Sabato santo, pomeriggio

Sembrano davvero i comprimari di un film, Colasette e Bercalli, sotto la pensilina, con un’inquadratura che si allontana alle loro spalle, baveri alzati, Colasette col cappello calato sulle orecchie con lo sguardo rivolto oltre le macchine parcheggiate, al furgone della polizia, che apre il portellone e si carica Martina, senza strepiti, senza chiasso. E dietro il furgone, dall’altra parte della strada, un paio di alberelli che spuntano dall’aiuola del marciapiede, poi un condominio, e poi un altro, e dalle finestre le facce di quelli che, scostate le tende, danno un’occhiata. E dietro il condominio il cielo in movimento, nuvole grigie che si spostano su uno sfondo bianco, piuttosto opaco. Manca solo una sigaretta, il fumo dalle loro dita, per fare di quella scena un noir anni sessanta, come di quegli anni sono i condomini lì intorno, con i colori spenti che si dissolvono nel grigio dell’aria. Poi il furgone è chiuso e a sirene spente prende la strada.

“Mi dispiace per quella ragazza,” dice Bercalli, a voce bassa.

“S’è fatta un’idea di chi difendeva?” chiede Colasette.

“Solo se stessa.”

“Aveva paura?”

“Non paura, era fatalismo il suo. Fatalismo negativo. Ma non ha niente a che fare con l’aggressione a Cantoni, di questo ne sono certa.”

Sulla strada del ritorno se ne stanno in silenzio. La scena è già vista. Bercalli alla guida, Colasette a guardarsi in giro come un turista curioso. Passano sotto il palazzo della Provincia, una specie di castello contemporaneo, di vetro e acciaio, in cima alla collina, contemporanea anch’essa, fatta di strade, intasate di macchine. Il traffico è aumentato, ci sono macchine in fila all’uscita dei parcheggi per il centro commerciale. L’agitazione del sabato prima della festa, di decorazioni luminose appese ai supermercati, di gente che carica i bagagliai di borse. La ritualità di sempre, da secoli, senza più il senso della simbologia, e un’abbondanza, uno spreco mai visti nei secoli.

Colasette si solleva un poco dal sedile. Schiarisce la gola come per cominciare un discorso. “Non è stato molto da procedura che lei sia salita da sola in casa di Martina. Poteva anche essere pericoloso.”

Bercalli sorride. L’uscita di Colasette è l’assist perfetto alla domanda che si tiene in testa dalla mattina. “E che lei si sia comportato così a casa degli Ardenghi, è da procedura?”

“Così come?” chiede Colasette.

“Lo sa bene cosa intendo. Lei è il mio maestro, e sarebbe deludente come maestro se commettesse certi errori.”

“Mi dica a che errori si riferisce, uno può sempre imparare.”

“Non era un errore. Lei l’ha fatto deliberatamente, e ha coinvolto anche me. Lei sapeva benissimo che in quella casa c’era la marijuana, per questo ha voluto che venissi con un cane, ma poi se n’è rimasto fuori, lasciando che Eugenio Ardenghi avesse il tempo di sbarazzarsene bruciandola. Non vorrà davvero farmi credere che lei ha commesso un’ingenuità del genere? Nello stesso tempo, però, ha voluto dei testimoni, e ha coinvolto me. Non capisco se sia dovuto al suo narcisismo o a qualcosa della signora Ilde che non so.”

Colasette è tranquillo. “Narcisismo,” riflette a voce alta. Gli piace questa interpretazione. “Forse inconscio, ma per cosa? Non ho risolto niente. Ho solo capito una situazione.”

“Se non le dispiace, la faccia capire anche a me, questa ‘situazione’.”

“Cerco di fargliela breve.”

“Non si preoccupi, non è che abbiamo molto altro da fare in auto.”

“La torta che abbiamo trovato, il dolce terapeutico, era la madre a prepararla,” dice Colasette. Punta le mani per sollevarsi un poco. Spinge la schiena contro il sedile e, con lo sguardo diritto sulla strada, racconta a Bercalli quanto ha scoperto la mattina. “E anticipo la sua domanda,” dice alla fine, “non so ancora come se la procurasse. Però alla Ilde, lo psichiatra prescriveva anche degli antidepressivi. Era convinto che fosse la sua cura ad avere quegli effetti positivi su di lei.”

“Poteva essere lo psichiatra a fornire la droga,” dice Bercalli.

“No, gli ho parlato ed era sincero. Anche deluso, professionalmente. Era un punto di riferimento, per Ilde. Si sfogava con lui.”

“Sfogava. Dottore, l’ho sempre considerato colto e da lei mi aspetterei un modo più appropriato per definire la psicoterapia.”

“Si sfogava in senso letterale. Lo psichiatra è un prete e Ilde, quando non riusciva a farne a meno, imprecava contro di lui.”

“Mi sta dicendo che prendeva un appuntamento e passava la seduta imprecando contro il prete.”

“Più spesso gli telefonava.”

“Insultoterapia telefonica. Mai incontrata nei miei studi.” Bercalli non può non sorridere. “Però mi piacerebbe provarla.”

“Se come terapeuta, io mi prenoto come paziente.”

“Certo, perché lei mi vede come una suora.”

Colasette sta ancora guardando fuori, oltre le strisce d’acqua sui finestrini. Si passa una mano sugli occhi, scendendo al naso e poi alla bocca, per contenere il sorriso. L’uscita di Bercalli è come se avesse dato realtà a qualcosa di sottinteso. E gli va benissimo che sia normale ma non gli viene nulla da replicare. Torna a parlare della signora Ilde.

“Con la Ilde questa miscela sembrava funzionare. Per anni, quasi quindici ormai. Fino a due giorni fa quando si è scatenata la crisi.”

Bercalli mette la freccia per sorpassare un grosso camion a rimorchio, trasporto speciale, col permesso di circolazione anche nei giorni festivi. Gli pneumatici sollevano spruzzi d’acqua che tolgono la visibilità. Colasette, per riprendere, attende che finisca il sorpasso.

“Si sono sommati diversi fattori. Ilde dipendeva dalla madre e la madre in questi giorni è bloccata a letto. Forse per la prima volta in vita sua Ilde è da sola. Forse non ha preso gli psicofarmaci. La settimana di Pasqua, poi, per lei porta altri intensi carichi emotivi. In chiesa si parla di privazioni, di sacrifici: per un fioretto resiste a non mangiare la torta. La tensione sale. Niente psicofarmaci, niente marijuana, e la crisi esplode, di notte, nella forma nuova di ira iconoclasta. Esce sulle scale con quel crocifisso. Perché? Vuole usarlo come arma contro qualcuno? Vuole sbarazzarsene? E poi un uomo nudo sulle scale, come tutti i santi che si tiene in casa, che ha pure le ali sulla schiena. È troppo. Il cuore non le regge. Questa una possibile ricostruzione,” conclude Colasette. “Lei cosa avrebbe fatto della marijuana?”

Bercalli tiene gli occhi fissi sulla carreggiata, sull’auto che le sta davanti. La faccenda della marijuana non le interessa più. “Lei, con la sua ricostruzione, sembra voler accantonare il coinvolgimento della signora Ilde nella morte di Tore.”

“L’abbiamo visto stamattina, è impossibile che la Ilde abbia inferto un colpo tale con quel crocifisso.”

“Lei pensa ancora a Martina. Pensa che abbia attirato Tore fuori, e che qualcun altro, un certo panzone, entrato nel condominio, trovandosi di fronte un crocifisso, l’abbia usato per colpire. Ma a me Martina è parsa completamente estranea alla faccenda. E poi secondo lo Scienziato nessuno al di fuori della Ardenghi ha messo mano al crocifisso.”

