca Alexander. “Perché tutta questa farsa? Perché non dircelo il giorno della laurea, al Four Seasons? Evidentemente Richter lo sapeva già. Perché non informare anche noi?” Ha il tono sconvolto, ma appoggia le mani ferme su Tatiana. Lei sa di doversi alzare per calmarlo; purtroppo non riesce a calmare nemmeno se stessa. Ha bisogno delle mani di lui.
“Anthony, per piacere”, sussurra. “Non devi dimostrare niente a nessuno.”
È così alto... Gli occhi marroni scintillanti, i suoi folti capelli neri. È così traboccante di giovinezza impossibile. “Non voglio dimostrare niente a nessuno”, dichiara. “Riguarda soltanto me.”
Tatiana e Alexander lo fissano con rabbia, e lui, incapace di sopportare il loro duplice sguardo angosciato, distoglie gli occhi.
“Mi sono laureato a West Point”, rammenta loro. “Eisenhower, Grant, Stonewall Jackson, Patton, MacArthur, santo cielo ! Mi sono laureato nella scuola che prepara guerrieri. Cosa volete che faccia? Perché pensavate che fossi andato all’accademia militare?”
“Per ricevere un’istruzione eccellente”, dice Alexander in risposta a quella domanda retorica. “Intelligence militare per la strategia e la pianificazione, per l’acquisizione delle armi nell’Asia sud-orientale. Parli bene il russo. Assistenza bilingue per i documenti sovietici che rivelano la portata del loro massiccio sostegno al Pathet Lao e all’NVA, l’esercito nord-vietnamita. Lavoreresti per il direttore della centrale di comando dell’intera intelligence militare statunitense. È un’opportunità straordinaria.”
“Hanno già te per quello”, ribatte il ragazzo. “Dato che c’è un posto disponibile, prenditelo, io non ho intenzione di restare seduto ad analizzare dati.”
“Sei incredibile, cazzo.”
“Ssst!” fa Tatiana. E le mani di Alexander si staccano dalle sue spalle.
“Non voglio litigare ancora con te”, continua Anthony rivolto a suo padre. “Non voglio. Non voglio trascorrere i prossimi due mesi in questa casa a litigare con te. Se questa dovrà essere la mia vita quaggiù, parto subito e torno a New York.”
“Anthony!” urla Tatiana.
“Allora vai!” grida Alexander. “Porta quel culo fuori di qui! Chi ti trattiene?”
“Alexander!” strilla Tatiana. “Tutti e due, per favore!” Loro ansimano, lei ansima. “È pazzesco”, osserva. “Anthony, hai una possibilità imperdibile di rimanere negli Stati Uniti. Perché non vuoi sfruttarla?”
“Perché non la voglio!”
“Come puoi dirlo sapendo quanto tuo padre si è dato da fare per aiutarti?”
“Gli ho forse chiesto di aiutarmi? Chi gli ha chiesto aiuto?”
“Esatto”, sbotta Alexander. “Esatto, cazzo. Allora vai, cosa aspetti? Un passaggio?”
“Alexander, no!” lo supplica Tatiana, voltandosi nella sua direzione.
“Tania, stanne fuori!”
Anthony abbassa la testa.
Prima che pronuncino un’altra parola dura, due bambini dai capelli così chiari da sembrare bianchi fanno irruzione in cucina come chiassosi cespugli rotolanti. Gordon Pasha ha sei anni, Harry cinque. Dando un’allegra pacca ad Anthony, gli passano accanto per correre da Alexander; il primo gli si appende a un braccio, il secondo all’altro. Tatiana indietreggia quando suo marito li solleva in aria e li sostiene entrambi. Alexander si è portato dietro Pasha per i primi sedici mesi di vita del piccino, prima sul petto, poi sulla schiena. E poi si è portato dietro Harry. Faticava persino a cederglieli per le poppate.
Saranno anche biondi come lei, ma hanno i passi lunghi e l’andatura spavalda del loro papà, parlano come lui, tengono in mano i loro martelli di plastica e guidano i loro camion di plastica come lui, hanno i capelli corti, sferrano pugni al tavolo e talvolta, quando necessitano dell’attenzione materna, dicono: “Ta-TIA-na!” nel suo stesso tono. Si rotolano e giocano sopra di lui senza paura, nutrendo nei suoi confronti una venerazione incondizionata, senza zavorre.
“Anthony”, domanda Harry, “perché sei ancora vestito da gelataio?”
“Tra un po’ devo andare a una base dell’aeronautica, ometto.”
“Posso venire?”
“Posso venire?”
Senza rispondere ai due fratellini, il giovane chiede ad Alexander, indicando il più grande: “Quando hai chiamato mio fratello Charles Gordon, cosa pensavi che sarebbe diventato?”
E Pasha si intromette: “Un dottore. Per guarire le persone come la mamma. E mi chiamo Pasha”.
E Harry aggiunge, il braccio intorno al collo di Alexander: “E io voglio fabbricare armi come papà. Dovresti vedere la lancia con cui ho catturato una lucertola”.
Per poco Tatiana non scoppia a piangere: ricorda Anthony che rincorreva le lucertole sul loro terreno deserto quando aveva quattro anni.
“Scemo”, dice Pasha, allungando il braccio oltre Alexander e tirando i capelli a Harry. “Scemo. Papà non fabbrica armi. Tranne le lance di legno, ma quelle non contano.”
“Mamma, ho fame”, piagnucola l’altro.
“Anch’io”, annuncia Pasha.
Da un punto lontano della casa provengono i vagiti insistenti di una neonata.
“Sai una cosa, Anthony?” riprende Alexander ad alta voce. “Questa faccenda non riguarda Pasha, e nemmeno me e te. Riguarda soltanto te.”
“Hai proprio indovinato”, approva il ragazzo a voce altrettanto alta.
Pasha e Harry guardano con stupore il padre, il fratello e quindi la madre, che bisbiglia loro: Scendete e uscite. Subito.
Alexander, torvo, tenendo ancora i bambini e cercando di addolcire il tono dice: “Ragazzi, avete sentito come strilla Jane? Avete sentito come chiama? Andate da vostra sorella, per favore. Io arrivo subito. La prepariamo, poi la mamma ci dà da mangiare”.
I piccoli saltano giù, urtando Anthony mentre scappano via.
“Anthony”, lo invita Harry, “vieni a nuotare con noi. Voglio mostrarti il mio tuffo carpiato in avanti.”
“Dopo, ometto. E io ti mostro il mio tuffo carpiato all’indietro.” Gli posa la mano sulla testa.
“Anthony”, interviene Pasha, “avevi promesso di suonarci Do Wah Diddy.”
“Certo. Quando torno dalla Luke.”
I due diavoletti schizzano fuori dalla cucina e si precipitano lungo il corridoio, cantando Do Wah Diddy...
“Credi di essere tanto furbo a fare quello che ti pare?” chiede Alexander ad Anthony appena i bimbi spariscono. Tatiana vorrebbe toccarlo, ma non ci riesce. “Non ci hai avvisati prima di accettare il posto a West Point, sai com’era turbata tua madre...”
“Pensavo che avreste cercato di dissuadermi”, controbatte il ragazzo, “e avevo ragione, vero? Guardatevi ora.”
“E adesso non ci avvisi prima di arruolarti volontario per i combattimenti? Cristo santo, Anthony! Credi si tratti solo di fare il contrario di quello che voglio io, di quello che vuole tua madre? Non sei più un quindicenne che rincasa tardi. Non devi più darmi a bere qualche scusa. Devi scegliere la strada della tua vita, da cui non potrai tornare indietro.” Alexander trae un profondo respiro. “Perché, per una volta, non pensi a te stesso anziché pensare a far infuriare me!”
“Oh, Dio, tu non c’entri!” sbraita Anthony.
Tatiana si morde il labbro e chiude gli occhi perché ora...
“Non alzare la voce con me in casa mia, cazzo”, tuona Alexander, avanzando.
Il giovane indietreggia, senza più fiatare.
“Perché disturbarti a dircelo?” continua suo padre. “Perché non spedirci una lettera da Kontum? Indovinate dove sono, gente. Tanto è quello che stai per fare. Perché venire qui?” Solleva il braccio. “Vai, addestrati a Yuma. Tua madre ti promette di inviarti pacchi di sopravvivenza. Te ne manderà uno a Yuma. Te ne manderà uno a Saigon.” Si gira, prende Tatiana per il braccio. “Andiamo.”
Fulminando Anthony con un’occhiata e cercando di liberarsi, lei replica: “Arrivo subito, tesoro. Dammi un minuto”.
Alexander la tira. “No, Tania. Andiamo. Basta parlare con lui. Non capisci che è inutile?”
Lei lo guarda, posandogli una mano sul petto. “Solo... un minuto, Shura. Per piacere.”
Lui la molla, esce, e appena scompare, Tatiana si volta verso Anthony. “Cosa ti prende?” chiede, furibonda.
