7
Compromessi coniugali
Dove andare?
Erano stesi entrambi su un’amaca a Key West, sopra la sabbia, vicino all’oceano, nel cuore dei Tropici, abbronzati e costellati di lentiggini e cicatrici. Alexander teneva le gambe divaricate e Tatiana sopra di sé, le gambe unite, intenta a fissare le querce muschiate sovrastanti. Lui indossava calzoncini bianchi, lei uno slip bianco e un pareo annodato al petto. Alexander, abbronzato, aveva i capelli più lunghi e ispidi. Lei aveva un colore dorato, ma sembrava neve tra le sue braccia. Di tanto in tanto le mani languide di lui scivolavano ad accarezzarle i seni. Le strofinava le labbra contro i capelli: odorava di sale e lozione abbronzante al cocco, un profumo che gli faceva sempre girare un po’ la testa.
Era l’estate del 1949 e stavano parlando di dove andare. “Shura, stai buono. Se mi tocchi ancora i seni, la finiamo qui.”
“E questo dovrebbe fermarmi?”
“Dai, dove eravamo?”
“Stavamo cancellando gli Stati e accarezzando i tuoi...”
“Oh, sì. Stavamo sostenendo una banale conversazione su dove trascorrere il resto della nostra vita.” Erano tornati a Miami per l’inverno, poi si erano spostati a sud, verso le Keys, per la bella stagione.
“Shura!”
“Okay, okay. Dov’eravamo? Hai detto di escludere gli Stati dove nevica. Niente Washington, allora? Richter non sarà contento”, disse Alexander. “Sai che gli piace avermi al suo fianco. E neppure Vikki. Sai che le piace averti vicino.”
“Vorrà dire che si trasferiranno dove siamo noi, ti pare? Dunque, niente neve... Perciò niente Maine, New Hampshire, Vermont, Massachusetts, Rhode Island, Connecticut, New Jersey, New York” - Tatiana trasse un sospiro teatrale ma carico di nostalgia - “Pennsylvania, Ohio, Illinois, Wisconsin, Michigan, Minnesota, South Dakota, North Dakota, Montana, Wyoming, Idaho, Washington. Tutti esclusi.”
“E anche niente Iowa, Kansas, Colorado, Nebraska”, aggiunse Alexander.
“È tutto?”
“Aspetta, West Virginia, Maryland, Virginia.”
“Non nevica in Virginia”, osservò Tatiana.
“Vallo a dire al generale Sherman.”
“D’accordo. Restano ventuno Stati.”
“Però, sei brava a contare. Capitalista, geologa, cartografa e anche matematica.” Alexander rise, piegando la testa per cercare di vedere l’espressione del suo volto.
Tatiana alzò il viso verso di lui. “I boschi dell’Oregon sono esclusi”, proseguì con dolcezza. “Perché piove in continuazione. E poi sono sull’acqua.”
“Dobbiamo scartare gli Stati sull’acqua?”
“Non necessariamente”, rispose lei. “Ma dove andremo ad abitare non deve esserci nulla che ondeggi, a parte un’amaca.”
“Niente California, allora? Niente Napa Valley?” Alexander sorrise. “Niente più champagne?” Abbassandole il pareo, giocherellò con i suoi seni sodi e liberi, i capezzoli turgidi.
“Puoi comprarmi tutto lo champagne che vuoi”, mormorò Tatiana, i fianchi che si strusciavano leggermente contro di lui. “Ho sentito dire che lo vendono in tutti e quarantotto gli Stati. Perciò niente California. E niente Carolina del Nord, Carolina del Sud, Georgia, Florida...”
“Fermati un attimo. Teniamo da parte la Florida. È la mia unica richiesta tassativa.”
“Va bene. Niente Alabama, Louisiana, Missouri, Mississippi”
“Aspetta”, la interruppe. “Il Mississippi è sull’acqua?”
Tatiana arrovesciò il capo. “Stai scherzando, vero?”
“Oh, dai, non dobbiamo vivere proprio sul fiume.”
“Quello Stato è il fiume.”
“Oh, d’accordo.”
“Continuiamo. Texas.”
“Il Texas è sull’acqua?” domandò lui, sorpreso.
“Hai mai sentito parlare del Golfo del Messico?”
“Vivremo ad Abilene, che non ha mai sentito parlare del Golfo del Messico.”
“Continuiamo. Cosa rimane?”
“L’Europa, credo”, borbottò Alexander.
“Il Nevada. Il Nevada va eliminato perché non intendo abitare in un posto in cui l’unica cosa che mio marito possa fare per sbarcare il lunario è giocare a poker nei bordelli.”
Alexander rise. “Davvero? Mia moglie pensa che il fatto di giocare a poker nei bordelli non rientri nella sua definizione di vita normale?”