“Secondo lo Scienziato,” ripete Colasette, intuendo la situazione. “Che coglione.”

“Scusi, ma con chi ce l’ha?”

“Niente, lasci perdere. Quando gliel’ha comunicato?”

“Mi ha mandato un messaggio, mezz’ora fa, avevo appena finito con Martina. L’ha detto a me, davo per scontato che l’avesse già comunicato anche a lei.”

Lo Scienziato, doveva aspettarselo. Non informare lui ma i suoi sottoposti, ecco la sua vendetta per lo scontro che hanno avuto. “È un’informazione importante per noi. Ma insisto a non escludere ancora la possibilità di una presenza esterna. Non dimentichiamo che Tore ultimamente aveva paura di qualcuno ma non sappiamo ancora di chi.”

Colasette, non dice più nulla. Anche Bercalli non aggiunge altro. Neppure dice come lei si sarebbe comportata rispetto alla signora Ardenghi e alla sua terapia materna alla marijuana. A scatti sposta lo sguardo dalla strada per vedere il lago oltre il canneto. Il pomeriggio è scuro. E scuro è il lago. Il canneto di un giallo marrone. Colasette dal suo lato osserva il ventre della montagna squartata dalla cementeria. Il bianco delle cave sotto le nuvole basse. Non si vede altro. Proprio in quei giorni si è parlato del rischio che la cima di quei monti possa franare. Le cave ne stanno minando la stabilità.

“Cosa ha da fare questo pomeriggio?” riprende Colasette colto da un nuovo pensiero.

“Non lo sa?”

“Intendo prima di andare all’aeroporto.”

“Dovrei vedere un amico che mi ha chiamato per andare a teatro, o potrei anche telefonare a quell’altro e vedere se la moglie è impegnata, devo fare la spesa, preparare l’agnello per domani, andare dal parrucchiere, un sacco di cose, come vede, avendo a disposizione poco più di un’ora.”

“Ah,” dice Colasette, sovrappensiero. Sembra crederci.

“Dottore, ma che impegni crede possa avere?”

“Che ne dice di un salto a Maggiano, in chiesa? A vedere un paio di quadri di Marco d’Oggiono. Ardenghi me ne ha parlato come del più grande pittore che queste zone abbiano mai avuto.”

Bercalli dà un’occhiata all’ora sul cruscotto. “Va bene, andiamo a conoscerlo, questo grande pittore. Ma dobbiamo passare anche al centro San Giuseppe. L’ha detto lei che era necessario parlare con i colleghi di Davide.”

“Non siamo distanti. Una variante culturale di qualche minuto.”

“Dovrebbe sentire anche Rodighiero e Garofalo.”

“Possono essere interessati al d’Oggiono?”

“Non credo, ma hanno degli aggiornamenti. In condominio hanno visto litigare Tore e i Romano, di recente, litigi molto animati con Tore che ha messo le mani addosso a uno dei due. L’informazione viene da una telefonata anonima arrivata in centrale. Però sarebbe bene che glielo dicessero direttamente loro. No?”

***

Si appoggia al davanzale della finestra, sono al piano rialzato, davanti a sé il parco. Nei giorni di sole le Prealpi dovrebbero essere proprio lì, a portata di sguardo, a cingere il verde della zona. Ma non oggi. Piegandosi un po’, Colasette può vedere il parcheggio principale, le auto che entrano ed escono. Bercalli invece cammina dentro l’ufficio interessata alle decorazioni, soprattutto a un poster con un angelo in volo. Anche in questo ufficio, condiviso da più persone, Davide ha portato il suo tocco personale. Su una mensola, davanti ai libri, c’è una fila di angeli, piccoletti e paciocconi, in legno. Hanno colori e fogge chiaramente in stile latino-americano, comprati in qualche centro equo e solidale, probabilmente, gestito da brava gente di paese animata da buone intenzioni che, senza saperlo, sgravano un po’ la coscienza del capitalismo occidentale che in quei posti ha portato la fame per poi comprarne i manufatti artigianali “tradizionali”, prodotti solo per essere venduti nei paesi ricchi.

La responsabile del personale in questo centro si chiama Cristina. Entrando si scusa di averli fatti aspettare ma, come hanno visto, è giornata di partenze e non poteva assentarsi subito. Giornata di partenze ma non di passeggiate, certo, ma Colasette per parlare con lei preferirebbe fare due passi nel parco. Bercalli invece può aspettarli in ufficio, non è necessario che sia presente anche lei.

“Se vuoi un caffè, serviti pure,” dice Cristina, amichevole, rivolta a Bercalli. “Non ho niente altro da offrirti, neanche un dolcetto, le cucine sono chiuse a quest’ora, ma il caffè è buonissimo, sai usare la macchina?”

“Certo,” risponde Bercalli osservando le macchina del caffè con le cartucce da caricare. “Ne abbiamo una simile anche noi in ufficio.” Non è vero, ma le viene da mentire per abbreviare la conversazione e restarsene da sola. E poi neppure lo vuole un caffè.

Cristina e Colasette escono dall’ingresso principale e passano per il parcheggio. C’è un gran viavai, dovuto ai molti genitori che sono venuti a prendere i figli. Le sedie a rotelle. La difficoltà a entrare in macchina. Gli operatori e le operatrici che salutano i bambini. Un clima di festa. Di gioia. L’handicap è sconfitto lì dentro. Finché sono dentro, la anormalità è la normalità. O il contrario. Fanno di tutto per rendere la disfunzione un altro modo di essere. Non una mancanza.

“Quanti sono gli operatori che lavorano qui dentro?”

“Parecchi, davvero,” risponde Cristina. “Ma non è facile dirle un numero preciso. Molti di quelli che vede oggi sono volontari, sostituiscono i dipendenti già in vacanza. Sa, per noi è importante che qui ci si senta tutti uguali, una famiglia, non solo un lavoro.”

“Capisco,” dice Colasette. “E personale con contratto permanente, ne avete?”

Cristina non reagisce come Colasette si aspetterebbe. Accenna un sorriso di apprezzamento per la domanda diretta. “Meriterebbero tutti salari migliori, quelli che lavorano qui dentro,” risponde come se si trattasse di una questione che avrebbe toccato anche senza la domanda, “invece sono costretta ad assumere solo con contratti a progetto. È frustrante, mi creda. Non ci sono i soldi, ti dicono sempre, e al nostro presidente della Regione, cattolico come me, tra conti bancari e case, gli hanno sequestrato beni per 49 milioni. Quante persone potrei assumere io, con cifre infinitamente più piccole.”

“Ma lui non sapeva di averli,” le dà corda Colasette, sorpreso dal rancore, sincero, della direttrice.

“Eh, certo, non lo sapeva, c’è da capirlo, in fondo se me lo chiedessero, neanche io so quanti soldi ho nella borsa oggi. Chissà, magari la apro e spunta fuori un milione, come il Signor Bonaventura, se lo ricorda?”

Colasette sorride a questa citazione. Non risponde per lasciare il tempo alla donna di riprendere.

“Sa cos’è la cosa più triste? Che sono riusciti a cambiare la testa delle persone. Ah, guardi, lo so bene che anche io ne ho avuto dei benefici. L’ha visto, metà della struttura è nuova e i finanziamenti li abbiamo avuti appunto perché siamo una struttura cattolica e il presidente era qui, il giorno dell’inaugurazione, ma io sono riuscita a evitare di stringergli la mano. Però, quello che le stavo dicendo, è che ormai tutti, se gli dai un lavoro, anche con un contratto assurdo sentono l’obbligo di ringraziarti. Ha capito? Non vale più l’idea che lavorare è uno scambio. Io ho bisogno di personale e tu hai una competenza. No, è in un solo senso e accettano tutto, poveracci, pur di lavorare. E poi dicono che i giovani sono viziati, ma non è vero. Non quelli che incontro io. Nessuno ha il coraggio di chiedere nulla, di fare una domanda sui loro diritti perché lo sanno, se non accetti tu il lavoro, arrivederci, c’è la fila là fuori per quel posto.”