Si accorge che il figlio non è in grado di sopportare la sua ira. Strano che riesca a tollerare la rabbia di Alexander, ma una parola irritata da parte sua, e precipita nel silenzio e nell’incertezza. “Mamma, questo Paese è in guerra. So che non la chiamano così... Conflitto, disaccordo, chi più ne ha più ne metta. Ma è una guerra! Ci sarà una coscrizione da un momento all’altro. Se non presento subito la richiesta, Richter non riuscirà a farmi entrare nella 2a divisione aerea.”
Lei gli si avvicina. Anthony la supera di una testa e mezza ed è largo il doppio, ma quando gli si accosta, si lascia cadere su una sedia per permetterle di sovrastarlo. “Figliolo, per favore”, insiste Tatiana. “Non ti arruoleranno se lavorerai per il direttore della DIA. Papà te l’ha promesso.”
“Mamma, sono andato a West Point, non a Harvard. Il mio futuro è nell’esercito statunitense. Vado dove hanno bisogno di me. In Vietnam. Non hanno bisogno di me ai servizi segreti militari.”
La madre gli afferra le mani e se le preme contro. “Anthony, sai cos’ha passato tuo padre, lo sai meglio di chiunque altro! Sai dove sono stati i tuoi genitori. La guerra, figliolo. Non abbiamo letto della guerra... L’abbiamo vissuta, e l’hai vissuta anche tu. Sai che i ragazzi ci muoiono, no? E quelli sono fortunati. Gli sfortunati tornano come Nick Moore. Te lo ricordi? O tornano che sono una via di mezzo, come tuo padre. Ricordi tuo padre, no? È questo quello che vuoi?”
Senza ritrarre le mani, Anthony dichiara: “Innanzitutto io non sono lui”.
Spingendolo via, Tatiana indietreggia. “Sai una cosa?” dice con freddezza. “Dovresti aspirare a diventare la metà dell’uomo che è tuo padre. Perché non impari a incedere con grazia e valore?”
“Ah, sì, certo”, fa Anthony, annuendo. “Come ho potuto dimenticarlo? Se solo fossi all’altezza dei suoi standard impossibili.” La fissa con intensità. “E sono senza dubbio molto esigenti.”
“Be’, di sicuro non è questo il motivo per cui ti sei arruolato in Vietnam, vero?” urla Tatiana. “Cosa vorresti dimostrare?”
“So che trovi difficile crederci, mamma”, risponde, stringendosi nelle spalle, “ma tutto questo non ha niente a che fare con te. O con lui.”
Lei si limita a fissarlo con occhi cupi.
Scuotendo la testa, Anthony aggiunge: “È così! Non vedi che voglio vivere la mia vita?”
“Che razza di ribellione è?” sbotta Tatiana. “Seguire le orme di tuo padre?”
“È chiaro che ai tuoi occhi nessuno ne è in grado.”
“Non così, no.” Si avvicina per toccarlo, per abbracciarlo; è così triste per lui, e Anthony leva le mani, quasi per proteggersi.
“Papà mi ha sempre detto di scegliere quello che volevo essere. Be’, questo è quello che scelgo. Questo è quello che voglio.” Batte le palpebre.
“Tuo padre”, mormora Tatiana, “non voleva andare in guerra. Non aveva scelta. Credi che abbia passato quello che ha passato, per salvarci, per salvarsi, affinché il suo primogenito combattesse contro i Vietcong?” È così arrabbiata da non sopportare più la presenza del figlio; si volta per andarsene. Non vuole che la veda piangere.
Prendendole la mano, Anthony non la lascia uscire. Riportandola indietro, la guarda con espressione pentita. “Mi dispiace, mamma. Non avercela con me, per favore”, la prega. “West Point è stata una mia scelta, è vero, ma questa non lo è. Ora devo andare. Proprio come lui doveva andare, io devo andare. Non so perché papà perda tempo lottando contro l’inevitabile.”
Da qualche parte della casa, tre bambini strillano. Nemmeno Alexander riesce a zittire a lungo i due maschietti. Una volta ha gridato a Harry con voce tonante: “Datti una calmata!” E il bimbo, con la stessa voce tonante, gli ha gridato: “Mi do una calmata quando sono morto!” Anche se da allora non ha più urlato contro suo padre, non si è nemmeno dato una calmata.
Tatiana si china su Anthony, la mano sui suoi capelli a spazzola. “Non essere in collera con papà, tesoro”, bisbiglia, baciandogli la testa. “Cerca solo di salvare suo figlio in tutti i modi che conosce.” Corre via, incapace di spiegargli perché Alexander lotta sempre contro l’inevitabile.
La lunga linea grigia
Anthony trascorse l’estate a casa, giocando alla guerra e in piscina come un forsennato con i suoi fratelli, e partì per il Vietnam nell’agosto del 1965. Pasha, Harry e Janie sentirono la sua mancanza quando se ne andò.
Ogni giorno, quando Alexander rincasava, la prima cosa che domandava dopo aver baciato Tatiana era: “Qualche notizia?” Intendendo Qualche lettera? Qualche telefonata?
Chiamava durante il giorno, chiedendo: “È arrivata posta?”
E se la posta arrivava e conteneva notizie da La Chu, dal Laos, da Dakto o da Quang Tri, si portava le sigarette nel giardino davanti alla camera padronale, sedeva da solo e leggeva le missive del figlio.
I capelli gli si erano leggermente ingrigiti. L’implacabile sole dell’Arizona gli aveva scurito il viso. Aveva qualche ruga intorno agli occhi. Ma i geni della madre italiana e del padre pellegrino erano buoni. Pur avendo messo su qualche chilo, lavorava troppo e si allenava troppo a Yuma per sentire il peso degli anni. Dritto, con le spalle larghe, vigile come sempre, si trascinava dietro la sua possente corporatura con un messaggio implicito ma chiaro: Che non ti salti in mente di fare il furbo con me. Era impossibile non capire che era un militare.
Com’era successo durante la guerra in Corea, i suoi incarichi di supporto logistico aumentarono. Spesso passava più di diciassette giorni l’anno a Yuma, che ospitava ancora la più vasta struttura del mondo per il collaudo delle armi. Alla fine degli anni Cinquanta e all’inizio degli anni Sessanta, quando i suoi figli erano ancora neonati e bambini piccoli, e Anthony dava loro una mano, Tatiana accompagnava Alexander una volta al mese, e i loro passeggini erano allineati con gli altri fuori dagli alloggi per le coppie sposate. Quando i bimbi erano diventati troppo grandi per i passeggini, e Anthony era andato a West Point, ed era nata Janie, l’immensa Yuma era divenuta troppo piccola per quei due maschietti pestiferi e la loro sorellina, convinta di essere un maschio pure lei. La scelta era stata tra darsi una regolata o restare a casa con la mamma, mentre papà andava da solo, traducendo volumi di dati provenienti dai servizi sovietici e dedicandosi a lunghi addestramenti e ai collaudi delle armi.
Harry e Pasha si erano dati una regolata.
Nel 1966, dopo la sua famosa traduzione delle critiche che i sovietici avevano riversato sulla prima generazione di M-16 (la versione americana del kalashnikov, che tendeva a incepparsi se non la pulivi), Alexander venne finalmente promosso a maggiore dopo essere stato capitano per vent’anni. Richter gli inviò un telegramma di congratulazioni da Saigon: “MALEDETTO BASTARDO. IO SONO ANCORA TENENTE COLONNELLO”.
Alexander gli rispose: “MALEDETTO BASTARDO. QUANDO TORNA MIO FIGLIO?”
Dopo un turno di dodici mesi con la 2a divisione aerea Anthony si arruolò per un secondo turno e iniziò ad addestrarsi sotto Richter, che, poco distante da Kontum, era a capo di un avamposto del comando centrale delle forze speciali dal nome pittoresco e innocuo: gruppo di studi e osservazione. Il ragazzo entrò a far parte di un’unità terrestre per le operazioni speciali di guerra clandestina. Guidò una squadra di ricognizione, guidò una squadra SLAM (Search, Locate, Annihilate Mission), un reparto Hatchet. Diventò un Berretto Verde. Si arruolò per un terzo turno e superò un cruento 1968, superò il Tet, si arruolò di nuovo e superò l’offensiva primaverile dei Vietcong nel 1969. All’inizio del luglio 1969, durante una delle sue missioni di ricognizione, sottrasse ai Vietcong documenti secondo i quali il nemico era molto più numeroso e rifornito di quanto fingesse il comando supremo statunitense, e secondo cui l’NVA aveva gonfiato notevolmente il numero delle vittime americane, sostenendo che erano morti quarantacinquemila soldati mentre la cifra effettiva era 1718, contro 24.361 nemici uccisi. Lo promossero capitano.