“Continuiamo. Lo Utah... hmm, è una possibilità. Le montagne sono vere.”
“Tatiasha? Nello Utah posso trovarmi un’altra moglie?”
“Lo Utah è escluso.”
La pizzicò, la baciò, la accarezzò, la premette contro di sé e le si strofinò addosso. Lei lo lasciò fare. “L’Oklahoma è da scartare”, disse alla fine, “perché così mi va.”
“Dunque cosa ci resta?”
“Nuovo Messico, Arizona, Florida”, rispose Tatiana. “La Florida è esclusa. Troppo dondolio.”
“Allora è esclusa anche l’Arizona”, replicò Alexander. “Lì ce n’è troppo poco.”
“Be’, la scelta è chiara. Nuovo Messico.”
Tacquero entrambi.
Lui voleva Miami.
Lei voleva Phoenix. “Dai, Shura... niente fiumi!”
“Il Salt River.”
“Niente inverno.”
“E niente oceano.”
“Niente di familiare, niente di vecchio. E a Phoenix vivono altri soldati.”
“Vuoi che faccia amicizia con altri soldati?”
“È l’ultima cosa che desidero, ma almeno quelli capiscono la situazione. Dici: ‘Sono stato in guerra’, e annuiscono senza commentare perché non ne hanno bisogno. Sanno tutto. A nessuno va di discuterne. Ecco cosa voglio...” dichiarò Tatiana. “Evitare di discuterne.”
“C’è una base militare a Phoenix?”
“No, però c’è un centro di addestramento a Yuma, a trecentoventi chilometri di distanza, e una vera e propria base dei servizi segreti militari a Fort Huachuca, vicino Tucson, anche quella a trecentoventi chilometri di distanza.”
“Vedo che la mia ranocchia senza reggiseno ha fatto un po’ di ricerche”, scherzò Alexander, continuando a stuzzicarle i capezzoli. “Trecentoventi chilometri? Una volta al mese?”
“Verremo con te, trascorreremo lì il weekend”, propose Tatiana. “Dormiremo negli alloggi per le coppie sposate.” Si allontanò. “Io e Anthony andremo a spasso, e tu potrai interrogare, tradurre, valutare dossier e documenti quanto pare e piace a te e a Richter.”
“A Phoenix fa troppo caldo”, obiettò Alexander.
Lei gli lanciò un’occhiata. Quella mattina, a Key West, c’erano trentatré gradi.
“Fa troppo caldo e non c’è l’oceano”, insistette lui.
“Ci sarà un sacco di lavoro.”
“Non sono convinto. Posso lavorare ovunque.”
“Non ho dubbi... Ti sei impregnato del puzzo di aragosta. Hai trasportato giovani donne sulle barche. Hai raccolto uva, mele e grano. Cosa ne pensi di fare qualcosa di buono per te stesso, Shura?”
Lui non aveva una risposta sarcastica a quella domanda, anche se ne stava meditando una.
“Phoenix significa ‘fenice’, un favoloso uccello sacro che moriva bruciato ogni cinquecento anni e rinasceva dalle proprie ceneri”, spiegò Tatiana. “Fenice rinata.”
“Hmm.”
“Ti ho detto che non fa freddo?”
“Una o due volte”, disse Alexander. “Nemmeno a Miami fa freddo.”
“So che ami l’acqua, ma possiamo costruire una piscina. A Phoenix non c’è passato. Ecco come voglio vivere: come se non avessi alcun passato.”
“Vada per Phoenix. È difficile dimenticare il passato quando io e i miei tatuaggi siamo sopra di te, Tania.” Le sue gambe lunghe la circondarono.
Lei gli allontanò la mano abbronzata dal seno e gliela baciò, poi se la accostò al viso. “Sì, ho imparato bene la lezione. Nel bene e nel male, Alexander”, affermò, “tu sei la nave su cui viaggio e con cui affondo.”
“Hai detto con cui o su cui affondo?”
Tatiana gli tirò i peli dell’avambraccio. “Portami con te sui nostri novantasette acri di America. Non abbiamo altro da fare se non vivere e morire laggiù. E quando moriremo ci seppelliranno nella terra vicino alla nostra montagna.” Abbozzò un sorriso. “Non nel ghiaccio, non nel suolo gelato, ma in un luogo dove ci sono splendidi tramonti. Lo chiameremo monte Riddarholm, come quel posto a Stoccolma... e ci sotterreranno nel nostro Tempio della Fama, lì come re ed eroi.”
“Dunque fantastichi di morire?” domandò Alexander. “È così che ottieni sempre quello che vuoi?”
“Non ottengo sempre quello che voglio. Se così fosse”, replicò lei, fissando le querce muschiate, “io e te non saremmo orfani.”