Mentre la direttrice parla, Colasette si è voltato a osservare la nuova sede, tutta di vetro. Sembra assorbire il cielo coperto, le nuvole scure. Piscina, centri sportivi intorno alla struttura centrale, originaria, massiccia, a finestre regolari, con gli uffici al piano di sotto e i reparti d’ospedale ai piani alti. Due architetture a confronto. Due epoche. Distribuiti nel parco piccoli caseggiati per i diversi dipartimenti. Colasette può vederne i tetti, tra le piante.

“Mi parli un po’ di Davide.”

“Mi scusi, ha ragione, quando comincio con certi argomenti poi faccio fatica a fermarmi. Davide, lui sì, dopo tutti questi anni, finalmente un contratto decente lo dovrebbe avere presto.”

“Immagino che lei sia al corrente di quello che è successo a Colle. Se n’è fatta un’opinione?”

“Dottore, è lei?” chiede Bercalli, una ventina di minuti dopo, sentendo qualcuno entrare nell’ufficio.

Colasette appare da dietro la libreria che funge da divisorio per una parte dell’ufficio. “Aspettava qualcun altro?”

Bercalli non alza neppure lo sguardo. È in piedi, davanti a dei vecchi armadietti di metallo che a Colasette fanno pensare a quelli della piscina dove andava da bambino.

“Allora?” chiede Colasette, visto che Bercalli non la smette di fissare il foglio che ha in mano.

“Abbiamo l’identità dell’angelo, dottore, e anche la prova che Davide e l’angelo si conoscevano.” Si sposta e gli lascia spazio. “Guardi lei stesso.”

Colasette si avvicina. Nell’armadietto c’è un accappatoio appeso con degli occhialini rossi che escono dalla tasca. Nello scomparto basso, un paio di scarpe da ginnastica e ciabatte da piscina. Non è certo per fargli notare che Davide amava nuotare che Bercalli gli sta indicando l’armadietto.

“Lì sopra,” aggiunge infatti l’agente e col foglio indica lo scaffale in alto.

Colasette allunga la mano, scosta un paio di libri e prende un passaporto. È il passaporto di Davide Torti. Aprendolo ci trova una ricevuta dell’unica agenzia di viaggi rimasta aperta in zona, l’agenzia Volare, graffettata a un foglio con il riepilogo di una prenotazione. Alitalia+Air France. 2 maggio, volo: Milano Linate – Nairobi Jomo Kenyatta. 1 scalo: Parigi Charles de Gaulle. Passeggero: Davide Torti.

“Va bene, ora sappiamo che Davide ama i safari.”

“Scusi, c’è anche questo,” dice Bercalli, passandogli un altro passaporto. È intestato a Matteo Foresti, la foto è quella del ragazzo morto sulle scale, l’angelo. “Questa invece,” continua Bercalli mostrando il foglio che tiene in mano, “è un’altra ricevuta di pagamento, avvenuto via internet, effettuato da Davide. Il passeggero è Matteo Foresti. Stessa data, stesso volo per Nairobi.”

“E così Davide ha prenotato un viaggio per sé e per l’angelo.”

“Per Matteo Foresti,” puntualizza Bercalli.

“Per Matteo Foresti, va bene.”

“Li ha presi separatamente. Ed è un viaggio di sola andata, dottore. Biglietti di ritorno non ce ne sono.”

“Sola andata, certo. Ha già pensato a una spiegazione?”

“Sembra che Davide intendesse scappare senza dire niente a nessuno.”

“Scappare col suo angelo. Uscendo chiediamo alla responsabile se sapeva del viaggio o se Davide aveva chiesto un periodo di ferie. Ha trovato altro?”

“No.” dice Bercalli. “Abbiamo l’identità dell’angelo e, soprattutto, siamo certi che questo ragazzo ha a che fare con Davide, le sembra poco?”

“Bene,” dice Colasette in tono piatto, come se stesse già pensando ad altro. “Gli altri armadietti sono chiusi,” nota. “Ha forzato quello di Davide?”

Bercalli non si aspettava un elogio per la scoperta ma nemmeno un rimprovero. Recupera la gruccia di metallo usata per aprire l’armadietto di Davide, inserisce l’estremità dietro la porta all’altezza della serratura e apre anche l’armadietto accanto tirando a sé l’anta di metallo che traballa visibilmente.

“Le sembra che abbia forzato l’armadietto?” dice voltandosi verso Colasette.

“D’accordo,” dice Colasette. “Sono informazioni importanti.”

“E lei, scoperto qualcosa?” chiede Bercalli.

“Sì, ho scoperto che la maggior parte degli insegnanti che lavora nella scuola di questo istituto, privato, lo fa per cifre ridicole e contratti volanti. Però fanno punteggio e così possono salire in graduatoria per la scuola pubblica.”

***

Irene rientra in casa, si libera delle borse dei negozi in corridoio, ci lascia cadere sopra il giaccone. Entra in bagno, si piazza davanti allo specchio. Un taglio scalato, senza riga, può spostare i capelli a destra o a sinistra. Il riflesso rosso è molto visibile. Apre l’acqua della vasca da bagno. Saggia con le dita la temperatura, prende in mano il miscelatore della doccia e infila la testa sotto il getto. È scomoda così piegata, ma con la mano libera comincia a strofinare. L’acqua le scende sul maglione. Si versa lo shampoo e strofina ancora. Rimette la testa sotto il getto d’acqua e li risciacqua. Si avvolge con un asciugamano, porta le borse in camera, entra dalla madre. Nell’aria il solito odore. In tv c’è un programma con una presentatrice che fa delle domande alle concorrenti, il pubblico ride, si stupisce, applaude. Irene abbassa il volume, apre la finestra. La madre è sveglia. Irene le pulisce la saliva seccata sul collo. Le apre la bocca, le spennella il collutorio sulle gengive, sulla lingua, fino alla gola. Riempie d’acqua calda mista a detergente la bacinella che tiene sotto il letto. Prende gli asciugamani, i trucchi appena comprati. Chiude la finestra, sposta le coperte e le toglie il vestito. La magrezza della madre la sorprende ogni volta, perché l’immagine che le si è ancorata nel cervello è una madre dal viso tondo, con un corpo robusto. La faccia in realtà è ancora tonda, ma sono le medicine a gonfiarla. Il resto è una madre essenziale, asciutta, quasi svuotata, la cui vita dipende da tubi ed estensioni del corpo, le sue funzioni rese esterne, rese visibili dalla malattia. La pelle sembra uno strato di carta sottile e crespa che la avvolge, che tiene qualcosa dentro, ma a questo dentro non combacia perfettamente, e così si creano delle pieghe continue, soprattutto sulla pancia, sulle gambe.

Allunga l’asciugamano sul letto, fa in modo di spostarci sopra la madre. Le passa la spugna umida sul collo, sulle braccia, sul busto, sta attenta alla zona in cui i cateteri le entrano nella carne. Immerge la spugna nella bacinella poggiata sulla sedia, la strizza. Le strofina i piedi. Le alza le gambe, risale alle cosce, all’inguine, al sedere, al sesso. Poi, tenendola a sé per le spalle, le lava la schiena. Butta via l’acqua col detergente e riempie la bacinella solo di acqua calda per il risciacquo. Le asciuga il corpo.