Le copie delle sue sette citazioni al merito arrivarono a casa. Due Purple Heart per una ferita alla spalla e una scheggia di granata nella gamba, due Stelle d’argento, due Stelle di bronzo e una Croce per servizi prestati con onore durante un assalto nel Laos con il suo plotone di ricognizione a lungo raggio. Dopo la promozione la lettera di Richter diceva: “IL GRADO HA I SUOI PRIVILEGI: ALMENO ORA IL NOSTRO RAGAZZO SOVRINTENDE A GRUPPI DI STUDI TERRESTRI ANZICHÉ GUIDARE IMBOSCATE LUNGO LA PISTA DI HO CHI MINH”.
In quegli anni Alexander si meravigliava che la sua vita continuasse. Vide crescere come virgulti i suoi tre bambini biondi, comprò alberi di Natale, seguitò a costruire grandi case personalizzate, assunse nuovo personale. Johnny si licenziò e si sposò due volte. Amanda piantò Shannon, ebbe tre figli da un operaio stagionale del Wyoming e scomparve oltre il confine di Stato. I Barrington andarono in vacanza a Coconut Grove e a Vail, in Colorado, cosicché i bimbi vedessero una cosa chiamata neve.
Uscirono con gli amici, giocarono a carte, andarono a ballare, nuotarono. Nel 1967 festeggiarono il loro venticinquesimo anniversario di matrimonio viaggiando per sette ore in groppa a un mulo fino a Phantom Ranch, vicino al fiume Colorado; festeggiarono con un maturo amore coniugale, con i sussurri di Alexander e le lacrime di Tatiana.
Ogni sera, quando Alexander rientrava, la casa profumava di cibo e pane fresco, e Tania era elegante e sorridente. Lo accoglieva sulla soglia e lo baciava, i magnifici capelli sciolti sulle spalle. Alexander annunciava: “Tania, sono tornato!” e lei rideva, proprio come aveva riso quando aveva diciassette anni a Leningrado, nel Quinto Soviet. Si prendeva cura di lui, dei suoi figli, della sua casa, della sua vita, come aveva fatto a Coconut Grove, come aveva fatto a Bethel Island.
Vissero mentre il loro primogenito era tra il fango dei monti di Dakto. Vissero mentre era in Cambogia, nel Khammouan e mentre era impegnato a cacciare i Vietcong da Khe Sahn. Vissero mentre combatteva sul fiume Perfume a Hué. Vissero e si sentirono in colpa, inviarono pacchi di sopravvivenza e si sentirono meglio, ricevettero sue notizie e si sentirono ancora meglio. In quegli anni Anthony non tornò mai in America, ma telefonava a Natale e parlava con sua madre, dicendo, alla fine: “Salutami papà”. Alexander ascoltava dall’altro apparecchio e diceva: “Sono qui, figliolo”. E chiacchieravano per qualche istante.
“Come va laggiù?”
“Oh, bene, bene. Per lo più aspettiamo gli ordini e ci affanniamo a eseguirli quando arrivano.”
“Già, talvolta succede.”
“Lo detesto.”
“Sì. Lo detestavo anch’io.”
“Niente campi di Verdun qui, niente battaglia di mezzi corazzati a Kursk. Siamo sempre nella giungla. Ed è maledettamente umido. Dev’essere com’è stata per te Santa Croce, Swietokrzyst.”
“Swietokrzyskie era gelida”, osserva Alexander. “Be’, guardati le spalle.”
“Sempre, papà, sempre.”
Gordon Pasha aveva quasi undici anni, Harry nove, Janie quasi sei, Tatiana quarantacinque. Alexander ne aveva cinquanta.
La sera di sabato 20 luglio 1969 sedevano tutti con gli occhi incollati al televisore. Tatiana avrebbe voluto che Anthony fosse lì con loro, e Pasha osservò, come se le avesse letto nel pensiero: “Ad Anthony piacerebbe questa roba”. Tatiana domandò al marito: “Che ora è a Kontum?” E Alexander rispose: “A Kontum è già domani” mentre Neil Armstrong faceva un piccolo passo per l’uomo ma un balzo gigantesco per l’umanità, e metteva piede sulla Luna.
Il telefono squillò.
Tatiana e Alexander si voltarono l’una verso l’altro. I loro sguardi si rabbuiarono. Non poteva essere nessuno dagli Stati Uniti, perché negli Stati Uniti tutti stavano guardando Neil Armstrong.
Tatiana non riuscì a rispondere; ci pensò Alexander.
Quando riapparve, era terreo.
Cos’avrebbero ricordato i bimbi della loro madre quel 20 luglio 1969?
Alzandosi a fatica, Tatiana raggiunse Alexander sotto l’arco dello studio. Aprì la bocca per parlare, ma non emise alcun suono. Cosa c’è? avrebbe voluto dire. Cosa c’è?
Anthony è scomparso, spiegò Alexander con voce impercettibile. Tatiana doveva nascondere la faccia ai suoi figli, doveva nascondere la faccia soprattutto al marito. Non voleva che la vedesse così. Sapeva che la sua debolezza l’avrebbe spaventato.
Stava per chiedergli di non toccarla, ma lui, conoscendola bene, non le si avvicinò nemmeno.
Tatiana trascorse quindici terribili minuti da sola in camera. Forse venti. Quindi spalancò la porta.
“Come sarebbe a dire, scomparso?” domandò quando lo trovò fuori. “Scomparso dove?”
Alexander, meno bravo a spalancare le porte, sedeva in silenzio sul terrazzo, osservando i figli nella provvidenziale piscina illuminata. Janie era lì davanti, impegnata a sistemarsi la maschera e le pinne. Tatiana tacque finché Alexander ebbe finito di aiutarla. Nessuno era più interessato all’uomo sulla Luna.
Quando Janie si allontanò per tuffarsi, Alexander si voltò verso la moglie.
Dopo la fortunata missione di qualche settimana prima Anthony aveva ricevuto una licenza di sette giorni. Avrebbe dovuto ripresentarsi il 18 luglio, ma non si era fatto vivo.
“Forse ha soltanto dimenticato la data del rientro”, ipotizzò Tatiana.
“Sì. Forse.”
“Lo stanno cercando?”
“Certo, Tatiana.”
“Da quanti giorni è sparito?”
“Tre.”
Quella notte, mentre i piccini dormivano, Tatiana e Alexander riesaminarono le lettere del figlio. Sedettero sul pavimento della camera e le lessero e rilessero tutte con ossessività, cercando indizi, cercando una singola parola.
Qui la situazione è peggiore di quanto avessimo immaginato... I comunisti hanno la ferma intenzione di continuare... Le misure statunitensi non scoraggeranno i vietnamiti... Mamma, sto solo raccogliendo informazioni, non preoccuparti per me... Tra i montanari locali che addestriamo, i montagnardi, quasi nessuno parla inglese... Brava gente, quella, ma niente inglese! Tranne uno, e sto sempre con lui per questo motivo. Ha Si conosce la lingua meglio di me. A papà piacerebbe; lui sì che è un guerriero... Temporali devastanti... Piogge torrenziali... Caldo umido e opprimente... Solitudine nella giungla... Talvolta sogno i lupini nel deserto. Devo essermi confuso. Non li ho mai visti in Arizona. Mamma, dov’è che abbiamo visto i campi di lupini viola?
Chiedeva dei fratelli e della sorella, raccontava un po’ dei suoi compagni: Dan Elkins, Charlie Mercer; di Tom Richter e di quanto fosse bravo come comandante. Non accennava alle ragazze. Non le menzionava mai, non nelle lettere dal Vietnam, non nelle conversazioni di West Point. Dal ballo dell’ultima superiore non ne aveva portata a casa nessuna. Non parlava delle sue ferite. Non parlava delle sue battaglie né degli uomini che aveva perduto o salvato. Quelle cose venivano a saperle da Richter o dalle copie delle citazioni di Anthony.
In quelle righe non vi era nulla che attirasse l’attenzione di una Tatiana esangue e intontita. “Tornerà da un momento all’altro”, disse ad Alexander. “Vedrai.”
Lui non rispose, stringendo ancora le missive, muto, pallido, accigliato. Tatiana lo tirò verso di sé; sedettero con le lettere del figlio tra loro. Gli tenne la testa e sussurrò: Ssst, andrà tutto bene e C’è una spiegazione logica. Era così abbattuto tra le sue braccia che smise di parlargli.
Attesero notizie.
Trascorse un giorno.
E poi un altro.
Gli uomini di Richter setacciarono i boschi, i sentieri e le risaie nella piatta distesa tra Pleiku e Kontum, rastrellarono le capanne, i fiumi, il fango, cercando una traccia di Anthony, delle sue armi o del suo documento d’identità. Deve aver calpestato una mina, disse infine Richter ad Alexander in tono rassegnato. Dev’essere incappato in una trappola esplosiva. Dev’essere caduto in un’imboscata. La strada sterrata tra Pleiku e Kontum era relativamente sicura e piena di soldati americani che andavano avanti e indietro, ma forse ha deviato per qualche ragione, forse...