Andarono a Phoenix.
Due o tre volumi?
“Compriamo una casa mobile e mettiamola sulla nostra proprietà.” Alexander.
“Un rimorchio, intendi?” Tatiana.
“Non un rimorchio”, precisò lui, paziente. “Una casa mobile. Hai notato che nei novantasette acri del tuo Tempio della Fama non c’è una casa? Dove vuoi vivere mentre risparmiamo per acquistarne una? In tenda?”
Sedevano a gambe incrociate l’uno di fronte all’altra fra la sabbia argillosa della loro proprietà in cima al Jomax. Anthony inseguiva lucertole velenose e raccoglieva fiori di cholla. Finalmente la rete elettrica era arrivata fin lì. Un chilometro e mezzo più giù, vicino Pima Road, qualcuno aveva innalzato due piccole costruzioni. Il deserto era riarso; era luglio e faceva caldissimo. Alexander sedeva con i palmi all’insù, le minuscole mani di Tatiana posate sulle sue.
“Shura”, mormorò lei, “abbiamo appena vissuto in un camper per tre anni. Non mi va più di vivere lì. Voglio una vera casa.”
“Una casa mobile è una vera casa, e non costa quanto una normale. Non dovremo chiedere un mutuo... Ah, l’idea ti piace.” Alexander sorrise. “Ci avrei scommesso. Abbiamo abbastanza soldi, possiamo comprarla subito. Prenderemo un paio di auto, costruirò un terrazzo sul retro dove sederci ad ammirare il sole sopra la tua piccola valle, troverò un lavoro. Risparmieremo e poi costruiremo esattamente quello che vogliamo.”
Tatiana corrugò la fronte. “Quali auto?”
Alexander sorrise. “Io voglio un furgone. E tu hai bisogno di una macchina.”
Lei scosse la testa. “No, no, il furgone basterà. Puoi accompagnarmi tu.”
“Ti accompagnerò ovunque tu voglia, amore”, replicò lui, “ma a meno che tu non abbia in mente di coltivare cetrioli come faceva tuo nonno a Luga, dovrai andare a fare la spesa di tanto in tanto. Inoltre, io sono carnivoro... Non posso seguire la tua dieta di Luga a base di patate e cipolle.”
Tatiana non era convinta. “Due veicoli sono troppo dispendiosi per noi.”
“Tania, questa non è Coconut Grove: niente lavanderie a un chilometro e mezzo di distanza. Ti verrà voglia di andare ai grandi magazzini, magari per comprarti un paio di scarpe con il tacco alto?” Le diede un buffetto. “Un apriscatole elettrico...”
“Così dobbiamo spendere ancora più soldi?” domandò lei. “Questo... hmm, rimorchio è più grande del nostro Nomad? Ha le ruote? Ha almeno una camera da letto? E un bagno? Non riesci a stare per cinque minuti senza lavarti.”
Alexander la fissò, incredulo, poi rise. Saltò su e le tese la mano. “Vieni, mia principessa russa degli appartamenti comuni, ti faccio vedere cosa intendo. Anthony, andiamo!”
Alexander portò moglie e figlio da un rivenditore della Pacifico Mobile Homes in Thomas Road. Dopo aver gironzolato per due ore nel parcheggio zeppo di case mobili e aver confrontato prezzi e dimensioni, Tatiana disse: “D’accordo, non è male. Ma non ce ne serve una grande. Una piccola andrà benissimo”.
“Un minuto fa non la volevi perché temevi che fosse troppo piccola, ora ne vuoi una delle dimensioni di uno sgabuzzino”, replicò il marito. “Dove hai intenzione di mettere i tuoi libri e i tuoi apriscatole, Tania?”
Le case mobili erano disponibili in tre versioni: mono, bi e trivolume. Tatiana propendeva per la prima, la meno costosa, larga quattro metri e lunga nove. Aveva due camere, un bagno e una minuscola cucina. “Il prezzo è contenuto, ed è sufficiente per noi”, osservò. “Abbiamo bisogno di poco spazio.”
Alexander sospirò con finta esasperazione. “Vieni, permettimi di mostrarti una cosa.” Piegò la testa per varcare la soglia e poi, una volta dentro, rimase in piedi, quasi sfiorando il soffitto. “Non ti sembra che ci sia un problema?” Quella versione era alta un metro e novantotto.
Lei entrò nella casetta senza chinarsi o toccare nulla e rimase comodamente in piedi, rispondendo: “No”.
“So che non arrivi al metro e cinquanta, io però sono alto uno e novantadue”, continuò Alexander. “Devo vivere con la testa perennemente piegata?”