“La primavera arriverà e dobbiamo farci trovare pronte.”

Le rimette il pannolone.

“Ti truccavi sempre tu, mamma, no? Il papà ti chiamava puttana perché andavi con gli altri uomini?”

Le spennella la faccia di terra. Gli occhi della madre seguono i suoi occhi. Irene si concentra sulle porzioni di pelle che sta trattando. Non è facile evitare che gli sguardi si incontrino. Non lo è mentre le passa il mascara sulle ciglia, in ginocchio sul materasso, la schiena piegata in avanti, il tubetto in una mano, lo scovolino nell’altra. Molto vicina col suo viso al viso della madre, molto vicina per evitare di sbavarle il trucco. Con le dita le spalma l’ombretto sulle palpebre per creare una sfumatura di azzurro. La madre chiude e apre le palpebre, muove la testa a destra, la riporta più lentamente a sinistra, unico modo possibile per dimostrare la sua contrarietà a quelle attenzioni indesiderate.

“Stai ferma,” dice Irene. Le prende il mento tra le dita, lo tiene con decisione, le passa il rossetto. “E adesso le unghie.” Lo smalto azzurro. Sapeva che non l’avrebbe mai usato per se stessa, ma non è stata capace di frenare l’entusiasmo di Martina. È stata proprio Martina a farle comprare i trucchi e la biancheria intima di pizzo. Parte dalle unghie dei piedi. Poi quelle delle mani. Poi torna ai piedi, e poi ancora alle mani. La madre sembra lì apposta. Un manichino su cui fare esercizio.

Le infila le braccia in un vestito pulito e poi la copre infilandole il cappotto. Le sistema il collo di pelliccia appena sotto il mento. “Volevo farlo lavare per metterlo via. Ma fa ancora freddo. Sai che oggi sono uscita con i guanti?”

Ammucchia detergente, spugna e vestiti nella bacinella, insieme a tutto il resto, alza di nuovo l’audio della tv, esce dalla stanza.

Si toglie l’asciugamano che ancora ha in testa. Non si guarda allo specchio. Cerca nel frigo qualcosa da mangiare. Accende la tv, si siede al tavolo. Si sente stanca. Sente addosso il peso delle poche ore dormite la notte prima. Pensa a Martina, potrebbe già essere in carcere in questo momento, ma le sembra una cosa lontanissima da lei, roba di un altro pianeta, di un’altra vita, non certo di questa vita adesso, seduta al tavolo della cucina, con la televisione mentre ascolta la presentatrice che chiede a una ragazza se vuole sposare il fidanzato anche se, a quanto pare, l’ha tradita. Con la fame che le cala via via che butta giù cucchiai di yogurt alla pesca, coi suoi capelli che stanno asciugando. Ha deciso di non pettinarli. La ragazza in tv risponde di sì, perché lo ama, e qualcuno nel pubblico applaude, qualcuno fa buuu. Partono le domande. Lei non sa cosa avrebbe fatto. Non si è mai trovata in quella situazione. Non sa se la ragazza abbia fatto bene. Non vuole rimanere in casa. Chiama il fratello. Gli chiede a che punto è col lavoro. Si assicura che a cena ci sarà ed esce per andare al centro commerciale.

***

“Posso chiederle perché dobbiamo andarci col prete?” chiede Bercalli, mentre oltrepassano il cancello dell’oratorio.

“Per farci quattro chiacchiere,” risponde Colasette. “Volevo accertarmi che ci abbia detto tutto quello sa.”

Don Mario sta salendo le scale. Al rumore dell’auto si volta, riconosce Colasette e li attende.

Entrano in casa insieme. Il soggiorno è spazioso, aperto sull’entrata da un arco a mattoni. Soggiorno che usa anche per le riunioni con i giovani, dice il prete. Offre loro da bere. Accettano entrambi dell’acqua naturale. Don Mario porta i bicchieri con la bottiglia. Li appoggia su un lungo tavolo al centro della stanza, con una decina di sedie intorno, e poi scompare nella zona notte della casa. Bercalli si siede su una delle due poltrone vicine allo stereo componibile, prende alcuni dischi sulle ginocchia. Colasette si gira direttamente verso la libreria che copre tutta una parete. La solita curiosità di vedere quanti libri conosce, e anche il gioco di capire la persona che abita la casa.

“Non ho mai sentito un disco così,” dice Bercalli dopo qualche minuto, una riflessione ad alta voce. Colasette, con un libro in mano, si volta a guardarla. Ci sono vent’anni tra loro, eppure lui non lo sente quel divario.

“Ne metta uno,” le dice.

“Non l’ho mai fatto.”

“Quando ero bambino mio zio aveva una collezione di migliaia di dischi,” dice Colasette. Suona quasi come un chiarimento che quando lui era ragazzo già si ascoltavano i cd. Gira intorno al tavolo. “Che disco è?”

“C’è una banana in copertina.”

“Ne scelga un altro,” dice Colasette.

“Mi ha incuriosito questo.”

“Allora lo ascoltiamo.” Fa per prenderle il disco ma Bercalli lo tira indietro allontanandolo dalla mano di Colasette.

“Lo metto io. Non ci vorrà mica una laurea.” Ripone i dischi che teneva sulle ginocchia, si alza dalla poltrona. Si para davanti al commissario.

“Allora, intanto lo si dovrà tirare fuori dalla confezione e si dovranno accendere tutti gli interruttori, immagino. Poi alzare il coperchio poi... poi che devo fare?”

Colasette le si fa più vicino. Lascia il libro sulla poltrona, da dietro allunga un braccio verso lo stereo attento a evitare contatti con Bercalli.

“Si appoggia il disco nel mezzo.”

“Ovvio,” sorride Bercalli.

“Ovvio, certo, poi prenda questo, si chiama braccio, e lì sotto c’è la puntina, quella che legge le tracce sul disco. Ecco così. E adesso,” continua Colasette, sostenendo con la sua mano il polso di Bercalli, “lo alzi appena e il disco comincerà a girare.”

Dicendolo guida la mano di Bercalli a sollevarsi, poi la guida un poco a sinistra e il disco comincia a girare.

“E adesso appoggio la puntina sul primo giro,” dice Bercalli.

“Prima prenda quella spazzola di velluto e la appoggi leggermente sul disco, così si pulisce.”

Bercalli prende la spazzola con la mano sinistra e fa quello che Colasette le ha detto, mentre Colasette, le tiene alzata la mano destra, con due dita sotto il polso, la testa piegata di lato, per poter arrivare a vedere l’operazione, evitando però di toccarle col mento la spalla. Sente un odore lontano di shampoo nascosto dall’umidità del giorno. E sudore, quasi di vino bianco frizzante.

“È abbastanza così?”

“Sì, adesso appoggi la puntina.”

Per farlo Bercalli si piega un poco in avanti e il suo corpo tocca quello di Colasette e la puntina comincia a oscillare. Oscilla seguendo i giri del disco. Oscilla seguendo le oscillazioni del disco. E i loro occhi puntati a guardare quel disco girare e girare. Ad aspettare che da quei giri ne esca il suono. Ne esca una musica che tarda a venire. Che non viene proprio, quasi che la musica per quel momento sia solo il silenzio e le macchine dalla strada, e in silenzio restano attaccati, in una specie di attesa che sta diventando imbarazzo, in quella vicinanza da cui vorrebbero uscire.

“Non funziona,” dice don Mario da sotto l’arco. “Se state provando a far funzionare il giradischi, purtroppo non funziona.”

“Ci siamo accorti,” dice Colasette, lasciando la mano di Bercalli.