Senza uno straccio di prova, però, il comando non poteva fare dichiarazioni certe.
Tatiana continuava a pregare che non trovassero traccia di suo figlio.
“Non è disperso in battaglia”, disse ad Alexander dopo altri tre giorni. “Dunque come lo definiscono?” L’aveva seguito nella rimessa e ora era in piedi accanto a lui, intenta a fissarlo.
“Niente. Solo scomparso.” Non alzò gli occhi dal tavolo di lavoro.
“Scomparso? Esiste la designazione ‘scomparso’?”
“Sì.”
“Qual è il nome ufficiale?”
Vi fu una lunga pausa. “Assente ingiustificato.”
Lei uscì incespicando e smise di fargli domande.
Tre giorni diventarono una settimana.
Una settimana diventò due.
Le settimane passarono.
“Per favore, aspettiamo e vediamo.” Tatiana continuava a ripetere quelle parole vuote a suo marito, sempre più scoraggiato. Gli camminava intorno durante ognuna di quelle notti febbrili, senza mai stare ferma, non quando cucinava né quando leggeva ai bambini né quando era a letto con lui. Una parte di lei era sempre in movimento, sempre impegnata a girare intorno alla sua illusione. “Per favore... Non sappiamo niente. Aspettiamo che lo trovino.”
“Che lo trovino dove?” Invece di camminare, Alexander sedeva fuori con la sigaretta accesa.
“Vediamo e basta, okay?” ribadì Tatiana, andando su e giù lì davanti.
“Vediamo se trovano qualcosa di lui, intendi? Vediamo se ha calpestato una mina, o se un RPG-7 l’ha colpito?” urlò Alexander. “O se è rimasto coinvolto in una strana esplosione mentre tornava a Kontum? Be’, io non voglio aspettare questo! E tu?”
“Smettila”, sussurrò lei, la voce che le tremava. “Ti sto solo dicendo di avere un po’ di fede, soldato. Un po’ di fede, ecco tutto.” Si torceva le mani.
Alexander tacque. “Come posso ritrovare la fede”, bisbigliò finalmente, “quando sembrano esserci così pochi motivi per averne?”
Tatiana avrebbe pianto se non avesse notato che Alexander aveva un disperato bisogno del suo conforto. Quella fu l’unica cosa che le impedì di disintegrarsi sulle piastrelle di travertino, di tramutarsi in cenere.
Trascorsero trenta giorni.
La loro vita si fermò.
Si sedevano e osservavano Pasha, Harry e Janie che giocavano, perché erano bambini e non potevano farne a meno. I piccoli giocavano, e i loro genitori sedevano con un sorriso stampato sulla faccia, mentre i piccini sguazzavano nella piscina, si azzuffavano e guardavano Missione impossibile. I bimbi facevano del proprio meglio per tirare su di morale mamma e papà. Pasha non smetteva mai di leggere e di raccontare le cose che aveva letto. Janie non smetteva mai di cucinare con Tatiana, infornando i bignè e le torte con le meringhe che piacevano tanto ad Alexander. Harry aveva sempre l’impressione di doversi impegnare di più perché era il terzo figlio maschio. Così si impegnò di più, facendo cose che, pensava, erano gradite al suo serio e amatissimo padre. Con il legno, con la pietra, con i blocchi di ghiaccio, con i rami, i cactus e il metallo, non faceva altro che intagliare, scolpire, piegare, modellare e fabbricare armi. Faceva pistole di sapone, coltelli di bastoncini e carri armati di cartapesta grigia. Decine delle sue perfette bombe a mano di ghiaccio, corrose e graffiate, riempivano tutti e tre i congelatori. Una sera lo sorpresero davanti all’armadio di Alexander, con indosso la sua bandoliera, zeppa di bombe che sgocciolavano su tutta la moquette della camera.
Quaranta giorni.
Non riuscivano a dormire. Si giravano e si rigiravano, facendo l’amore in modo spasmodico, pregando per un oblio che non arrivava mai.
“Shura, cosa ti spaventa così tanto? Dimmelo. Guardami.” Sapeva che non l’avrebbe guardata perché non voleva che gli vedesse dentro. E gli aveva permesso di voltarle le spalle perché nemmeno lei voleva vedergli dentro.
Quella notte lui le voltò le spalle, ma Tatiana gli si arrampicò sopra per stargli di fronte; lo pungolò, lo prese a gomitate, gli respirò addosso e lo tormentò finché Alexander dovette scegliere tra alzarsi o risponderle. Fece quello che faceva sempre quando non riusciva a parlarle di cose impossibili. Fece l’amore con lei.
Si era appena staccato quando gli domandò: “Hai chiamato tutti i tuoi conoscenti dei servizi segreti militari. Cosa stai cercando?”
“Santo Dio! Piantala!” Infilandosi i boxer, uscì in giardino. Tatiana indossò il négligé e lo seguì. Era la fine di agosto.
“Non è evidente?” domandò Alexander, percorrendo i vialetti angusti tra i fiori del deserto.
“No!”
“Sto cercando Anthony, Tania.”
“Nell’intelligence militare?” Gli si parò davanti.
Alzò gli occhi su di lei. “Poiché è trascorso così tanto tempo”, spiegò, esausto, “e non c’è traccia di lui, e non hanno trovato nemmeno un indizio, credo” - fece una pausa - “che l’abbiano preso prigioniero.”
Prigioniero! Tatiana lo scrutò. Perché lo diceva in quel tono triste? Non era forse meglio dell’alternativa?
“Ecco cosa ho cercato fin dall’inizio”, ammise Alexander. “Qualche informazione riservata sulla sua detenzione in un campo di prigionia.”
Si fissarono, Tatiana che diventava sempre più cupa a ogni respiro mentre tentava di capacitarsi della gravità di quelle parole. Non riuscì a toccarlo da tanto lo sentiva spaventato.
“Perché cerchi di creare nuovi problemi?” lo accusò, sforzandosi di assumere un tono disinvolto. “Non ne abbiamo già abbastanza? Continuo a ripetertelo, aspettiamo e vediamo.” Gli prese la mano. “Dai, torniamo a letto.”
“Dopo avermi assillato per metà della notte, ora non vuoi ascoltarmi?” chiese il marito, incredulo.
Lasciandolo andare, Tatiana tacque.
“Dimmi”, riprese Alexander, “se nostro figlio fosse stato catturato dall’NVA, credi che il KGB si interesserebbe al destino di un soldato americano di nome Anthony Alexander Barrington?”
“Shura, cosa ti ho detto? Non aggiungere altro.” Tatiana si portò le mani al cuore.
“Se l’hanno preso...”
“Per favore, basta! Ti supplico.”
Tatiana e Alexander smarrirono la strada. Dopo la scomparsa di Anthony, scomparvero tutti quanti, tutti si persero tra i boschi delle atroci immagini delle cose che potevano essergli capitate.
Una sera Alexander rincasò tardi e trovò Tatiana raggomitolata sul letto in posizione fetale mentre i bambini erano da soli nella stanza dei giochi.
“Coraggio, Tania”, mormorò, tendendole la mano. “Abbiamo altri tre figli. Nemmeno loro riescono a trovare la strada. Devi aiutarli. Senza di te non hanno nulla.”
“Continuo ad aspettare la prossima fase”, sussurrò lei, alzandosi a fatica. “Cos’è? Quando arriva?”
“Non essere impaziente, amore”, le rispose. “Arriverà presto.”
Arrivò con una visita di Vikki.
Molte persone telefonarono per esprimere solidarietà, apprensione. Molte persone telefonarono per consigliarli, per consolarli. Per settimane Francesca cucinò per Alexander e i bimbi. Shannon, Phil, Skip e Linda si occuparono dell’azienda. Dopo che Amanda l’aveva mollato, Shannon aveva temuto di non riuscire più a ricostruirsi una vita, ma di lì a poco aveva conosciuto Sheila, due figli, lasciata dal marito: erano andati a vivere insieme, avevano unito le loro famiglie e avevano ricevuto l’entusiastica approvazione di Tatiana, che considerava Sheila molto simile a Francesca. E ora Sheila si offrì di andare a prendere i bambini a scuola, accompagnarli a danza e baseball, farli giocare a casa sua. Tutti si dimostrarono premurosi; tutti diedero una mano.
Tutti tranne Vikki.
Ordo amoris
Vikki, in viaggio per l’Europa, non si faceva sentire da mesi. Volò dal Leonardo da Vinci di Roma allo Sky Harbor di Phoenix passando per il JFK di New York. Noleggiò un’auto e si diresse verso nord lungo la Pima, svoltando a destra sullo Jomax. Sfrecciò oltre il cancello di finto oro, oltre il grande cortile di pietra quadrato con i vialetti, gli alberi e le fontane, si lasciò accompagnare accanto al tavolo bianco della cucina, abbassò le braccia, abbassò la testa e pianse.