Tatiana replicò innanzitutto che superava il metro e cinquanta di quasi tre centimetri, e secondo che non vedeva dove fosse il problema. “É solo per un po’, l’hai detto tu stesso. Così spendiamo meno.”
“Non è per il prezzo”, affermò Alexander, uscendo nella calura e mettendosi a braccia conserte. “È per il tipo di vita. E se dovessimo abitarci per un paio d’anni? Non vuoi stare comoda?”
“A me non importa”, dichiarò lei, avvicinandosi. “Come sai, una baracca senza tetto, purché sia con te.”
Le diede un bacio sul naso. “Be’, senza tetto”, scherzò, “almeno non mi verrà il torcicollo.” La trascinò verso la trivolume, dove Tatiana azzardò timidamente: “Sai che possiamo vendere dieci acri e costruirci una casa come si deve”.
Alexander scosse il capo. “Moglie, per essere dotata di preveggenza, non sei per nulla lungimirante. Vuoi vendere la nostra terra? Se vendiamo dieci acri, qualcuno innalzerà venti case proprio accanto a noi, o magari trenta. Vuoi vivere così vicino all’altra gente?”
“No”, ammise lei, imbarazzata.
“Esatto. E secondo, hai acquistato il terreno sei anni fa a cinquanta dollari l’acro. Ora ne vale cinquecento. Non so tu, ma io vedo una tendenza al rialzo.”
“L’agente immobiliare ha detto...”
Alexander abbassò la voce. “Vaffanculo all’agente immobiliare.” Si sforzò di non sorridere. Incrociò le braccia e aspettò.
“Va bene, va bene”, accettò lei alla fine. “Ma una trivolume è un enorme spreco di denaro. Non ci serve così grande.”
“E la nostra squadra di marmocchi? Dove li metteremo?”
“Quando avremo una squadra di marmocchi, passeremo a una trivolume.”
“Quello sì che è un enorme spreco di denaro.”
E fu il turno di Tatiana di mettersi a braccia conserte. Alexander cedette, e per l’armonia coniugale trovarono un compromesso, cioè nessuno dei due ottenne quel che voleva.
La bivolume (larga sette metri, lunga diciotto e alta due e mezzo) aveva una porta d’ingresso, una porta di servizio e un vasto spazio aperto al centro, con una cucina, una sala da pranzo e un salotto. A destra del salotto una camera da letto padronale con bagno annesso, e la doccia. “È immensa”, commentò Tatiana. Sul lato opposto vi erano altre due camere, la più grande per Anthony e la più piccola per la “nursery”, decise Alexander. “La camera degli ospiti per Vikki e Tom”, ribatté Tatiana. Vi erano anche un secondo bagno in corridoio e una lavanderia.
“Shura, non dovrò più fare il bucato nei fiumi!” esclamò lei, felice.
“Ottimo”, brontolò lui, “considerando che non c’è acqua per tre Stati.”
In cucina e nella sala da pranzo c’era il linoleum bianco e nero, la moquette in tutte le altre stanze. “Moquette, Tatia”, sussurrò Alexander, rammentandole con malizia i vecchi pavimenti di legno a Lazarevo; ma Anthony era nei paraggi, e Tatiana non stette al gioco pur arrossendo.
La pagarono in contanti, e di lì a due giorni gli operai la consegnarono e la posizionarono su blocchi di calcestruzzo in cima alla collina, con il muso del rimorchio affacciato sulla strada. Ovunque facessero vagare lo sguardo vedevano il deserto, le montagne o la valle.
“Finalmente abbiamo una casa!” continuava a urlare Anthony, correndo per gli ambienti vuoti. “Non siamo nomadi, non siamo zingari! Abbiamo una casa!”
Tinteggiarono insieme i locali: la camera giallo e crema, la stanza di Anthony azzurro e crema. Le pareti del salotto e della cucina avevano il colore della crème brulée, anche se quando Alexander lo definì in quel modo, Tatiana pianse. “Perché, perché dici cose così orribili, papà?” chiese Anthony, dando dei colpetti a sua madre.
Tatiana appese semplici tendine bianche e acquistò pentole e tegami di acciaio inossidabile. “Non mangiamo più dalla stessa scodella, Shura?”
“Mangeremo sempre dalla stessa scodella, Tania.” Alexander si comprò un furgone. Impiegò una settimana per scegliere quello giusto. Alla fine optò per un autocarro leggero Chrevolet blu elettrico del 1947, con un abitacolo spazioso, la griglia cromata e le sponde laterali. Per Tatiana acquistò una Ford berlina verde salvia del 1949 nuova fiammante.