“L’ho ereditato insieme alla collezione di dischi dal mio predecessore, don Ludovico, un’ottima persona, culturalmente interessata a tutto. È morto prematuramente, e lo stereo con la collezione è rimasto qui. Il lettore cd funziona, ma devo decidermi a far riparare la piastra prima o poi.”

“Meriterebbe, è proprio un bell’oggetto. Ha ereditato anche i libri?”

“No, quelli sono miei.” La velocità della risposta indica il suo vanto. Veste il clergyman grigio scuro che, se non fosse per il collare bianco, farebbe pensare a un buttafuori di un club notturno. Due spalle da azzittire ogni protesta, un collo da ariete. Un tagliaboschi canadese, gli sembra a Colasette. Più facile immaginarlo con una scure in mano piuttosto che seduto a una scrivania con un libro davanti.

Colasette raccoglie il libro che ha lasciato sulla poltrona, lo rimette a posto. Bercalli ripone i dischi, spegne lo stereo. Escono di casa, scendono verso la macchina. Bercalli si mette alla guida, il commissario di fianco e il prete, piegandosi per entrare, dietro.

“Che libro stava guardando?” chiede don Mario.

Il concetto di Dio dopo Auschwitz,” risponde Colasette voltandosi verso il prete. “Con un titolo così, mi ha attirato.”

“Jonas è un filosofo ebreo. Si è occupato molto della libertà e della responsabilità dell’uomo sul proprio destino. È un libro interessante.”

Colasette torna a guardare la strada. “E Auschwitz?” chiede.

“Auschwitz inteso come il palesarsi supremo del male, e Jonas, riflettendo su di esso, ha messo in evidenza l’incompatibilità di due concetti attribuiti a Dio, l’infinita bontà e l’onnipotenza. Due concetti che rendono Dio totalmente incomprensibile. Vale a dire, se Dio è infinitamente buono non poteva accettare tanto male. Allora perché non è intervenuto potendolo fare, dal momento che è onnipotente? A questo dilemma Jonas trova la soluzione affermando che la bontà di Dio è stata all’origine, e cioè nella creazione, quando Dio si autoaliena, cioè rinuncia per un tempo lunghissimo alla sua potenza. E quindi Dio ad Auschwitz, o più in generale nel male che c’è sulla terra, non è intervenuto, e non interviene, non perché non voglia, ma perché non può. Qui sta la responsabilità dell’uomo, e cioè la responsabilità di incidere sul destino stesso di Dio, un Dio non statico e immutabile, ma un Dio calato nel tempo, nel divenire della storia. Che soffre con essa.”

Sono concetti nuovi per Colasette, figli di una teologia che non c’era nelle prediche, in seminario, quando gli era capitato di sentire vecchi sacerdoti sostenere che la resurrezione di Cristo era un fatto storico e in quanto tale dimostrabile con i documenti a disposizione nelle scritture. A Colasette verrebbe da chiedere a don Mario come un cristiano possa sistemare questa teoria teologica con la faccenda di Cristo, della sua venuta, cioè dell’intervento di Dio nella storia. Ma soprattutto gli verrebbe da citare il solito san Paolo, quello che la religione cristiana l’ha fondata, quel passaggio stracitato dove consiglia di rifuggire la razionalità. E Colasette è d’accordo, il credere religioso, se spiegato con la razionalità, troppo spesso stride.

“Don Mario, sono argomenti interessanti ma il viaggio all’aeroporto è troppo breve. Uno di questi giorni la invito a cena e riprendiamo la conversazione. Per ora torniamo all’hic et nunc del nostro incontro con Davide, e mi risponda a due cose. Uno, lei sapeva che Davide sarebbe partito per il Kenya? Due, il nome Matteo Foresti, le dice niente?”

***

Spinge il carrello, assorta nella spesa tra gli scaffali del centro commerciale, e si sente più serena. Non ha con sé nessuna lista della spesa. Passeggia tra le corsie, passa in rassegna gli scaffali, esamina i prezzi, la marca, quello che piace al fratello, cerca l’offerta. Il carrello si sta riempiendo. Ha già fatto la fila dal salumiere, comprato il crudo e la bresaola, la torta di gorgonzola e mascarpone, le piccole caciottine affumicate, ha comprato anche l’agnello, già condito con le spezie, pronto per essere messo in forno. In rosticceria ha comprato il pollo allo spiedo, per la sera, e delle patate novelle già cotte, da scaldare e servire, un po’ per la cena e un po’ insieme all’agnello, l’indomani. E adesso passeggia, in compagnia del carrello, la testa a pendolo, destra e sinistra, sinistra e destra, lo sguardo che rimbalza tra un prodotto e l’altro, rasserenandosi. Carta igienica, detergente per il pavimento, candeggina per il bagno, spugne, dentifricio, sapone per le mani. Tovaglioli di carta. Poi il latte, gli yogurt, le mozzarelle. I biscotti, la pasta, i succhi di frutta. I capelli sono ancora umidi, ma non ci pensa. La sua attenzione è per marche, prezzo, quantità, per i faretti che illuminano questo o quello, per i banchi a parte dove ci sono le promozioni e le ragazze che ti offrono un assaggio di grana. Ecco, comprerà anche una bottiglia di vino, lei non beve ma Piero sì, e domani è Pasqua, una bottiglia ci vuole. Fare la spesa è sempre rilassante per lei. Compra le banane, le fragole, i kiwi. Compra i pomodorini, la rucola. Compra anche i finocchi, che a lei piace mangiare sconditi, semplicemente lavati e tagliati, e se li mangia guardando la tv. Compra anche una colomba, non per casa, loro hanno già quella che Fumagalli ha dato a Piero e a tutti i dipendenti, con una bottiglia di prosecco. Ne compra una da regalare alla signora Cantarella, una di quelle che ha visto in tv, di marca, ripiena di crema. Per il fratello invece compra un uovo. Le manca solo la scorta di Coca-Cola e di birre per Piero, da tenere sempre pronte in frigo, e la bottiglia di vino per il pranzo. Si guarda intorno, per andare al reparto alcolici, gira il carrello. Per le birre è semplice, è sempre la stessa Beck’s che compra. È quella che Piero vuole. Svolta nel corridoio dei vini, si trova di fronte una bambinetta con un carrello giocattolo pieno davanti a sé. Bionda, capelli ricci lunghi, vestita con una gonnellina a salopette rossa, le calze a righe, sorridente, corre che stava quasi per sbattere contro il suo carrello, e la riconosce subito. È la nipote del sindaco. Tutta contenta, la bambina le mostra l’uovo di Pasqua, anche lei l’ha riconosciuta.

“Ciao bellissima, sei venuta a fare la spesa?”

La bambina scrolla la testa senza rispondere e indietreggia verso il nonno. Né il sindaco né Irene hanno quella gran voglia di incontrarsi fuori dal municipio, ma ormai ci sono.

“Tutti a fare le spese di Pasqua oggi,” dice Crovetti, che non ha il carrello.

“E tu il baby sitter,” sorride Irene. “Sempre più bella tua nipote.”

“Eh, sì, ho accompagnato mia figlia. Lei è in giro a spendere soldi, e io inseguo questa piccola peste.”

“Non sono una peste sto facendo la spesa,” dice la bambina, attaccandosi alla giacca del nonno. Crovetti non ha più la cravatta della mattina, ma un maglione a collo alto, beige, e la giacca di montone.

“Ma mi fa bene, almeno mi muovo un po’. Il dottore mi ha prescritto un’altra dieta, troppi chili e colesterolo troppo alto, ancora. Ma come si fa a stare a dieta a Pasqua? Tu sei fortunata che non hai certo problemi di peso. Almeno con la nipote mi tocca correre un po’.”