Alexander, con indosso un completo perché era appena tornato dal lavoro, e Tatiana, con addosso un corto ed elegante abito di seta a quadretti (l’ultima moda aveva finalmente cominciato a lasciare un segno sul suo aspetto ordinato e sui suoi lunghi capelli senza lacca), restarono entrambi immobili a osservarne l’inspiegabile dolore, prima fissando lei e poi guardandosi con tanta apprensione e tanto turbamento che Tatiana non riuscì nemmeno ad abbracciare la sua migliore amica. Fu Alexander a dare a Vikki una pacca sulla spalla e a portarle una tazza di caffè e una sigaretta, per poi rimanerle accanto finché quell’assordante momento al rallentatore ebbe fine. La donna si calmò quanto bastava per parlare. Disse di aver chiamato Tom per fargli gli auguri di buon compleanno e di aver appreso quanto era accaduto. Con voce stridula continuò a ripetere senza sosta che suo marito avrebbe aiutato Anthony, avrebbe trovato Anthony...
“Ci sta provando, Vikki”, affermò Alexander, tranquillo. “Sta facendo tutto il possibile.”
“Tom è nei Civilian Conservation Corps, Alexander, sa tutto.”
“Non sa questo.”
“Hanno uomini che strisciano in quella giungla. Se c’è qualcuno che possa trovarlo, quel qualcuno è Tom.”
“Suppongo di sì. I suoi uomini cercano Anthony da quattro mesi.”
Quattro mesi!
Era ora di cena.
I bambini corsero dentro e si arrampicarono tutti su zia Vikki, che si calmò e abbozzò persino un sorriso. Tatiana servì da mangiare, Alexander versò generosi bicchieri di vino. Dopo che i bimbi furono andati a giocare, gli adulti discussero delle possibilità.
Restava un fatto essenziale: Anthony non era in servizio quando era sparito. Era in licenza. Se non vi erano di mezzo omicidi o assenze ingiustificate, gli uomini non svanivano mentre si godevano un permesso cinquanta chilometri più in là, in una città sicura zeppa di soldati statunitensi.
Vikki sembrava sul punto di dire qualcosa al riguardo.
Sembrava sul punto di dire qualcosa su un sacco di argomenti. Ma evitando di guardare Tatiana, tacque, e loro due, evitando di guardare lei, non le domandarono nulla.
Non si rivolsero la parola mentre si preparavano per coricarsi. Tatiana lesse, Alexander uscì sul patio per l’ultima sigaretta della serata. A letto, marito e moglie restarono in silenzio. La bocca serrata di Tatiana comunicò ad Alexander più di quanto volesse sapere. Avvicinandosi, lui le urtò il braccio con la testa.
“Sto cercando di leggere.” Lei si chinò e gli baciò i capelli, ma non gli rivolse neppure un’occhiata. Alexander si strofinò il viso con aria meditabonda. La reazione di Vikki alla scomparsa di Anthony non era stata la reazione di Francesca alla scomparsa di Anthony, e Francesca aveva trascorso quindici anni a nutrire Anthony, accompagnare Anthony e guardare Anthony che giocava con Sergio, che si era arruolato per combattere nell’Asia sud-orientale prima di scoprire di avere un linfoma e di non poter partire (ora stava migliorando ed era a casa).
Alexander le urtò di nuovo il braccio con la testa.
“Sto. Cercando. Di. Leggere.”
Abbassando il lenzuolo che la copriva, le prese il capezzolo tra le dita, sfregandole la faccia contro il seno.
Tatiana posò il libro.
Dopo aver fatto l’amore, dopo l’ultimo Oh, Shura, dopo aver spento le luci, lei mormorò nell’incavo della sua gola: “È perché Vikki non ha figli. Ecco perché è così sconvolta. Pensa a quando risale il suo legame con Anthony. Lo conosce da sempre, da quando è nato a Ellis Island”.
“Lo so”, commentò Alexander, massaggiandole la schiena. Non poteva sostenere quella conversazione con sua moglie. Non sapeva se potesse sostenerla con Vikki.
Aspettò finché ebbe la certezza che Tatiana si fosse addormentata (si assopiva ancora tra le sue braccia, rivolta verso di lui, in ricordo della loro vecchia tenda a Luga, oppure rannicchiata lì accanto, in ricordo del loro vecchio letto a una piazza di Deer Isle), quindi si liberò con delicatezza, si infilò i boxer e uscì.
Trovò Vikki che fumava sul patio posteriore coperto.
A quarantasette anni, Vikki Sabatella Richter era quella che era sempre stata, una donna straordinaria e magnifica. Bruna, snella, abbronzata, con i capelli lunghi, il collo lungo, le braccia lunghe, le lunghe gambe aggraziate da puledra che quella sera erano nude e accavallate. Aveva le caviglie affusolate, le unghie dei piedi laccate di rosso come quelle delle mani. Era molto truccata, portava addosso molti gioielli, e odorava di profumo inebriante e notti trascorse fuori. Era la splendida e formosa Vikki che molte ragazze giudicavano troppo attraente per esserle amiche. Vivevano quasi tutte nella sua ombra.
Alexander la conosceva da quasi venticinque anni. Erano vecchi amici. Ma ora, per la prima volta, la guardò come non aveva mai fatto, come un uomo potrebbe guardare una donna. E quella donna sedeva sulla sua veranda, alle prese con un drink, fumando voluttuosamente una sigaretta, i capelli spettinati e il trucco sbavato intorno agli occhi. All’uomo dentro di lui quella donna strabiliante parve disintegrarsi per via del suo cuore spezzato.
“È così bello qui, Alexander”, commentò con voce rauca lei. Persino il tono mesto recava tracce di alcool e nicotina. “Mi è sempre piaciuto. Sembra davvero magico.”
“Già, si sta bene.” Lui si accese una sigaretta a sua volta. I due fumarono, ascoltando il vento. Le luci sfavillavano sempre nella valle scintillante, come se fosse Natale ogni sera. La grande casa, il deserto azzurro e grigiobruno e il silenzio dei monti misteriosi donavano un profondo conforto.
“Sei agitato?” domandò Vikki. “Non riesci a dormire? Non mi sorprende. Ho qualcosa, se vuoi. Quando sono nervosa, neanch’io riesco a chiudere occhio. Ne ho presa una prima. Mi restano trenta minuti, forse meno.”
“No, non mi serve. Noi lo sappiamo da mesi. La ferita è fresca solo per te.”
Vikki tacque, quindi ricominciò a piangere, a piangere come se le stessero strappando il cuore. Alexander avrebbe voluto fare Ssst, ma per un istante la gola non gli obbedì. “Cosa succede, Vikki?” sussurrò.
“Oh, Alexander.”
Oh, Alexander?
Passarono i minuti.
Lui parlò dopo aver tratto un lungo respiro. “Vikki”, disse. “Chiamo tuo marito tre volte la settimana per sapere se ha notizie di mio figlio. Voglio chiederti” - un altro respiro - “se Tom abbia qualche sospetto che potrebbe impedirgli di aiutarmi totalmente e con tutto il cuore.”
“No. Nemmeno uno”, bisbigliò Vikki, articolando le parole.
“Prima hai detto che tuo marito sa tutto.”
“Ma non questo.”
Trascorsero alcuni istanti; lei continuava a piangere. “Mi dispiace molto, Alexander. Mi vergogno così tanto da non riuscire a guardarti. Per favore, non odiarmi.”
“Vikki, il giorno in cui ti giudicherò sarà un triste giorno per me.” Si sforzava di non manifestare disapprovazione o disappunto.
“Credi che Tania l’abbia intuito?”
“Lei sì che è in grado di giudicarti. Ma in questo caso penso di no.”
Rimasero immobili.
Singhiozzando di nuovo, Vikki aggiunse: “Ho finto così bene per tanti anni”.
“Senza dubbio.” Alexander scosse la testa, sgomento. “L’avete fatto entrambi. Come diavolo ci siete riusciti?”
Lei rimase zitta. Esasperato dal suo silenzio, Alexander si voltò verso di lei, solo per ritrovarsi ancora più esasperato dalla vista di Vikki che si dondolava avanti e indietro. Ne sapeva qualcosa di quell’atteggiamento pieno di angoscia. Girò la sedia per fronteggiarla. “D’accordo. Calmati.” Fece una pausa, dandole una lieve pacca sulla spalla. “Vikki, cosa ti è saltato in mente? Non capisco come proprio tu abbia potuto permettere che succedesse.”
Lei si ricompose, scegliendo con cura le parole. “Non ho permesso che succedesse. Ho lottato contro di lui da quando ha compiuto diciassette anni.”
“Diciassette anni? Oh, mio Dio, Vikki!”