Comprò del legname e iniziò a erigere una rimessa in cui lavorare e conservare i suoi attrezzi. “Se fai la brava”, bisbigliò a Tatiana, “costruisco un tavolo da lavoro della tua altezza. Per pelarci sopra le patate, naturalmente.” Anthony era lì vicino, perciò Tatiana non gli diede corda pur avvampando.
Acquistarono un tavolo da pranzo rotondo con ribalte aggiuntive per gli ospiti (“Come quello di re Artù”, disse Alexander, “così potremo discutere del nostro destino”), un comodo divano e tre radio. Alexander, con l’aiuto del figlio, costruì a Tatiana due librerie e uno scaffale per i ninnoli (sebbene lei non ne avesse nemmeno uno) e un tavolo da lavoro per sé.
Comprarono un letto di ottone grande quanto quello di Napa, degno di un bordello. Non aveva il baldacchino, ma aveva le molle e un materasso spesso e soffice, ed era alto sul pavimento. Tatiana dedicò più ore a scegliere le lenzuola di quante ne avesse dedicate a tinteggiare e ad arredare il resto della casa, anche se impiegò un po’ meno tempo di quanto ne fosse occorso ad Alexander per scegliere il furgone.
“Di che colore vorresti le lenzuola?” gli chiese. Erano tutti e tre fuori, al caldo.
“Per me è lo stesso, fai come vuoi.” Alexander teneva in mano una sega: lui e Anthony erano impegnati a disporre sul pavimento le assi per il terrazzo anteriore, che, nonostante le proteste di Tatiana, stava diventando immenso.
“Alexander...”
“Cosa? Per me è lo stesso. Fai come vuoi.” Le voltava le spalle.
Lei lo prese da parte. “È il nostro letto matrimoniale. É il primo vero letto che abbiamo mai avuto. È molto, molto importante, ci servono lenzuola che riflettano questa importanza fondamentale.”
“Pretendi molto da quelle povere lenzuola.” Riprese a segare le assi, raccomandando al figlio di tenere lontane le sue piccole mani.
“Di che colore?”
“Per me è lo stesso.”
“Bene. Rosa, allora?”
“No, rosa no.”
“A pois? A righe? Nere?”
“Va bene qualsiasi cosa.”
“Rosa, allora?”
“No, rosa no, ti ho detto.”
“Mamma, cosa ne dici di qualcosa con i dinosauri?”
“Cosa ne dici degli uccelli, mamma?” Alexander sorrise. “O magari dei ruminanti in calore?”
Tatiana gli tolse la sega dalle mani, costringendolo a rialzarsi e a indicare le sue preferenze su un pezzo di carta. Lui scrisse bianco, bianco e bianco. Lei stracciò il foglio e lo obbligò a compilarne un altro. Lui scrisse crema, crema e crema. Lei gli accostò la mano alla pagina e lo esortò ad aggiungere altre parole. Lui rise fino a restare senza fiato. “Per. Me. È. Lo. Stesso”, continuava a ripetere. “Quale parte della frase non capisci? Fai come credi. Scegli tu.”
“Dovrai fare l’amore con tua moglie ogni notte guardando quelle maledette lenzuola”, gli sussurrò all’orecchio, “perciò sarebbe meglio che te ne importasse, perché tra una settimana te ne importerà.”
Sporco e sudato, Alexander la tirò a sé, i suoi palmi sulla schiena di lei, e piegandosi le bisbigliò sulle labbra: “Tatiasha, so che non ci crederai, ma se guardassi le lenzuola mentre faccio l’amore con te, avremmo problemi più grandi del loro maledetto colore”. La baciò come se non fosse giorno.
Tatiana si ritrasse, restituì la matita al figlio e si allontanò sbuffando. “Ora basta, non sto più al gioco.”
Alla fine tornò con trapunte, cuscini e coperte, e passò un altro giorno a lavarli e stirarli. Dopo aver fatto il letto, ordinò ad Alexander di chiudere gli occhi prima di condurlo in camera. “Okay, puoi aprirli.”
Lui obbedì. La trapunta, le lenzuola e la massa di cuscini erano candidi; il copriletto patchwork imbottito era di un tenue color crema, quasi bianco, con impunture di raso e fiori di velluto cremisi dappertutto. Tatiana aveva comprato anche delle nuove tendine trasparenti con violette di velluto blu e giallo. Alexander era immobile, fissava il letto.
“Allora”, disse Tatiana, impaziente. “Che te ne pare?”
“Boh”, fece con un’alzata di spalle.
Lei scoppiò in lacrime.
Ridendo, Alexander la sollevò tra le braccia. “Oh, no! Mia moglie ha perso il suo sconcio senso dell’umorismo!” Chiuse la porta alle loro spalle con un calcio.