“Così dimagrisci,” dice la bambina, e ride. Sa che è una cosa da non dire in pubblico, ma quando la dice in famiglia fa ridere tutti.

“Vedi,” dice il sindaco con orgoglio camuffato da lamentela, “ha più lingua che anni, questa bambina, chissà quando cresce.”

Anche Irene ha sorriso. L’uscita della bambina è divertente, e per Crovetti il peso è un chiodo fisso, insieme ai recenti problemi cardiologici. Ha solo cinquantacinque anni, ma il cuore gli è andato in aritmia mentre lavorava, quindi niente cantiere, proibito. L’impresa edile la porta avanti il figlio, laureato da poco in architettura.

“È tua moglie che prepara il pranzo?” chiede Irene sapendo che è un argomento di facile conversazione.

“Magari lo preparasse mia moglie! C’è anche mia figlia, e poi la madre di mio genero, è una gara a chi cucina meglio. Tutti che mangiano dagli antipasti al dolce e io dovrei rimanere con riso in bianco e un’insalata, a guardar loro abbuffarsi? Ma dico, morire bisogna morire, d’accordo, ma soffrire così è troppo.” È una battuta, ma il riferimento alla morte rende inevitabile tornare a parlare dei fatti del giorno. “Nessuna novità?” chiede.

“Che io sappia no. Tu ne sai qualcosa?”

“Un gran viavai di giornali e televisioni. Tutti convinti che chissà quali cose succedono a Colle Ventoso. Spero si risolva tutto in fretta. E tu stai in famiglia domani?”

“Certo.”

“E tua mamma?”

“Né meglio né peggio.”

“Povera donna, però. Noi ci lamentiamo dei nostri fastidi, e ci dimentichiamo che la vita, certe volte...”

“È vero,” dice Irene che, interpellata su sua madre, non sa mai cosa rispondere. Fa caso alle bottiglie nel carrellino della bambina. “Hai preso del vino?” chiede.

“Non posso berlo, ma me lo fanno scegliere, ecco cosa succede a invecchiare.”

“Voglio comprare una bottiglia per mio fratello. Ma io non ne capisco.”

“Cosa mangiate?”

“Le lasagne poi l’agnello con le patate.”

“Be’, allora, ti direi... tuo fratello, poi... io lo so, a lui piace bere bene.” Torna verso lo scaffale trascinandosi dietro la nipote. “Prendi una di queste.” Indica col mento le bottiglie.

“Questa?” chiede Irene prendendone una.

“Quella a sinistra, la bottiglia di Morellino.”

Costa più di quello che Irene spende di solito. Però la mette lo stesso nel carrello.

“Andiamo nonno?” si lamenta la bambina prendendogli la mano.

“Non tirare, Matilde.” Crovetti si libera con una smorfia. “E stai vicina, che il nonno non può correre.”

Irene ha notato la smorfia. “Ti fa male?”

“Ma no, solo un po’. Non è niente ma adesso tutti a dirmi che anche questa caduta è colpa del peso. Tutti bravi a fare le prediche. Va bene, Irene, devo andare, fai una buona Pasqua, eh, auguri alla tua mamma e anche a tuo fratello. Se succede qualcosa fammi sapere. Speriamo che almeno il giorno di Pasqua possiamo stare un po’ tranquilli.”

***

Uno di fianco all’altro, in perfetta scala, a sinistra don Mario, dieci centimetri più in basso Colasette, dieci centimetri più in basso Bercalli, col suo metro e settanta, le teste rivolte al tabellone degli arrivi. L’aereo da Lisbona è atteso tra venti minuti.

“Io approfitto dell’occasione per visitare la cappella,” dice il prete. “Non ci sono mai entrato.”

“Non sapevo che si interessasse di religione,” dice Bercalli, appena don Mario si allontana.

Colasette alza le spalle. “Più che interesse è una condanna. Credersi possessori della verità assoluta. Questo trovo affascinante di tutte le religioni.”

“Io in chiesa non ci vado e questo è il mio solo rapporto con la religione,” dice Bercalli. “Però don Mario mi sembra un brav’uomo.”

“Quasi invidiabile. Ha qualcosa in cui deve impegnarsi a credere e ha uno scopo nella vita.”

“Sì, ma niente sesso,” sorride Bercalli.

“Altra fortuna.”

“Una fortuna se non ne avesse voglia. L’ha visto come gli scappa l’occhio sul culo delle donne?”

“No, non l’ho visto,” sorride Colasette.

“Ci faccia caso. Comunque, dato che c’è da aspettare, io approfitto per andare in bagno.”

Colasette indica il bar lì vicino. “Io vado a bere un caffè.”

Fa la fila per lo scontrino. Prende il caffè, la mezza di naturale, li appoggia sulla mensola contro la vetrata, si siede sullo sgabello. La prima fila in un teatro improvvisato, lui l’unico spettatore, gli attori tutta quella gente che gli si muove dinanzi, vicinissima però lontana. Come il Dio che don Mario ha cercato di descrivergli. Se ne sta a guardare al di là di un vetro l’umanità che gli danza davanti quei passettini così spontanei del ballo della vita, in equilibrio sulle punte, che più che passi di danza sono scambi su binari d’acciaio, non modificabili. Un Dio che partecipa dell’umanità ma impossibilitato ad agire, anche se lo volesse. Non può, per amore. La madre che dice ai figli, vi amo così tanto che non faccio niente per voi, ma vi sto a guardare sbagliare, vi sto a guardare soffrire, vi sto a guardare uccidervi da soli, perché vi amo troppo. Assurdo e affascinante. Ma dove va tutta questa gente? Lui con Luna non ha mai preso un aereo. Lei ha insistito spesso, partire, fare le vacanze insieme da qualche parte, lontano. Viaggiare. Sud America, Stati Uniti, India. Sente la vaghezza di un rimpianto per le cose non fatte. Ecco, di Luna, in questo momento gli mancano le cose che avrebbero potuto fare. Gli mancano i ricordi che lei, di lui, non ha. A quest’ora, se fosse andato in montagna, adesso starebbe cominciando a occuparsi della cena per tutti. Luna sarebbe tornata, stanca e infreddolita, gli avrebbe raccontato le sue imprese e in un orecchio gli avrebbe bisbigliato di salire ad aiutarla a fare la doccia. O forse oggi davvero Luna non è uscita. È rimasta a casa, lei, il biologo e il cane. Luna. È convinto di questo, ormai. Non si spiega altrimenti la sua totale assenza, neppure ai messaggi che le ha mandato ha risposto. Tutta una giornata tra il letto, la doccia, sesso, risate, e lui ormai relegato nel retro dei pensieri, una preoccupazione per lei, un problema da risolvere, a cui è difficile anche scrivere un banalissimo messaggio. Torna a guardare la gente. L’unico viaggio che vale davvero è starsene in aeroporto. Il resto stereotipi da confermare, fissandoli su fotografie digitali da mostrare per un nanosecondo su un qualche social. Non è neppure sorpreso che Luna non si faccia sentire, gli sembra rientrare nella persona che lei è. No, non gli manca Luna, lo sa. Quello che gli manca è una sicurezza. La sicurezza che Luna se n’è andata. O la sicurezza che Luna tornerà. Buffo a sufficienza, entrambe le cose gli danno dispiacere. Ma almeno conoscerebbe la ragione del proprio dispiacere. Sorride, della propria stupidità. Vorrebbe sentirsi vecchio, piuttosto, invece si sente proprio come quando a vent’anni si sentiva stupido.