“Non ha accettato un no come risposta. Gliel’ho detto fin dall’inizio. Anthony, sei impazzito? Hai perso la ragione? Sì, ha risposto.”
Alexander chiuse gli occhi. Diciassette anni ! Vikki si interruppe.
“Non avere paura di me”, riprese lui con un sospiro rassegnato, stringendole le mani. “Io non sono Tania. Una volta sono stato adolescente anch’io, e sono ancora un uomo. Da uomo, capisco. Da adolescente, capisco. Raccontami solo com’è andata.”
“Per oltre un anno ho lottato con fermezza contro di lui, ecco com’è andata.” Vikki parlava a voce bassissima, come se non volesse farsi sentire dalle montagne. “Al principio ero scioccata, come te; quando mi sono accorta di quanto fosse serio, ho tentato di dissuaderlo. I motivi erano così numerosi e insormontabili che non capivo neppure perché fosse necessario spiegarglieli. Di sicuro non devo spiegarli a te né alla donna che mi accuserà di aver commesso un peccato indicibile. Tuttavia, Anthony non vedeva nulla, non comprendeva nulla, non dava peso a nulla. Dire che è stato tenace e del tutto indifferente a ognuna delle mie persuasive argomentazioni sarebbe poco. È stato implacabile.”
“Ssst”, fece Alexander. “Rallenta e abbassa la voce, Vikki.”
“Ho ceduto subito dopo che si è diplomato, l’estate prima che partisse per West Point. Quell’anno gli hai comprato il pick-up e una chitarra nuova, ricordi? Oh, adorava il pick-up e suonava benissimo la chitarra... da maestro, come si suol dire. Mi ha cantato una bella canzone, Jail house Rock, eseguita alla Anthony. Mi ha dedicato brani in inglese, in russo, in spagnolo e persino nel mio italiano! Già”, proseguì, annuendo, “aveva un bell’arsenale, tuo figlio. E per un anno ha continuato a portare tutte le sue armi. Nessun danno, diceva. Se ne sarebbe andato di lì a qualche mese. Non era un bambino, aveva quasi diciotto anni (come se quello fosse l’unico problema), e ormai eravamo due adulti! Sapevamo cosa volevamo: un lungo weekend al Biltmore per placare la sua fame e soddisfare la mia curiosità. Ho replicato che non aveva certo bisogno di un intero weekend, e ha risposto di sì, che ne aveva bisogno.” Scosse il capo. “Irrefrenabile, te lo assicuro”, mormorò. “È diventato impossibile respingerlo, contestarlo, resistergli. Così...”
Alexander era incredulo. “Hai smesso di resistere”, intervenne, accendendosi un’altra sigaretta. “Sentiti libera di saltare questa parte.”
Vikki assentì. “Ho smesso di resistere. La regina Vittoria avrebbe smesso di resistere.” Cercando sollievo da quei ricordi viscerali, incrociò le braccia al petto. “Vuoi sapere cos’è accaduto dopo?”
Alexander rabbrividì. “No. Il resto lo so già.”
“Davvero?” Ma il tono di Vikki non era di stupore. Lo disse come se dicesse: No, non lo sai.
Alexander confermò che lo sapeva. “Molti anni fa”, raccontò, “quando ero ancora più giovane di mio figlio, mi sono ritrovato in una situazione analoga con un’amica di mia madre, che aveva più o meno la tua età di allora, trentanove anni. Io ne avevo appena compiuti sedici. È stata la mia prima amante ed è stata fantastica, ma dopo quell’assaggio ho desiderato tutte le ragazze. Inutile precisare che con lei è durata una sola estate.”
Vikki si studiò le mani. “Be’, io non sono stata la prima amante di Anthony.” Nessuno dei due sapeva cosa aggiungere.
Alexander la fissò, rendendosi conto all’improvviso di qualcosa. “Vik, ti sei trasferita qui nel ‘58 e poi sei tornata a New York all’improvviso nel ‘61. In agosto, se ben ricordo, quando Anthony è andato a West Point.”
“Sì.”
“Non sei... non sei ripartita... per lui, vero?”
“Credevo che conoscessi il resto.”
“Evidentemente meno di quanto pensassi.”
“Alexander!” sussurrò Vikki. “Nessuno potrebbe posare la mano su quel ragazzo senza cadere completamente in suo potere. Certo non una trentottenne che aveva viaggiato in tutto il mondo, che credeva di aver visto, amato e sopportato ogni cosa. Mi ha fatto perdere la testa.” Rabbrividì. “Non ha conquistato il mio cuore. Me l’ha rubato.” Abbassò il mento sul petto. “Aveva diciotto anni.”
“Non hai risposto alla mia domanda, Vik.”
“Sì, invece”, lo contraddisse. “Sì che ho risposto.”
Alexander scosse il capo. La sua Svetlana si era ritrovata con il cuore spezzato, ma non era stata altrettanto coraggiosa. Gli aveva chiesto più di quanto avesse e potesse offrirle. Quando era passato oltre, si era arresa. Poteva solo immaginare come il figlio avesse trattato la donna lì davanti. Non sapeva cosa domandare. “L’hai... rivisto?”
“Sì”, ammise lei. “Quando aveva un permesso per il weekend, veniva a New York e stava da me.”
“Fino a quando?”
“Finché è partito per il Vietnam.”
Era quello il particolare stupefacente.
“Avete continuato a frequentarvi per quattro anni?” chiese Alexander, sbalordito.
“Sì. Non sai tutto, vero? Il nostro weekend informale al Biltmore è durato un po’ più del previsto. Non so come abbiamo fatto a tenerlo nascosto a te e a Tania. Soprattutto a Tania.”
Alexander domandò (dovette domandare): “Lui... non ha troncato?”
“No”, rispose Vikki, la voce che si incrinava, l’espressione afflitta. “Perché mi sono comportata come se non ci fosse niente da troncare. Ero solo una ragazza disinibita. Stavamo insieme ogni volta che ne aveva voglia. Quando non ne aveva voglia, non stavamo insieme. Nessun obbligo da ambo le parti. Niente promesse, niente impegni per il domani. Solo divertimento. Dall’inizio alla fine, nient’altro che divertimento.”
La sedia di Alexander non era più di fronte a Vikki. Lui aveva i gomiti sulle ginocchia e la testa abbassata. La sigaretta gli penzolava dalle labbra.
“Non voglio mentirti”, proseguì lei. “Ce la siamo spassata. La New York degli anni Sessanta per un giovanotto e la sua guida turistica. New York è una città per tutte le stagioni, per tutti gli amanti, persino per gli amanti senza speranza come noi. E non mi sono illusa neanche per un secondo, Alexander”, aggiunse. “Nessuno sapeva meglio di me quanto fossimo senza speranza. Ho vent’anni più di lui!” esclamò. “Quando Anthony avesse compiuto quarant’anni, e fosse stato ancora giovane, io ne avrei avuti sessanta! Quando avesse raggiunto la tua età attuale, ancora forte e virile, io ne avrei avuti settanta! Sono più vecchia di sua madre, santo cielo! Io e sua madre... Non riesco a guardarla in faccia. È vergognoso. Per me è umiliante spiegartelo.”
“Non è necessario.”
“Non volevo pensasse che le sue azioni potessero ferirmi”, continuò Vikki. “So quanto sia spaventoso per un ragazzo agli inizi. Era l’ultima cosa di cui avesse bisogno. Così ho finto di essere indifferente nei suoi confronti, di lasciargli vivere la sua giovane vita, la vita che voleva avere e meritava di avere, sapendo che prima o poi avrebbe trovato qualcuna da sposare, qualcuna con cui fare dei figli. Non avrebbe potuto avere tutto questo con me.”
“Dopotutto”, osservò Alexander, “sei già sposata.”
“Esatto. Con il suo ufficiale comandante.” Quando pronunciò quelle parole, evitò di guardarlo.
“Cosa voleva mio figlio, Vikki?” le chiese piano.
“Tu cosa ne dici, Alexander?” ribatté lei. “Vuole quello che hai tu. Quello che hai avuto per tutta la vita.” Pareva immersa in una nebbia di sofferenza. “Non poteva averlo con me. Sono molte cose, ma conosco i miei limiti, e li conosce anche lui.” Le tremavano le mani. “E il mio matrimonio fasullo mi garantisce una perenne parvenza di rispettabilità, perciò non ho di queste complicazioni nella mia esistenza. Così è molto più facile. Mai nessuna spiegazione per la mancanza di qualcosa da parte mia. Vivere per i weekend al Biltmore è l’unica cosa di cui Vikki sia capace.”
Alexander la ascoltava pur desiderando di non sentirla. “Rispondimi”, insistette. “Cosa voleva Anthony?”