Anthony, che ormai aveva sei anni, era a casa di Francesca, impegnato a giocare con il suo coetaneo Sergio Garda. Non vi erano molti bambini nati nel 1943; il padre e la madre di Sergio erano arrivati di recente da Mazatlan, in Messico. Sergio parlava spagnolo. Anthony parlava russo. Erano diventati subito amici. Mentre i ragazzini giocavano, Alexander fece l’amore con Tatiana sulle lenzuola nuove, per poi commentare: “A dire il vero, le ho notate a malapena”.
Lei non era in vena di ridere.
“Mi piacerebbe avere una poltrona in camera”, mormorò Alexander.
“A cosa ci serve?” gli domandò. “Abbiamo un divano in salotto.”
“Comprala, e ti faccio vedere.”
Dopo la consegna della poltrona la spogliò e si inginocchiò tra le sue gambe sollevate sui braccioli. In seguito, Tatiana ammise che erano stati soldi spesi bene.
Quando Anthony cominciò ad andare a scuola, all’improvviso Tatiana e Alexander ebbero la casa nuova tutta per loro. Godevano di una privacy assoluta durante il giorno. DURANTE IL GIORNO. Accompagnavano il bambino giù fino alla fermata dell’autobus all’angolo tra il Jomax e Pima Road, davanti alla casa di Sergio, lo salutavano, dicevano ciao a una Francesca sempre sorridente - che continuava a non parlare inglese ed era incinta per la seconda volta - e quindi trascorrevano le mattinate nel loro lussuoso letto bianco e morbido con i fiori cremisi. Giorno, luce, casa vuota. Collaudarono ogni stanza tranne quella del figlio. I piani di lavoro della cucina, il tavolo della cucina, le sedie della cucina, il divano, i tappeti, i pavimenti di linoleum, le vasche da bagno (con e senza acqua), il furgone di Alexander (sedile e cassone), la berlina di Tatiana (sedile anteriore, sedile posteriore e cofano). Nel frattempo si diressero una volta a sud verso la base di Fort Huachaca, Alexander ultimò il terrazzo e Tatiana piantò l’abronia lilla e preparò il pane. Il terrazzo era favoloso. Collaudarono pure quello. Trascorsero un agosto magnifico.
E poi finirono i soldi. Ogni centesimo che avevano sudato, guadagnato e risparmiato era sparito per la casa e le auto.
“E ora?” chiese Tatiana.
“Credo che forse dovrò cercarmi un lavoro”, rispose Alexander.
Lei lo spedì fuori con un pranzo al sacco. Lui trovò un posto in una squadra di imbianchini per un grande progetto commerciale. Quando però l’incarico fu completato, il lavoro si concluse. Ottenne un altro incarico; si concluse presto anche quello. Ci volle un po’ per incassare la paga. Tatiana smise di acquistare la carne. “Comprala”, disse Alexander. “Va tutto bene.”
“La prossima settimana resterai ancora disoccupato”, replicò lei.
Il problema non era solo il lavoro precario, ma anche l’abbondanza di manodopera e i salari esigui. Tanto valeva che Alexander andasse a raccogliere uva a Napa. “Tania, smettila di preoccuparti. Troverò qualcos’altro”, le assicurò. “E l’assegno della riserva arriverà da un giorno all’altro.” Ma quella cifra modesta non era sufficiente per vivere e pagare le esorbitanti bollette dell’elettricità, dovute ai condizionatori accesi giorno e notte. Tatiana, in ansia, iniziò a spegnere l’aria condizionata, risparmiare l’acqua, rinunciare al pranzo, preparargli due sandwich invece di tre. Gli disse che poteva fumare solo due pacchetti di sigarette al giorno. “Due pacchetti? Ecco da cosa capisci che sta andando tutto a rotoli”, sentenziò Alexander, accendendosene una.
Se vivi da bue, sogni da bue
Una sera di settembre Alexander tornò dal lavoro; la casa era fresca. Tatiana aveva cucinato il manzo alla Stroganoff. Sul tavolo vi era una bottiglia di vino stappata, e sulla stufa si raffreddava una crostata di ciliegie. Lei uscì dalla camera per salutarlo indossando un vestito morbido, i capelli sciolti.
“Oh, no”, esclamò lui, la tuta coperta di vernice secca. “È il nostro anniversario?” Si era tolto gli stivali e li aveva lasciati fuori.
“La mamma ha un lavoro”, annunciò Anthony, correndogli incontro.
“Anthony!” Lo rimproverò Tatiana. “Vai subito nella tua stanza.”
Voltandosi, il bambino la fissò con espressione vacua.
“All’ospedale, papà.”
“Anthony!”
Alexander rimase immobile sulla soglia, l’aria cupa. “Figliolo”, disse, “hai sentito tua madre? Vai nella tua stanza.”
“Perché?”