Don Mario torna verso gli arrivi. La gente si gira a guardarlo, incuriosita dal clergyman scuro, da quel prete massiccio. Arriva anche Bercalli. La porta automatica dell’uscita si apre, finalmente, la prima persona ne viene fuori. Poi si apre ancora e arrivano altre persone, con quella barriera umana in attesa che li fa sentire un po’ dei divi accolti dai propri fan, dai giornalisti. Alcuni si abbracciano, altri si stringono le mani, altri se ne vanno da soli. Colasette rimane a guardare da dietro Bercalli e don Mario, dal gesto di piegarsi su di lei si capisce che stanno chiacchierando, in attesa di Davide.

E Davide spunta, dieci minuti dopo. Un ragazzo di corporatura magra, quasi fragile, che trascina per il manico un trolley nero. Don Mario sventola la mano, per attirare l’attenzione. Davide gira il cordone di separazione dove la gente sta assiepata, si avvicina al prete, lo abbraccia, la testa appoggiata al petto, senza lasciarlo, senza volersene staccare. A Colasette sembra che pianga. Rimane qualche altro istante a osservare. Aspetta che l’abbraccio si sciolga, che si dicano qualcosa. Lascia che il prete presenti Bercalli. Finisce in un lungo sorso l’acqua, esce dal bar. È il suo momento, adesso, e si sente tranquillo. Una divinità minore a cui non è possibile non intervenire. Si avvicina ai tre, Davide sta davvero piangendo.

“Lo sa perché siamo qua ad accoglierla?” chiede Colasette.

Davide alza gli occhi verso di lui, ma non parla. Sembra, a Colasette, una specie di implorazione a dirglielo lui il perché.

“Matteo Foresti,” dice, semplicemente.

Davide continua a guardare Colasette, come unica cosa che può fare. Poi torna ad abbassare lo sguardo, sul pavimento dell’aeroporto.

“Lo voglio vedere,” dice Davide, composto. Prende un fazzoletto dalla tasca e si soffia il naso.

Nessuno gli risponde.

“Lo voglio vedere,” dice ancora, stavolta alzando la voce.

“Usciamo da qui,” dice Colasette.

È chiaro, Davide ha deciso da sé che non ci sono alternative, non ha alcuna via di fuga nella negazione. Meglio parlare.

Camminano verso l’uscita, in silenzio. Colasette e Bercalli affiancati, Davide davanti, vicino al prete, coi singhiozzi che lo scuotono tutto.

Colasette si siede dietro, con Davide. Don Mario carica la valigia nel bagagliaio, poi spinge appena indietro il sedile, si allaccia le cinture. Bercalli fa manovra.

“Ha molte cose da dirci,” attacca Colasette. “Se può smettere di piangere e cominciare a raccontare.”

Nessuno dice niente. Si sentono solo i singhiozzi di Davide. “Io non volevo partire questa volta, ma serviva che qualcuno ci andasse. Non dovevo lasciarlo da solo, lo sentivo.” Le lacrime riprendono il sopravvento sulle parole.

“Davide, noi non sappiamo niente di quel ragazzo,” dice don Mario, e lo dice anche come risposta ai sospetti di Colasette nei suoi confronti. “Il commissario mi ha detto che il suo nome è Matteo Foresti. Forse è meglio che ci racconti tutto dall’inizio.”

E Davide comincia a parlare e le parole allagano l’auto, l’abitacolo e le persone che ci sono dentro.

***

“Tanti dubbi, tante insicurezze, tante domande. Ma era la volontà di Dio. Ne sono convinto. La volontà di Dio. Io l’avevo visto la prima volta una settimana prima. Parlo di due anni fa. Ho accompagnato l’assistente sociale a una visita domiciliare. Lui ci è venuto incontro trascinando il piede sinistro. Lo tenevano chiuso in casa. Non scendeva in cortile. Neppure usciva sul balcone. Ha accennato ad avvicinarsi un poco e sua madre gli si è messa davanti. ‘Stai fermo scemo,’ ha gridato e gli ha dato una sberla. Era brutta la madre. Sporca, grassa e senza sopracciglia. ‘Se non sono riuscita io a educarlo, non ci può riuscire nessuno,’ ci ha detto. Quando si è sentita la porta di casa che si apriva, il ragazzino si è buttato dietro il frigorifero. Aveva capito che era il padre. Non era del tutto sordo. Si andava a rifugiare, per non dargli fastidio, per non essere picchiato. Lì dietro il frigo... come un cane. Il padre non ha detto una parola, sembrava una persona normale, un uomo che lavora e che torna a casa per pranzo. Ma faceva impressione. Faceva paura. L’assistente sociale ha detto loro che il bambino doveva essere istruito. Non era del tutto sordo e si potevano potenziare le sue capacità. Ma la madre ha detto che il figlio era suo e non sarebbe andato da nessuna parte. Il padre non ha detto una parola. L’assistente sociale ha inoltrato subito la domanda di allontanamento. Ma un paio di giorni dopo il bambino era sparito.

E sono io che l’ho incontrato, il piccolo Gabriele. Questo è il suo nome. Gabriele Rizzato.

Ogni settimana, almeno una volta, andavo alla cappella della Madonna della Roggia, quella che c’è nel bosco fuori Colle. Quando ero piccolo mio padre coltivava l’orto vicino alla fontana. Ci andavamo spesso anche con i bambini dell’oratorio. Sono io che, ancora adesso, curo la cappella. Sono io che ho pitturato la statua della Madonna, ho verniciato i muri. Porto i fiori, i lumini. E proprio lì, dietro una pianta, qualcosa si era mosso. Ho appoggiato i fiori e me lo sono trovato davanti, piccolino, capelli cortissimi. L’ho riconosciuto e lui ha riconosciuto me. I pantaloncini fino alle ginocchia, la cerniera rotta, una maglietta polo a strisce verdi e marroni larghissima, con uno dei tre bottoni allacciato nell’asola sbagliata. Era in ciabatte, vecchie, tutte consumate. Era bagnato. Mi guardava. Non diceva niente. Era fuggito, scappato da quegli orrendi genitori. E ha fatto bene. Questo ho pensato. Mi guardava e io cosa dovevo fare? La prima cosa era portarlo al caldo, dargli da mangiare. Ormai era quasi buio. L’ho fatto salire in macchina, siamo arrivati a casa, ho messo la macchina in garage e l’ho accompagnato di sopra. Non ho fatto niente di nascosto ma era come se nel condominio non ci abitasse nessuno. Forse tutti erano già impegnati con la cena, ma non abbiamo incrociato nessuno. Se solo avessimo incontrato qualcuno tutto sarebbe stato diverso. Ci ho pensato spesso. Ma è Dio che guida i nostri passi, questa era la sua volontà. L’ho messo sotto la doccia. Dopo aveva fame, me l’ha detto a gesti, con quei suoni bassi che gli uscivano dalla gola. Voleva una tazza di latte e nel latte ci voleva il pane. E se n’è mangiate due tazze piene, con tutto il pane che mi era rimasto. Poi è andato diritto in camera mia, si è messo a letto e si è addormentato. Io l’ho guardato dormire, sereno, ho spento la luce e me ne sono andato sul divano. Era lui, il ragazzo scomparso tre giorni prima.

Io non sapevo cosa fosse giusto fare. Se denunciavo che era da me, come potevo giustificare che non l’avevo portato subito dalle autorità? Se lo avessi denunciato lo avrebbero riportato in famiglia, o forse non più in famiglia ma direttamente in una comunità di accoglienza in attesa di un affido, forse. Avrebbe dovuto passare attraverso tanti spostamenti, tanti disagi, e poi non è facile stare in quelle comunità, c’è sempre qualcuno più grande che ti tratta male. E i giorni hanno cominciato a passare. E da me era tranquillo, sereno. Io lo accudivo come meglio potevo. Ho pensato di vedere come andavano le cose e i giorni sono diventati settimane, poi mesi, tutto era normale e da casa mia non si è più mosso.”