“Oh, vedi”, disse lei con finta noncuranza, “sai come sono i giovani. Voleva la sua fetta di torta, voleva il suo divertimento, i suoi Biltmore, le sue passeggiate lungo l’Hudson. Certo, sosteneva di volere me. Voleva tutte le ragazze. Voleva ogni cosa. E perché no? Aveva ogni cosa.” Pianse. “Ogni cosa”
Alexander esaminava le piastrelle del terrazzo, a una a una.
“Ero convinta che mi avrebbe mollata dopo un mese, dopo sei mesi, un anno. Ma no, ha continuato a tornare”, riprese Vikki, asciugandosi le lacrime. “Finché si è laureato, e poi è partito per il Vietnam senza voltarsi indietro. ‘È una fortuna che ci siamo solo divertiti, ragazzo’, gli ho detto. ‘Rende più facile il commiato. Grazie per essertela spassata con me. Grazie per i valzer al chiar di luna che non abbiamo mai danzato, grazie per le promesse che non ci siamo mai fatti, per il sole che non ha brillato sopra le nostre teste. Non sei contento di non avermi spezzato il cuore? Ora che stai per partire, non sei contento di non essere innamorato di me?’” Si prese il viso tra le mani.
Alexander le rimase accanto ancora per un po’. Ma non vi era davvero altro da dire. Alzandosi, affermò: “Vikki, forse dovresti rifletterci con maggiore attenzione. I genitori si possono perdonare se sono stati degli idioti ciechi: ma ti avverto, questo genere di cose sono molto difficili da nascondere a un marito”.
Vikki fece un cenno indifferente. “Alexander, sai meglio di chiunque altro che, a differenza di te, Tom è stato un pessimo marito. Un brav’uomo, un cattivo marito.”
“Anche i pessimi mariti si accorgono di cose del genere.”
“Sì, be’, quando il marito è in Vietnam dal 1959, torna in patria solo due volte l’anno e vive per l’esercito americano dal 1941, sono certa che non si accorge di niente... Non vedo Tom da due anni. Non gli parlo da sei mesi. Se non fosse stato il suo compleanno, non l’avrei mai chiamato. Di sicuro non mi ha telefonato per raccontarmi di Anthony; e perché avrebbe dovuto? Io non mi preoccuperei. Non sa nulla.” Fece una pausa. “Intendi dirlo a Tania?”
“Non lo so”, ammise lui. “Non voglio dirglielo, ma da ventotto anni ho difficoltà a nascondere qualcosa a mia moglie.” Vikki distolse lo sguardo, e Alexander la imitò, raccogliendo i bicchieri, gettando via i mozziconi. “Pensi che ormai sia giunto il momento di perfezionare la tattica?”
Le augurò la buona notte.
Senza far rumore, con il respiro tranquillo, tornò a letto, ascoltando Tatiana che respirava.
“Sono sveglia”, disse.
Lui sospirò. “Naturalmente.”
Lei si voltò, e rimasero sdraiati in silenzio, le braccia intrecciate.
“Sei andato a parlarle?”
Alexander annuì, scrutandola in volto per decifrare il suo stato d’animo.
“Sa dov’è Anthony?”
“No.” La tirò a sé. “Non gliel’ho chiesto.”
Tatiana gli posò l’orecchio sul petto, ascoltando attentamente il suo cuore. “Le hai domandato... Ti ha raccontato cose che non volevi sentire?”
“Sì.”
Le spiegò di Vikki e Anthony.
Dopo che ebbe finito, Tatiana non disse nulla. Quando parlò di nuovo lo fece con estrema lentezza. “A un tratto è facile capire perché Dasha non vedeva cos’aveva sotto il naso, vero? E non l’hanno nascosto, come non l’abbiamo nascosto noi. Ci hanno lasciato indizi dappertutto, e ora li vedo dappertutto.” Si coprì il viso con le mani per un istante. “La mia amica Vikki è sempre stata una ragazza grintosa. Quando l’ho conosciuta, piangeva perché il suo primo marito stava per tornare dalla guerra e non sapeva come dirlo al suo amante, cui non aveva nemmeno rivelato di avere un marito. È stata infedele al primo marito, è stata infedele all’ultimo marito, e a tutti i ragazzi intermedi. Si è innamorata di Richter - aveva sempre voluto innamorarsi di un eroe di guerra - e l’ha sposato contro ogni buon senso. Di sicuro lui non si è comportato bene nei suoi confronti, e non voglio scervellarmi sul quesito dell’uovo e della gallina. A mio avviso”, concluse, “ha deciso di sposarlo perché sapeva che per lui sarebbe sempre stata un’amante, non una moglie. Quel ruolo le si addice.” Fece una pausa. “Ed ecco qui la mia piccola consolazione per noi due: Vikki ha avuto uomini in Africa, in Europa, in Asia, in Australia. Ha viaggiato in lungo e in largo, spassandosela con loro.” Batté tristemente le palpebre. “Solo oggi, quando è scoppiata a piangere al mio tavolo, ho capito che, fra tutti i suoi capricci fugaci e campati per aria, Anthony è l’unico che non riuscirà a dimenticare.”
Rimasero distesi l’uno di fianco all’altra. Annuendo in silenzio, Tatiana gli posò la mano sulla guancia. “Conosco bene la magia di quelle canzoni d’amore”, sussurrò.
Lui le si avvicinò, infilandole il braccio sotto il collo, per sentire i suoi floridi seni caldi che gli si premevano contro il petto, per trovare conforto e compassione.
L’indomani mattina, a colazione, dopo che i bambini furono andati a scuola, la prima cosa che Vikki chiese, terrea e i segni del pianto sul viso, fu: “Alexander, gliel’hai detto?”
Gli altri due si scambiarono un’occhiata. “Sì”, rispose.
Vikki assentì. “Be’, ora devo confessarvi una cosa che non so come confessare a Tom. Come potete immaginare, ci sono un paio di ragioni per cui potrebbe non essere comprensivo quanto te, Alexander.”
“Io non sono comprensiva quanto Alexander”, intervenne Tatiana, torva.
“Lo so”, disse Vikki. “Perché non sei una peccatrice. Mi dispiace. È imperdonabile e non so cosa dirti. Trascorreremo i prossimi dieci anni a sistemare la faccenda e a cercare di capirla, e sono sicura che andrà tutto bene, perché hai perdonato cose peggiori.” Chinarono tutti e tre la testa sulle tazze. “Ma adesso”, proseguì, “dobbiamo trovare il nostro ragazzo.” Erano d’accordo. Dovevano trovare il loro ragazzo. Vikki estrasse una lettera dalla tasca. “L’ho ricevuta da Anthony quattro mesi fa. Spiega in parte perché mi sono dileguata in Europa. Non volevo rivelarlo a nessuno, e non voglio rivelarlo a voi ora. Per voi sarà difficile ascoltarla, per me sarà difficile leggerla. Se mai ritroveranno Anthony, per lui sarà difficile accettare che lo sappiate. E per mio marito, che gli vuole bene, è assolutamente impossibile intuirlo, venirne a conoscenza. Purtroppo, ora che Anthony è scomparso, ci sono alcune cose in questa lettera che dovete sapere.” La aprì con mani tremanti. “Mi viene da piangere. Potete pensarci voi?”
“No, non possiamo”, sbottò Tatiana, afferrando l’avambraccio di Alexander. “Leggila, Vikki.”
L’altra sussultò quando iniziò a leggere, sussultò come se l’avessero schiaffeggiata sin dalla prima parola.
Gelsomina!
Ti scrivo nella speranza di placare le tue preoccupazioni per me, preoccupazioni che, ne sono sicuro, ti porti dietro da anni. Il Vietnam non è il posto adatto per cercare l’anima gemella (l’Italia sì?), il che è perfetto per me, perché, come sai, non voglio questo tipo di grattacapi. E poi chi ha il tempo di pensarci, quaggiù? Come mi ripeti sempre, mi piace bere, fumare e divertirmi con le ragazze. Nessuno si è meravigliato più di me quando, a nord di Hué, vicino al Perfume, ho trovato all’improvviso quello che stavo cercando. E ora tu sei la prima e l’unica a saperlo. Mi sono sposato. La mia moglie vietnamita parla un po’ d’inglese, il che è una fortuna perché io non parlo la sua lingua. È giovane, è un cigno bianco sulla sua bicicletta, e aspettiamo un bambino.
Vikki dovette smettere di leggere. Tatiana e Alexander dovettero smettere di ascoltare. Mentre Vikki cercava di calmarsi, Alexander scrutò Tatiana, attenta e concentrata. Dal suo volto immobile, dalle sue labbra socchiuse che respiravano appena e dal suo sguardo fisso e trasparente intuì che non stava in ascolto per sentire una storia straziante o spaventosa, ma per dissipare altre visioni.