Gettando le chiavi sul tavolino, Alexander lo spinse in camera sua e chiuse l’uscio su un lamentoso: “Cos’ho fatto?”
Tornò in cucina.
“Siediti, caro, sei stanco?” domandò Tatiana, scostando una seggiola. “Oppure vuoi prima lavarti? Hai sete?” Gli portò una birra, gliela stappò e gliela versò.
“Vuoi anche berla al posto mio?” sbottò Alexander, tracannandola. “Che succede?”
“Perché non vai a lavarti e cambiarti? La cena è pronta tra qualche minuto.”
“All’improvviso mi è passata la fame. Hai un lavoro?”
“È solo per aiutare un po’ la famiglia, come a Napa, ricordi? Finché ci rimettiamo in sesto.” Era nervosa.
Alexander le prese le mani e la fece sedere accanto a sé. “Hai un lavoro in un ospedale?”
“L’ospedale. Ce n’è soltanto uno! Il Phoenix Memorial. È in centro, in Buckeye Road, a pochi chilometri da qui.”
“Buckeye Road? È a sessantacinque chilometri da qui!”
“Sessanta. Puoi raggiungermi per pranzo.”
“Ti prego, dimmi che pulisci i pavimenti. Ti prego, ti prego, non dirmi che fai l’infermiera.”
Tatiana tacque.
Lasciandole le mani, Alexander scosse la testa e si alzò. “No.”
Lei ricominciò ad agitarsi, gli occhi che guizzavano qua e là. “Si tratta solo di tre giorni la settimana. Tesoro, per favore. Ne abbiamo bisogno.”
“Non è vero.”
“Sì, invece.”
Lui la guardò con espressione torva. “Se pensi che abbiamo così tanto bisogno di soldi, perché non ti trovi un lavoro in un ristorante di Scottsdale?”
“Vuoi che faccia la cameriera? Vuoi che serva cibo agli uomini?”
“Non girare la frittata per scaricare la colpa su di me, Tania.”
“Per favore, non essere arrabbiato. Sto solo cercando di aiutare la famiglia.”
“Aiutala restando a casa.”
“Siamo al verde...”
“Guadagnerò abbastanza.”
“Certo. Shura! Cosa credi? Che non lo sappia? Lavori sodo più di chiunque altro, ma purtroppo non è un impiego stabile. Siamo ancora al verde.”
“Stai dicendo che non sono in grado di guadagnare abbastanza per tirare avanti?”
Le mani di Tatiana si unirono in un gesto di supplica. “Per favore. Non sto dicendo questo. È solo per un po’. È un lavoro fisso, e la paga è buona. Così non dovrai accettare la prima stupida offerta che ti capita soltanto per comprare da mangiare. Potrai guardarti intorno, vedere cosa c’è là fuori di giusto per te. E poi, se lavoriamo tutti e due, possiamo risparmiare soldi e rimetterci in sesto più rapidamente.”
Alexander si alzò e la fissò. Anthony socchiuse la porta. “Posso uscire ora?” chiese.
“No!” urlarono entrambi.
Il bimbo sbatté l’uscio.
“Vendiamo dieci acri di terra”, propose Alexander, rimettendosi seduto. “Preferisco vendere il terreno e vivere vicino ad altre persone che farti lavorare.”
Tatiana lo guardò, sbigottita. “Shura, non parli sul serio.”
“Con tutto il cuore.” La scrutò. “Ricordi Coconut Grove?” domandò, tirandosela sulle ginocchia. Era ancora così sporco, e lei così perfetta nel suo abito immacolato. “Restavi sulla barca, mi portavi il pranzo al porticciolo, e quando tornavo dal lavoro eri felice, entusiasta, riposata. Avevi lavato Anthony, gli avevi dato da mangiare e avevi giocato con lui. Mi aspettavi con impazienza... Non era meraviglioso?”
“Sì”, mormorò Tatiana. “Ma l’abbiamo vissuto poco tempo fa! Non puoi già ricordarlo con nostalgia.”
“Sì, invece”, disse Alexander. “È quello che voglio qui, è tutto ciò di cui ho bisogno. Voglio provvedere a voi, e voglio che tu stia a casa. Non mi va che lavori, e di sicuro”, sottolineò, “non in ospedale, cazzo!”
“Ssst!” Lanciarono entrambi un’occhiata alla porta chiusa di Anthony.
Alexander abbassò la voce. “Ti risucchierà l’anima.”
“No. Vedrai.”
“Non resterà niente per me.”
“Non succederà.”
“Mi vedi mentre ti trascino a Huachuca? Posso ottenere un posto nella riserva attiva in qualsiasi momento. Vuoi che sia quello il mio lavoro?”