***

Tace, Davide, adesso. Senza la sua voce un silenzio denso riempie l’auto. Solo il rumore del motore, dei suoi singhiozzi, delle molte macchine sulla superstrada, della pioggia che si allarga contro il parabrezza, dell’affannarsi dei tergicristalli. Bercalli abbassa un poco il finestrino. La stessa cosa fa don Mario. Sembra un modo perché la pressione dentro quell’abitacolo si alleggerisca. Qualcosa se ne esca. Ognuno ha ascoltato a proprio modo. Ognuno ha capito a proprio modo. Le parole sono passate dalle orecchie, serve che trovino posto nel cervello, come storia possibile. Davide singhiozza ancora. Ha finito le lacrime. Ha finito le parole.

È Colasette a riprendere il filo del discorso.

“Riuscivate a comunicare per telefono?” gli chiede.

“Ci ho provato, ma no, era difficile. Gabriele non voleva. Ho provato col cellulare, per mandarci messaggini, ma anche questo a Gabriele non piaceva.”

“Quando lei non c’era che faceva? Non provava a uscire?”

“No. Era contento.”

“E nessuno sapeva di lui, immagino.”

“No, nessuno.”

“C’era qualcosa di strano,” dice Colasette, ma l’aggettivo “strano” gli suona inappropriato. Si corregge. “Di diverso dal solito, in Gabriele, quando lei è partito per Fatima?”

“No, tutto come sempre. Ma me lo sentivo che non dovevo partire.”

Gli si ferma la voce in gola, un conato di pianto, ancora. Ma Colasette non gli lascia il tempo. “Oltre a lei, chi aveva le chiavi dell’appartamento?”

“Mia madre è venuta, qualche volta, in passato. Ma era da tanto che non succedeva più. Andavo io da loro. Tengo un mazzo di scorta al lavoro.”

“Non ho capito, scusi. I suoi avevano o no le chiavi dell’appartamento?”

“Forse, ma non lo so. L’appartamento l’hanno comprato loro. Forse conservavano un mazzo. Ma davvero, io non ci ho mai pensato. Non era un problema. Non venivano mai, se non c’ero.”

“E la sua ex fidanzata?” La domanda a Colasette viene quasi con rabbia. Forse per attaccare quell’uomo che è difficile non trattare come fosse un ragazzo. Che non esiste nessuna fidanzata lo sanno tutti. Vuole costringere Davide a confermarlo, a dare una risposta.

Ma la replica di Davide è il silenzio. Colasette non insiste.

“E Gabriele in due anni non è mai uscito di casa,” riprende il commissario.

“No, non voleva.”

“E lei, avrebbe voluto?”

Davide scuote la testa rapidamente come se trovasse la domanda bizzarra. Non risponde.

“Gabriele aveva le chiavi di casa?” chiede Colasette.

“Non me le ha mai chieste.”

“Mi sta dicendo che non le aveva. A me suona come se lei lo tenesse recluso in casa.”

“Ma cosa dice? Non gli interessava uscire. Altrimenti l’avrebbe fatto.”

“E cosa può averlo attirato fuori?”

“Non lo so,” dice Davide tirando su col naso.

“Come è potuto uscire, secondo lei, giovedì notte, senza chiavi?”

“Non lo so.”

“Aveva chiuso prima di partire?”

“Credo di sì. Chiudere la casa è un automatismo, prima di partire.”

“Per quanto ci riguarda, a parte quello che ci ha detto lei adesso, Gabriele non ha mai vissuto nel suo appartamento,” dice Colasette che sente il bisogno di provocare una reazione che vada contro questa normalità con cui Davide ha raccontato le cose. “Non abbiamo trovato nulla in casa sua che ci provi che una seconda persona ci abbia abitato.”

L’affermazione smuove Davide. Ha parlato a testa bassa, con le mani tra le ginocchia. Ora le toglie dalle gambe, se le porta alla faccia, la stringe, coprendosi gli occhi, e riprende a piangere.

Colasette osserva i suoi gesti, poi si volge al finestrino, guarda il cavalcavia, legge le indicazioni delle uscite.

Restano in silenzio, per almeno un minuto. È Davide a riprendere.

“Gabriele ci ha vissuto, con me, nella mia casa.”

“E presto sareste partiti,” dice Colasette. “Lo sappiamo. Nairobi. Ma non abbiamo trovato biglietti di ritorno.”

“Nelle missioni,” dice subito Davide. “Ti ricordi, don Mario, che ci sono andato. Mi sarei trasferito laggiù. Avrei lavorato nelle missioni. E Gabriele sarebbe stato libero. Un nuovo mondo, una nuova identità.”

“Appunto. Vorrei che mi spiegasse come s’è procurato il passaporto a nome Matteo Foresti. E comunque è da vedere se sareste riusciti a passare i controlli.” Lo dice solo per dire qualcosa. Un europeo che vuole andare in Kenya non lo ferma nessuno. Il viaggio inverso, quello sarebbe meno semplice. “Chi sapeva che sarebbe partito?”

“A me aveva espresso il desiderio di lavorare laggiù,” interviene don Mario. “Ma non ne avevamo parlato in concreto.”

“Non l’ho detto neanche a te, don Mario. Non potevo. Solo io e Gabriele.”

“E ai suoi?” chiede Colasette sapendo già la risposta. Sta pensando a Gabriele. Sta pensando che al momento, a parte le foto, non c’è niente che rimandi a lui, in quell’appartamento. Non riesce a credere che nessuno sapesse di quel ragazzo.

“No,” dice infatti secco Davide.

“Come è possibile che nessuno si sia mai accorto che lei abitava con quel ragazzo?”

“È così, le dico. Gabriele era leggero, non faceva rumore.”

“Dove vado?” interviene Bercalli. Sta ormai per uscire dalla superstrada, e non sa davvero dove andare.

“Io lo voglio vedere,” torna a dire Davide, cantilenando.

“Basta così, Davide,” interviene don Mario per anticipare la reazione di Colasette. Per tutto il tragitto non ha cambiato posizione, braccia conserte, collo un po’ piegato in avanti. È difficile anche per lui mandare giù quelle notizie.

“Lei, signor Torti, è ufficialmente agli arresti domiciliari,” dice Colasette, con voce ferma. “Non nel suo appartamento, ovviamente. Starà a casa dei suoi genitori.”

“Io non voglio andare dai miei,” dice Davide, senza forza.

“O casa dei suoi o la prigione.”

“Ti accompagno io,” dice il prete. “Anche lei è d’accordo commissario?”

“Certo. Ci andremo insieme,” dice Colasette. “Ma voglio essere chiaro, lei, Davide, non si può muovere da casa.”

“Ma domani è Pasqua,” reclama di nuovo Davide, “e io voglio partecipare alla santa messa. Voglio pregare per Gabriele. Posso andare a messa?” Il tono è infantile.

Colasette non si aspettava questa richiesta. Non risponde subito. Rimane a guardare chi la richiesta l’ha fatta. Poi si porta una mano al mento, senza neppure rendersene conto, e si rivolge a Bercalli: “Lei mi aveva già chiesto la mattina libera per andare alla funzione pasquale, giusto?”

Bercalli intuisce che il commissario ha in testa qualcosa. “Certo,” risponde.

“Bene, Davide, allora passerà l’agente a prenderla per la messa. Ma non si muova da casa. Regolarmente qualcuno della polizia verrà ad accertarsi che lei non si allontani. Ha capito?”

Davide ha piegato la testa, il collo infossato, le mani strette tra le cosce.

“Ha capito?” alza la voce Colasette.

“Capito,” ripete Davide.