Un poco più tranquilla, la voce incrinata al pensiero del seguito di una missiva che evidentemente conosceva a memoria, Vikki ricominciò:
Ho pensato che ti avrebbe fatto piacere saperlo. Ti sei sempre crucciata tanto per la mia vita e le mie scelte, per dov’ero e dove non ero, per cosa facevo e non facevo. Ho continuato a ripeterti che avevo già una madre, ma semplicemente non ti bastava il ruolo che svolgevi. Volevi altre responsabilità. Così è nell’interesse della chiarezza più totale che voglio raccontarti cosa mi è capitato quaggiù, così lontano da te. Sono trascorsi quattro anni da quando ti ho suonato la chitarra, da quando ti ho cantato Malaguena Salerosa. Perhaps, Perhaps, Perhaps pensi a me quando la radio suona The Rain, The Park & Other Things.
Traces.
Grazing in the Grass
E Jean.
Abbiamo avuto i nostri anni felici, io e te, ma ora è tutto finito, Baby Blue. Tu eri una Spooky Wild Thing, e io ero un idiota, e così giovane, inebriato dalle gite in troika al Central Park sotto la grande luna gialla e i paloverde fuori dalle finestre appannate del Biltmore. Continuavi a dirmi che non avremmo mai avuto un futuro, e avevi ragione. Sognavo la luna che non c’è. Ricordi che abbiamo parlato di sant’Agostino? Di una cosa che chiamava “ordo amoris”? L’“ordine dell’amore” o il “giusto sentimento”. Secondo lui, gli esseri umani avevano la vera virtù e il vero amore quando ogni oggetto riceveva il preciso grado di amore che gli spettava, che meritava. Io e te siamo sempre stati sbilanciati da quel punto di vista. Sono stato fortunato ad aver trovato quell’equilibrio con Moon Lai. Ora ho quello che hai sempre voluto per me, quello che, insistevi, volevo per me stesso: sposarmi, avere un figlio, avere il vero amore.
Ma sono ancora in un cuore di tenebra, il mio periodo qui non finirà prima di agosto, e qualora questa sia l’ultima lettera che ti scrivo, sappi una cosa: vi è stato un tempo in cui ho creduto che quanto provavo per te fosse reale, per quanto imperfetto. Vi è stato un tempo in cui ho creduto che quanto provavo per te fosse amore. Vy sgubili menya/ochi chernye. Ora sono lieto che tu abbia sempre saputo la differenza, che sia stata molto più saggia di me. Grazie per avermi tenuto alla larga dalla menzogna di noi due, che mi era parsa tanto vicina alla verità. Ti amavo e tremo.
Anthony
Nessuno dei tre riuscì ad alzare gli occhi. Vikki pianse baciando il foglio e stringendoselo al petto. Tatiana teneva la testa così bassa da sembrare addormentata. Alexander, gli occhi offuscati dalle implicazioni impossibili di quanto aveva appena udito, tentava di dare un senso all’assurdo.
Aveva avuto una giornata di lavoro e una serata piena di bambini da superare, ma quella notte, in giardino, sul retro, in privato, lui e Tatiana camminarono entrambi avanti e indietro come animali in gabbia. Tentarono convulsamente di mettere insieme le tessere di un mosaico che non riuscivano a decifrare.
Anthony si era sposato. Anthony aveva sposato una ragazza vietnamita che ora era incinta. E poi Anthony era sparito. Poteva aver perso la testa al punto di fuggire sugli Urali con sua moglie e abbandonare i suoi uomini, il suo comandante, il suo dovere, il suo codice d’onore militare, il suo Paese?
Poteva aver tradito gli Stati Uniti per una ragazza vietnamita di nome Moon Lai?
“No”, dichiarò sua madre, ferina e categorica, una veemente Panthera leo. “Per tutta la vita quel ragazzo ha avuto un solo esempio di come essere uomo, ed è stato il tuo. È tuo figlio, Alexander”, affermò. “Non siamo rimasti a Lazarevo nel 1942, non siamo rimasti a Bethel Island nel 1948, entrambe occasioni in cui avevamo tutto da perdere. Anthony non è fuggito sugli Urali con lei. Gli è capitato qualcos’altro.”
“Talvolta chiami Vikki Gelsomina”, osservò Alexander, sperando che non captasse la rassegnazione nella sua voce.
“Era Isabella, la sua defunta nonna che l’ha cresciuta, a chiamarla così”, spiegò Tatiana. “Solo chi le vuole bene la chiama così. Ma cosa sento nella tua voce?”
“Oh, Dio.” Confuso, Alexander alzò gli occhi su Tatiana. “Be’, allora perché nostro figlio avrebbe dovuto sposare un’altra?”
“Perché Vikki è sposata con Tom Richter”, rispose lei. “E Anthony sa qual è il suo posto. Ma molto tempo fa la tua unica parola per me è stata Orbeli. Ti avevo pregato di non lasciarmi senza nemmeno una parola, e non l’hai fatto. Mi hai dato Orbeli. Moon Lai è la parola di Anthony per noi. A distanza di centinaia di chilometri, per un’altra donna, è impenetrabile quanto Orbeli, altrettanto esasperante, altrettanto priva di significato, e altrettanto carica di significato. È imperdonabile, proprio come quello che avevi fatto a me, perché sapevi che ignoravo cosa volesse dire Orbeli dato che non conoscevo il nome del direttore dell’Ermitage. Quel maledetto conservatore con le sue casse di opere d’arte!”
“Già”, fece Alexander. “Gli oggetti d’arte erano la sua unica passione. Li ha spediti lontano per salvarli.”
“Come no. Non era granché come passione”, commentò Tatiana. “Non esattamente le coordinate della tua posizione nel campo speciale numero 7 di Sachsenhausen.” Accennò un sorriso. “Be’, Moon Lai è la voce di Anthony dal deserto. Moon Lai è l’Orbeli di Anthony.”
Alexander non riusciva a fumare abbastanza sigarette. “E cosa ce ne facciamo di quest’unica parola misteriosa?” domandò. “L’unica persona in grado di aiutarci è il marito di una donna che ha ricevuto una lettera da nostro figlio, lettera che il marito non dovrà mai leggere.” Fece una pausa. “Se riferisco a Richter quello che sappiamo, non ci aiuterà... anzi, troverà Anthony e lo ucciderà con le proprie mani.”
“Be’, ovviamente non dovrai dirgli tutto quello che sai”, osservò Tatiana. “Perché hai quell’aria scettica e disperata? Ora, all’improvviso, hai perso la capacità di dire quello che devi? È per tuo figlio. Chiama Richter, assumi un’espressione spavalda e indifferente e menti con tutto il tuo cuore.”
Alexander, che aveva smesso di andare su e giù, la fissava da lontano.
Tatiana scosse la testa, distolse lo sguardo, scosse ancora la testa con vigore e disse: “No. Assolutamente no. Mai e poi mai. No”. Si avvicinarono l’uno all’altra. Si abbracciarono. Lei era ancora così piccola, così esile, premuta contro il suo petto, sotto il suo mento, che le sue braccia la inghiottivano ancora.
Tornarono a letto e si spogliarono. Lo supplicò di non sollevarsi perché voleva sentire tutto il suo corpo, tutte le sue ossa, tutte le sue ferite e i segni della sua vita su di lei, le sue braccia muscolose, il suo torace liscio, le devastazioni della guerra, tutto sopra di lei.
“Tania”, disse Alexander, stringendola. Quello era il loro sussurro inimmaginato. “Devo andare in Vietnam a cercarlo. Anthony non ne verrà fuori da solo. Come non ci sono riuscito io. Non capisci?”
Lei tacque.
“Gli è successo qualcosa. Lo sai. Lo so.”
Lei tacque.
“Questa è una lenta agonia per me.” Le lanciò un’occhiata, mesta, si strinse nelle spalle. “Sì. Lo so. Tu ce l’hai fatta. Ti ho lasciata andare a Morozovo perché credevo che avresti sopportato qualsiasi cosa. E avevo ragione. Io però non sono in grado di sopportarlo. Non sono forte come te. In un modo o nell’altro” - un respiro strozzato - “devo riportarlo indietro.”
Lei tacque.
“So che è il Vietnam. So che non è un weekend a Yuma. Ti avevo promesso che non mi sarei più dedicato al combattimento attivo. Ma tornerò.”
Lei tacque.
“Ho altri tre figli. Tornerò”, proseguì Alexander. Non aveva quasi più voce per dire il resto. “Non possiamo abbandonare il nostro ragazzo nella foresta, Tania”, aggiunse. “Guarda cosa ci sta capitando. Non viviamo più.”
“Shura, non voglio che tu parta”, mormorò.
“Lo so. Nemmeno per tuo figlio?”
“Non voglio che tu parta”, ripetè. “È l’unica cosa che so.” Avrebbe voluto dire qualcos’altro, ma non lo fece. Se gli avesse esposto le sue paure indicibili, lui non sarebbe stato più libero. Se lo tirò vicino. Ma era già il più vicino possibile. Due scodelle di metallo incastrate l’una nell’altra.
“Ordo amoris, Alexander.”
“Ordo amoris, Tatiana.”