“Allora non vivremo qui, nella nostra casetta, sulla nostra terra”, sussurrò Tatiana.
“Non è questo il punto.”
“Non penserai di tornare a quella vita.”
“Allora perché tu sì?”
“Non è vero, cerco solo di aiutare la nostra famiglia. E”, aggiunse, “è l’unica cosa che sappia fare. Forse potrei trovare una fabbrica di armi e mettermi a costruire carri armati, come alla Kirov... So fare anche quello.”
“Tania, credevo fossimo venuti a Phoenix per provare a fare qualcosa che non sappiamo fare”, replicò Alexander. “Ossia vivere normalmente. Ti piacerebbe se ti rammentassi tutte le cose che so fare io? Tu sei contraria, lo so. Richter, tuttavia, sarebbe felice se andassi a farle con lui in Corea.”
“Alexander”, protestò lei, “non è la stessa cosa, ti pare? Lavorerò tre giorni la settimana in un ospedale in tempo di pace e mi coricherò con te tutte le sere. In Corea ci sarebbero uomini intenzionati a ucciderti che lanciano cose che esplodono dritte nel tuo bunker. C’è una piccola differenza, no?”
“È proprio quello che intendevo. Stiamo tentando di costruirci una nuova vita qui. Nuova è la parola d’ordine. Cosa ti prende? Non hai visto abbastanza sangue?”
“Andrà tutto bene”, insistette Tatiana.
“Davvero? Ci sono risse, infarti, omicidi, sparatorie, aggressioni, accoltellamenti, incidenti stradali. Morte. Perché diavolo vuoi circondarti di tutto questo?” Si interruppe, allontanando la sedia da lei. Tatiana aveva gli occhi addolorati e supplicanti, la bocca aperta. E a un tratto Alexander capì. Come lui si portava dietro se stesso ovunque andasse, lei si portava dietro se stessa ovunque andasse. Come poteva impedirle di essere quello che era? L’unica cosa che disse in seguito, con profonda rassegnazione, fu: “Niente di tutto quello che ho passato ti ha dimostrato che se vivi da bue, sogni da bue?”
“Non io. Io cancello tutto.” Le labbra le tremavano appena. “Io cancello tutto”, bisbigliò. “E tra qualche tempo, quando avrò un po’ di anzianità”, continuò in tono dolce, “mi sposteranno nel reparto di ostetricia. Farò nascere i bambini.”
“Inizia a far nascere il tuo, di bambino, poi occupati di quelli degli altri. Cosa ne dici?” Con un breve gemito, Alexander si alzò per andare a lavarsi e cambiarsi. “Non voglio nemmeno chiederti in quale reparto lavorerai”, dichiarò mentre si allontanava. “Perché so che non è ostetricia. La maternità, sì, certo. Neonati, dolcezza, felicità, che Dio ce ne scampi. No... Hai quell’aria da cure terminali a Morozovo. Sei al pronto soccorso o in terapia intensiva.”
“Pronto soccorso”, confermò lei con aria colpevole.
“Giusto, naturalmente. Pronto soccorso”, sbottò il marito, già in camera, sfilandosi i vestiti.
Lo seguì.
“Andrà a finire male, Tatiana”, continuò Alexander. “A differenza di te, io ho l’inquietante capacità di vedere il futuro.”
“Spiritoso. È solo per aiutare la nostra famiglia, tesoro.”
“Non propinarmi queste storie! Non parlarmi come se non ti conoscessi. Ospedale di Leningrado durante l’assedio, cure terminali, prima linea, rifugiati a Ellis Island. Ma ora non ci sei solo tu. Ora hai una famiglia di cui tenere conto, un marito, un figlio.”
Il figlio gridò dalla sua cameretta: “Papà, posso uscire adesso?”
“Sì, Anthony”, rispose Alexander, nudo, dirigendosi verso il bagno e aprendo la doccia. “La conversazione è finita. La mamma lavora al pronto soccorso.”
Tatiana lo tallonò fino in bagno.
“Non so perché tu sia così contraria alla Corea, Tania”, riprese Alexander, togliendosi l’orologio. “Sarebbe perfetta per te. Proprio il posto adatto.”
“Per favore, Shura”, mormorò lei, stringendogli la vita prima che entrasse in doccia. “È solo per un po’, finché sistemiamo le cose.”
Lui trasse un profondo sospiro, la mano sulla sua testa.
“Ho una proposta”, tubò Tatiana, baciandogli il petto. “Facciamo un patto. Appena rimango incinta, mi licenzio. Te lo prometto. Okay?”
“Campa cavallo”, ribatté Alexander, nudo contro di lei, stringendola.
“Attento. Potrei già essere incinta.” Gli sorrise. Ma non era incinta. Era un’infermiera.